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Una nuova Gradiva per una nuova psicoanalisi? La violenza delle emozioni.

Mauro Manica.

 

 

A proposito di…

La violenza delle emozioni. Bion e la psicoanalisi postbioniana

G. Civitarese (2011)

Milano, Raffaello Cortina Editore

 

 

 

 

                                                                                  “…né il poeta può sfuggire allo psichiatra, 

                                                                                                    né lo psichiatra al poeta; e la trattazione 

                                                                                                    poetica di un tema psichiatrico può, senza

                                                                                                    perdere la propria bellezza, risultare corretta”.

                                                                                                    (Sigmund Freud)

 

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La violenza delle emozioniCi sono libri che ci interrogano sin dalle prime pagine, persino dalle prime parole. E questo libro di Giuseppe Civitarese, nella sua versione italiana, ci affaccia su nuovi interrogativi già a partire da un’immagine che entra suggestivamente nella composizione della copertina: il fumetto, Girl with Tear III, trasformato in opera d’arte da Roy Lichtenstein nel 1977.

Il β di un’emozione, di un’esperienza sensoriale che era irrappresentabile e che diventa l’elemento basico di una rappresentazione; il primo mattone  – come direbbe Antonino Ferro – per iniziare a costruire l’edificio del sogno; un elemento α che si dà come come il filo di una tessitura: la trama e l’ordito in cerca di O.  In cerca non solo di una conoscenza (K), ma di una successione di piccole verità condivisibili, in cui paziente e analista possano riconoscersi nell’impegno di diventare sempre più sé stessi.

Così Civitarese ci interroga immediatamente attraverso l’immagine di Roy Lichtenstein; attraverso questo punto interrogativo disegnato dal frammento di un volto di donna: la curva  di un ciuffo di capelli biondi, la luce opalescente di un occhio azzurro, intrigante e seduttivo, perplesso e malinconico, sotteso dall’inquietudine di una lacrima. E dal maëlstrom delle infinite suggestioni, affiora la figurazione di una nuova Gradiva per una nuova attualità della psicoanalisi: una teoria, ed anche un metodo, che avanzano non più in equilibrio sulla punta di un solo piede, ma in equilibrio su di un solo punto.

Non possiamo allora limitarci a pensare che il focus della clinica venga ad incentrarsi esclusivamente sulla necessità di ricostruire l’attimo fuggente di un incedere trascorso nel passato, ma che si giochi anche (e soprattutto) nel qui e ora puntiforme dell’incontro tra paziente e analista, in un campo relazionale costituito come un insieme continuamente variabile di “punti” che, in un prospettiva bioniana, vengono a coniugare intersezioni di spazio e tempo: seno/non-seno, cosa/non-cosa, presente/non-presente.

Enunciato in termini più “classici” potrebbe significare una dimensione legata alla sofferenza per l’assenza dell’oggetto: una violenza delle emozioni  – come dice Civitarese – che se contenuta e sofferta partecipa alla formazione del pensiero, del simbolo, della rappresentazione della cosa in sua assenza; invece, nel caso in cui questa esperienza venga a mancare, la violenza delle emozioni si trova ad essere reificata in elementi β halla ricerca selvaggia di un contenitore.

E allora vediamo come Giuseppe Civitarese interroga immediatamente il cuore della psicoanalisi attuale. Così, alle suggestioni di una nuova Gradiva, segue un titolo che non lascia dubbi sulla scelta del campo clinico e della direzione verso cui tende la sua ricerca: La violenza delle emozioni. Bion e la psicoanalisi postbioniana.

Senza dubbio, “conosce i segni dell’antica fiamma” (p.80), come dice  – citando il verso di Virgilio e tradotto da Dante –  una/uno dei/delle tante/tanti pazienti che prendono corpo nella sua stanza d’analisi.

Sa della violenza delle emozioni che attraversano il campo perché, come ogni analista contemporaneo: “vede pazienti più gravi che in passato” (p.182), pazienti che, come recita Shakespeare, conoscono la violenza delle parole, ma non conoscono le parole. E dove l’analista si trova assegnato il compito di dare un nome ad agonie senza-nome, “di tradurre da un testo assente, di dare un senso al ‘bianco’ del trauma, alle memorie del corpo che precedono l’Io”(p. 182).

In primo piano, troviamo allora non quanto l’analista dice al paziente, ma quanto l’analista fa con il paziente: non è la ricostruzione del passato a trasformarne la sofferenza, non è rendere conscio l’inconscio a garantire l’efficacia dell’intervento terapeutico ogni qualvolta ci si trovi al di là dello spartiacque della rimozione e delle frontiere dell’inconscio simbolico. L’ a, terapeutica e trasformativa è la possibilità di fornire al paziente un apparato per costruire le costruzioni, la funzione α, il metodo per trasformare protosensorialità e protoemozioni caotiche e informi in elementi per sognare e per pensare. E’ indubbiamente importante ciò che il paziente dice e quanto l’analista risponde, ma c’è soprattutto un fare che riguarda i fatti mentali (in qualunque condizione essi siano) che intercorrono tra paziente e analista, le emozioni primitive che transitano incapaci di rappresentazione e che incominciano a vagare nella relazione in attesa di essere significate. In oscillazione tra pazienza (PS) e sicurezza (D), è la capacità negativa di bioniana memoria ad essere soprattutto richiesta all’analista, la sua capacità di sospendere ogni volontaria competenza tecnica e teorica, la sua capacità di sostare nel dubbio e nell’incertezza, la sua capacità di rinunciare alla memoria e al desiderio (sino al paradosso di rinunciare alla stessa memoria e allo stesso desiderio di disporre di una capacità negativa).

Ma Civitarese è uno psicoanalista avveduto e non si lascia acriticamente incantare dall’affascinante melodia delle sirene bioniane: conosce la spregiudicata e, a volte, provocatoria genialità di Bion. Così, come Ulisse, per poterne ascoltare il canto, si ancora saldamente all’albero maestro dell’impianto psicoanalitico freudiano, e ci avverte dell’impossibilità del compito di “spogliarsi degli assunti aprioristici che guidano l’osservazione e la conoscenza” (p.40) ma ci indica la possibilità di recuperarli da uno sfondo di passività, lasciando che si configurino come rêverie, come attività del preconscio (nel senso di Grotstein, 2009) dell’analista che ha senza dubbio a che fare con ciò che è stato (il prodotto di quella che  ho definito l’oscillazione Pr↔Rp, persona reale↔romanzo professionale), ma che soprattutto ha a che fare con la disponibilità a imparare ad aprire sempre nuovi spazi di pensabilità, per incontrare realtà emotive nuove e sconosciute (o conosciute-non-pensate), senza averne troppa paura.

Insomma, se la Marnie di Hitchcock entrasse nella stanza d’analisi di Giuseppe Civitarese, distesa sul lettino, non troverebbe alle sue spalle l’analista-detective (secondo tradizione), impegnato a decifrare i geroglifici del suo inconscio, alla ricerca della scena traumatica infantile, o dell’ancor più mitica scena primaria. Al più, troverebbe un analista-detector, un Civitarese-Connery-Mark Rutland, disposto a ‘sposare‘ il progetto di dare ospitalità alla violenza delle sue emozioni. E allora la cleptomania di Marnie potrebbe diventare un genere narrativo che racconta della sua speranza di procurarsi attraverso la relazione analitica le risorse che le mancano per sognare i propri sogni interrotti o mai sognati. E l’analista-detector le metterebbe a disposizione la propria rêverie per arruolare i personaggi di un testo onirico che le consenta di vivere le sue emozioni e di farne una lettura sognante in grado di espanderne il significato. Come Hitchcock-Connery-Rutland, avrebbe il tatto di rispettare la sua frigidità e il suo terrore nei rapporti affettivi con gli uomini, chiedendosi come mai si crei quello stato mentale in seduta, e se non monitorizzi delle variazioni troppo brusche nella temperatura emotiva della relazione: un clima torrido, o il gelo di un’incomprensione. Poi, risognerebbe con lei i suoi incubi scrivendo a quattro mani nuove (e potenzialmente infinite) trame che possano sottrarla alla traumatofilia del testo pre-scritto.

E nel teatro del sogno potrebbe comparire allora la trasformazione di una madre-prostituta-analista,  che vende le proprie emozioni per denaro, in una madre capace di contenere (♀) agonie primitive, fantasmi omicidiari, lutti intollerabili, insomma in una funzione della mente capace di ristabilire un Patto di Pietà (Grotstein, 2000): quell’accordo implicito (inconscio) per cui il paziente (come il bambino), accetta di fare del suo meglio per sopravvivere e trae profitto se l’analista (come la madre) accetta di assicurarlo contro il dolore, la pena e il pericolo non necessari.

Così, troviamo assemblati violenza delle emozioni e impianto bioniano/postbioniano. Ma Civitarese non cede mai alla tentazione di un gergo, non è, ad esempio, un ‘bioniano di ferro‘ (anche se riconosce Ferro come uno dei suoi maestri). Rifugge da ogni tentazione mimetica e devitalizzante. Usa Bion (nel senso della triade sintagmatica Freud-Klein-Bion, come direbbe Meltzer, 1978), usa Grotstein, Ogden, Green e Bleger (tra i numerosi psicoanalisti che frequenta), usa Ferro e usa il nucleo più vitale del pensiero psicoanalitico italiano; cimenta i filosofi e gli scrittori, i pittori ed i cineasti, ma facendone sempre un uso da intendere in senso winnicottiano: li traduce e li trasforma attraverso un linguaggio ed un’estetica personale in oggetti vivi e pensanti, in strumenti e metodi delle teorie con cui dialogare. Così facendo, i dispositivi teorici non vengono a darsi come il prodotto di razionalizzazioni geometriche e difensive, con cui intrattenere rapporti idolatrici al fine di evitare l’impatto con la violenza delle emozioni che transitano nel campo relazionale. Al contrario, possono germogliare come frutti onirici e poetici della mente analitica: i derivati narrativi del transfertcontrotransfert (come lo scrive Grotstein, 2009), dell’incontro tra rêveries dell’analista e rêveries del paziente, il testo di un sogno fatto sul paziente e con il paziente, che si deposita nella mente dell’analista, solo in virtù del fatto che è l’analista.

O forse, per dirlo con parole più vicine a quelle dell’autore, Civitarese fa un casting dei maestri e delle teorie, mantenendo sempre in una tensione creativa i modelli impliciti che possono operare dentro la mente dell’analista e la dimensione esperienziale a cui ricorre  quando adotta dei modelli espliciti ed i loro strumenti di lavoro: le funzioni dell’onirico, ad esempio, la logica del transfert, le (libere) associazioni, la rêverie, l’ascolto dell’ascolto, la dimensione estetica dell’incontro (p.76).

E così, con i personaggi e gli attori che si drammatizzano nella relazione tra paziente e analista, anche le personificazioni delle teorie e dei maestri entrano nel campo analitico, arruolate e trasformate per interpretare un’emozione: “cioè un ruolo o una parte del testo inconscio del dialogo analitico in cerca di un attore e di uno sviluppo narrativo” (p. 74).

E ogni attore imprimerà un’impronta personale al personaggio da cui è stato trovato,  affinché, come già aveva intuito Freud nel breve scritto Personaggi psicopatici sulla scena (1905), la funzione del dramma analitico possa diventare quella di rendere risognabile il traumatico che ritorna nel reale. All’analista è allora affidato il non facile compito di organizzazione del casting e della regia di un testo onirico alla ricerca di nuove sceneggiature. E dato che “i sogni riguardano anche il futuro” (p. 165), seguendo l’indicazione freudiana della Gradiva (1906), il compito dell’analista è reso ancor più difficile dal fatto di essere costretto a ‘girare‘ in diretta, con una sceneggiatura che viene scritta a braccio nel corso delle riprese, con un regista costantemente chiamato in campo a identificarsi e a disidentificarsi dai diversi attori, a calarsi in ruoli che mai aveva interpretato prima di allora o, in altri, in cui era già stato fin troppo coinvolto.

In più, diventa assolutamente necessario non ripetere troppe volte la stessa scena   – un ‘trapianto estraneo‘, come avrebbe detto Ferenczi (1932); un ‘crollo-già avvenuto‘, come indicava Winnicott (1963); un’ ‘interpretazione-tappo‘, nei termini di Florence Guignard (1996); o una ‘religione dell’analista‘ (Manica, 2007) –  per evitare che entri in scena il personaggio Pulsione di Morte, alla ricerca di un attore che sarà costretto ad interpretarlo. In quel caso potrebbero allora invadere il campo, teorie morte, o una morte della funzione analitica della mente dell’analista o, ancora, la distruttività del paziente che da quel personaggio era già stata alimentata.

Sviluppando il pensiero bioniano e postbioniano, è allora una nuova psicoanalisi quella che ci propone Giuseppe Civitarese? Dobbiamo trascendere i fondamenti di una psicoanalisi centrata sull’interpretazione, sull’ermeneutica delle formazioni già istituite dell’inconscio, optando per una psicoanalisi centrata sull’estetica della ricezione/trasformazione (come scrive Barale (p.186), nella sua elegante Postfazione? O ancora, dobbiamo scegliere tra una psicoanalisi delle memorie e dei contenuti (già dati) dell’inconscio e una psicoanalisi dello sviluppo degli apparati per sentire, sognare, pensare; “tra una scienza degli archivi, delle cancellature e degli scarti della memoria e una scienza dell’at-one-ment (p. 29)?

Sono domande a cui non possiamo sottrarci e che attraversano, sebbene poste da vertici diversi, tutti gli otto capitoli che compongono il libro.

Quando, ad esempio, vengono formulate da un vertice prevalentemente metodologico (Cap. I e II), la svolta impressa da Civitarese al pensiero psicoanalitico sembra essere radicale: trascendere la cesura e teatralizzare il reale. Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), aveva scritto: “C’è molta più continuità fra la vita intra-uterina e la prima infanzia di quanto non ci lasci credere l’impressiva cesura dell’atto della nascita (p. 237)“. Ma nello svolgersi della ricerca freudiana, questa intuizione è stata ribaltata, sostituendo al metodo della cesura quello della censura: come a dire, che la nascita è un trauma, una frattura della continuità della vita psichica che realizza un occultamento, da cui derivano dei resti, delle zone d’ombra che l’indagine psicoanalitica dovrebbe riportare alla luce. Ogni esperienza traumatica genererebbe delle crittografie che il trattamento analitico può e deve decifrare. Bion (1977) invece ci ha invitato a rovesciare di nuovo la prospettiva, è ritornato alla prima intuizione freudiana e l’ha oltrepassata: “Può un qualunque metodo di comunicazione essere sufficientemente ‘penetrante’ da superare questa cesura nella direzione che va a ritroso dai pensieri consci post-natali verso il pre-mentale, in cui pensieri e idee hanno la loro controparte in ‘tempi’ o ‘livelli’ della mente in cui non vi sono pensieri o idee? Questa penetrazione deve essere effettiva nell’una e nell’altra direzione (p. 86)”.

Le implicazioni di un simile rovesciamento sembrano essere serie: perché rischiamo di affacciarci sull’abisso di una condizione in cui la mente non esisteva o, comunque, non era in grado di contenere idee e pensieri. Così, dobbiamo accettare di poter ricostruire solamente ciò che in qualche modo è nato. Ma quali possibilità ci sono per tutto quanto non ha avuto la possibilità di nascere? Il mai-nato o il non-ancora-nato?

A questi livelli di funzionamento psichico, paziente e analista esistono solo nel presente e, in particolare, in quel presente circoscritto dal setting del loro incontro e in cui non è possibile fare nulla per il passato: il paziente non sa nulla di questo fondo informe e indifferenziato della propria esperienza emotiva e sensoriale, e l’analista non sa nulla del paziente, al di là di quello che (il paziente) afferma di provare. E allora va interrogato questo non sapere, trascendendo ciò che si suppone di conoscere, sospendendo qualsiasi statuto di verità per il già conosciuto. “Indagate la cesura  – suggerisce Civitarese, restituendo la parola a Bion (1977, p. 99) –  (indagate)…non l’analista, non l’analizzando; non l’inconscio, non il conscio; non la sanità, non l’insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans)-fert, l’umore transitivo-intransitivo“. Questa è la grande lezione bioniana, che viene ripresa da Giuseppe Civitarese: non c’è alcun testo pre-scritto tra paziente e analista che valga la pena di riscrivere (questo scopo, in fondo, è già sufficientemente realizzato dalla coazione a ripetere); l’inconscio è qualcosa che viene continuamente costruito, che è in continua trasformazione, che nasce dalla relazione e che si sviluppa con la nascita di tutto ciò che non ha ancora avuto la possibilità di nascere. È sicuramente meno interessante, meno salutare e meno vitale per il paziente andare a vedere cosa c’è nel suo o nel nostro inconscio rimosso, rispetto a quanto invece non sia vitalizzante e trasformativo lasciar emergere mondi nuovi e imprevedibili.

Abbiamo appreso anche dalla lezione fenomenologica (Conrad, 1958; Blankenburg, 1991) come sia caratteristica del pensiero psicotico la perdita di prospettività, della mobilità e della possibilità di scambio delle prospettive; è nel delirio che non si è grado di trascendere la centralità del soggetto, che si assiste al rifiuto (Verwerfung) di apprendere dall’esperienza che non percepiamo il mondo e l’altro come “è”, ma che possiamo solo venire a sapere il rapporto tra ciò che si incontra e noi. Così non possiamo percepire direttamente il calore o la freddezza di un oggetto, bensì il gradiente di calore o di freddezza tra noi e l’oggetto. Il delirio dice invece della necessità di allucinare la certezza percettiva della presenza dell’oggetto, accogliente o persecutorio che sia. L’illusione (winnicottiana) dice, al contrario, che si può oltrepassare il delirio teatralizzando il reale, trovando un oggetto che si lasci creare dai bisogni del soggetto: freddo e/o caldo al momento e al punto giusti. Così Civitarese può dirci che: “Per aiutare il paziente a integrarsi, non è più tanto (non solo) questione di tradurre dei contenuti (dei significati), per esempio di svelare i pensieri latenti del sogno, quanto di non introdurre effrazioni del senso (differenze) non sostenibili per l’Io (p.181)”.

Ma se il primato tecnico è quello della contemporaneità, dell’andare a tempo e dell’essere all’unisono per favorire la crescita psichica, che ne è della dimensione storica e referenziale che ha da sempre organizzato il discorso epistemologico della psicoanalisi?

Ripetutamente, ma soprattutto nei capitoli più ‘clinici‘, dedicati all’ipocondria (Cap. III) e al conflitto estetico (Cap. VI), ad esempio, Civitarese ci dimostra quanto sia necessaria l’articolazione del piano sintagmatico, verticale, con le sue fondazioni storico-biografiche e del piano paradigmatico, orizzontale, animato da logiche relazionali ed interpersonali. Di fronte all’opacità di una sofferenza che sembra soltanto poter prendere corpo (come nell’ipocondria), oppure sottrarre bellezza alla vita (come nelle patologie del conflitto estetico), è giocoforza tornare all’ambiente originario, alla madre-ambiente ed agli effetti di qualità negative della rêverie. Il traumatico si costituisce sempre come un oggetto ostruente che si oppone alla crescita mentale; e in ultima analisi, prende la forma di un contenitore negativo che, solo in aprés coup, potrà rivelare le proporzioni della miscela tossica di cui é composto: quantità proporzionalmente variabili di cattive cure genitoriali e della distruttività infantile che ha dovuto soppiantarle.

Sia che si tratti di un oggetto confusivo che crea un contenitore confondente che aliena o si aliena nel corpo, come nell’ipocondria; sia che si tratti dell’abiezione dell’oggetto che genera un fading, una dissolvenza del contenitore, come nella patologia del conflitto estetico, il punto di vista intrapsichico coglie la statica del sintomo e non la dinamica della sua comunicazione. Da un punto di vista intersoggettivo (interpsichico), il sintomo diviene invece: “il racconto dei fatti dell’analisi nel momento in cui accadono, e in questo caso potrebbe trattarsi di una malattia del campo analitico (p. 52-53)”.

In fondo, non era stata questa l’originaria intuizione freudiana (Freud, 1914) a proposito della nevrosi di transfert? Era necessario che la nevrosi clinica si trasformasse in nevrosi di traslazione, affinché il “nuovo stato” si caricasse di tutti i caratteri della malattia per potersi rendere accessibile al lavoro terapeutico. A Freud era solo sfuggito quanto l’analista fosse implicato e partecipe di quel nuovo stato di malattia, di quanto fosse necessario diventare (bionianamente) l’esperienza emotiva del paziente, l’O, la verità sconosciuta della sua sofferenza. Perché K non può precedere O, ma è necessario permettere a O di diventare K.

Freud stesso, già all’epoca degli Studi sull’isteria (1892-1895) aveva colto come nell’ottundimento della capacità di collaborare del paziente potesse intervenire il ruolo svolto dal “medico” . E nella definizione di “resistenza esterna” si era soffermato su quel particolare insuccesso del metodo associativo che poteva essere ricondotto alla qualità della relazione terapeutica.

Quando il paziente ha sofferto per un’offesa da parte dello psicoterapeuta  – notava Freud –  per una piccola ingiustizia, per una disattenzione o un disinteresse, per un segno di disprezzo, o quando ha sentito una critica alla persona del medico o al suo metodo, allora la pressione associativa non ha successo. Non appena si chiarisce però il punto di controversia, la collaborazione si ristabilisce e il procedimento torna a funzionare.

E’ evidente come la resistenza, sin dalle sue prime definizioni, venisse collocata in una dimensione essenzialmente relazionale. E saranno gli sviluppi psicoanalitici successivi a dimostrare come la sua formulazione possa embricarsi con il versante negativo del transfert e con il possibile fallimento delle funzioni controtransferali della mente dell’analista.

Così, ci dice Civitarese, senza ricerca di O, senza verità emotive condivisili, senza che il paziente possa veramente credere che l’analista sperimenti autenticamente ciò che egli sperimenta (Grotstein, 2007; Manica 2007), senza continue trasformazioni in sogno (Ferro, 2010) di quanto transita tra paziente e analista, non potrà mai avvenire un reale sviluppo della mente, perché non potrà svilupparsi un contenitore capace di trasformare l’impensabile di angosce senza nome in vita onirica prima e, poi, in vita vissuta.

In realtà, c’è molta più continuità tra la psicoanalisi della prima Gradiva e la psicoanalisi di Civitarese di quanto la cesura del titolo lascerebbe supporre. E forse, non è un caso, che nell’ultimo capitolo del libro si ritorni a Freud e venga affiancata alla Griglia di Bion la metafora del notes magico: “per evidenziare come l’ ‘illuminazione appropriata’ del transfert, che per Freud serviva a leggere le scritte apparentemente cancellate della tavoletta di cera del notes (della memoria), in Bion diventi essenzialmente la rêverie (p. 6)”.

Allora, nella transizione della psicoanalisi contemporanea da una psicologia unipersonale a una psicologia bipersonale, il rovesciamento di prospettiva amplia ed estende la portata delle invarianti del metodo: la dimensione dialogica dell’incontro (anche se fatto di silenzi o azioni), il transfert e la resistenza (Manica, 2010). Così, nella stanza d’analisi di Giuseppe Civitarese tutto può essere considerato “transfert” e prende il senso ampio di relazione (Sandler e Sandler, 1984) potendo essere considerato come il transito costante di sensazioni, di emozioni pensate e impensate, dicibili e indicibili, che si attualizzano nel presente di ogni incontro analitico (un hic et nunc marcato dagli imprinting traumatici del passato). E la “resistenza”, la cesura che deve essere trascesa, viene a rappresentare qualsiasi ostruzione, qualsiasi ostacolo che si oppone a questo flusso emotivo e sensoriale.

In una simile prospettiva, il gradiente di resistenza potrebbe essere assunto come indicatore del livello di permeabilità della mente dell’analista, piuttosto che come opposizione del paziente alla ‘pressione’ del metodo psicoanalitico. Centrale diviene dunque, in questo modo di pensare, la funzione di ascolto dell’ascolto (Faimberg, 1996), il ruolo cioè svolto dagli effetti che produce una disposizione estetico-recettiva dell’ascolto, tesa a pittografare continuamente ogni comunicazione del paziente, senza creare effrazioni di senso che turbino la ricerca di O.

E’ questa transizione nella continuità, da una psicoanalisi dei Massimi Comuni Divisori ad una dei minimi comuni multipli che, riprendendo Freud, ci permette di dire a Giuseppe Civitarese: “Lei è uno splendido analista, il quale ha afferrato irrevocabilmente la sostanza della questione. Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio, alla schiera dannata” (Freud-Groddeck, 1917-34, p.17).

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Tale studio pone l’attenzione e l’evidenza empirica – partendo dall’ambito della psicologia dello sviluppo- sulla costituzione di precoci tracce mnestiche particolarmente resistenti anche a lungo termine e cosi difficilmente trasferibili dalla modalità implicita a una modalità esplicita e verbalizzabile. 

Il destino delle primissime memorie infantili rimane un’area di ricerca estremamente florida e ancora misteriosa, nonché ricca di difficoltà legate all’indagine empirica. Un nuovo studio danese ha messo a punto una curiosa procedura per ricordarci quanto – a dispetto di un recupero mnestico esplicito- possano essere durevoli nel tempo e memorie anche della primissima infanzia dimostrando che bambini di tre anni di età sarebbero in grado di riconoscere una persona che hanno incontrato una sola volta quando avevano l’età di un anno.

La procedura sperimentale prevedeva che i ricercatori riprendessero contatto con genitori e bambini coinvolti in un precedente studio, quando i bambini avevano l’età di un anno: nel corso di questa prima ricerca i bambini avevano interagito per 45 minuti  con uno sperimentatore Scandivano-Caucasico (colore della pelle chiaro) o con un ricercatore Scandivano-Africano (colore della pelle scuro).

A due anni di distanza 50 di questi bimbi sono stati invitati esattamente nello stesso laboratorio. Ai piccoli soggetti sono stati mostrati due video della durata di 45 secondi: in un video rivedevano lo sperimentatore che avevano incontrato, mentre nell’altro era presente lo sperimentatore che non avevano mai incontrato.

La variabile chiave per gli sperimentatori è stata la preferenza dei soggetti per un video piuttosto che per l’altro in termini di tempo di fissazione oculare. Sorprendentemente i bambini fissavano per un tempo statisticamente maggiore il video in cui era presente il ricercatore che non avevano mai incontrato rispetto al video dello sperimentatore incontrato due anni prima. Tale effetto è noto come fenomeno della novelty preference, in ambito della psicologia dello sviluppo interpretato come tendenza a guardare in misura maggiore lo sconosciuto (tra i due ricercatori); e dunque in tale logica indizio di riconoscimento del primo ricercatore incontrato che è stato guardato per un tempo minore. 

Quando poi ai bimbi è stato chiesto se avessero precedentemente incontrato uno dei due uomini del filmato rispondevano semplicemente che non ne avevano nessuna idea: la traccia mnestica è implicita e non accessibile alla coscienza.

Tale studio quindi pone l’attenzione e l’evidenza empirica – partendo dall’ambito della psicologia dello sviluppo- sulla costituzione di precoci tracce mnestiche particolarmente resistenti anche a lungo termine e cosi difficilmente traferibile dalla modalità implicita a una modalità esplicita e verbalizzabile. 

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Autismo: Ascolta le parole che non riesco a dire – Rassegna Culturale

Le parole che non riesco a dire

Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo
a cura di Sara Boggio e Associazione Culturale Mondi Possibili

Lunedì 7 aprile 2014 h. 18.00 – 20.00
Martedì 8 e Mercoledì 9 aprile 2014 h. 20.30 – 22.30
Polo Culturale Lombroso 16
Via Cesare Lombroso n.16 – Torino

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Ascolta le parole che non riesco a dire

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Le parole che non riesco a dire

Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo
a cura di Sara Boggio e Associazione Culturale Mondi Possibili

Prende il via

Mercoledì 02 aprile 2014

h. 18.00 – Galleria InGenio Arte Contemporanea
C.so San Maurizio 14/E Torino

con la mostra

Guarda le parole che non riesco a dire

Artisti: Gec, Raffaella Giorcelli, Maurizio Modena,  Mars Tara

Video Maker: Riccardo Marrocco

per informazioni

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Il Disturbo Ossessivo Compulsivo in The Aviator (2004) di Martin Scorsese

Heyra Del Ponte

 

THE AVIATOR

Di Martin Scorsese  (2004)

 

RECENSIONI DI STATE OF MIND

The aviator di Martin Scorsese - locandina

Spesso nell’ossessivo compulsivo c’è un diretto legame tra la pulizia fisica e la pulizia morale dovuta ad una sensazione interna di sporco definito “effetto Lady Macbeth”; chiamato così in riferimento alla famosa tragedia di Shakespeare, in cui Lady Macbeth è complice dell’omicidio di Re Duncan di Scozia  e cerca disperatamente di lavare la macchia di sangue immaginaria che rappresenta i suoi sensi di colpa. 

The Aviator è un film del 2004 diretto da Martin Scorsese, vincitore di 5 premi Oscar e dedicato alla vita della leggenda americana Howard Hughes (Leonardo Di Caprio). Egli è diventato famoso per i suoi record di velocità aerea e di periplo del globo (solo 4 giorni), per aver progettato e costruito diversi aeroplani (tra cui l’Hughes H-4 Hercules con i suoi 97,5 m di apertura alare che conserva tutt’oggi il primato per questo valore), per aver prodotto e diretto film vincitori d’incassi al botteghino, tra cui Hell’s Angels (un kolossal da 4 milioni di dollari), Scarface, The Outlaw e per aver creato una linea aerea intercontinentale, la Trans World Airlines.

Il film inizia con una scena evocativa dove troviamo un Howard Hughes di nove anni, nudo, che viene lavato accuratamente dalla madre con un sapone nero, mentre lo mette in guardia dalle conseguenze del colera e del tifo, che nel 1913 avevano colpito la loro cittadina, Houston. Questa giovane donna, probabilmente anch’essa con disturbo ossessivo compulsivo, lascerà un segno indelebile nel figlio, che si ritroverà, adulto, nuovamente nudo a combattere con le ossessioni che sono entrate nella sua pelle come la schiuma di quel sapone da cui non saprà mai separarsi.Tu non sei al sicuro mai” è una frase materna che ritornerà spesso nella mente di Hughes.

Howard ha un disturbo ossessivo compulsivo da contaminazione, una paura patologica dello sporco e dei germi. Viene detta anche misofobia, rupofobia o germofobia.

Il nostro protagonista ha il terrore di essere infetto, si lava di continuo le mani (porta sempre con sé in tasca il suo sapone nero), non tocca le posate altrui, beve solo latte da bottiglie di vetro ermeticamente sigillate, mangia pezzettini di cioccolata non vicini al bordo, apre le maniglie delle porte con i fazzoletti, prova disgusto per la carne al sangue, a casa ha creato una zona asettica e ha rivestito la cloche dell’aereo che pilota con del cellophane perché “Non hai idea delle porcherie che la gente ha sulle mani”.

Una scena particolarmente forte viene rappresentata quando Howard, dopo essere stato lasciato da Katharine Hepburn, brucia sul pavimento tutti i suoi vestiti (contaminati dalla presenza di lei) e chiama in piena notte un suo collaboratore per chiedergli di andargliene a comprare di nuovi.

 

Secondo il DSM le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, persistenti e angosciosi, vissuti come intrusivi e inappropriati. La persona riconosce che tali pensieri, impulsi o immagini sono un prodotto della propria mente. Lo stesso Howard riferisce di avere delle idee folli e che a volte ha davvero paura di giocarsi il cervello.

Le compulsioni, invece, sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il paziente deve obbligatoriamente mettere in atto in risposta a un’ossessione allo scopo di prevenire o ridurre il disagio o alcuni eventi temuti. Nel caso di Howard le compulsioni riguardano il lavaggio delle mani, nonché, in seguito, la ripetizione di frasi.

Spesso nell’ossessivo compulsivo c’è un diretto legame tra la pulizia fisica e la pulizia morale dovuta ad una sensazione interna di sporco definito “effetto Lady Macbeth”; chiamato così in riferimento alla famosa tragedia di Shakespeare, in cui Lady Macbeth è complice dell’omicidio di Re Ducan di Scozia  e cerca disperatamente di lavare la macchia di sangue immaginaria che rappresenta i suoi sensi di colpa. 

Howard è un personaggio moralmente sporco, è un cigolò, ha avuto innumerevoli donne ed è anche un uomo d’affari sceso a compromessi con i meccanismi della corruzione.

Da ogni scena del film emerge chiaramente la caratterizzazione di Howard, uomo di grande successo in ogni campo: cinema, donne, aviazione. Un uomo pignolo e perfezionista, che deve eccellere altrimenti non è nessuno. Basti pensare che per girare il suo kolossal Hell’s Angels impiegò 3 anni, riprese 560 ore di girato e alcune scene vennero girate oltre 90 volte. Una frase famosa rimasta alla storia del Signor Hughes ci fa capire ancora meglio questo aspetto della sua personalità: “Ho intenzione di diventare il più grande golfista del mondo, il produttore dei più bei film di Hollywood, il più grande pilota al mondo e l’uomo più ricco del mondo!”.

Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Particolarmente sottolineato nel film è il progressivo distanziamento dal mondo reale e la drammatica perdita di libertà che colpisce Howard. L’evitamento rende sempre più isolato l’ossessivo, che finisce con il vivere solo in compagnia della sua sintomatologia.

Non è difficile pensare al dolore che tale isolamento comporti, se pensiamo che l’evento omega è quello di essere non amati né amabili agli occhi degli altri. Howard Huges si recluse nella suite del Desert Inn di Las Vegas e da lì continuò a condurre i suoi affari venendo soprannominato “Il fantasma del capitalismo americano”.

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BIBLIOGRAFIA:

Droga e Alcol fra gli adolescenti: una ricerca sulle scuole della provincia di Roma

Francesca Amadori, Giuseppe Nicolò, Daniela Pucci.

 

Droga e alcol fra gli adolescenti

di due scuole della provincia di Roma

 

 

Droghe e alcool negli adolescenti . - Immagine: ©-Joshua-Resnick-Fotolia.com

Il fenomeno dell’abuso di alcol e droghe ha una crescente incidenza fra la popolazione adolescente. L’esordio d’uso sempre più precoce e la gravità delle conseguenze psico-fisiche che l’abuso provoca agli adolescenti, rende questa problematica quanto mai rilevante e drammaticamente significativa.

Le linee guida europee sulla prevenzione dell’abuso di sostanze stupefacenti hanno direzionato gli enti locali ad agire in modo capillare e collaborativo, al fine di sensibilizzare la società rispetto tale fenomeno, con particolare attenzione alle fasce di popolazione a rischio e tramite l’implementazione di interventi che siano scientificamente efficaci e risolutivi.

La presente indagine si colloca all’interno di questo quadro teorico, avendo come obiettivo generale quello di apportare un contributo rispetto la conoscenza dei fattori di rischio e dei fattori protettivi, delle caratteristiche del fenomeno del consumo fra gli adolescenti, e dell’atteggiamento di quest’ultimi nei confronti della realtà delle droghe e dell’alcol. Il campione totale preso in esame è di 674 soggetti dai 15 ai 19 anni, studenti di due scuole secondarie superiori della provincia di Roma, un liceo e un istituto professionale.

Lo strumento utilizzato per la raccolta dei dati della ricerca è stato un questionario ad hoc semi-strutturato che indagava: la percezione che i soggetti hanno della diffusione del consumo di ciascuna droga fra i coetanei; la conoscenza e la consapevolezza del rischio associato all’abuso di droghe a alcol; l’incidenza del consumo di alcol, droghe e sigarette fra gli studenti del campione, la frequenza d’abuso associata e la reperibilità nell’ambiente circostante di ciascuna droga, quanto gli studenti fossero disposti a confrontarsi e ad accogliere programmi di prevenzione nei confronti di tale problematica.

La ricerca sul campione esaminato conferma che l’adolescenza rappresenta un fattore di rischio nell’abuso di sostanze stupefacenti e alcol, che la nicotina rappresenta una sostanza “gateway”e dunque un fattore di rischio per l’uso di sostanze stupefacenti e il consumo abituale di alcol. Diversamente l’appartenenza a gruppi formali (Amerio, Boggi Cavallo, Palmonari e Pomberi 1990; Palmonari, Pombeni e Kirchler 1992) costituisce un fattore protettivo rispetto l’abuso di alcol. Inoltre sono state rilevate tramite l’analisi correlazionale dei dati raccolti, differenze significative fra le due scuole superiori.

Infine nel campione di studenti la percezione e la consapevolezza del rischio associato al consumo di alcol e droghe non rappresenta un fattore protettivo rispetto all’abuso di entrambe le sostanze: sebbene infatti l’informazione rappresenti un utile mezzo, essa non modifica necessariamente l’atteggiamento di un individuo e per tale ragione gli interventi preventivi basati sull’informazione, in passato largamente proposti in ambito scolastico, si sono mostrati scarsamente efficaci. Alla luce di tali considerazioni sembra si possa confermare che l’azione preventiva nell’ambito di questa problematica debba indirizzarsi verso approcci più simili alla peer education, dimostratasi peraltro efficace nell’ambito delle problematiche legate all’uso di droghe (OEDT, 2010).

In conclusione, benché i risultati di questa ricerca non possano essere generalizzabili all’intero campione di studenti italiano, devono essere considerati significativi e rilevanti data la numerosità del campione poiché esso può essere rappresentativo di un atteggiamento verso le droghe diffuso nella popolazione giovanile italiana.

 

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DROGA E ALLUCINOGENIALCOOLADOLESCENTI – PREMIO STATE OF MIND

 

 

 

 GLI AUTORI: 

Francesca Amadori, Giuseppe Nicolò, Daniela Pucci.
Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

 

 

Risate sincere o false? Basta ascoltare la voce! – Comunicazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo un nuovo studio del Royal Holloway, University of London le persone sarebbero in grado di distinguere risate sincere da risate finte anche a partire dalla sola voce e il cervello risponderebbe in modo diverso.

L’essere umano sarebbe in grado di distinguere tra persone che ridono genuinamente e in modo sincero da coloro che fingono: certamente questo già Duchenne con l’identificazione dei muscoli facciali che caratterizzano il sorriso Duchenne (autentico) ci aveva instradato usando gli indizi facciali.

Ma che ne è dell’espressione vocale non verbale? Secondo un nuovo studio del Royal Holloway, University of London le persone sarebbero in grado di distinguere risate sincere da risate finte anche a partire dalla sola voce e il cervello risponderebe in modo diverso.

Ai partecipanti è stato chiesto di ascoltare l’audioregistrazione di persone che ridevano spontaneamente mentre guardano alcuni video divertenti oppure che ridevano a comando (semplicemente forzate a farlo da una richiesta dello sperimentatore).

I ricercatori hanno scoperto che il cervello dell’auditore presenta risposte chiaramente differenti nel caso in cui si trovi ad ascoltare una risata falsa: maggiori attivazioni sono state riscontrate a carico della corteccia prefrontale anteriore mediale nell’ascolto delle risate forzate, come se il cervello si trovasse impegnato a valutare l’autenticità dello stato emotivo e mentale espresso della persona.

Ma soprattutto sono stati osservati due network di attivazioni distinti per le due categorie di risata: nel momento in cui la risata viene percepita come autentica e genuina si riscontrano maggiori attivazioni e connessioni tra le aree sensomotorie e altre aree corticali e subcorticali, in linea con la prospettiva embodied e simulativa della percezione delle emozioni.

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VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE LINGUAGGIO E COMUNICAZIONENEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La vita di Adele – di A. Kechiche (2013) Psicologia Film Festival. PFF

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Presenta: 

La vita di Adele

di Abdellatif Kechiche (2013)

presenta il film la dott.ssa Denise Magliano

PFF PROGRAMMA 2013-2014

la vita di adele PFF

SCARICA LA LOCANDINA

Il Film

Adèle è una quindicenne che ogni mattina si sveglia presto e deve correre per non perdere l’autobus che la porterà a scuola. Un tipo carino dell’ultimo anno le fa il filo e lei accetta di vedersi con lui in un tranquillo pomeriggio; proprio quando lo sta per raggiungere, il suo sguardo incrocia quello di una ragazza più grande, dai capelli tagliati alla maschietta e colorati di blu. Adèle si confronta con un “colpo di fulmine”, un amore folle, che incendia le viscere e da cui è impossibile ripararsi. Nella notte, durante l’unica scena onirica di un film che addenta con voracità il reale, Adèle non sognerà un ragazzo, ma quella giovane dalla chioma blu che come un serpente le scivola addosso provocandole un orgasmo. Nell’adolescente qualcosa cambia: cominciando a cercare quella che sembra un’emanazione dei suoi desideri e che ritroverà, casualmente, una notte, inizia il suo personale romanzo di formazione, la cui parabola assume connotati cinematografici pressoché definitivi.  La camera segue fino all’ultimo respiro i volti e i corpi della protagonista e di Emma. Il tracciato sentimentale non si allontana mai dal riflesso corporeo che lo incarna: la macchina, raramente piazzata lontana dal volto dei personaggi, è un sismografo dalla sensibilità icastica e immediata; ogni cambiamento di umore è rilevato in tempo reale e l’abilità nello scorgere una particolare occhiata o un’espressione possiede una naturalità impressionante.

Il regista franco-tunisino non dimentica la verticalità del proprio sguardo, sempre rivolto alla società francese, alle divisioni sociali e culturali. Fa delle due protagoniste un osservatorio privilegiato anche per l’incontro/scontro tra mondi differenti: Adèle viene da una famiglia petite bourgeois, mentre Emma è figlia della borghesia intellettuale, lesbica dichiarata con la ferma volontà di diventare artista.

 

Il regista

Immigrato a Nizza con la famiglia quando era solo un bambino, dopo una formazione teatrale, Kechiche si accosta al cinema in veste di attore. Una storia d’immigrazione è al centro della prima prova da regista: in Tutta colpa di Voltaire, il tunisino Jallel va a Parigi per cambiare vita, cerca di integrarsi, conosce una realtà difficile, vive un mondo invisibile. L’ostinata attenzione al fattore umano, derivante da un linguaggio filmico che tallona i personaggi, torna amplificata nel successivo La schivata (2003), già opera della maturità, più complessa e compatta. Cous Cous (2007) e Venere Nera (2010) lanciano Kechiche come uno dei registi europei più significativi degli ultimi anni. La Vita di Adele vince la Palma d’oro al festival di Cannes nel 2013.

 

Denise Magliano

Si dedica all’attività libero professionale di psicoterapeuta a orientamento psicodinamico nel settore clinico e sociale occupandosi di: percorsi psicoterapeutici individuali e di piccolo gruppo; refertazione psicodiagnostica; counselling per situazioni problematiche dell’individuo e delle istituzioni; formazione e consulenza tecnica ad associazioni professionali e di volontariato; collaborazione a progettazioni per bandi locali e europei. Da qualche anno collabora con alcune associazioni GLBT del territorio torinese dedicandosi alle seguenti attività: progettazione e realizzazione di interventi formativi riguardanti le tematiche dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

Vi aspettiamo numerosi!

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Programma 2013-2014 del PFF

ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

Come me non c’è nessuno – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.05 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #05

Come me non c’è nessuno

– Leggi l’introduzione –

Come me non c'è nessuno - CIM NR.05. - Immagine:  ©-Serg-Nvns-Fotolia.comA quarantasei anni Ilario Cermetti aveva conosciuto soltanto successi. La serie sembrava dover continuare, senza se ne intravedesse la fine. Primogenito della famiglia più ricca di Monticelli era stato da subito identificato dal nonno Angelo, il fondatore della dinastia, come il futuro capitano dell’azienda di famiglia, la “Ceramiche Cermetti”, leader incontrastata nel settore dei sanitari e dell’arredo bagno.

Ilario non era stato un bambino ed un adolescente viziato, le aspettative della famiglia lo avevano spronato a impegnarsi a fondo in tutte le cose. Fortunato sì, dunque, ma anche intelligente, tenace e disposto al sacrificio. Sempre primo in tutte le scuole che aveva frequentato, si era laureato in ingegneria a 24 anni con 110 e lode e 29,7 di media.

Come se non bastasse era bello, con i riccioli neri che incorniciavano un viso dai lineamenti severi ma addolcito da due grandi occhi azzurri. Capitano della squadra di rugby del paese, era impegnato in molte attività di volontariato e responsabile provinciale degli scout.

Naturalmente era il miglior partito della provincia e le ragazze lo corteggiavano sfacciatamente.

A trent’anni andava alla riunione della Confindustria provinciale, dove era stato eletto presidente dei giovani industriali guidando la sua Ferrari nera regalo di nozze del nonno che stravedeva per quel nipote così simile a lui.

A trentacinque anni la sua Fiammetta le aveva già dato una figlia femmina, Aurora, di 5 anni e l’erede maschio, Angelo, di 3.

Insomma un giovane di sicuro successo bello, bravo e persino, stranamente, buono.

Grande fu la perplessità nella riunione generale del CIM quando si trattò di valutare la richiesta, giunta telefonicamente, di una visita da parte di Ilario Cermetti.

In primo luogo, per il pregiudizio secondo il quale i benestanti non hanno problemi, alla faccia del vecchio adagio secondo cui i soldi non danno la felicità, ma soprattutto perché era strano che uno come lui si rivolgesse al servizio pubblico.

Maria, da incallita comunista, sosteneva che occuparsi di lui equivaleva a togliere le poche risorse del servizio dalle necessità dei disgraziati per dirottarle sui ricchi, era una vergogna da evitare.

Irati, senza staccare lo sguardo dalle gambe accavallate di Maria, che gli stava di fronte, assecondava la sua posizione per convenienza: perché non si era rivolto direttamente a lui un così prezioso cliente?

Quando si sfioravano temi politici il tono si scaldava immediatamente ma i conflitti, pur vestendosi di ideologia, erano soprattutto personali. Irati non perdonava a Maria, detta Gilda, di non aver mai ceduto alla sua corte che riteneva irresistibile, viceversa lei non perdonava al medico di aver proposto al fratello Dante una psicoterapia privata invece che al servizio.

Luisa che aveva ricevuto la telefonata della signora Fiammetta disse che l’aveva sentita molto allarmata e non c’era, a suo avviso, tempo da perdere.

Biagioli, nel tentativo democristiano di riportare la pace mediando le posizioni, disse che era da considerarsi un segno molto positivo perché evidentemente il servizio godeva di una buona fama e lo stigma rispetto alla malattia mentale stava diminuendo.

Silvia Ciari, una delle poche persone che invecchiando era diventata sempre più di sinistra uscendo ormai dall’arco parlamentare, disse che poteva andare in pensione soddisfatta: da sempre aveva sognato il momento in cui, nella sala d’attesa del CIM, sarebbero stati seduti fianco a fianco gli psicotici sperduti e puzzolenti e i maggiorenti della città. Biagioli però sapeva che il peggio doveva ancora venire e si sentiva come quel contadino, dice un proverbio umbro, che ingoiato un falcetto ha appena rifatto il manico: il problema, per lui,  riguardava l’assegnazione del caso.

Se avesse detto che lo aveva chiamato a casa il direttore generale della ASL, il dottor Ruggero Altamura suo capo quando era stato assunto, per raccomandargli di seguire personalmente la situazione di Cermetti si sarebbe scatenato un putiferio. Favoritismi, raccomandazioni e privilegi erano mal tollerati in un ambiente orientato ideologicamente a sinistra del partito comunista. 

Carlo, inoltre, si vergognava di questa sua familiarità o peggio sudditanza da Altamura considerato un grandissimo traditore della causa psichiatrica cui aveva continuato a togliere risorse da quando sedeva sul trono manageriale.

Luisa Tigli, cogliendo l’imbarazzo del suo Carlo intervenne, sostenendo che essendo stata compagna di scuola di Fiammetta avrebbe potuto  fare lei un primo colloquio e poi, se necessario, coinvolgere un medico. Tutti sapevano chi sarebbe stato. Poi, l’accenno  della dottoressa Ficca al calendario delle ferie invernali, avviò una confusione che risolse ogni imbarazzo.

Fiammetta e Ilario aspettarono in sala d’attesa pazientemente il loro turno.

Lui, dismesso l’abito della sua sicurezza lasciava a lei, preoccupatissima, il resoconto dei fatti.

Da circa un mese Ilario dormiva poco e malissimo nonostante le due compresse di Tavor prescritte dal medico di famiglia, mangiava poco e si mostrava irritabile persino con i figli. 

Non era andato al lavoro per tre giorni, cosa che lei non aveva mai visto neppure quando era con la febbre a 38 gradi.

Con il permesso dei due coniugi Luisa chiamò il dottor Biagioli che prontamente accorse.

Dopo qualche generica rassicurazione sulla non gravità della situazione cercò di raccogliere l’anamnesi recente.

Da tre trimestri il fatturato dell’azienda era in calo e la tredicesima degli operai era stata per il momento congelata per mancanza di liquidità.

Da quasi novanta giorni, dunque, Ilario viveva una situazione di difficoltà economica a lui sconosciuta. La situazione era peggiorata esattamente una settimana prima: il direttore della cassa di risparmio lo aveva avvertito che serviva una garanzia del nonno per ampliare lo scoperto sul conto, che era esaurito. La banca dunque non si fidava più di lui. 

Biagioli rassicurò sul fatto che non ci fosse nulla di psicopatologicamente preoccupante, ma solo una reazione d’ansia ad una contingenza economica sfavorevole. Del resto, tutte le aziende del settore erano in crisi per la concorrenza del colosso cinese. Il problema stava nel fatto, diceva Ilario e questo avrebbe dovuto metterli in allerta, che quello che capitava agli altri non poteva accadere a lui. 

Si diedero appuntamento ad una settimana con una terapia benzodiazepinica più sostanziosa, ma non erano passati che quattro giorni che Fiammetta telefonò allarmata.

Un ulteriore evento aveva peggiorato la situazione: il ragionier Tancredi, contabile dell’azienda e amico fidato di Ilario era letteralmente sparito con la cassa, i libri contabili non si trovavano più.

Insieme a Tancredi mancava all’appello anche Lisetta, la badante ucraina che assisteva il padre del ragioniere che, ai suoi tempi, era stato il fedele braccio destro di Angelo Cermetti ed ora, invecchiando malissimo e in povertà, non riconosceva più il figlio e la faceva nel pannolone.

Fregare Ilario doveva essere sembrato a Tancredi un atto di giustizia. 

L’insonnia era peggiorata e un’ irrequietezza costante lo costringeva a passeggiare tutto il giorno in montagna rinunciando a recarsi in azienda.

Al colloquio Ilario spiegò che non era tanto il danno economico ad angosciarlo, ma il fatto che fosse stato così ingenuo da farsi fregare: di nuovo, ciò che capitava agli altri era inammissibile che avvenisse a lui. Ilario si sentiva smarrito, non capiva quanto gli accadeva intorno, il mondo gli si presentava con sembianze sconosciute, tutto era cambiato, diverso, imprevedibile, si sentiva disorientato, confuso. Più tardi, avrebbe detto che non sapeva più chi fosse e dove fosse. 

Persino gli oggetti gli apparivano diversi e i figli, la casa, familiari ed estranei al tempo stesso.

Pareva quasi che la vecchia realtà fosse gravida di una nuova verità che premeva per nascere: quelle pene erano le doglie del parto.

Non passarono tre giorni che Luisa fu chiamata alle 19, quasi al momento della chiusura dell’ambulatorio, da una Fiammetta in preda all’angoscia che implorava la vecchia compagna di scuola di correre subito da lei perché il marito era definitivamente ammattito e lei era spaventata.

Non era la prima volta che la pronta disponibilità si protraesse per lunghe ore notturne, soprattutto se di turno capitava l’accoppiata Carlo e Luisa. Le malelingue  commentavano acide e forse invidiose quando arrivava il foglio mensile con il resoconto degli orari, ma quella volta era tutto vero. Di nuovo un’ acuta crisi di gelosia, ma in ambiente e con toni completamente diversi da quella di poco tempo prima di  Salvatore e Teresa.

La villa, protetta da un elegante cancello in ferro battuto che scorreva all’arrivo delle vetture identificate con le telecamere, era avvolta nella gelida nebbiolina invernale, bassa nell’immenso giardino con alberi di alto fusto.

Entrambi in vestaglia aspettavano in salotto e Fiammetta venne subito al dunque: Ilario, notando un graffio sulla sua schiena, si era fermamente convinto che avesse un amante e stesse abbandonandolo proprio nel momento della difficoltà. Lui era arrabbiato per il tradimento e lei per la scarsa considerazione nei suoi confronti. 

Entrambi offesi, mantenevano un’ assoluta correttezza formale accendendosi reciprocamente le sigarette e versandosi il whisky appena il bicchiere era vuoto.

Lei si rifiutava di fornire spiegazioni per quel piccolo graffio, lo riteneva umiliante e, soprattutto, inutile.

Recentemente, disse, quando lui si metteva in testa una cosa non c’era modo di togliergliela. Con una procedura piuttosto inconsueta decisero di allentare la tensione dividendo la coppia: Fiammetta e Luisa sarebbero andate a mangiare una pizza fuori e Carlo sarebbe rimasto a parlare con Ilario.

Luisa avvisò il marito dell’imprevisto straordinario e sentì palpabile la perplessità: quella notte anche la gelosia avrebbe fatto gli straordinari. Ornella invece era ad Amalfi per un congresso di pediatria e non necessitava di essere avvisata. Certo, Carlo sperava in una conclusione diversa della serata piuttosto che un dialogo con Ilario Cermetti, sempre più cupamente immerso nei suoi rimuginii.

In verità  in seguito fu contentissimo di come andarono le cose: stava per assistere in diretta a qualcosa che aveva letto tante volte nei libri e che da allora mai più avrebbe dimenticato.

Ad un certo punto, la bella faccia di Ilario devastata dall’angoscia mista a rabbia si distese, ritrovò l’antica sicurezza e quasi un sorriso furbetto. Sembrò gongolarsi in questo nuovo stato per un attimo, Carlo quasi si aspettava che si leccasse soddisfatto i baffi. Poi disse “ho capito!” e si tacque rasserenato. 

Biagioli, non del tutto certo che Ilario si fosse convinto dell’infondatezza dei suoi sospetti verso la devota Fiammetta, indagò l’oggetto di questa rasserenante comprensione. D’improvviso si trovò faccia a faccia con la vera follia, quella che amava tanto.

Ma certo, argomentò Cermetti, come avevo fatto a non pensarci prima? A suo avviso, per affrontare le sfide che il nuovo millennio ormai alle soglie avrebbe posto si doveva selezionare una specie di razza superiore, lui era stato identificato come il possibile capostipite di questa nuova progenie e lo si stava sottoponendo a degli stress-test per valutare la sua capacità di resistenza mentale.

Biagioli era stato incaricato dal Cremlino e dalla Casa Bianca, solidali nel progetto “terzo millennio”, di seguire da vicino l’esperimento e di certificare l’idoneità di Cermetti per il compito a lui destinato. Le difficoltà economiche dell’azienda, il blocco del conto, la fuga di Tancredi con la cassa ed ora anche il presunto tradimento di Fiammetta erano tutti falsi. Non certo di farsi capire spiegò meglio: si trattava di una sorta di Truman Show. Anche Biagioli era al corrente di tutto ma doveva fare la sua parte fingendo ignoranza. Ilario non gliene voleva per questo, anzi, apprezzava la sua professionalità dimostratasi anche in quella circostanza.

Era del resto certo della sua valutazione positiva quando gli stress-test fossero finiti.

Alla successiva riunione di equipe generale Biagioli propose un sommario resoconto dei fatti, a placare la curiosità malevola degli altri operatori e le critiche circa l’opportunità della presa in carico del riccone del paese.

Irati e Gilda su opposte sponde, a sparare su lui e Luisa. Poi, quasi in tono didattico, tentò di dare un senso a quanto accaduto per impostare il successivo intervento terapeutico.

Ilario Cermetti aveva sempre avuto di sé una idea di essere superiore e vincente. 

Queste erano le attese su di lui fin da prima della nascita e i suoi innegabili talenti gli avevano consentito di non deluderle. Ma il poveretto, bisognava incominciare a pensarlo così per poterlo aiutare, aveva vissuto una vita infernale, al di là delle apparenze, condannato com’era ad essere sempre il primo e il migliore. Certo, era narcisista e ciò non era una colpa ma una strada per l’infelicità. 

Dentro di sé coltivava la convinzione che nessuno lo avrebbe amato se avesse deluso le grandiose aspettative, gli altri erano pronti a tradirlo, interessati soltanto alle sue cose ed al suo potere. 

Disse della libertà dei ragazzi che potevano tornare a casa con un 4 sul quaderno invece che sempre necessariamente con 10 e lode.

Immaginò le angosce di quando, fermo ai bordi del campo dove gli altri giocavano a pallone, si accorgeva di uno schizzo di fango sui pantaloncini principe di Galles e sui mocassini splendenti e inadatti a correre.

Tratteggiò, quasi fosse stato presente, serate in macchina in cui cercava di intrufolarsi tra i vestiti della festa scelti dalla candidata di turno al trono dei Cermetti e immaginava i fantasmi di aspiranti suocere che, di là dai finestrini appannati, incoraggiavano le loro figlie a dare il meglio e non lasciarsi sfuggire l’occasione.

Rivalutò le libere pratiche onanistiche sue e degli altri ragazzi normali.

Gli assistenti sociali Giovanni Brugnoli e Silvia Ciari lo misero in guardia verso un revisionismo buonista che dimenticasse quanto i Cermetti avessero accumulato approfittandosi degli operai.

Irati concluse che quello non era un tribunale del popolo che doveva giudicare, ma un CIM che doveva aiutare le anime dolenti. Ora che delirava, Ilario Cermetti apparteneva a questa schiera e tanto bastava per mettercela tutta.

La terapia farmacologica ormai virata sui neurolettici avrebbe continuato a seguirla lui col proposito di ridurla progressivamente all’istaurarsi di una buona relazione terapeutica con la dottoressa Filata, la più stimata psicologa del servizio.

Proprio Maria Filata si raccomandò di tenere il segreto professionale con il massimo riserbo sia per la notorietà del personaggio, sia per la sua tendenza paranoide che avrebbe facilmente fatto saltare la relazione terapeutica.

Giovanni e Silvia, evidentemente irritati, dissero che tale raccomandazione era ovviamente inutile e segno di un trattamento privilegiato, in altri casi non si sarebbe detto nulla.

Il crepitare della ghiaia del cortile sotto le ruote della Panda dell’ufficio del personale che portava le buste paghe segnò la conclusione della riunione.

Biagioli, mentre si dirigeva al bar, fu fermato da Adriano, il sempre sorridente marito di Luisa Tigli che voleva rassicurazioni sul non ripetersi di frequente di nottate intere di servizio, anche se si rendeva conto che il lavoro è lavoro e che, oggi, ad avercelo non ci si può certo lamentare.

Biagioli gli offrì il caffè pensando che anche per le corna tutto dipende da come le si portano.

Una vocina dentro di sé gli disse che avrebbe dovuto smettere ma, da esperto psichiatra, si risolse di non dar retta alle voci, quali che fossero.

Il successo della terapia con Ilario fu suggellato dalla donazione dei locali del magazzino della “Cermetti Sanitari s.r.l.”, adiacenti alla stazione alla ASL, perché vi avviasse le attività il Centro Diurno psichiatrico.

Sarebbe bello poter dire che con la vendita della Ferrari nera furono acquistati tre pulmini per il centro diurno, ma non è vero.

Ilario vive nella sua stupenda villa fra mille agi e gli operai sono a turno in cassa integrazione. E questo, dà motivo di esistere a meravigliosi comunisti sempre arrabbiati come Silvia Ciari, Giovanni e soprattutto Maria detta Gilda, l’unica che non avrebbe bisogno dell’ideologia per esserlo.

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Lavoro: Tedeschi e Americani a confronto. Psicologia Crossculturale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati dello studio evidenziano che i soggetti di cultura tedesca si focalizzano principalmente sugli aspetti di analisi del problema, mentre gli individui americani rispetto ai tedeschi sarebbero maggiormente propensi a individuare precocemente possibili soluzioni al problema.

Le differenze cross-culturali sono da sempre particolarmente acute e presenti e ben evidenti a chi lavora in gruppi multinazionali dove all’interno dello stesso team coesistono individui di diverse culture. E tale fenomeno non è che destinato ad aumentare.

Un nuovo studio si è posto lo scopo di analizzare in che modo diversi modelli culturali all’interno dello stesso team di lavoro possano influenzare gli  atteggiamenti e i comportamenti in ambito lavorativo. In particolare i ricercatori si sono focalizzati sulle differenze cross-culturali nello svolgimento di alcuni meeting lavorativi confrontando individui di cultura tedesca e americana.

Lo studio ha coinvolto studenti universitari riuniti in gruppi di cinque persone della medesima cultura (omogenei dal punto di vista culturale) e cui è stato chiesto di impegnarsi in un compito di problem-solving condiviso che richiedeva il raggiungimento di un accordo rispetto alla soluzione da proporre.

I risultati dello studio evidenziano che i soggetti di cultura tedesca si focalizzano principalmente sugli aspetti di analisi del problema, mentre gli individui americani rispetto ai tedeschi sarebbero maggiormente propensi a individuare precocemente possibili soluzioni al problema.

Nello specifico per i tedeschi sembra essenziale occuparsi di recuperare le informazioni mancanti a una analisi completa ed esaustiva della situazione problematica. Inoltre, rispetto ai gruppi di americani i team tedeschi riflettono in modo più critico sulle questioni procedurali nell’affrontare l’analisi e la soluzione del problema in termini di modalità di gestione dei meeting e di modalità stessa di pensare e considerare i diversi aspetti della situazione problematica (quasi avessero una maggiore attenzione agli aspetti metacognitivi).

In linea con il proprio modello culturale, invece, gli americani più frequentemente sottolineano e rinforzano gli aspetti e gli step positivi intermedi cui si giunge durante il lavoro di team.

Dunque tali differenze tra studenti americani e tedeschi nel lavoro di team riflettono diverse pratiche cognitive e comunicative insite in ciascun modello culturale.

Gli assi cui si fa riferimento rimandano all’evitamento dell’incertezza (i tedeschi desiderano maggiori informazioni cercando di saturare il più possibile la quota di incertezza prima di prendere una decisione); oltre che si ritiene sia più che socialmente accettabile parlare criticamente di come le proprie menti siano portate ad analizzare e affrontare i problemi. D’altro canto gli americani sarebbero meno spaventati dall’incertezza durante la fase analitica ma più tesi a trovare soluzioni immediate anche se con una parziale e incerta analisi del problema.

Inevitabile l’impatto applicativo di tali evidenze nelle situazioni lavorative in cui training cross-culturali su questi aspetti potrebbero dare una più ampia spiegazione e maggiori strategie di coping nell’affrontare meeting tra soggetti cross-culturali in cui le tensioni possono poi insinuarsi – spesso con scarsa consapevolezza- in tali fenomeni cognitivi e comunicativi cross-culturali.

 

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Tulpa – Perdizioni mortali (2012) di Federico Zampaglione – Recensione

 

 

 

Tulpa–Perdizioni mortali

(2012) di Federico Zampaglione

 

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Tulpa Perdizioni mortaliTulpa – Perdizioni mortali è un film di Federico Zampaglione, ex leader dei Tiromancino; è il suo terzo lavoro, ultimo nato dal filone giallo horror inaugurato dalla pellicola “Shadow”.

Un conflitto senza vittima tra due personalità. Un riflettore acceso sugli errori, sugli orrori e, perché no, sulle scelte dettate da un inconscio che prende il sopravvento. Uno spaccato sulla realtà del sadomasochismo. Uno scontro tra due verità, o fra due finzioni? Questa, l’essenza, e forse anche l’interrogativo, che ci consegna Federico Zampaglione, ex leader dei Tiromancino, con il suo terzo lavoro, ultimo nato dal filone giallo horror inaugurato dalla pellicola “Shadow”.

La trama, tratta dalle storie del nostro tempo, si sviluppa attorno alla doppia vita di Lisa Boeri, affermata manager, morbosamente coinvolta in un’esistenza parallela, tessuta sulle maglie del sesso estremo. Spiazzante, per l’occhio dello spettatore più tradizionale, è lo scindersi – a tratti persino psicotico, e comunque privo di sfumature o di mezze misure – tra le due contrapposte personalità della protagonista, istrionica nel mutare, a stretto giro, trucco, abbigliamento, sguardo e movenze.

È questione di attimi, e Lisa, smessa l’identità di donna rigorosa, avvolta da impeccabili tailleur, scivola senza inibizioni in trasgressivi incontri notturni con sconosciuti, quasi ad esorcizzare, abbandonandosi ad i suoi istinti, quella solitudine che nel quotidiano lavorativo la avvolge. Una solitudine voluta, scelta, abilmente difesa dagli approcci (amichevoli? sentimentali?) del suo capo (Michele Placido).

Una solitudine sconvolta, però, da una serie di omicidi brutali. Vittime, i clienti – mascherati, ed obbligati dal regolamento all’anonimato più assoluto – dell’esclusivo “Tulpa”, club notturno gestito da un inquietante Khiran, guru tibetano interpretato dal noto Nuot Arquint (già “presente”, nella parte del malvagio, in Shadow). Nel mistico locale, teatro di orge, di passione fluida, forte, intensa, che coinvolge le menti, oltre che i corpi dei partecipanti, il sesso si consuma fra arredi e tendaggi tinti di rosso intenso e di nero. Colori predominanti che si mescoleranno – con una crudeltà espositiva degna di un genere splatter-horror – nel rosso sangue, che vedremo scorrere fluido a più riprese.

È così che, tra efferate scene di mutilazioni, ed asettiche riprese negli uffici direzionali dove svolge i suoi affari, Lisa si affannerà in una disperata corsa contro il tempo, tesa alla scoperta dell’identità del mostro, dal passo felpato e armato ogni volta di nuove e crudeli armi bianche. Il look dell’assassino? In omaggio ai grandi maestri del brivido (Dario Argento), è quello tratto dalla più classica tradizione cinematografica (Profondo Rosso): mantello, guanti e cappello, rigorosamente neri. Il tentativo – come del resto afferma lo stesso Zampaglione – è quello di riportare sul grande schermo il film giallo, spesso relegato ai margini della produzione cinematografica italiana, nonostante i prestigiosi trascorsi che la nostra tradizione può vantare.

Tentativo già ben riuscito, va detto, con la sua prima pellicola horror. Con Tulpa, però, il regista si è spinto oltre. “Credo di aver totalmente spiazzato il pubblico” – afferma – “nessuno si aspettava dopo l’elegante Shadow, un giallo così estremo, sporco e senza alcuna regola”.

Un cinema di sangue, che Zampaglione, peraltro, contestualizza, narrando – senza intento di critica, né di giudizio morale – di una società perversa, presa dagli affari e dal potere, in competizione con tutti e con tutto, sorda ed indifferente alle più basilari esigenze, anche di benessere. Così, in fondo, si finisce per farsi del male (o per assecondare la propria indole?), per rischiare, per mettersi alla prova. Ma è così che, a volte, si finisce anche per restare uccisi. Azzardo ipotizzare che il soggetto cinematografico affondi le basi sulla filosofia tibetana – secondo la quale il libero sfogo delle proprie fantasie consentirebbe la materializzazione/visualizzazione del Tulpa, inteso come intima essenza dell’essere umano – proprio per porre l’accento sulla voce della psiche, spesso inascoltata o imbavagliata dalle regole, dal buon senso e dall’etica.

Rammarica annotare, tuttavia, come di tale trascendentalità (evocata persino dal titolo) vi siano flebili “tracce” nel lavoro, affatto onirico o soprannaturale, se non in isolati passaggi. Semina perplessità, a mio avviso, anche la sporadicità (quasi assenza) di imput indiziari, essenziale per un più vivo coinvolgimento dello spettatore nella dinamica giallo-poliziesca del film.

Da apprezzare, invece, sia la semplicità della ripresa – la pellicola viene girata, quasi per intero, con la macchina a mano – che il mancato ricorso a sofisticati effetti speciali. Il digitale, in questo caso, cede il passo al talento del regista, abile nel creare, persino nell’asettica scenografia dell’Eur (ma forse era sua sfida personale, senz’altro superata) una suspence tale da spezzare il respiro. E per restare ancora senza fiato, non ci resta che attendere il suo prossimo lavoro. Chissà se intreccerà di nuovo il noir a temi sociali scottanti? Probabilmente si, almeno da quanto sembra trapelare da una sua recente intervista. “Il genere umano” – afferma Zampaglione – “sta diventando sempre più perverso e morboso. Forse esplorare il Crystal Meth sarebbe interessante: è una droga terribile che ti trasforma fisicamente in mostro”.

Staremo a vedere. E nell’attesa, potremo domandarci…. la vera indole di Lisa è quella che si cela nel tailleur, o quelle che si libera in intimo hot? O forse entrambe? E se in Lisa convivessero due donne, quali sarebbero le scelte davvero coscienti intraprese dall’una e dall’altra? E ancora, cosa accadrebbe se il suo “Tulpa” prendesse il sopravvento e il gioco erotico degenerasse in omicidio? Quali i risvolti penali e giuridici della questione?

Al fenomeno del sesso estremo, sarà dedicata la prossima puntata della mia Rubrica “Psiche&Legge”.

 

 

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Basket: la “Mano Calda” non è leggenda! – Psicologia dello Sport

Un Articolo di Massimo Amabili e Benjamin Gallinaro. Introduzione di Domenico Marchese, giornalista sportivo e Responsabile Comunicazione della PMS Basketball Torino.

SLIDE Ronald Steele - Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino

La Mano Calda

“Mano calda”. “He’s on fire”. Metafore che riconducono gli appassionati di pallacanestro allo stato di grazia che vive occasionalmente un tiratore. Una sensazione che ho avuto la fortuna di vivere in prima persona, nonostante l’infimo livello in cui mi sono cimentato nella mia poco gloriosa carriera agonistica, ma soprattutto di raccontare, grazie al mestiere di cronista sportivo, termine ormai in disuso ma che ha sempre un fascino nobile e antico. Quando la vivi da giocatore la sensazione è realmente di “calore”: parte dai piedi (tutti i cestisti sanno che il tiro nasce in basso per poi concludere la sua catena cinetica con la frustata di polso) e pervade tutto il corpo. Gli avversari che si frappongono con le braccia alte per ostacolare il tiro sono uno stimolo ulteriore, quasi un aiuto per disegnare la parabola di tiro perfetta. In quel momento potresti segnare anche dagli spogliatoi, il calore emanato è percepito dai compagni di squadra, che ti cercano in attacco con continuità, dagli avversari, che si “incollano” fisicamente per evitare ogni tuo movimento. Ma soprattutto è percepito da te stesso: ed è una sensazione bellissima, quello per cui ci si allena ogni giorno, a qualsiasi livello.

Molto emozionante anche raccontare le “strisce” offensive, le “mani calde” di un tiratore: perché la legge dei grandi numeri e la difficoltà di questo splendido sport vengono stravolte. Tiro dopo tiro, la mente aspetta un errore, lo “sdeng” del ferro, una stoppata del difensore. Pensi che “non può segnare ancora”, ma gli occhi assistono quasi ad un miracolo e la reazione è, nella maggior parte dei casi, una risata quasi isterica.

In questa stagione di alti e bassi vissuta dalla PMS Torino ho avuto la fortuna di vivere positivamente un “man on fire”, ma anche di subirne uno. Ed in entrambi i casi si è trattato di atleti statunitensi. Il primo è stato Ronald Steele, che contro Verona ha concluso quella che in gergo si chiama “partita perfetta”: 40’ senza sbagliare una sola conclusione, da lontano o da vicino, da 3 punti o dalla lunetta. Un compito che diventa più difficile tiro dopo tiro, per le attese del pubblico e l’attenzione della difesa nel cercare di annullare l’avversario.

Nel secondo caso la guardia americana Brett Blizzard ha rappresentato al meglio lo stato di grazia di chi ha la “mano calda”: trentadue minuti sonnecchiando, svolgendo il suo “compitino” nonostante la sua carriera da grande tiratore. Per poi accendersi nell’ultima parte di gara, spingendo Veroli alla vittoria contro Torino: 14 punti degli ultimi 17 dei ciociari sono stati realizzati da questo fromboliere, che ha anche segnato l’ultimo tiro da 3 punti per il 73-72 finale, sulla sirena e con un marcatore di 20 centimetri più alto che lo ostacolava. Paradossale che la “mano calda” fosse quella di Blizzard. Che ha gelato le speranze di vittoria con il calore della sua mano…

 

 

PMS Basketball Torino - Ronald Steele al tiro da 3 punti. - Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino
Ronald Steele – Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino

Gli appassionati di sport in generale e di basket in particolare, sanno che il giocatore con la “mano calda” è quello che, avendo messo a segno tre, quattro tiri consecutivi a canestro, accentra le aspettative di tifosi e compagni e i timori degli avversari, che anche il suo prossimo tiro avrà molte chances di successo.

Per quasi trent’anni, da Gilovich, Vallone, Tversky (1985) a Bar-Eli et al. (2013), la letteratura accademica ha considerato questo aspetto un fenomeno fallace, basato sull’euristica della rappresentatività (Kahneman e Tversky, 1971). L’assunto su cui si poggia tale punto di vista è che la scelta della tipologia di tiro da parte del giocatore è indipendente dalla percezione della propria “mano calda” o meno.

Il primo studio che ha cercato di rispondere a questa domanda è stata condotto da Thomas Gilovich, Robert Vallone , e Amos Tversky nel 1985 . In questo lavoro, gli autori hanno analizzato una serie di tiri di giocatori del Philadelphia 76ers , alla ricerca di una correlazione positiva tra tiri successivi , senza trovarne .

Essi hanno inoltre analizzato una serie di tiri liberi da parte delle squadre di basket maschili e femminili dei Boston Celtics e dei Cornell, senza trovare evidenza di correlazione seriale . Studi successivi , tra cui Adams , 1992; Koehler e Conley , 2003; Bar- Eli , Avugos e Raab , 2006 e Rao 2009 hanno confermato questa conclusione.

Oggi , per la popolazione accademica, la mano calda è quasi universalmente considerato un “fenomeno illusorio”. Eppure , tra i giocatori e gli appassionati di basket, la mano calda è un mito che si rifiuta di morire . I giocatori professionisti stessi hanno riferito la sensazione del “quasi non poter mancare il tiro“, dopo averne messi a segno diversi di fila ( Kahneman e Tversky , 1971) . Le azioni dei giocatori confermano questa descrizione, anche se la difficoltà del tiro tendeva ad aumentare dopo averne messi a segno una serie.( Rao , 2009 ) .

PMS Basketball Torino Ogni giocatore ha un repertorio di tiri che variano in base alla difficoltà della situazione di gioco (per esempio la distanza dal canestro o il pressing della difesa), e ogni tiro viene selezionato casualmente dal repertorio individuale” (Gilovich, Vallone e Tversky, 1985)

Una recente ricerca condotta da Andrew Bocskocsky, John Ezekowitz, and Carolyn Stein della Harvard University di Cambridge , ha utilizzato un nuovo set di dati , forniti dal monitoraggio delle telecamere SportVU della STATS, Inc. Questo set di dati è costituito da oltre 83.000 tentativi di tiro della stagione 2012-2013 NBA . Sintetizzando questo insieme di dati , è stato possibile studiare e conoscere quasi tutte le caratteristiche rilevanti del gesto tecnico del tiro nell momento in cui veniva effettuato.

Questo ha consentito di indagare le seguenti due questioni : in primo luogo, i giocatori (sia attaccanti che difensori) credono nella mano calda , come dimostrano le loro scelte di gioco ? E in secondo luogo , se controlliamo la variabile difficoltà del tiro , emergerà l’ effetto Hot Hand?

Gli studiosi hanno mostrato che i giocatori che percepiscono di avere la mano calda in base ai precedenti risultati, s’incaricano di sparare tiri da distanze significativamente più lontane, e di fronte alla difesa più stretta , sono più propensi a prendersi ulteriori tiri per la loro squadra , a incaricarsi dei tiri più difficili. Questi risultati invalidano l’assunto di indipendenza (o casualità) nella selezione del colpo.

Per stimare questa distorsione , gli autori hanno creato un modello globale di difficoltà del tiro che dipende dalle condizioni stesse del tiro nel momento in cui viene effettuato . Queste condizioni includono variabili rilevanti per la situazione di gioco, la posizione del tiro, e le posizioni dei difensori. Successivamente, hanno stabilito una misura del “calore”, che riflette la misura in cui un giocatore ha sovraperformato i suoi ultimi tiri, tenendo presente quanto fossero difficili.

Avendo sia una misura della difficoltà del tiro, sia una misura del calore della mano, i ricercatori hanno trovato un modo per testare la hot hand, monitorando la difficoltà del tiro. I risultati di questo test suggeriscono che una volta tenuta sotto controllo la variabile dipendente selezione del tiro , ci può essere un piccolo ma significativo effetto Hot Hand .

Dati empirici preliminari

STATS Inc. ha introdotto il sistema di tracciamento ottico di SportVU nella NBA nel 2010. Il sistema utilizza sei telecamere, tre su ogni lato del campo, che forniscono precise immagini tridimensionali dei giocatori, degli arbitri, e della palla ogni 25esimo di secondo. Il dataset dei ricercatori è costituito da ogni partita giocata alle 15 nelle SportVU arene attrezzate nella stagione regolare 2012-2013.

E’ stato creato un registro di tiro che sintetizza i dati di tracciamento ottico di SportVU e i dati play-by-play dalla NBA per creare una solida caratterizzazione di ogni tiro. Per ognuno di essi sono state prese informazioni sul giocatore che ha effettuato il tiro, il tipo di tiro effettuato, il tempo e il punteggio al momento del tiro. Dai dati di monitoraggio ottici, si otteneva anche la posizione esatta della palla e di tutti i dieci giocatori, sia attaccanti che difensori, sul campo.

Previsione della difficoltà del tiro

 

Utilizzando tali dati, gli studiosi hanno stimato un modello che predice la difficoltà di ogni tiro per il giocatore che lo esegue, basato su quattro grandi categorie di determinanti la difficoltà del tiro: controllo della situazione di gioco, controllo del tiro, controllo della difesa e Effetti fissi del giocatore.

Per Controllo di gioco, hanno inteso il tempo di gioco restante e la differenza di punteggio tra le squadre per spiegare le differenze di pressione che gravano sul giocatore che effettua un tiro, l’affaticamento del giocatore e lo sforzo fisico per tutti i tiri effettuati. Per Controllo del tiro, hanno inteso la distanza precisa dal cestello di ogni tiro e la sua categorizzazione play- by-play (cioè, terzo tempo, schiacciata, ecc.) , per stimare la difficoltà del tiro .

Il costrutto di Controllo della Difesa è stato ideato per misurare l’intensità difensiva . Utilizzando i dati SportVU , sono stati in grado di determinare e utilizzare sia la distanza assoluta tra le riprese del giocatore tiratore e il difensore più vicino, sia l’angolo di quel difensore rispetto alla linea retta che va dal tiratore al canestro. Hanno anche tenuto conto della differenza di altezza tra il difensore più vicino e il tiratore, per misurare quanto incideva questa differenza. Infine il costrutto Effetti fissi del giocatore è stato impiegato per controllare le differenze tra i giocatori. Se Kevin Durant e Tyson Chandler effettuano due tiri identici, i due gesti tecnici probabilmente hanno diverse somiglianze di esecuzione. Tale costrutto ha permesso di cogliere eventuali differenze.

Conclusioni

Dopo trent’anni di conferme empiriche che identificano la “Hot Hand” come un esempio di fallacia della mente umana, lo studio di Bocskosky, Ezekowitz e Stein riesce a confutare l’assunto su cui regge tale convinzione, ovvero che la scelta del tipo di tiro sia indipendente dalla percezione di “mano calda”.

Grazie ai dati ricavati dall’optical tracking di SportVU si nota, infatti, che i giocatori che sono riusciti a compiere una performance particolarmente brillante, mettendo a segno più tiri consecutivi rispetto ai loro standard, tendono a provare ad andare nuovamente a segno, con coefficienti di tiro più difficili. Come osservato, anche controllando la variabile dipendente rappresentata dalla selezione del tiro, emerge un piccolo ma significativo effetto Hot Hand.

Questi risultati possono riaprire il dibattito, che sembrava ormai a senso unico, sulla reale consistenza di quello che sembrava ormai solo un mito del mondo del basket, ovvero l’effetto Hot Hand. Conoscere i meccanismi con i quali i giocatori reagiscono alla percezione di questo fenomeno, può fornire un elementi preziosi per mettere a punto differenti e più efficaci strategie sia a livello di squadra che di singolo giocatore.

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Gli adolescenti antisociali hanno mostrato meno attivazione rispetto al gruppo di controllo nella giunzione temporoparietale e nel giro frontale inferiore . Queste aree del cervello sono responsabili di funzioni come “mettersi nei panni di un altro” e il controllo degli impulsi.

Gli adolescenti con disturbo antisociale di personalità infliggono gravi danni fisici e psicologici a se stessi e gli altri. Tuttavia, poco si sa ancora sui processi neurali sottostanti.

I ricercatori dell’Università di Leiden e del Max Planck Institute for Human Development hanno individuato una possibile spiegazione: le aree cerebrali responsabili della elaborazione delle informazioni sociali e del controllo degli impulsi sono meno sviluppate del normale.

Lo studio si è concentrato su detenuti adolescenti di età compresa tra i 15 e i 21 anni dei Paesi Bassi, che avevano ricevuto una diagnosi di disturbo di personalità antisociale.

I ricercatori hanno chiesto agli adolescenti di giocare a mini-ultimatum, un gioco cooperativo che simula considerazioni sull’equità, in cui al giocatore viene offerta una somma di denaro da un altro giocatore. Al giocatore viene anche detto che l’avversario potrebbe aver fatto un’offerta equa o che non aveva alternative. L’attività cerebrale durante la partita è stata misurata utilizzando la risonanza magnetica funzionale ( fMRI ) . Confrontando i risultati con quelli di un gruppo di controllo di adolescenti non delinquenti , i ricercatori sono stati in grado di determinare ciò che stava accadendo nei cervelli dei partecipanti nel contesto di considerazioni di equità .

Gli adolescenti antisociali hanno mostrato meno attivazione rispetto al gruppo di controllo nella giunzione temporoparietale e nel giro frontale inferiore . Queste aree del cervello sono responsabili di funzioni come “mettersi nei panni di un altro” e il controllo degli impulsi.

In entrambi i gruppi i ricercatori hanno osservato livelli simili di attivazione della corteccia cingolata anteriore dorsale e della insula anteriore – le aree del cervello associate ai processi affettivi .

I risultati indicano che , sebbene entrambi i gruppi mostravano gli stessi livelli di reattività emozionale in risposta a offerte inique , gli adolescenti delinquenti hanno rifiutato queste offerte più spesso. In contrasto con il gruppo di controllo, gli adolescenti antisociali non hanno tenuto conto delle intenzioni dell’avversario o del fatto che non avesse alternative.

Gli adolescenti con disturbo antisociale di personalità sembrano quindi avere difficoltà a prendere in considerazione tutte le informazioni pertinenti nelle interazioni sociali, come le intenzioni delle altre persone. I ricercatori ipotizzano che questo incrementi il comportamento antisociale e sperano che le loro scoperte aiuteranno a lo sviluppo di trattamenti psicoterapeutici adeguati.

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Ciò che mi nutre mi distrugge – Documentario – Recensione

Maurizio Brasini

 

CIò CHE MI NUTRE MI DISTRUGGELa sfida ulteriore, dopo averci invitati nella stanza della terapia, è di farci assistere con un senso di partecipe normalità; in effetti, dentro la stanza incontriamo persone simili a noi che insieme affrontano temi di vita che ci accomunano a loro.

Ci sembra di esserci già stati, in quei luoghi, ci sembra che quelle quattro storie siano una storia sola, che parli anche a noi e non soltanto: che parli anche di noi.

Ciò che mi nutre mi distrugge (Quod me nutrit me destruit)” è un documentario di Raffaele Brunetti e Ilaria De Laurentiis, interamente girato nel Comprensorio di Santa Maria della Pietà, all’interno dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale “Disturbi del Comportamento Alimentare” della ASL Roma E, diretta dal dr. Armando Cotugno, ideatore del progetto.

Il documentario racconta un anno del percorso terapeutico di quattro donne affette da disturbi del comportamento alimentare. Tra i numerosi elementi di pregio di questo documentario, uno in particolare mi ha colpito: a mio avviso, attraverso quest’opera si dimostra, con pacata efficacia, che la sofferenza non è un fatto privato.

E’ nota la storia di come nella nostra cultura il dolore e la sofferenza siano diventati istituzionalmente una faccenda privata: si parte dalle pratiche rituali di guarigione collettive per approdare al patto di “privatezza” (privacy) che fa da presupposto alla relazione tra terapeuta e paziente. Questa è la prassi che dà forma alla nostra esperienza, fino a diventare un’abitudine di pensiero.

Ebbene, “Ciò che mi nutre mi distrugge” sovverte questa prospettiva già nelle premesse, dal momento in cui un terapeuta ed una paziente, di comune accordo, invitano nella stanza della terapia il pubblico. Mi rendo conto che solo assistendo alla proiezione in una sala cinematografica, presenti autori e protagonisti, ho avuto la giusta misura di quanto coraggio richiedesse un’operazione simile.

Dentro la stanza della terapia le persone si espongono, sono fragili; sono, con le parole di una delle protagoniste del documentario, umane. Dentro quella stanza è rischioso invitare un pubblico profano, abituato a quella ormai diffusa spettacolarizzazione della sofferenza che è conseguenza nefasta della sua privatizzazione (perché è legge di mercato che ogni cosa privatizzata si presti ad essere poi sfruttata a fini commerciali).

La sfida ulteriore, dopo averci invitati nella stanza della terapia, è di farci assistere con un senso di partecipe normalità; in effetti, dentro la stanza incontriamo persone simili a noi che insieme affrontano temi di vita che ci accomunano a loro. Ci sembra di esserci già stati, in quei luoghi, ci sembra che quelle quattro storie siano una storia sola, che parli anche a noi e non soltanto: che parli anche di noi.

La speranza è che questo documentario venga distribuito nelle sale, che la gente possa vederlo in contesti collettivi, perché quello che accade somiglia ad uno di quei classici esperimenti di psicologia sociale, dove basta creare le condizioni favorevoli e tutti fanno la cosa giusta. Personalmente, da qualche giorno nella stanza del mio studio privato non posso fare a meno di tenere aperta una finestra.

 

Per maggiori informazioni

www.ciocheminutremidistrugge.com.

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Dentro il camice bianco di Giuseppina Majani – Recensione

 

Dentro il camice bianco

(2013) di Giuseppina Majani

 

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Dentro il camice biancoDentro il camice bianco: la bellezza del curare è – o dovrebbe essere – un concetto familiare a tutti coloro che vogliono lavorare in ambito sanitario. Eppure è un concetto tutt’altro che scontato: presenta delle sfumature, delle contraddizioni, che questo libro analizza in maniera garbata e acuta. Giuseppina Majani approfondisce in modo originale il tema del prendersi cura, del paziente e del medico.

Ti diranno che per fare bene il medico devi essere molto preparato e studiare tanto, capire la statistica, parlare inglese, saper padroneggiare la tecnologia, muoverti bene in economia sanitaria. Tutto vero. Ti sentirai dire che è emozionante fare una diagnosi corretta e bellissimo ricevere la gratitudine di un paziente guarito. Tutto vero. Ma quando ti sentirai bucare dagli occhi di un uomo o una donna a cui devi dire che non arriverà a Natale, o che non ci arriverà suo figlio o sua madre, o sua moglie o marito, e se ci arriva non sarà comunque mai più come prima, niente di quello che sai ti farà sentire meno piccolo, meno solo, meno inutile. Lì, in quello spazio e in quel momento, ci sarà solo quello che tu sei. Ci sarà la tua storia, la tua umanità. Io ti auguro di avere paura, e di aver voglia di scappare, perché vorrà dire che sei lì, che non sei già scappato. Questo ti auguro: di uscire dal tuo ospedale o dal tuo ambulatorio sentendo sulla pelle la bellezza del benessere che riesci a restituire, e la verità bruciante del male che non puoi guarire, con pari dignità e pari umiltà. Non importa se dalla gioia della gratitudine o da occhi che verranno a bucarti: fatti comunque trovare. Questo libro è per te che hai deciso di essere un medico. Di stare dentro il tuo camice. Costi quel che costi.

Giuseppina Majani, psicologa psicoterapeuta cognitivo comportamentale e dirigente del Servizio di Psicologia dell’Istituto Scientifico di Montescano (PV) della Fondazione Maugeri, ha voluto raccogliere in questo manuale le riflessioni maturate in anni di esercizio della professione, una professione che ha permesso di guardare attentamente i personaggi che si alternano e che si relazionano nell’ambito di un’azienda ospedaliera che ha come obiettivo la cura e la riabilitazione del paziente. L’esperienza diretta dell’Autrice, consiste nell’osservazione dei suoi pazienti, ma non solo; preziose sono le occasioni quotidiane di scambio con le figure professionali che si occupano dei pazienti, in particolare medici, e acute sono le esplorazioni delle dinamiche relazionali tra il paziente, preoccupato, speranzoso e solo, e il suo medico, anche lui spesso preoccupato, speranzoso e solo.

Il libro si apre con un quesito apparentemente semplice, ma intrinsecamente complesso: perché vuoi fare il medico?

Le osservazioni personali della Dr.ssa Majani, avvalorate dalla letteratura scientifica, aprono numerosi spazi di riflessione sul tema della scelta professionale. Un contributo innovativo in Italia, dove al 2013 il percorso di Laurea in Medicina prevede pochi spazi dedicati alla formazione psicologica del professionista. L’Autrice passa in rassegna i rischi correlati a tale mancanza, non limitandosi tuttavia a rivolgersi a chi deve ancora intraprendere il percorso di laurea in Medicina e Chirurgia, ma anche a tutti quei professionisti che già si trovano ‘dentro il camice bianco’.

Nel libro si può apprendere ad esempio come un’alta percentuale di medici oggi non metta in pratica molti dei consigli che offre ai pazienti in tema di prevenzione primaria e secondaria. E allora il quesito per il futuro medico è il seguente: come sei messo, quanto a cura di te? “Se ad un certo punto della tua formazione il disagio psicologico si fa avvertibile e inizia a darti fastidio, la cosa peggiore che tu possa fare è imbottigliarlo e far finta di niente, aspettando che passi da solo” – si legge nel testo – “…questo atteggiamento, molto diffuso, nasce dalla tendenza a considerare il malessere psicologico come un segno di debolezza che va tenuto nascosto perché non rovini la tua credibilità di studente oggi e di medico domani”.

Il libro apre infine uno spazio di riflessione interessante su chi sia il paziente. Molti sono i contributi scientifici e i modelli di riferimento illustrati nel libro che possono arricchire la professionalità del medico e delle figure sanitarie in genere. Inevitabile pensare ai pazienti che si è incontrato. Forse troppo concentrati sulla tecnica o forse troppo insicuri e impacciati, si è dimenticata la bellezza della persona che si aveva di fronte.

Da questa piacevole lettura emerge un insegnamento prezioso per il medico e per tutte le persone che nella vita vogliono lavorare a stretto contatto con i pazienti: “E abbi cura di te, perché parte tutto da lì”.

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La diversità non porta necessariamente la gente ad assumere un atteggiamento difensivo, ma consente anche di aprirsi e può essere un occasione di coinvolgimento con l’altro, con persone di etnie diverse dalla propria.

Negli ultimi 50 anni la diversità socio-culturale di molti quartieri delle città europee è aumentata. Come reagisce ai cambiamenti chi vive in questi quartieri ? Una maggiore integrazione promuove maggiori contatti e fiducia tra i gruppi?

Un recente studio pubblicato su Psychological Science ha cercato di rispondere a queste domande esaminando più di 1.500 persone in 224 quartieri di tutta l’Inghilterra.

Circa la metà dei partecipanti (la maggioranza del campione) erano inglesi caucasici, mentre l’altra metà era composta da minoranze etniche provenienti da quartieri con diversi gradi di diversità.

I ricercatori hanno cercato di capire come la diversità ha influenzato la fiducia tra i gruppi, la fiducia nel prossimo e l’atteggiamento complessivo verso i membri non appartenenti al proprio gruppo.

Tra gli individui del campione di minoranza etnica, una maggiore diversità socio-culturale non è stata collegata con atteggiamenti positivi o negativi verso la maggioranza britannica caucasica. In altre parole, il livello di diversità in un quartiere non sembra essere correlato agli atteggiamenti individuali della minoranza etnica rispetto ai vicini o alla maggioranza britannica.

Inoltre per quanto riguarda la maggioranza caucasica, nonostante le risposte di questo gruppo fossero eterogenee, una maggiore diversità è stata associata complessivamente con fiducia e atteggiamenti positivi, ma in modo indiretto: maggiore diversità promuove il contatto e l’interazione tra i gruppi, e maggiore contatto ha portato a una minore percezione della minaccia.

Questo studio, che fino ad oggi è il più grande e completo del suo genere, si aggiunge alle ricerche precedenti, dimostrando che gli effetti indiretti di contatto e di minaccia percepita possono svolgere un ruolo significativo nei livelli generali di fiducia tra i gruppi.

Complessivamente i risultati indicano che la diversità non porta necessariamente la gente ad assumere un atteggiamento difensivo, ma consente anche di aprirsi e può essere un occasione di coinvolgimento con altri di etnie diverse dalla propria.

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Sonno e rischio di suicidio in un campione di adolescenti europei.

Andrea Ballesio.

 

 

Insonnia e rischio di suicidio. - Immagine: ©-karuka-Fotolia.comInsonnia e problemi di sonno sono comuni in moltissime forme di psicopatologia in cui è alto il rischio di suicidio, primi tra tutti i disturbi dell’umore. Un recente studio statunitense ha riscontrato un’associazione tra problemi di sonno e ideazione, programmazione e tentativi di suicidio in un campione di oltre 5000 persone.

Una recente metanalisi ha indicato come l’insonnia possa essere predittiva di depressione (Baglioni et al., 2011). Sulla base di queste evidenze, Sarchiapone e colleghi (2014), hanno indagato la relazione tra ore di sonno e alcuni outcome cognitivi, emotivi e comportamentali, compresi l’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio.

Il campione analizzato è costituito da 12.395 adolescenti provenienti da Austria, Estonia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Israele, Italia, Romania, Slovenia e Spagna.

Sono state somministrate una scala di misurazione dell’ansia (Zung Self-rating Scale), una scala di valutazione dell’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio nelle due settimane precedenti la somministrazione (Paykel Suicidal Scale), ed una scala di valutazione di problemi emotivi, relazione tra pari, comportamenti prosociali, problemi di condotta e sintomi di inattenzione/iperattività (Strenghts and Difficulties Questionnaire).

I risultati della ricerca mostrano che le ore di sonno sono inversamente correlate alle variabili di ideazione suicidaria, ansia, problemi emotivi, di condotta e di relazione tra pari.

Inoltre, relazione tra ore di sonno e ideazione suicidaria rimane significativa anche tenendo sotto controllo l’ansia e i problemi dell’umore. Alla luce delle evidenze emerse, appare sempre più importante promuovere il trattamento dell’insonnia e dei problemi di sonno anche come strumento di prevenzione del suicidio e di disturbi dell’umore.

 

 

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La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento

 

La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento. - Immagine: © Ogerepus - Fotolia.comPattern disorganizzati:La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento e della psicopatologia borderline.

Tra i differenti pattern di attaccamento, il sistema disorientato-disorganizzato (Main & Solomon, 1986) sembra essere quello che, con maggiore probabilità di rischio, predice lo sviluppo di psicopatologia infantile e adulta. Main e Solomon (1990) suggeriscono di considerare disorientati e/o disorganizzati i bambini che mostrano comportamenti di attaccamento contraddittori, conflittuali, “congelati” nel relazionarsi con il caregiver tipicamente detto “spaventato spaventante”, interiorizzando Modelli Operativi Interni che si dimostrano funzionali nel loro permettere di sopravvivere in circostanze di vita allarmanti e pericolose per la propria incolumità (traumatiche), ma fortemente disadattivi per lo sviluppo emotivo, relazionale, interpersonale e persino cognitivo del bambino stesso.

Molteplici studi si sono concentrati sulla relazione esistente tra attaccamento disorganizzato (D) e sviluppo di psicopatologia nel bambino, caratterizzata da quadri complessi in maniera proporzionale rispetto alla gravità, cronicità e intensità degli eventi a carattere traumatico vissuti in età precoce (altra variabile discriminante è, dunque, l’età del bambino), con lo sviluppo di sindromi in Asse I aggravate dalla compresenza di tratti dissociativi, a volte a soddisfare i criteri per la diagnosi di un Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (cPTSD).

Contributi scientifici hanno permesso di evidenziare un legame tra attaccamento D e la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità in soggetti adulti, probabilmente a causa delle grandi lacune di mentalizzazione del bambino (Fonagy, Steele, Steele, Haggitt & Target, 1994), deficit nello sviluppo delle funzioni metacognitive, instabilità nella costruzione del senso di Sé, ambivalenza verso la figura di accudimento, scissione traumatica e sistema difensivo primitivo, in balia degli effetti del vago dorsale e delle sue risposte primordiali di freeze e faint (Fonagy & Target, 1997).

A sostegno di quanto riportato, è stato osservato in uno studio condotto da Hobson, Crandell, Garcia-Perez & Lee (2005) come bambini figli di madri con Disturbo Borderline di Personalità manifestassero durante il paradigma della Strange Situation, a 12 mesi di età, un attaccamento di tipo disorganizzato nell’80% dei casi, il quale come principali conseguenze comporta notevoli difficoltà nella regolazione delle emozioni, memoria episodica frammentaria, risposte dissociative e perdita del senso di Sé (sintomatologia tipica del disturbo in Asse II, a conferma sia delle tesi circa la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento, che della correlazione con l’insorgenza di patologia Border).

La letteratura è ormai orientata verso una spiegazione scientifica ed empirica della trasmissibilità intergenerazionale del legame (Van IJzendoorn, 1995), a carico del ruolo svolto dai Modelli Operativi Interni e del loro riproporre e ricreare nel soggetto gli stili di interazione interiorizzati in infanzia; i figli di madri che svolgono il loro ruolo in maniera carente e inadeguata, che si mostrano resistenti al contatto fisico e incapaci di far fronte ai bisogni e alle angosce del bambino, tendono difatti a sviluppare poca fiducia in se stessi e negli altri, scarsa capacità di valutare in modo realistico le situazioni, una bassa competenza sociale che si esprime, a seconda dei casi, con l’isolamento o con esplosioni di rabbia ingiustificata (Cassidy & Shaver, 2008); i bambini maltrattati o trascurati si ritrovano a doversi confrontare con una visione di sé intollerabile, riflessa nelle loro figure di accudimento, e si percepiscono odiati, respinti, ma anche meritevoli di tali trattamenti, allo scopo di preservare intatta l’immagine del caregiver (per salvare il genitore, frantumano e dissociano se stessi).

Tali vissuti, se non adeguatamente elaborati e integrati nella propria esperienza, porteranno quei bambini e quelle bambine a divenire dei “genitori irrisolti” (Liotti & Farina, 2011), mantenendo vivo il copione di disorganizzazione che li ha da sempre caratterizzati.

Dati a sostegno della trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento sono supportati anche dalla letteratura che si è occupata del Disturbo Borderline di Personalità (Stepp et al., 2011); non solo è stato ribadito l’alto rischio di disturbo nel genitore e sviluppo di un pattern D di attaccamento con il figlio, ma è stata anche data una plausibile spiegazione della trasmissione del disturbo stesso e dei suoi tratti principali: i comportamenti disorganizzati del genitore trovano pieno riscontro in quelli del bambino, che “impara” a sopravvivere a contatto con un caregiver altamente disfunzionale,  con una forma di apprendimento relazionale e comportamentale altrettanto disadattiva e che, tendenzialmente, si riproporrà a circolo vizioso nei rapporti interpersonali (bagaglio trasmesso da generazione in generazione).

Nonostante questi aspetti di continuità, Van IJzendoorn (1995) osserva come la costituzione del legame sia piuttosto sensibile, entro i primi 5 anni di vita del bambino, a una serie di aspetti e fattori contestuali, relazionali, situazionali, oltre che dal temperamento individuale del bambino stesso, così che divenga necessario parlare di un transmission gap (lacuna di trasmissione), che giustifica a pieno l’assenza di una causalità diretta e lineare tra attaccamento del caregiver e quello del bambino.

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