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Graham Davey sul rapporto tra Psicologia Sperimentale e Clinica – Rome Workshop on Experimental Psychopathology

Experimental Psychopathology Rome 2014

Si è tenuto in questi giorni il primo Rome Workshop on Experimental Psychopathology organizzato dall’Associazione di Psicoterapia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva in collaborazione con Università Sapienza di Roma e con la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).

Si è trattato di un evento scientifico nuovo che aspira ad essere il primo di future opportunità di incontro tra il mondo della psicologia sperimentale e quello della psicologia clinica.

La prima lettura magistrale traccia la linea culturale dell’evento. Graham Davey ci racconta quali sono le ragioni per cui la psicologia clinica ha bisogno della psicologia sperimentale. Si tratta di due mondi che un po’ si parlano è un po’ si ignorano. Davey è dichiaratamente schierato in sostegno della sperimentazione e come conseguenza di questo imposta il suo discorso partendo proprio da alcuni errori, compiuti soprattutto dagli psicologi clinici.

Il primo è la volontà di difendere il proprio territorio. Il secondo, la tendenza dei journal a rifiutare ricerche sperimentali sui meccanismi psicopatologi che sono effettuate su soggetti non clinici. Il terzo la tendenza a credere che la psicologia sperimentale voglia spiegare tutto. Il velo provocatorio è tangibile:

molti clinici dicono che i modelli sperimentali non si applicano alle popolazioni cliniche ma non mi hanno mai spiegato perchè“.

Certo questo taglio appare ingeneroso, forse anche lamentoso. Ci sono molteplici altri misunderstanding che si muovono in direzione opposta, per esempio il rischio di applicare modelli sperimentali senza considerare l’impatto dell’interazione tra processi in mutuo rapporto. Isolarli in terapia non è esattamente come isolarli in laboratorio. Insomma, esistonomi rischi anche sul versante opposto. Tuttavia oltre le provocazioni Davey coglie un punto centrale, se la psicologia clinica e la psicologia sperimentale non si parlano tra loro per sostenere i modelli psicologici con evidenze, corrono il rischio di essere fagocitate dalla psicobiologia e dalle neuroscienze.

 

Nella seconda parte della sua lettura Davey mostra alcuni esempi di contributi della psicologia sperimentale alla psicologia clinica. Questo sia per applicare alla psicopatologia i modelli che riguardano processi cognitivi, affettivi o comportamentali. Ma anche per identificare quali sono esattamente gli agenti attivi che producono un cambiamento nel corso della psicoterapia. Molte cose accadono in terapia, molte sono utili o possono fare stare meglio il paziente, ma solo alcune, non sempre chiare, rappresentano gli ingredienti attivi di un cambiamento stabile. Il grande contributo della sperimentazione hard è proprio questo: individuare evidenze di relazioni causali, sia nell’ambito psicopatologico che in quello psicoterapeutico.

Al di là delle provocazioni, la psicologia sperimentale è un interlocutore se non un governante, cui guardare per non scivolare nel rischio di “stare a reinventare la ruota”.

 

TUTTI I REPORTAGES DAI CONGRESSI

La Grande Bellezza vince l’Oscar 2014 per Miglior Film straniero

La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, vince agli Oscar 2014 il premio come miglior film straniero.
Non succedeva dal 1999 quando a ricevere la statuetta fu Benigni per La vita è bella.

Ecco le due recensioni di State of Mind del film di Sorrentino

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. RecensioneConsigliato dalla Redazione

La Grande Bellezza: Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un\’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali. (…)

Tratto da: State of Mind

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LEGGI ANCHE LA RECENSIONE DE LA GRANDE BELLEZZA DI SIMONA NOVIELLO


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Disturbo Borderline di Personalità: quando l’Amigdala si infiamma – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014 

Report dal Simposio: Psicologia del patologico e Patologia dello Psicologico nell’arco della vita.

Intervento di Mario Rossi Monti: Borderline quando l’Amigdala si infiamma.

 

SOPSI 2014 - Disturbo Borderline quando Amigdala di infiammaL’amigdala, chiamata anche mandorla delle emozioni (dal greco amygdálì che significa mandorla), è oggetto di indagini per il suo importante ruolo nella risposta al pericolo. Numerosi dati sostengono che sia responsabile della rilevazione, della generazione e del mantenimento delle emozioni correlate alla paura.

Studi sperimentali condotti da Benedetti F. et al. (2010) hanno evidenziato che l’amigdala svolge un ruolo importante nell’elaborazione di stimoli minacciosi. Attraverso l’espressione facciale dell’altro ci permette di decidere in 100 millisecondi se ci possiamo o meno fidare della persona che abbiamo davanti.

Il dato più interessante riguarda l’osservazione che questa regione celebrale si attiva anche quando l’espressione minacciosa dell’altro non viene percepita in modo consapevole. Nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità troviamo un’iperattivazione dell’amigdala: essi sono molto sensibili alle emozioni espresse dal volto dell’altro.

Questa popolazione di pazienti ha un’elevata sensibilità nel cogliere le emozioni dell’altro, pur mostrando difficoltà nell’orientarsi all’interno del proprio mondo emozionale.

Ma come facciamo a definire l’inaffidabilità dell’altro? Possiamo fare riferimento a due dimensioni:

Ambiguità: indifferenziazione (a questa è molto sensibile l’amigdala)

Imprevedibilità

Dunque se cogliamo nel volto dell’altro espressioni indifferenziate o imprevedibili avremo un’attivazione dell’amigdala e, conseguentemente, una percezione di inaffidabilità.

Nel caso specifico dei pazienti borderline troviamo una ipertrofia nel cogliere la minaccia nell’espressione facciale dell’altro.

Come Linehan M. (1993) sottolinea, in questi pazienti c’è una difficoltà nel leggere le facce neutrali ed una tendenza a credere che non ci si possa fidare dell’altro. A causa del loro funzionamento dicotomico hanno l’urgenza di collocare l’espressione facciale della persona che hanno di fronte in una categoria (buoni/cattivi) e pertanto tendono a trasformare l’ambiguità in ambivalenza. A cosa serve questa operazione?

Il paziente borderline “disambigua” forzando sul negativo allo scopo di suscitare nell’altro qualche emozione. Questa strategia permette di uscire da quella ambiguità intollerabile, ma di fatto suscita un’emozione (negativa) nell’altro che lo porta a confermare l’aspettativa di inaffidabilità.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSIONS

CONGRESSO SOPSI 2014

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Alimentazione: l’Influenza dell’Umore sulla scelta di ciò che mangiamo

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Quattro esperimenti di laboratorio per verificare se le persone in uno stato d’animo positivo preferiscano gli alimenti sani, che hanno benefici a lungo termine sulla salute, e se invece quelle in uno stato d’animo negativo preferiscano cibo spazzatura per un immediato ed edonico vantaggio nella regolazione del tono dell’umore.

Meryl Gardner, professore associato dell’Università del Delaware si è chiesta “Perché quando siamo di cattivo umore scegliamo di mangiare “male” e quando siamo di buon umore facciamo scelte alimentari più sane?

Nel cercare di rispondere a questa domanda Gardner e il suo team hanno scoperto che molto dipende dalla nostra prospettiva del tempo.

I ricercatori hanno sposato le teorie di regolazione affettiva (come le persone reagiscono ai loro stati d’animo e le emozioni) e la prospettiva del tempo per spiegare la scelta degli alimenti.

Hanno condotto quattro esperimenti di laboratorio per verificare se le persone in uno stato d’animo positivo preferiscono gli alimenti sani che hanno benefici a lungo termine sulla salute e se invece quelle in uno stato d’animo negativo preferiscono cibo spazzatura per un immediato ed edonico vantaggio nella regolazione del tono dell’umore.

Nel primo studio i ricercatori hanno studiato l’effetto dell’umore sulla valutazione di cibi sani e non sani in 211 soggetti. I risultati indicano che gli individui in uno stato d’animo positivo, rispetto ai controlli del gruppo con un umore neutro, valutavano i cibi sani più favorevolmente rispetto a quelli non sani.

In un secondo studio condotto su 315 studenti universitari i ricercatori hanno trovato invece supporto alla loro ipotesi che gli individui in uno stato d’animo negativo preferiscono cibi malsani rispetto a quelli sani.

Secondo Gardner il fatto che le persone in uno stato d’animo positivo abbiano apprezzato le opzioni alimentari più sane e l’idea di essere in salute in età avanzata è coerente con l’ipotesi che la prospettiva del tempo è importante. Cioè che uno stato d’animo positivo rende la gente più propensa a pensare al futuro e che pensare al futuro ci fa pensare più in astratto.

I ricercatori hanno poi condotto uno studio per escludere il raggiungimento degli obiettivi come una spiegazione alternativa ai risultati ottenuti nei due studi precedenti .

Per avere un quadro più chiaro del processo sottostante, il quarto studio si è concentrato sui pensieri relativi alla scelta degli alimenti e sull’orientamento verso benefici concreti (sapore / gusto) vs astratti (alimentazione / salute).

In definitiva, i risultati di tutti gli studi combinati dimostrano che gli individui possono scegliere cibi sani o meno sani a seconda del loro stato d’animo.

I risultati mostrano anche l’aspetto integrante dell’orizzonte temporale: le persone in uno stato d’animo positivo che fanno scelte alimentari più sane stanno spesso pensando ai benefici futuri per la salute; chi invece è in uno stato d’animo negativo, si concentra più sul gusto immediato e sull’esperienza sensoriale.

Infine, il risultato più interessante riguarda gli individui che anche a fronte di stati d’animo negativi continuano a fare scelte alimentari influenzate dalla prospettiva temporale: questo risultato sostiene la tesi che provare a concentrarsi su qualcosa di diverso dal presente permetta di ridurre il consumo di alimenti poco salutari.

Insomma la prossima volta che fai uno spuntino pensa al futuro…potresti scegliere di mangiare meglio.

ARGOMENTI CORRELATI:

ALIMENTAZIONEDISTURBI DELL’UMORE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

PROFILO NEUROPSICOLOGICO E STILE DI RISPOSTA JUMPING TO CONCLUSIONS – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

PROFILO NEUROPSICOLOGICO E STILE DI RISPOSTA JUMPING TO CONCLUSIONS:

UNO STUDIO CASO-CONTROLLO

Tripoli G.1, Sartorio C.1, Sideli L.1, La Cascia C.1,2, Seminerio F. 2, Marinaro AM. 2, La Barbera D. 1,2

1Dipartimento di Biomedicina Sperimentale e Neuroscienze Cliniche, Sez. di Psichiatria, Università di Palermo

2U.O. Psichiatria, A.O.U.P. Paolo Giaccone, Palermo 

 

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NEUROPSICOLOGIAWORKING MEMORYPSICOSI

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Il disegno della figura umana in ambito clinico e giuridico peritale. Recensione

 

Il disegno della figura umana in ambito clinico e giuridico peritale

Guida Pratica All’interpretazione  (2013)

di Leonardo Roberti Franco Angeli Edizioni

 

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Il disegno della figura umana “Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico.

La somministrazione e la valutazione dei test psicologici è parte integrante della nostra pratica professionale, in qualsiasi campo si operi. Tra i test utilizzati, di quanti, però, possiamo affermare di conoscerne effettivamente i vari aspetti di attendibilità e validità? E, se lo stesso test venisse usato in campi diversi da quello clinico, potremmo dirci davvero in grado di conoscerne il corretto utilizzo?

Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico, o per i tanti interessati al test ma non ancora pronti per una corretta somministrazione e interpretazione.

L’esperienza dell’autore Leonardo Roberti (psicologo, psicoterapeuta, esperto in Psicodiagnostica Clinica e Forense) emerge sin dalle prime righe e viene così offerta ai lettori, i quali saranno sorpresi dal taglio assolutamente pratico del libro.

All’autore si deve anche l’introduzione di alcune novità tra cui una revisione degli indici interpretativi, in accordo anche con una visione olistica e non classificatoria della persona e la presentazione di una metodologia di somministrazione e valutazione applicabile nei vari contesti di azione dello psicologo.

Nei primi capitoli si legge del grafismo infantile, della storia del test e del suo oggetto d’ indagine, nonché degli ambiti applicativi e delle validità e attendibilità del DFU. A partire dal quarto capitolo, l’impostazione diventa totalmente pratica, offrendo al lettore una guida alla somministrazione e all’ interpretazione. Trattando del test del DFU non soltanto in ambito clinico e dell’età evolutiva ma anche in campo giuridico peritale, i primi due appendici si mostrano di grande utilità, in quanto riguardanti il testing e le linee guida per la psicodiagnosi in tale campo. Segue poi la presentazione di alcuni casi clinici, con annesse relazioni diagnostiche, ed alcuni esempi clinici di disegni.

Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” è un libro di piacevole lettura, da conservare assolutamente nella propria libreria. Oltre ai professionisti, consiglio la lettura anche agli studenti e non soltanto per la praticità del libro, ma soprattutto perché, leggendo della storia di un test, delle sue qualità psicometriche, di come dalla teoria sia possibile risalire ad una efficace applicabilità, aiuta davvero a riflettere meglio su ciò che si studia, rendendo il tutto più interessante e piacevole. 

Cosa dirvi di più? …Buona lettura!

 

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PSICODIAGNOSTICAPSICOLOGIA GIURIDICA

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RECENSIONE: CAPORALE E ROBERTI (2013). PERCORSI DI PSICODIAGNOSTICA CLINICA INTEGRATA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicologia del Benessere: esercizi di Mindfulness e Binge Eating

 

 

 

Mindfulness e binge eating disorder. - Immagine: © valeriy555 - Fotolia.comMangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi.

Può capitare a tutti di ritrovarsi a mangiare più del dovuto, specialmente a cena, senza sapere cosa fare per evitare di eccedere con il cibo. Di fronte al proprio piatto preferito, si può arrivare a trovare anche 100 motivi che giustifichino anche la seconda, terza porzione, o il perché per un altro spuntino, e poi quasi sempre pentirsene, chiedendosi perché non ci si è fermati prima.

Molte persone potrebbero ritrovarsi in comportamenti simili a quello descritto, e di parlarne con i propri amici o familiari: anche qui, è frequente sentirsi dire che è superfluo stare troppo a soppesare il cibo, che ci si dovrebbe divertire lasciando perdere la dieta.

Frustantemente, ci si potrebbe trovare nella situazione in cui si mangia in maniera sana, si fa regolare esercizio fisico, non si contano le calorie, si è del peso e della taglia giusta, si ha un BMI regolare. Eppure, anche in questo caso, spesso ci si ritrova regolarmente gonfi di cibo e rammarico, con il bisogno di riesaminare il perché si attuano tali comportamenti, di trovare i trigger che li attivano, di avere un miglior rapporto con il proprio corpo e con la dieta.

A Londra la clinica Willbraham Prace Practice, collabora alla realizzazione del progetto “The Mindfulness Project”, il primo del suo genere nella Capitale del Regno Unito: attraverso percorsi di gruppo o individuali di mindfulness, gli psicologi aiutano i pazienti a raggiungere lo stato di benessere desiderato. E’ lì che ho incontrato la Dott.ssa Cinzia Pezzolesi (Psicologa e Terapista Mindfulness, formatasi presso l’Università di Bangor-North Wales-UK, specializzata in Mindful Eating a Boston con la Dott.ssa Kristeller, e docente di “Salute Mentale e Benessere” presso l’Università di Hertfordshire) italianissima e terapeuta della clinica, che gentilmente mi spiega come fare a mangiare consapevolmente con la mindfulness, invitandomi ad una prova pratica.

Secondo la Dott.ssa Pezzolesi, mangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi. Per arrivare a ciò, è necessario mettere insieme diversi componenti: il primo viene chiamato Saggezza Interiore, si sviluppa aiutando le persone a prendere coscienza dei segnali che il corpo c’invia. A volte, quando si mangia troppo a lungo, ci si dimentica che il corpo sa quello che vuole. Quindi la prima parte del mangiare consapevole è imparare ad autoregolarsi. 

Un altro elemento è diventare consapevoli dei pensieri e delle emozioni che sono legati al nostro comportamento alimentare. Ad esempio, dovremmo mangiare quando abbiamo fame, ma questo non accade regolarmente. A volte si mangia per festeggiare, o perché si è tristi, o stressati. Inoltre le persone imparano a distinguere tra ciò che è la fame e quali sono i fattori scatenanti.

Dopo le prime sedute, si inizia a sviluppare qualcosa chiamata Saggezza Esterna. Questo, mi spiega la Dott.ssa Pezzolesi, è imparare a fare il miglior uso della vostra conoscenza sul cibo. Significa diventare consapevoli di calorie e attività fisica, anche se non ogni regola è rilevante per tutti allo stesso modo. Si ha bisogno di adeguare le proprie abitudini alimentari in piccoli passi in modo che le modifiche siano permanenti. “Perché il problema che abbiamo con le diete è che devi limitare te stesso, ma non possiamo continuare a farlo per sempre in modo da tornare frequentemente al punto di partenza“.
Altro elemento mindfulness è la compassione: la Dott.ssa Pezzolesi mi dice che questo è necessario quando abbiamo rimproverato noi stessi perché ci siamo allontanati dalle nostre intenzioni alimentari sane. Si è mangiato qualcosa di proibito, e mentre si sta mangiando, ci si inizia a sentire davvero in colpa. Questa sensazione potrebbe andare avanti per ore, addirittura giorni. La Mindfulness aiuta a quanto pare con questo, aiutando a nutrire compassione per i nostri eccessi saltuari.
Abbiamo quindi ordinato antipasti in un elegante ristorante di Queensway per testare la pratica: ordino del pollo, che arriva in due terrine su un delicato letto di foglie di insalata e un pennello di salsa scura.
In un tono calmo – simile a un insegnante di yoga che m’istruisce sulla respirazione – la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede di prendere un paio di respiri profondi per centrare me stesso. Poi mi chiede di guardare il piatto, concentrandomi su ogni dettaglio. Questo può sembrare super-semplicistico – ma quando è stata l’ultima volta che si è veramente guardato il proprio cibo? Quando faccio questo, ho notato le linee minuscoli sulle foglie di insalata, il buio della salsa e i tagli del pollo. Mi sembrava abbastanza surreale.
Poi la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede molto lentamente, di prendere una piccola porzione, di guardare il cibo sulla nostra forchetta e poi di sentirne l’odore.  Non ho mai mangiato così lentamente – mi è quasi insopportabile. La mia famiglia ed io abbiamo un modo di mangiare vorace e rapido.
Annusare il cibo, però, mi getta in conflitto. Scopro che in realtà non mi piace l’odore di pollo, anche se nella mia mente, ne amo il gusto; non cucino molto a casa, ma quando lo vedo in un menu lo ordino senza troppe riflessioni. Rallentando ogni processo però, sono spinto a pensare: in realtà non volevo questo, quello che volevo era un antipasto semplice.
Vengo poi invitato a sentirne la consistenza dapprima con le labbra, e poi a metterlo in bocca e a masticare molto, molto lentamente. Ho poi ingoiato, e quando ciò accade, senza pensare, si inizia ad essere consapevoli di questo cammino lungo l’esofago.
Dopo un paio di morsi – approssimativamente quando siamo a metà del pasto – la Dott.ssa Pezzolesi  mi chiede di fare un ‘check-in‘ con il livello di fame del mio stomaco. Per me, questa è la lezione più rivelatrice dalla sessione. Normalmente, avrei continuato a mangiare: le dimensioni della porzione non sono grandi, e di solito trovo difficile lasciare del cibo nel piatto, mi fa sentire in colpa. Ma la verità è che controllando lo stato di fame del mio stomaco, mi sono protetto dall’eccesso di cibo. Guardo il cibo rimanente sentendomi un po’ confuso da tutto questo, ma quando il piatto viene portato via, non mi ritrovo a pensarci.

Questo metodo di autoregolazione potrebbe cambiare il nostro modo di mangiare; ma è facile da mettere in pratica quando si è con gli altri nella vita di tutti i giorni? La Dott.ssa Pezzolesi  risponde suggerendo che è necessario del tempo e della pratica, e che ci sono parti di mindful eating che si possono utilizzare senza che sia troppo evidente . Per esempio, si può sentire che è troppo “Mindful” odorare ogni forchettata; ma si può comunque mangiare più lentamente .
Trovo che il check-in con la mia pancia sia l’approccio migliore per non prendere più di quanto ho bisogno, e per evitare di sprecare il cibo, prendo meno piuttosto che di più per iniziare.
Quello che ho imparato mi sembra prezioso e fragile , e mi fa temere che dovrò ritornare alla mie vecchie abitudini. Ma ho avuto la netta percezione di  come la mia mente e il corpo stavano avendo una vera e propria conversazione, e riuscivo a guardare il cibo in un modo nuovo.
Continuerò ad abbuffarmi di tanto in tanto? Probabilmente. Ma imparare a non mangiare troppo la maggior parte del tempo è incredibilmente potente, e sembra una strategia più duratura e sana di qualsiasi dieta restrittiva.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

PTSD e la risposta immunitaria allo Stress – Psicologia

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.

Nei topi, l‘ansia e l’infiammazione prodotte dallo stress cronico inducono il sistema immunitario a combattere per un periodo prolungato: nonostante un lungo intervallo di riposo, a settimane di distanza, questo sovraccarico di lavoro è causa nell’animale di reazioni biologiche e comportamentali eccessive in risposta a fattori di stress isolati e acuti.  È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Biological Psychiatry, secondo la quale una comunicazione bidirezionale tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo sottende i meccanismi cellulari alla base della risposta allo stress.

In questo modello di stress, topi maschi vivono insieme per il tempo necessario a stabilire una gerarchia, poi un maschio aggressivo viene aggiunto al gruppo per due ore alla volta. Lo stress attiva il sistema nervoso simpatico, cioè la risposta di lotta-o-fuga (fight-or-flight response). Se una risposta pronta è importante per la sopravvivenza, l’attivazione prolungata del sistema simpatico può invece provocare effetti negativi sulla salute: i topi residenti vengono ripetutamente sconfitti e in sei giorni la sconfitta sociale porta a una risposta immunitaria infiammatoria e sintomi d’ansia comportamentali.

Dopo aver sottoposto i topi a questo stress cronico, i ricercatori hanno analizzato le caratteristiche biologiche e comportamentali della risposta allo stress in due diversi momenti, 14 ore e otto giorni dopo la fine del periodo di sensibilizzazione. In entrambi i momenti, i topi stressati mostravano livelli più elevati di proteine infiammatorie nel sangue e di accumulo di monociti nel cervello, rispetto al gruppo di controllo. Gli scienziati avevano inoltre precedentemente scoperto che nei topi con stress cronico le cellule del sistema immunitario, i monociti, si accumulavano nel cervello scatenando sintomi ansiosi.

Dato che un tipo di cellula immunitaria persisteva nella milza , i ricercatori hanno rimosso la milza dei topi dopo la sensibilizzazione alla sconfitta sociale: dopo la rimozione della milza i topi sensibilizzati allo stress non erano più sensibili al fattore di stress acuto e alla riacutizzazione dell’ansia. Questo risultato indica la milza come fonte di cellule immunitarie che rispondono alla stress acuto.

Gli scienziati stanno ora testando i campioni di sangue per i biomarcatori di pazienti con PTSD: le cellule immunitarie o le proteine ​​infiammatorie potrebbero indicare che i pazienti sono in uno stato di sensibilizzazione allo stress.

Il passo successivo sarà confrontare i profili di cellule immunitarie che migrano al cervello con quelle della milza durante la risposta allo stress.

I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.

ARGOMENTI CORRELATI:

PTSD – DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMACO – ANSIASTRESS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

SOPSI 2014. Fernandez-Aranda sdogana le nuove tecnologie nel trattamento dei DCA

Piergiuseppe Vinai.

 

SOPSI 2014 

Fernandez-Aranda sdogana le nuove tecnologie nel trattamento dei Disturbi Alimentari

 

SOPSI 2014 - Disturbi dell'alimentazioneL’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.

Le nuove tecnologie stanno avendo un ruolo sempre più ampio nella vita quotidiana ma stentano a prendere piede nel trattamento psicoterapico.

Le obiezioni più frequenti al loro utilizzo si basano sul fatto  che in fondo, come recitava Montale, l’animo dell’uomo non cambia e per arrivare al suo cuore le parole di Catullo o di Dante sono efficaci oggi come secoli fa. Questo è senz’altro vero ma nessuno si sognerebbe di fare serenate notturne davanti al grattacielo dell’amata (specialmente se abita al 30° piano) ed anche “Odi et Amo” o i versi di Paolo e Francesca vengono postati su Facebook.

Un’altra obiezione è che il paziente ne può restare sconcertato, non attendendosi un così profondo cambiamento nel setting terapeutico. Anche qui non si capisce come faccia lo stesso soggetto a tollerare il fatto di dover usare il telefono cellulare e non un messo a cavallo, per contattare il terapeuta, o come possa sopportare di doversi sottoporre ad una risonanza magnetica per il mal di schiena anziché ad un rito sciamanico, ma tant’è!

Quando si entra nello studio dello psicoterapeuta si suppone che il paziente abbia una regressione e si attenda modelli archetipici di terapia per cui possa tollerare unicamente terapeuti in marsina su una sedia Thonet e l’uso di carta, (a mano), penne d’oca o almeno in bachelite con pennino ottocentesco, per annotare le sue parole.

La ricerca non ha ancora stabilito a quanti anni debba ammontare questa regressione per non intaccare la relazione, o se il setting debba adattarsi alle competenze tecnologiche del paziente per cui parte considerevole dell’assesment dovrebbe essrere dedicata alla valutazione delle sue competenze in ambito tecologico. Chi avesse la sfortuna di avere pazienti a basso indice di tecnologizzazione ed uno studio al terzo piano per essere efficace dovrebbe munirsi di servitori in portantina che accompagnino i pazienti fino alla porta del suo studio.

A questo proposito recenti studi indicano però che l’inizio della regressione coincide con l’inizio della seduta e termina con la stessa salvo ripresentarsi la settimana successiva alla stessa ora. Per il pagamento possono essere usati senza rischio i moderni mezzi tecnologici e non è richiesto l’uso dei dobloni. Si narra di soggetti che avendo dovuto rinunciare ad una seduta in quell’ora abbiano dimostrato una totale incapacità di usare il pc il telefonino e qualsiasi altro mezzo tecnologico, configurando così i primi casi di  una grave sindrome da carenza d deprivazione tecnologica. Stranamente anche il computer utilizzato dal terapeuta all’interno del setting è visto da qualcuno come una possibile causa di vulnus alla relazione, senza chiedersi come possano nascere storie d’amore o di sesso basate proprio sull’utilizzo del PC e di quello strumento così poco empatico che è  Internet.

In barba a tutte queste considerazioni ed ignorando i gravi rischi cui si potrebbero esporre i pazienti, a margine di un intervento, sulle politiche a sostegno della prevenzione e la cura dei disturbi alimentari, il Prof. Fernandez-Aranda dell’Università di Barcellona ha sdoganato l’utilizzo delle nuove tecnologie nella prevenzione e nella terapia dei disturbi alimentari. Ha illustrato una metodica basata sull’utilizzo di un video game collegato ad un sistema di bio feed back  per aiutare i pazienti a  modificare il proprio rapporto con il cibo.

Attraverso dei sensori che misurano la variazione della conduttanza cutanea si valuta la variazione dello stato emotivo del soggetto alla visione del cibo, in questo modo egli può iniziare ad essere più consapevole delle sue emozioni.

L’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.

Questa tecnologia ha il vantaggio di essere a basso costo e di poter essere usata dai pazienti anche al di fuori del setting offrendo un supporto alla terapia nell’intervallo tra le sedute.

 

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L’importanza delle emozioni positive – Psicologia Positiva

 

 

L’importanza delle emozioni positive - Psicologia Positiva. -Immagine: © James Thew - Fotolia.comLe emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona.

Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.

La psicologia ingenua talvolta scambia, erroneamente, alcune forme di piacere sensorio come la soddisfazione sessuale o la sazietà della fame, per emozioni positive, poiché con queste hanno in comune la sensazione di un piacere soggettivo e perché spesso emozioni e piaceri co-occorrono. Ad esempio la gratificazione sessuale è spesso racchiusa in una relazione d’amore. Tuttavia, le emozioni differiscono dai piaceri in quanto le prime richiedono una valutazione cognitiva del significato attribuito agli eventi perché possano avere inizio.

Ma a che cosa servono le emozioni positive?

La funzione principale di tutte le emozioni positive è stata identificata nel facilitare i comportamenti di avvicinamento (Cacioppo, Priester & Berntson, 1993; Davidson, 1993; Frijda, 1994) e nel aumentare il livello di motivazione a portare a termine un’azione (Carver & Scheier, 1990; Clore, 1994). L’esperienza emotiva positiva è dunque utile, in quanto sprona a impegnarsi e a prendere parte a delle attività, la maggior parte delle quali sono evolutivamente adattive per l’individuo, per la sua specie o per entrambi.

Secondo Fredrickson (1998; 2001), invece, le emozioni positive possiedono una duplice funzione: a breve termine contribuirebbero ad ampliare il repertorio del pensiero finalizzato all’azione, aumentando l’elenco delle possibili azioni o dei possibili pensieri e, a lungo termine, costruirebbero e rafforzerebbero le proprie risorse personali. La gioia, ad esempio, è un’emozione che crea il bisogno di ridurre i limiti, di ‘giocare’ e di essere creativi, esigenze che non riguardano solo i comportamenti sociali o fisici, ma anche quelli intellettuali e artistici. L’emozione positiva dell’interesse, invece, crea la spinta a esplorare, a raccogliere informazioni e a fare nuove esperienze. La contentezza, a sua volta, crea l’esigenza di rilassarsi e di gustarsi le circostanze della propria vita, integrandole con una nuova visione del sé e del mondo (Fredrickson, 2002).

In contrasto con le emozioni negative, che portano immediati e diretti benefici all’adattamento alle diverse situazioni che minacciano la sopravvivenza, l’ampliamento nel repertorio dei pensieri e delle azioni attivato dalle emozioni positive produce benefici in altre modalità. In particolare il nuovo repertorio allargato avvia dei benefici indirettamente e a lungo termine, poiché è in grado di costruire delle risorse personali durature.

Ad esempio, il gioco, a cui si è spinti dall’emozione della gioia, permette innanzitutto la costruzione di risorse fisiche durature (Boulton & Smith, 1992; Caro, 1988), rende inoltre possibile l’ampliamento delle risorse sociali e della propria rete di sostegno (Lee, 1983; Simons, McCluskey-Fawcett & Papini, 1986) e costruisce infine anche risorse intellettive, incrementando i livelli di creatività e alimentando lo sviluppo cerebrale (Sherrod & Singer, 1989; Panksepp, 1998).

Quel che ne risulta è che le risorse personali che insorgono grazie agli stati emotivi positivi, sono durevoli e, di conseguenza, anche gli effetti incidentali delle emozioni positive contribuiscono a incrementare le risorse personali di chi le prova. Dunque, attraverso le esperienze emotive positive, le persone trasformano sé stesse, divenendo più creative, maggiormente informate, resilienti, socialmente integrate e in buona salute (Fredrickson, 2002).

Da alcune ricerche (Basso, Schefft, Ris & Dember, 1996) condotte in laboratorio, poi, è emerso che i tratti legati alle emozioni negative, come ansia e depressione, predicono una tendenza locale coerente con un fuoco attentivo ristretto, mentre i tratti emotivi positivi, come il benessere soggettivo e l’ottimismo predicono una tendenza globale connessa con un fuoco attentivo allargato.

Testando gli effetti degli stati positivi sugli aspetti di natura cognitiva, è emerso che le emozioni positive producono modelli di pensiero che sono flessibili (Isen & Daubman, 1984), non usuali (Isen, Johnson, Mertz & Robbinson, 1985), creativi (Isen, Daubman & Nowicki, 1987) e ricettivi (Estrada, Isen & Young, 1997), comportamenti maggiormente creativi (Isen et al., 1987) e azioni più varie (Kahn & Isen, 1993).

Inoltre, le emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona. Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.

Infatti, si è riscontrato che le persone che hanno provato emozioni positive durante un lutto sono riuscite più facilmente a sviluppare programmi e obiettivi da raggiungere a lungo termine, che per di più prevedevano un benessere psicologico maggiore un anno dopo il lutto (Stein, Folkman, Trabasso & Richards, 1997). Questi riscontri hanno confermato, ancora una volta, che le emozioni positive non solo fanno stare bene le persone nel momento contingente, ma incrementano anche la probabilità che le persone stiano bene in futuro.

Infine, occorre concludere che gli effetti delle emozioni positive consisterebbero non solo nella creazione di una condizione di benessere, di sicurezza e di adattamento, ma servirebbero anche ad inibire gli effetti nefasti prodotti dalle emozioni negative.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Basso, M. R., Schefft, B. K., Ris, M. D., & Dember, W. N. (1996). Mood and global-local visual processing. Journal of International Neuropsychological Society, 2, 249-255.
  • Boulton, M. J., & Smith, P. K. (1992). The social nature of play fighting and play chasing: Mechanism and strategies underlying cooperation and compromise. In J. H. Barkow, L. Cosmides, & J. Tooby (eds.), The adapted mind: Evolutionary psychology and the generation of culture (429-444). New York: Oxford University Press.
  • Cacioppo, J. T., Priester, J. R., & Berntson, G. G. (1993). Rudimentary determinants of attitudes: II. Arm flexion and extension have differential effects on attitudes. Journal of Personality and Social Psychology, 65, 5-17.
  • Caro, T. M. (1988). Adaptive significance of play.: Are we getting closer? Tree, 3, 50-54.
  • Carver, C. S., & Scheier, M. F. (1990). Origins and functions of positive and negative Affect: A control-process view. Psychological Review, 97, 19-35.
  • Clore, G. L. (1994). Why emotions are never unconscious. In P. Ekman, & R. J. Davidson (eds.), The nature of emotion: Fundamental questions. New York: Oxford University Press.
  • Davidson, R. J. (1993). Cerebral asymmetry and emotion: Conceptual and methodological conundrums. Cognition and Emotion, 7, 115-138.
  • Estrada, C. A., Isen, A. M., & Young, M. J. (1997). Positive affect facilitates integration of information and decreases anchoring in reasoning among physicians. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 72, 117-135.
  • Fredrickson, B. L. (2001). The role of positive emotions in positive psychology: The broadenand-
  • build theory of positive emotions. American Psychologist, 56, (3), 218-226.Frederickson, B. L. (1998). What good are positive emotions? Review of General Psychology, 2, 300-319.
  • Frederickson, B. L. (2002). Positive emotions. In C. R. Snyder, & S. J. Lopez (Eds.). Handbook of positive psychology (pp.120-134). Oxford university press.
  • Frijda, N. H. (1994). The Lex Talionis: On vengeance. In S. H. M. van Goozen, N. e. van der Pool, & J. A. Sergeant (eds.), Emotions: Essays on emotion theory. Hillsdale: Erlbaum.
  • Isen, A. M., & Daubman, K. A. (1984). The influence of affect on categorization. Journal of Personality and Social Psychology, 47, 1206-1217.
  • Isen, A. M., Daubman, K. A., & Nowicki, G. P. (1987). Positive affects facilitate creative problem solving. Journal of Personality and Social Psychology,52, 1122-1131.
  • Isen, A. M., Johnson, M. M. S., Mertz, E., & Robbinson, G. F. (1985). The influence of positive affect on the unusualness of word associations. Journal of Personality and Social Psychology, 48, 1413-1426.
  • Kahn, B. E., & Isen, A. M. (1993). The influence of positive affect on variety seeking among safe, enjoyable products. Journal of Consumer Research, 20, 257-270.
  • Lee, P. C. (1983). Play as a means for developing relationship. In R. A. Hinde (ed.), Primate social relationships (pp. 82-89). Oxford: Blackwell.
  • Panksepp, J. (1982). Toward a general psychobiological theory of emotions. Behavioral and Brain Sciences, 5, 407-467.
  • Sherrod, L. R., & Singer, J. L. (1989). The development of make-believe play. In J. Goldestein (ed.), Sports, games and play (pp. 1-38). Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Simons, C. J. R., McCluskey-Fawcett, K. A., & Papini, D. R. (1986). Theoretical and functional perspective on the development of humor during infancy, childhood, and adolescence. In L. Nahemow, K. A. McCluskey-Fawcett, & P. E. McGhee (eds.), Humor and aging (pp. 53-77). San Diego, CA: Academic Press.
  • Stein, N. L., Folkman, S., Trabasso, T., & Richards, T. A. (1997). Appraisal and goal processes as predictors of psychological well-being in bereaved caregivers. Journal of Personality and Social Psychology, 72, 872-884.

A proposito di Davis (2013) di Joel & Ethan Coen – Recensione

A proposito di Davis (2013)

di Joel & Ethan Coen

 

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A proposito di Davis“A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro.

Il ritorno dei fratelli Coen è un gioiello luccicante, la storia di un cantante folk nel Greenwich Village del ’61 alle prese con divani di amici e sconosciuti da occupare per non trascorrere la notte nel freddo newyorkese, una giacca di velluto malinconicamente elegante come unico baluardo ai rigori del clima e della precarietà esistenziale, e insieme la ricerca di una dimensione artistica che elevi lo spirito a ciò che chiede per sé.

A proposito di Davis” è un’odissea alla Joyce lungo iperboli gentili e potenti autenticamente vere ancorché surreali, con richiami discreti alla letteratura americana di Kerouac e Capote, lo sfondo del viaggio inteso alla maniera beat come percorso ineludibile di emancipazione solitaria attraverso euforia e frustrazione, silenzi e scoperte improvvide.

Musica folk immarcescibile per gli amanti del genere – “se non l’avete mai sentita e non è mai stata nuova, è una canzone folk” esordisce Llewyn Davis -, umorismo ruvido nella miglior vena dei Coen che si irrora su personaggi e conflitti ora infantili ora disperati ma sempre apparentemente insanabili, “A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro, un gatto da riportare al padrone, un secondo gatto sosia del primo, una ragazza da mettere incinta che accidentalmente è anche la donna del suo miglior amico, un’altra lasciata all’oblìo che disobbedendo a un aborto già concordato lo rende padre a sua insaputa.

Ogni sveglia è un duello privato per pochi dollari e una cena rimediata interpretando le smorfie del dannato di passaggio, ogni speranza di un destino comprensivo entra con lui nell’auto che salpa direzione Chicago con due improbabili manifestazioni dell’umanità kafkiana mirabilmente animata dai Coen; l’approdo è un produttore discografico che al nostro menestrello dirà “non ci vedo molti soldi” e indica la sua musica, l’aspirazione autarchica a proteggere l’intimità delle note affusolate nella chitarra, nella voce.

In una galleria di immagini ispirate al flusso cinico e tormentato dei due cineasti di Minneapolis trovano spazio versi di cinema che si espandono nei più sottili riflessi, negli occhi della giovane amante che mentre umilia il perdente, o si prova a farlo con le parole più dure che possano colpire un’arte senza scopo e senza premio, non sa estinguere la delicata indulgenza con cui si preoccupa per lui, la tenerezza complice prima che rassegnata con cui guarda l’uomo dell’impossibile condivisione.

A proposito di Davis” riporta i Coen alle loro pennellate primigenie e coinvolge il pubblico nella ricerca introspettiva di un senso ai margini, per i figli di un cammino diverso, come la musica folk permette di fare sussurrando accordi lontani, storie di povera gente alle prese con la frontiera spoglia della lotta e della sopravvivenza. Eroi comuni liberi dalla condanna del lieto fine la cui vita è il racconto della vita.

Gli sforzi di Llewyn Davis non sono vani per la sua epopea incastonata nel reale, solo inutili per l’universo che lo respinge; nel movimento ininterrotto di un microcosmo dalla poetica universale che di lì a poco sarà abbagliato dall’irruzione di Dylan – e fra le ultime scene la chioma del giovane Bob si affaccia sul suo primo palco -, nelle strade del Village popolate di fermenti che come l’architettura newyorkese non si rassegnano alle definizioni del tempo e dello spazio, “A proposito di Davis” esplora un’America crepuscolare in cui il sogno ha il colore della pioggia, l’odore del fumo nei locali, dei vicoli sul retro. Se ne sentiva il bisogno.

 

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Altezza e autostima: più bassi e più paranoici? – Psicologia sociale

 

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri.

Quanto influisce l’altezza sulla nostra visione del mondo, l’autostima, lo stile di vita? A quanto pare parecchio. Se chiedessimo a qualcuno alto 177,8 cm quale sia la sua altezza, questo qualcuno ci risponderebbe: 180 cm! Il motivo è comprensibile: la nostra cultura tende a valorizzare le persone alte, per cui c’è la tendenza ad essere, o perlomeno a voler apparire, più alti di quel che si è.

Le persone alte sembrano possedere una serie di vantaggi: una buona altezza sembra, infatti, essere associata sia al successo sul piano lavorativo che a gratificazioni sul versante sentimentale.

Alcuni studi anglosassoni, ad esempio, hanno trovato che una persona alta circa 180 cm ha maggiori probabilità di guadagnare 100,000 dollari in più, nel corso di 30 anni di attività lavorativa, rispetto al collega che si aggira intorno ai 164 cm. Come se non bastasse, l’altezza aiuta anche negli affari di cuori sia per quanto riguarda la frequenza degli appuntamenti amorosi, sia nella durata delle relazioni sentimentali.

Numerose  ricerche hanno poi cercato di approfondire il legame tra altezza e fattori psicologici: questi studi mostrano che l’altezza può comportare maggiore felicità  e livelli più elevati di autostima, oltre a ridurre il rischio di atti suicidari, nonostante l’effetto risulti modesto.

 

Questi vantaggi psicologici originano dalla tendenza ad associare l’altezza con il potere, il che comporta anche una maggiore spinta verso l’abilità alla leadership, ad esempio in ambito politico e maggiori successi personali in questo settore, nonostante il legame tra altezza e potere non sia lineare.

All’interno di questo panorama Daniel Freeman (Dipartimento di Psichiatria-Università di Oxford) ha tentato di indagare il legame tra la bassa statura e l’autostima, e gli effetti sul senso di vulnerabilità personale e la paranoia: in che modo l’altezza, o la bassezza, può cambiare il modo in cui interpretiamo le intenzioni degli altri nei nostri confronti? L’esperimento prevedeva che i partecipanti fossero i protagonisti di un viaggio in metropolitana in una realtà virtuale. Vengono perciò muniti di cuffie per sentire i normali rumori presenti in questa situazione, come il rumore del treno e le voci dei passeggeri, e sono circondati da avatar, in modo da essere completamente immersi nella realtà simulata. Il loro corpo, infatti, risponde allo scenario come se fosse reale. Il campione sperimentale è rappresentato da 60 donne reclutate dalla popolazione generale, le quali hanno precedentemente sperimentato dei pensieri paranoici in assenza però di una storia di disturbo mentale.

Aspetto  fondamentale è rappresentato dal fatto che gli avatar, essendo neutrali, non posso influenzare in nessun modo l’esordio di pensieri paranoici nei soggetti, per cui, qualunque forma di diffidenza origina dal partecipante stesso. Il disegno sperimentale prevede che ogni soggetto entri nella realtà virtuale due volte: la prima con la propria altezza, la seconda come se stesse osservando l’ambiente da un’altezza inferiore. I partecipanti non vengono informati di questa differenza tra le due situazioni.

I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri.Mi sono sentita in modo diverso nelle due situazioni, ma non so perché! Nella seconda situazione mi sono sentita più vulnerabile e le gambe dell’uomo a lato del corridoio erano posizionate in modo ostile verso di me, rispetto alla prima volta, anche se la posizione era la stessa”, riferisce una partecipante.

Sentimenti di incompetenza ed inferiorità, quindi, risultano in stretta relazione con dubbi paranoici, dal momento che più ci sentiamo vulnerabili più abbiamo probabilità di interpretare come pericolosi e malevoli gli atteggiamenti degli altri. Se la bassa statura si lega a bassi livelli di autostima e dubbi paranoici, anche l’opposto può essere vero.

La procedura basata sulla realtà virtuale può aiutare a trattare pensieri paranoici attraverso la simulazione di una realtà in cui la nostra altezza appare maggiore. Se non possiamo essere realmente più alti, infatti, possiamo fare qualcosa per sentirci più grandi.

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PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’attaccamento come organizzatore di psicopatologia – SOPSI 2014

Loriana Murciano, Psichiatra-Psicoterapeuta

SOPSI 2014  

Report dal simposio:

L’attaccamento come organizzatore di psicopatologia nel corso della vita

 

L'attaccamento come organizzatore di psicopatologia - SOPSI 2014 All’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.

Simposio moderato dalla Prof.Marazziti, che da anni presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa conduce ricerche sull’attaccamento e sulla neurobiologia dello stesso, in particolare sull’attaccamento romantico.

Apre il simposio il Dott. Francesco Albanese, Psicologo Clinico e Psicoterapeuta dell’Università di Firenze, con l’intervento “I modelli operativi nelle relazioni di attaccamento”: l’attaccamento è una dimensione psicologica la cui prima definizione risale a Bowlby (1968) che integrò il modello psicoanalitico classico con osservazioni comportamentali di stampo etologico, con particolare attenzione alla relazione madre-cucciolo.

Lo stile di attaccamento di un individuo dipende dal modo in cui viene trattato dal caregiver (Bowlby, 1988) e su queste interazioni si struttura uno dei  quattro stili attualmente riconosciuti: sicuro, insicuro ansioso resistente, insicuro evitante, disorientato disorganizzato.

Nella specie umana il punto essenziale dell’attaccamento è che tale sistema ci spinge ad una sorta di relazione: è un processo sociale che parte dalla relazione emozionale, ossia entra in campo quando siamo in una sfera emotiva e ci fa cercare “protezione-aiuto” quando siamo in difficoltà, condizione essenziale e strategica per la sopravvivenza e lo sviluppo della vita.

Liotti inserisce poi l’attaccamento tra i Sistemi Motivazionali Interpersonali (MOI) di base (2001): il sistema dell’attaccamento, con il complementare sistema dell’accudimento entra in attivazione per assicurare il recupero della vicinanza della figura di attaccamento (FdA).

Bowlby scriveva che “il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba” (1979), ovvero tende a rimanere stabile nel tempo;  diversi autori, nella letteratura più recente, hanno cercato di utilizzare i modelli teorici per applicare il legame madre-bambino a tutte le relazioni affettive dell’esperienza.

Il relatore sottolinea come lo stile dei primi rapporti di attaccamento possa influenzare l’organizzazione precoce della personalità: si tratta di una “rappresentazione di sé-con l’altro”, ci parla dunque di una relazione, e si organizza all’interno dei MOI, ossia di vere e proprie “griglie di lettura del mondo”.

Comportamenti differenti sono all’origine dei diversi modelli operativi interni (Bowlby, 1988), strutture mentali che includono configurazioni spaziali, temporali e causali e che contribuiscono ad anticipare il comportamento e le risposte dell’altro. I MOI relativi al sé e all’altro, strutturati come relazioni a carattere prevalentemente emozionale, sono riattivati in età adulta nelle relazioni a contenuto altamente emozionale” (Albanese,2009).

Secondo il modello delle R.I.G. ossia Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate (Sterne, 1985) le singole esperienze, derivanti dalla memoria episodica e semantica, vengono poi combinate in rete e si viene a costituire precocemente una “neuroanatomia” dei MOI.

Nei primi mesi di vita si assiste ad una crescita dei dendriti della corteccia orbito-frontale (Schore, 1994) e si stabiliscono connessioni con l’area limbica (emotiva); le ripetute esperienze emotive connesse alla relazione di attaccamento determinano la costituzione di una nuova struttura anatomica orbito-frontale (sede dei MOI). Il Dott. Albanese richiama poi l’attenzione dei presenti sui quattro stili di attaccamento del Modello di Bartholomew & Horowitz (1991) derivanti dalla combinazione del Modello di sé (Dipendenza) e del Modello dell’altro (Evitamento).

Possiamo classificare tre relazioni fondamentali di Attaccamento:

1. La Relazione Parentale: è una relazione complementare nella quale la figura di attaccamento (FdA) è generalmente la madre;

2. La Relazione tra Partners: è una relazione di tipo simmetrico nella quale entrambe le figure cercano attaccamento e danno accudimento (FdA: partner). In tale relazione si riattivano i MOI.

3. La Relazione Terapeutica: è una relazione di tipo complementare in cui la FdA è il terapeuta; anche in tale relazione si riattivano i MOI. Il quesito importante è: “i Modelli Operativi Interni possono cambiare in età adulta?” Ed in particolare all’interno di un lavoro di psicoterapia?

Il dott. Albanese conclude il suo intervento sottolineando che all’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.

Prosegue il simposio la prof. Marazziti presentando la relazione “Stile di Attaccamento e Psicopatologia”.

L’attaccamento romantico è un legame sociale, indica lo stabilirsi della relazione emozionale tra due partners che nasce in relazione alla necessità di tenere unita la coppia genitoriale finchè i cuccioli non sono in grado di sopravvivere da soli.

Il partner è implicitamente investito del ruolo di figura di attaccamento, ma allo stesso tempo risulta essere un partner sessuale, verso il quale la richiesta di disponibilità equivale ad una richiesta di esclusività. La paura della perdita di questa esclusività è all’origine della gelosia romantica. Il sistema-gelosia ed il sistema attaccamento si possono dunque considerare come finalizzati al mantenimento del legame” (Albanese, 2009). La diversa combinazione di due componenti continue chiamate “ansietà” ed “evitamento”, dà origine ai quattro stili di attaccamento romantico adulto: sicuro, preoccupato, distanziante, timoroso-evitante (Brennan et al., 1998).

La Prof. Marazziti illustra lo studio che indaga, in un campione di pazienti ambulatoriali in cura presso la clinica di Pisa, le possibili relazioni tra dimensione categoriale psicopatologica (diagnosticata con la SCID-IV, First et al., 1997) e l’attaccamento romantico, rilevato con la versione italiana dell’ ECR (Brennan et al., 1998). Le correlazioni emergenti confermano che ogni categoria diagnostica è caratterizzata da uno stile romantico; in particolare lo stile preoccupato era più frequente nei disturbi bipolari.

Mantenendo il filo conduttore dell’attaccamento romantico arriviamo all’intervento del Prof. Volterra “Attaccamento e stalking” tema purtroppo di notevole interesse attuale sia psicopatologico che sociale che giudiziario. Lo stalking si colloca nell’ambito della dimensione umana e psicologica dell’attaccamento in una prospettiva però di maladattamento e disadattamento. Il relatore descrive le caratteristiche e le conseguenze dello stalking, i fattori di rischio e l’escalation dissociale della gelosia; in particolare viene illustrata la recente legge sullo stalking  (Legge del 15 ottobre 2013 n.119).

Conclude la sessione il Dott. Mario Campanella, giornalista, con l’intervento “Dall’abuso alla psicopatologia nel bambino-adolescente” proiettando alla platea i dati inquietanti raccolti dalle Associazioni Arcobaleno, Telefono Azzurro e Mater Onlus:

Ogni anno circa 50.000 minori infraquattordicenni vengono molestati o violentati in Italia.

Il 90% subisce molestie di vario tipo (comprese le molestie attraverso il cyberweb).

Il 60% delle molestie si svolgono all’interno delle famiglie; l’estrazione sociale del fenomeno è prevalentemente medio-bassa con una percentuale stimata di quasi 1/5 relativa a ceti socio-culturali alti.

A fronte di tali proprorzioni del fenomeno nel 2011 le denunce presentate negli uffici giudiziari sono state 550 e nel 2012 circa 580 (solo l’1%)!!

 

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ATTACCAMENTO ACCUDIMENTO

CONGRESSO SOPSI 2014

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE:

Dott.ssa Loriana Murciano, Psichiatra e Psicoterapeuta.

 

L’ amore paziente di Anne Tyler (2003) – Recensione

 

 

L’ amore paziente di Anne Tyler

Guanda 2003

 

L' amore paziente di Anne Tyler, Guanda 2003 - CopertinaAmare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy,  narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente  e così pronta alla fuga per sfinimento.

Questa volta vorrei cominciare dal titolo in inglese – Celestial navigation – tradotto, chissà perchè, in italiano con – L’amore paziente.

Ecco, questo libro racconta di altro non di amore, direi piuttosto che racconta, in modo davvero esauriente, di dipendenza, di necessità dell’altro dettata da ostinati e antichi bisogni che nulla hanno a che fare con la realtà, di legami, insomma e non di relazioni.

Amare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy,  narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente  e così pronta alla fuga per sfinimento.

E anche per i personaggi secondari, gli ospiti della casa di Jeremy trasformata in pensione, tante solitudini e tanti fragili rapporti con la realtà, chi per vecchiaia, chi per abitudine, chi per paura di vivere.

Siamo a Baltimora, Jeremy ha trentotto anni quando muore la madre,  con cui ha vissuto fino a quel momento in una relazione simbiotica  esclusiva ed escludente.

Lui è un’artista di discreto successo, che vive chiuso nella propria casa-pensione a creare sculture in totale solitudine, sommerso e governato da numerosi e più o meno inconsapevoli sintomi di varia entità: agorafobia, paura della gente, del contatto, paura di uscire di casa e altro.

Domina su tutto l’estraneità a ciò che gli capita intorno, come se la realtà fosse rarefatta e incomprensibile, in modo particolare il rapporto con gli altri; privo delle minime competenze sociali e con una theory of mind piuttosto povera Jeremy si guarda appena intorno, stupito e rattrappito nel suo mondo interiore che è soprattutto silenzio.

Chi legge, a questo punto, si chiede come farà a sopravvivere uno così senza la madre a fargli da baluardo.

Ed ecco che arriva Mary, scappata dal marito e con una figlia piccola, alla ricerca di una camera da affittare.

Molto rapidamente tra i due inizia una relazione, pare quasi che Jeremy possa finalmente  curare il suo autistico mondo interiore con l’innamoramento per questa giovane donna.

Non si sposano, fanno finta di essere marito e moglie e mettono al mondo, in rapida successione, cinque figli.

Mary l’accudente trova finalmente la sua ragione d’essere, nell’occuparsi dei piccoli, della gestione pratica della casa e di questo strano marito che si dimentica di finire le frasi mentre sta parlando perchè si perde nei suoi pensieri e nei suoi silenzi. 

Mary ha bisogno che altri siano dipendenti da lei, è “dipendente dalle dipendenze“, desidera che i suoi comportamenti siano regolatori ed equilibranti per gli altri più che per se stessa, in fondo lei cos’ altro è se non una in grado di prendersi cura?

Ma la corda è troppo tirata, piccole delusioni scalfiscono la certezza di Mary di essere il centro della casa, in fondo Jeremy non è uno che vuol farsi accudire, vuole solo essere lasciato in pace nella sua solitudine colorata  di fantasie e ossessioni, dove gli altri proprio non esistono, nemmeno i figli (che lo chiamano per nome proprio e non con la parola papà o padre); Mary l’accudente diventa fuggitiva, prende figli e bagagli e se ne va.  

Non è questa la fine della storia, ci sarà altro: bellissimo uno dei capitoli finali dove Jeremy, affronta una miriade di preoccupazioni ansiose  che lo collocano almeno in tre o quattro quadri psicopatologici differenti ( utile per noi clinici per confermare, se mai ce ne fosse bisogno, quanto è difficile fare diagnosi).  Sovraccarico di  paure, debolezza e sensazione di estraneità, per la prima volta nella vita attraversa tutta la città per andare a trovare Mary e i bambini,  con esiti davvero originali e inaspettati.

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BIBLIOGRAFIA:

 

TIME: Mindfulness Revolution – Psicologia & Meditazione

 

 

 

Time Mindfulness revolutionLa copertina del TIME del 3 febbraio è, come molti già sanno, stata dedicata alla mindfulness. Ad essere più precisi, alla Mindfulness Revolution che sta ormai da anni “colpendo” gli USA.

L’autrice, Kate Pickert, racconta in primis la sua esperienza come partecipante ad un gruppo MBSR svolto a Chelsea (Manhattan) a New York.

Un aspetto che viene sottolineato molto bene dalla giornalista è che intendere la mindfulness solo come una “moda del momento” per acquietare la mente non sia il modo migliore per approcciarsi a questa forma di meditazione, che trae le proprie origini nelle antiche tradizioni del Buddhismo Theravada. Riprendendo le parole della Pickert: “If distraction is the pre-eminent condition of our age, then mindfulness, in the eyes of its enthusiasts, is the most logical response”.

Tanto logico, a quanto pare, che un report del 2007 della NIH (National Institutes of Health), dichiara che gli americani hanno speso circa 4$ bilioni in medicine alternative legate alla meditazione e alla mindfulness. Questo è un dato molto interessante per almeno due motivi, a mio parere.

Il primo, riguarda il fatto che la mindfulness sta veramente portando una “rivoluzione” che chiederà ai clinici della nostra generazione di fare i conti con la nostra “scienza” e a “allargare la prospettiva”, recuperando anche ciò che di prezioso esiste all’interno delle tradizioni orientali (Gunaratana, 1995).

Il secondo, invece, è un aspetto legato ai lati oscuri delle moda. La pratica di mindfulness è “una cosa seria”, non ha molto di mistico, richiede grande pazienza, costanza, autodisciplina e disponibilità a mantenere una pratica costante, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Chi propone questo tipo di “intervento” dovrebbe avere alle spalle una grande esperienza personale di pratica, poiché, come viene scritto nei libri “tecnici” di mindfulness, “le abilità di conduzione di un gruppo mindfulness provengono e vengono sviluppate e affinate dalla pratica personale”. La mindfulness non è una tecnica che si può imparare facendo shopping di libri e avendo sottomano le istruzioni delle varie pratiche previste all’interno del protocollo MBSR.

E’ vero che questo tipo di controllo su “chi offre cosa” è davvero impensabile.

L’articolo del TIME continua con una breve rassegna dell’impatto che la pratica di mindfulness sta avendo nella cultura e nell’ambito lavorativo statunitense. Riprendo solo alcuni dei dati forniti dalla giornalista del TIME.

Il gigante bancario Chase, propone ai suoi clienti pacchetti per “spend mindfully”, Negli USA, il Institute of Mindful Leadership “(…) explores mindful leadership training as a way to strengthen and cultivate four hallmarks of leadership excellence-focus, clarity, creativity and compassion”. Libri di self-help come il recente “Finding the Space to Lead: A Practical Guide to Mindful Leadership” non si riescono più a contare.

Negli ultimi anni, la Silicon Valley è diventato uno dei luoghi più affollati di training mindfulness. Come alcuni di voi sapranno, dal 2007 in quella zona high-tech del mondo viene organizzata una tappa della famosa conferenza per leader della tecnologia Wisdom 2.0 che ha come tagline “living with awareness, wisdom and compassion”. Nel 2007 ha accolto 235 partecipanti, nel 2014 ne aspettano circa 2000. Per citare solo alcuni dei grandi leader partecipanti a questa assemblea: Facebook, Twitter e Instagram.

Nel frattempo, un ingegnere di Google ha creato il programma Search Inside Yourself, un corso di sette settimane che viene offerto ai dipendenti di Moutain View quattro volte l’anno.

Per ultimo, Tim Ryan, membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato dell’Ohio è diventato una star all’interno dei sostenitori della mindfulness, da quando ha riservato $1 milione di grant federale per insegnare la mindfulness nelle scuole del suo Distretto.

Insomma, ormai la mindfulness in USA è entrata a far parte del mainstream. Resta ancora da comprendere quanto questa impressionante diffusione della mindfulness sia la moda del momento o se sia davvero portata avanti da persone preparate, qualificate e soprattutto che stabiliscono ogni giorno l’intenzione di praticare e di procedere nel proprio percorso personale di pratica di meditazione.

A quanto pare, questo è un vicolo da cui non possiamo uscire se non con l’onestà professionale e la preparazione.

Gli effetti benefici dovuti alla pratica di mindfulness si fanno vedere da soli alle persone che decidono di prendere la pratica di meditazione con valore, rispetto e disponibilità e costanza.

Concludo con le ultime righe dell’articolo del TIME.

In the months since, I haven’t meditated much, yet the course has had a small–but profound–impact on my life. I’ve started wearing a watch, which has cut in half the number of times a day I look at my iPhone and risk getting sucked into checking email or the web. When I’m at a restaurant and a dining companion gets up to take a call or use the bathroom, I now resist the urge to read the news or check Facebook on my phone. Instead, I usually just sit and watch the people around me. And when I walk outside, I find myself smelling the air and listening to the soundtrack of the city. The notes and rhythms were always there, of course. But these days they seem richer and more important”.

(traduzione: nei mesi successivi (alla mia partecipazione al training MBSR, ndT), non ho praticato molto, ma il corso ha avuto un piccolo – ma profondo – impatto sulla mia vita. Ho iniziato a mettermi l’orologio, che ha dimezzato il tempo di ogni giornata che passo a guardare il mio iPhone e rischiando di rimanere incastrata nel controllare le email e il web. (…) quando sono al ristorante e il mio commensale di alza per rispondere al telefono o per andare in bagno, adesso resisto all’impulso di leggere le news o di guardare Facebook sul mio telefono. Invece, rimango seduta e noto le persone intorno a me. E quando cammino, I ritrovo a annusare l’aria e ad ascoltare la “colonna sonora” della città. Le annotazioni, le cose da fare e i ritmi giornalieri, sono sempre là, ovviamente, ma queste giornate a me sembrano più ricche e importanti. )

 

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Il gergo queer nell’italiano novecentesco e contemporaneo – Sociolinguistica – LBGT

Daniel De Lucia PhD. 

 

 

TESI DI DOTTORATO

Il gergo queer nell’italiano novecentesco e contemporaneo tra gergalizzazione e degergalizzazione

Dottorato di Ricerca in Linguistica, Anglistica, Italianistica e Filologia

Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne

Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti | Pescara

 

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Questa tesi di Dottorato ha vinto la IX Edizione del Premio “Maria Baiocchi”, promosso, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università di Roma “Sapienza”, dall’associazione Di’Gay Project, dedicato alle migliori tesi di laurea e di dottorato di ricerca sui temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

SOPSI 2014 – Lo Stigma percepito sui disturbi mentali gravi – Poster Session


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

Stigma percepito sui disturbi mentali gravi in un campione di primi episodi psicotici e controlli sani

Lucia Sideli1, Maria Valentina Barone1, Fabio Seminerio2, Daniele La Barbera1 2

1 Dipartimento di Biomedicina Sperimentale e Neuroscienze Cliniche, Sez. di Psichiatria, Università di Palermo

2 U.O. Psichiatria, A.O.U.P. Paolo Giaccone, Palermo 

 

 

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Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia? – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

 

Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia?

 

Il gruppo di ricercatori del dott Daniel Gustavson del’università del Colorado hanno approfondito l’argomento.

Per quel che riguarda l’impulsività la spiegazione del perché la si possiede è semplice, gli uomini primitivi ne avevano bisogno per fronteggiare situazioni difficili in poco tempo, quindi è funzionale alla specie.

Ma la procrastinazione invece? Quella capacità del “rimandare a domani quello che potresti fare oggi”, non è funzionale alla specie come mai si è tramandata fino ad oggi? Secondo gli autori probabilmente questi due fattori sono collegati anche alla mancanza di previsione, o all’incapacità di mettere delle priorità.

Ma come  mai si posseggono capacità cosi opposte e come mai si tramandano di generazione in generazione capacità disfunzionali?

Gli autori hanno quindi approfondito l’argomento, andando appunto ad analizzare la parte ereditaria e genetica di queste capacità,  e hanno pubblicato la loro risposta su Psychological Science.

In the modern world, long-term goals are far more important than immediate survival needs, yet our impulsive tendencies remain firmly ingrained. We keep getting distracted by immediate temptations, with the result that we fail to attend to other, more meaningful goals. In short, we procrastinate, and not only that, we evolved to be procrastinators.

 

Now! Later. No, Right Now! Maybe in a Bit.Consigliato dalla Redazione

Flash News - stateofmind
Why would those who intentionally but irrationally put things off, who don\’t seem pressured by time — why would these same people also tend to make rash decisions, without thought or planning? Procrastination and impulsivity are the odd couple of th… (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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