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Fare la Scuola di Psicoterapia conviene? Psicoterapia e formazione

Esito della ricerca di Studi Cognitivi sulla qualità della formazione in psicoterapia

Fare la Scuola di Psicoterapia conviene?

 

 Scuola psicoterapia. - Immagine: ©-Robert-Kneschke-Fotolia.com

A quanto pare sì, migliora la qualità della vita, la soddisfazione personale e l’inserimento professionale. Questo è quanto emerso da una ricerca svolta con gli allevi e ex-allievi delle scuole italiane di Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca e Scuola Cognitiva di Firenze.

In questo articolo, vengono descritti i risultati principali.

Il campione è composto da 225 soggetti, 87% femmine e 12% maschi. Quest’ultimo dato è in linea con gli iscritti alle Facoltà di Psicologia, con una grande prevalenza di donne nella scelta del percorso per diventare psicoterapeuti.

Oltre il 35% dei colleghi che hanno risposto al questionario hanno già concluso il corso di formazione. Avere informazioni da chi la specializzazione l’ha conclusa ed è già inserito da diversi anni nel mondo della professione aiuta i giovani psicologi neo-laureati a farsi un’idea di cosa può ottenere nel diventare psicoterapeuta.

I colleghi psicoterapeuti si dividono in quote pressoché pari tra attività pubblica e privata. Circa il 34% svolge attività privata e il 33% svolge attività nel pubblico.

Altro dato interessante riguarda le attività collaterali e satellitari alla professione di psicoterapeuta. Meno del 25%, infatti, svolge anche attività differenti, come lavoro di comunità (non come psicoterapeuta), professioni da educatore professionale e impiego nelle risorse umane.

Un aspetto importante che è emerso dalla ricerca, riporta che le ore dedicate alle attività diverse da quelle strettamente legate all’essere psicoterapeuta diminuiscono drasticamente con il passare degli anni. Se al primo anno di scuola, molti allievi svolgono anche altre attività di lavoro (presumibilmente per motivi di sostentamento e di formazione), nel corso degli anni le ore svolte in attività clinica come psicologi psicoterapeuti aumentano.

Un dato a nostro parere molto interessante riguarda la terapia personale degli allievi e ex-allievi. Questa è una questione annosa e discussa per anni da tutti i didatti cognitivisti. Quello che emerge dalla ricerca è che solo il 21,5% dei colleghi non ha svolto una terapia personale e non crede la svolgerà in futuro. Il 93,4% delle persone che hanno svolto una terapia personale la ritengono utile e importante per la loro vita personale e professionale.

Veniamo ai dati relativi al corso di formazione in psicoterapia offerto dalle scuole di Studi Cognitivi.

Gli allievi (in modo più netto gli ex-allievi) hanno riferito di aver notato miglioramenti nel proprio funzionamento personale. In particolare, in tutti gli ambiti indagati dall’intervista (consapevolezza di sé, riduzione dei sintomi, senso di auto-efficacia e benessere personale) è stato riferito un miglioramento soggettivamente percepito durante i quattro anni di formazione.

Scuole Psicoterapia - tabella 1

Tale miglioramento, ha senza dubbio un impatto sul proprio “saper essere” persona e psicoterapeuta.

A rafforzare quest’ultimo dato, il 1,3% dei partecipanti ha sostenuto che la specializzazione in psicoterapia abbia peggiorato la propria condizione professionale e circa il 20% ritiene che la formazione non abbia avuto alcuna influenza sulla propria condizione personale e professionale.

Scuole Psicoterapia - tabella 2

Nella valutazione del corso di formazione di Studi Cognitivi, inoltre, una notevole percentuale di allievi e ex-allievi ha dichiarato alti gradi di soddisfazione (oltre l’85% dei responders) nei seguenti ambiti: Soddisfazione Personale, Competenze Tecniche, Competenze Emotive e Esistenziali.

Scuole Psicoterapia - tabella 3

Ai partecipanti è stato anche chiesto il reddito lordo medio mensile. I dati mostrano un trend di miglioramento mano a mano che l’esperienza professionale aumenta.

 Scuole Psicoterapia - tabella 4

Si conclude questa breve rassegna dei risultati della ricerca svolta nel 2013 con una tabella riassuntiva dei giudizi dati da allievi e ex-allievi alle varie anime delle scuola di psicoterapia Studi Cognitivi.

Scuole Psicoterapia - tabella 5

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Effetti dello stress cronico precoce sul comportamento in età adulta

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’esposizione ad un ambiente ostile durante l’adolescenza ha profonde conseguenze sullo stato psico-emotivo e sui comportamenti sociali in età adulta.

Negli ultimi anni, nelle neuroscienze si è molto discusso circa il significato ed il valore scientifico degli studi che indagano l’impatto di fattori di stress precoci e cronici sul comportamento.

Questi esperimenti, condotti tipicamente su roditori, hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione tra particolari tipi di stress precoce e alcune disfunzioni del sistema endocrino, in particolare sull’asse HPA (ipotalamico-pituitario-adrenalinico), implicato nella regolazione del funzionamento delle ghiandole endocrine e degli ormoni dello stress (tra i quali corticotropina e glucocorticoidi).

È inoltre emerso che alcuni soggetti avrebbero più di altri una capacità innata di resilienza agli eventi stressanti.

In alcuni topi, infatti,è stato osservato che l’esposizione a stress precoci e cronici, apparentemente, non porterebbe a conseguenze sul comportamento in età adulta.

Grigori Enikolopov, professore associato presso il laboratorio Cold Spring Harbor, ha ideato un importante disegno di ricerca al fine di  valutare proprio gli effetti di episodi di stress sociale in adolescenza.

L’impatto dello stress sul comportamento veniva valutato attraverso test che indagavano i livelli di ansia, di depressione e la capacità di socializzare e comunicare con un partner non familiare, sia nel momento in cui i soggettivivevano tali esperienzestressanti sia in età adulta.

In una prima fase, ciascun topo maschio di un mese (equivalente umano di un adolescente) veniva esposto quotidianamente a brevi attacchi da parte di un maschio adulto aggressivo, posto nella stessa gabbia.

Un evento cronico di questo tipo induceva nei topi giovani un atteggiamento che i neurobiologi hanno definitodi “sconfitta sociale”, che correlava con alti livelli di ansia ed una diminuzione dell’interazione sociale e dell’abilità di comunicare con altri animali giovani.

Inoltre si osservava anche una minore crescita di cellule nervose (neurogenesi) in una porzione dell’ippocampo conosciuta per il suo coinvolgimento nella depressione: la zona subgranulare del giro dentato.

Un altro gruppo di giovani topi, invece, dopo essere stato esposto anch’esso a stress sociali precoci veniva però inserito per molte settimane in un ambiente non stressante.

Testati nella stessa maniera dei topi dell’altro gruppo, dopo questo periodo di “riposo”, i topi (ora vecchi abbastanza da poter essere considerati adulti) non mostravano più molti dei comportamenti associati all’atteggiamento di “sconfitta sociale” ed anche la neurogenesi tornava a livelli riscontrati in controlli sani.

Le minori conseguenze a livello comportamentale mostravano quindi una maggiore capacità di resilienza di questo gruppo a fattori di stress precoci e cronici.

Tuttavia, in questi topi resilienti, è stata comunque riscontrata la presenza di due effetti latenti sul comportamento: livelli anormali di ansia emaggiore aggressività nelle interazioni sociali.

Si può quindi affermare che l’esposizione ad un ambiente ostile durante l’adolescenza ha profonde conseguenze sullo stato psico-emotivo e sui comportamenti sociali in età adulta.

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Her di Spike Jonze – L’amore ai tempi di una solitudine affollata

Anna Angelillo.

 

Her

L’amore ai tempi di una solitudine affollata

di Spike Jonze (2013)

 

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HERMigliore sceneggiatura originale: è il premio che la comunità cinematografica internazionale riconosce al film “Her” di Spike Jonze – che forse qualcuno ricorderà per la regia di un altro film fantastico e a tratti bizzarro, Being John Malkovich (1999).

Il film è una finestra su di un futuro non troppo lontano in cui ormai la tecnologia ha un ruolo di primissimo piano nella vita delle persone e in cui la comunicazione è completamente bypassata dai computer, da auricolari comandati vocalmente e da dispositivi video tascabili.

Il protagonista è Theodore, un uomo solo, sposato, oramai solo in teoria (perché non ha ancora trovato il coraggio di sottoscriverne la fine), che per lavoro mette nero su (uno schermo) bianco i sentimenti altrui. Colpito da una pubblicità, acquista un nuovo sistema operativo, “OS 1”, basato su un intelligenza artificiale, che si plasma ad hoc, adattandosi alle esigenze dell’utente ed in grado anche di evolversi.

Samantha, il nome che la voce scelta da Theodore si dà, diventa così per lui la confidente perfetta, l’unica in grado di accogliere e comprendere le sue emozioni; ed essa stessa finisce per condividere a sua volta con lui le nuove esperienze che sperimenta, imparando cose nuove e provando sensazioni sempre più profonde e complesse. Il rapporto tra i due diventa così sempre più profondo e intimo, fino a sfociare in una vera e propria relazione d’amore dall’epilogo che lascia ben poco spazio all’immaginazione, ma che comunque catapulta in un’amara considerazione sulla qualità delle relazioni attuali.

L’ironia (a tratti sarcastica) che scivola sulla scena affina un po’ l’amarezza che fa da sfondo alla pellicola: è lo specchio delle relazioni di oggi, o almeno le relazioni verso cui la tecnologia e le paure ci stanno spingendo. Theodore, scottato da un matrimonio con una donna con cui è cresciuto e che non ha saputo integrare i cambiamenti di entrambi, si rifugia in un mondo chiuso e popolato solo da avatar; un mondo in cui può esserci anche spazio per le emozioni che vengono cercate attivamente (in un computer) dal protagonista (lui e Samantha alla fine “vivranno” una relazione piena di condivisione, di ascolto, di sesso e di sensazioni), ma che rimarranno emozioni intangibili, perché sperimentate in un rapporto declinato al singolare, che di per sé fa crollare il senso stesso della parola relazione.

È una società evitante quella che è messa in scena nel film (molto vicina a quella verso cui di muoviamo), una società in cui i sentimenti sono desiderati, ma ben tenuti a distanza perché ci si sente non in grado di sostenere emozioni reali. Siamo ormai più bravi a nasconderci elegantemente dietro schermi, perché non riusciamo a sostenere lo sguardo di chi potrà starci di fronte, sicuramente per la paura dell’altro e del coinvolgimento che ci rende vulnerabili, ma molto più probabilmente per non concederci di vedere riflessa una parte di noi, forse la più vera, che magari abbiamo intravisto ma non siamo stati, da soli, in grado di comprendere e che per questo ci spaventa di più.

Sul finale, lo spettatore, illuminato da quello che la scritta “software not found” scuoterà nel protagonista, potrà ridestarsi (qualora si fosse perso) insieme a lui da questo sogno dolceamaro d’amore e prendere atto della perdita di confini tra ciò che è reale e ciò che rimane solo un software a cui il protagonista è giunto, in un momento storico in cui vengono spese più risorse per far evolvere una macchina, piuttosto che per nutrire un’evoluzione più profonda, che consenta di renderci protagonisti consapevoli della e nella esperienza (realmente sperimentata) con l’altro.

Il film non sembra e non vuole essere una condanna al web 2.0, bensì un mezzo attraverso il quale gettare uno sguardo all’uomo contemporaneo. L’esperienza con il sistema operativo smuove, infatti, comunque qualcosa in Theodore: gli consentirà di guardare alla sua storia matrimoniale con occhio critico e costruttivo.  Può essere, questo, l’ennesimo punto a favore del potere che la relazione, seppur in questo caso fittizia, ha nell’esperienza del sè.

La scena finale – che vede il protagonista raggiungere la sua amica, anch’essa abbandonata dal suo sistema operativo, sul tetto del grattacielo in cui vivono e insieme guardare la città – diffonde in platea un senso di serenità, che fa sperare in un futuro all’avanguardia sì, ma pur sempre ancorato alla semplice complessità delle relazioni umane.

Fuori dalla sala troveremo di sicuro chi l’avrà trovato geniale, chi a tratti sarà stato infastidito; qualcuno avrà riso commosso e sicuramente qualcun’altro non avrà gradito il genere; probabilmente, ci sarà almeno uno che avrà pensato a come potrebbe essere (più semplice?) avere una Samantha a sua volta. Indubbiamente farà fermare tutti a riflettere.

TRAILER:

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European Society for Trauma and Dissociation – Report dal Congresso 2014

Maria Paola Boldrini

 

ESTD 2014

Report dal Congresso della

European Society for Trauma and Dissociation

Trauma, Dissociation and Attachment

in the
 21st century: where are we heading?

27-29 Marzo – Copenhagen

ESTD 2014 - European Society for Trauma and Dissociation

Tornare da un congresso  e… aver voglia di raccontarlo!

Tra il 27 e 29 Marzo si è tenuto a Copenaghen il quarto congresso dell’ESTD (European Society for Trauma and Dissociation). Un evento di grande impatto per chi si interessa di questo ambito e un’esperienza di apprendimento e condivisione utile da socializzare.

La Società Europea per il Trauma e Dissociazione è stata fondata nell’aprile 2006, grazie alla collaborazione tra i membri europei della ISSTD (International Society for the Study of Trauma and Dissociation) e soprattutto con il supporto del  Consiglio Direttivo di questa.  Gli scopi dell’ESTD sono:  promuovere un aumento della conoscenza del Trauma, Dissociazione e tutti i disturbi legati al trauma cronico; fornire  formazione professionale circa dissociazione, trauma e disturbi traumatici legati; supportare la comunicazione e la collaborazione tra tutti i professionisti nel campo della dissociazione e traumi;  stimolare progetti di ricerca nazionali ed internazionali; fornire conoscenza e istruzione in particolare a quei paesi europei che non hanno facile accesso a questo campo.

Proprio nell’ottica di questi scopi il congresso appena concluso si è svolto con la partecipazione dei massimi esperti internazionali del settore, con grande risposta da parte degli iscritti e non solo, infatti hanno partecipato anche delegazioni di altri paesi come il Giappone, la Nuova Zelanda e la Russia. Il ricco programma (www.estd2014.org) è stato ben suddiviso tra  workshop precongressuali, plenarie, mini-workshop, simposi e presentazione di poster. L’iniziativa più apprezzata secondo organizzatori e partecipanti è stata quella dei mini – workshop, ritenuti davvero efficaci e di buon impatto per la condivisione dello stato dell’arte della ricerca e della pratica clinica con pazienti post traumatici, con disturbi dissociativi , ma soprattutto con disturbi di personalità.

Di grande impatto sono stati anche i workshop precongressuali, vere e proprie occasioni di formazione e confronto sulle nuove direttrici dell’intervento psicoterapeutico su disturbi complessi, ma non rari. In particolare hanno raccolto i maggiori consensi:  il workshop di P. Ogden ( tra i Fondatori e attuale Direttrice del Sensorimotor Psychotherapy® Institute), su: Conversazione implicita: il ruolo essenziale della Comunicazione non verbale nel trattamento del trauma e dissociazione”, dove si è parlato approfonditamente dello studio e delle strategie di intervento adottate nell’applicazione della Sensorimotor Psychotherapy al campo della comunicazione non verbale.

Il workshop di S. Boon (NDR: presto sarà in Italia per il workshop: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma) e K. Steele (entrambe terapeute e ricercatrici note, membri di diverse organizzazioni scientifiche del settore) su: “Trattamento dei disturbi dissociativi complessi: imparare abilità e superare impasse”, dove sono stati esposti dalle conduttrici gli ultimi esiti dei loro studi e mostrando anche come questi possano essere implementati nella pratica clinica.

Gli oratori delle plenarie più apprezzati, a detta di partecipanti e organizzatori, sono stati: E. Nijenhuis, sicuramente molto atteso e protagonista anche di un seguitissimo workshop “pre-pre” congressuale, in plenaria ha parlato sul tema :”Dove c’è una volontà, c’è un modo: strategie di sopravvivenza comuni in pazienti con DID e PTSD, destando nella platea un grande interesse e dando notevoli spunti per il futuro, avendo chiuso l’intervento con le sue ipotesi sulla formulazione delle diagnosi dei disturbi post traumatici per il DSM VI;

S. Hart, anche lei molto attesa, ha parlato dello Sviluppo della Toria Neuroaffettiva: Da attaccamento disorganizzato e dissociazione di nuovi approcci alla psicoterapia”, coinvolgendo abilmente l’uditorio nella presentazione dello stato dell’arte degli studi di cui si occupa; G. Liotti, con il suo intervento su Attaccamento disorganizzazione e di dissociazione: Approfondimenti da recenti studi di ricerca Psicopatologia dello Sviluppo e neuroscienze”, ha messo in luce gli studi di B. Farina, A. Speranza e colleghi (2013) che hanno destato molto interesse tra i partecipanti; A. Moskowitz, ha parlato di  Trauma, dissociazione, attaccamento e psicosi: Verso un nuovo paradigma della psicopatologia”, proponendo un excursus avvincente su un tema che porta ampie riflessioni per il futuro.

Tra i mini-workshop quelli che hanno visto maggiore affluenza sono quelli riguardanti le applicazioni dell’EMDR, in particolare quello di A. Gonzalez su “EMDR e l’approccio progressivo in Somatoforme Dissociazione” e quell odi D. Mosquera su “Narcisismo e Trauma”, entrambe sono pscioterapeute EMDR esperte e conosciute ricercatrici. Altro mini-workshop che ha riscosso ampi consensi è stato quello di G. Tagliavini e G. Giovannozzi su “Dr. Porges e Mr. Hyde: opportunità e insidie ​​per lavorare con autonomica (dis) regolamentazione nella terapia del trauma complesso”, una vivace presentazione di due esperti del settore (NDR: sono inoltre i curatori dell’edizione italiana dell’ultimo di libro di S. Boon, K. Steele e O.Van der Hart) che, a detta di partecipanti, ha dato spunti per la pratica clinica.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire, ma rimando i lettori più curiosi e interessati a un approfondimento che è possibile sul sito del congresso, dove si trovano anche gli abstract di molti degli interventi che ho citato.

In chiusura, mi preme condividere che l’atmosfera, emersa dalle mie brevi interviste a partecipanti e organizzatori, è stata di genuino entusiasmo per aver condiviso questa esperienza informativa e formativa. Molti dei presenti hanno manifestato nei momenti assembleari, l’approvazione per questo tipo di organizzazione che ha riservato spazi equilibrati sia ai momenti di aggiornamento, sia a momenti di riflessione e confronto, un valore aggiunto reale per un congresso.

Il fatto che sia una società in crescita forse ha reso così vivace e memorabile questa situazione? Se è così allora speriamo che continui a crescere e speriamo che altre organizzazioni prendano spunto!

Hej! (Ciao in danese!)

 

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AUTORE:

Maria Paola Boldrini – Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

Didatta nei corsi di Specializzazione presso Studi Cognitivi

Coder per l’AAI di M. Main
Presidente dell’Associazione Cognitivismo Clinico di Modena
Socio Ordinario SITCC e SPR – Europe

Riconoscimento dei volti: meccanismo cerebrale specializzato?

Loana Marchis 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dai risultati emerge una chiara dissociazione tra la capacità dei partecipanti di riconoscere oggetti e la capacità di riconoscere i volti ai quali sono stati precedentemente addestrati.

I risultati di questo studio sembrano andare a sostegno dell’esistenza di un meccanismo specializzato nel riconoscimento dei volti.

Gli esseri umani sono straordinariamente abili a riconoscere i volti. Sin dalla nascita mostrano una particolare attrazione per essi e durante il corso della loro vita vi verranno a contatto centinaia di migliaia di volte.

Due diversi modelli teorici sono stati proposti per spiegare come emerge questa straordinaria capacità.

Il primo ipotizza che esista un meccanismo comune sottostante alla percezione di tutte le categorie di stimoli visivi (volti, macchine, animali etc.) mentre il secondo postula l’esistenza di un meccanismo specializzato solo nel riconoscimento dei volti.

Un gruppo di ricercatori di Harvard e Dartmouth ha tentato di verificare queste due ipotesi utilizzando come campione sperimentale un gruppo di pazienti affetti da prosopoagnosia (incapacità di riconoscere i volti).

Questi autori hanno somministrato a un gruppo di prosopoagnosici e a un gruppo di controllo due test: uno che valuta la capacità di riconoscere categorie di oggetti creati ex-novo dallo sperimentatore (greebles) appartenenti alla stessa famiglia e un altro che valuta il riconoscimento dei volti. La somministrazione dei test era preceduta da una fase in cui i due gruppi sperimentali venivano addestrati a distinguere tra le categorie di greeblese tra i diversi volti.

Questi ricercatori hanno avanzato la seguente ipotesi: se i prosopoagnosici fossero riusciti, grazie all’expertise acquisita, a svolgere correttamente il compito di riconoscimento dei greebles ma non quello dei volti, allora questo sarebbe andato a sostegno dell’ipotesi che il riconoscimento dei volti dipende da un meccanismo specializzato per essi.

Dai risultati emerge una chiara dissociazione tra la capacità dei partecipanti di riconoscere oggetti e la capacità di riconoscere i volti ai quali sono stati precedentemente addestrati. Infatti, mentre nel compito dei greebles entrambi i gruppi hanno mostrato dei risultati simili, nel compito di riconoscimento dei volti la performance è stata peggiore nel gruppo di prosopagnostici rispetto a quelli di controllo.

In conclusione, i risultati di questo studio sembrano andare a sostegno dell’esistenza di un meccanismo specializzato nel riconoscimento dei volti.  

Tuttavia, secondo Rezlescu e colleghi sono necessarie delle ulteriori ricerche a sostegno di questa ipotesi. Inoltre, questo gruppo di ricerca si propone in futuro di comprendere i meccanismi cerebrali alla base sia del riconoscimento dell’identità dei volti che dell’integrazione di diverse fonti d’informazione che aiutano il riconoscimento (come ad esempio la voce).

Quello che sembra chiaro, secondo questo gruppo di ricercatori, è che l’elaborazione dei volti e dei segnali sociali da essi veicolati ha un ruolo fondamentale nelle nostre quotidiane interazioni sociali.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

Un ricordo di Michele Giannantonio

 

E’ di questi giorni la morte del collega Michele Giannantonio, che molti psicologi in formazione hanno conosciuto come terapeuta, come insegnante, e molti di noi hanno apprezzato per le pubblicazioni su numerosi argomenti, in particolare il trauma.

Ironia della vita l’ha colpito un male che più di tutti rappresenta un trauma inaffrontabile.

E’ difficile, in un ambiente professionale che si può eufemisticamente definire competitivo, ascoltare racconti unanimi sul valore di un uomo; ancora più difficile, quando un uomo termina il percorso del suo corpo, che i racconti sul suo valore non siano inquinati dalla necessità di ricorrere alle consuete formule di maniera.

Che il caso di Michele Giannantonio fosse diverso l’ho capito nei pochi secondi in cui l’ho conosciuto, alla prima giornata del training di Psicoterapia Sensomotoria: poche parole coi segni evidenti della malattia e della dignità, la promessa sorridente di provare a ricordarsi i nomi degli allievi che aveva appena accolto, il messaggio felice di quanto quel corso fosse bello e non per i ricavi economici di chi l’organizzava.

Insomma, qualcosa di molto raro. Se ne va lasciandoci una grande domanda, un senso che non riusciamo a cogliere.

ll sogno di Nesbø sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)

Di Giancarlo Dimaggio. Pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 6 aprile 2014

 

 

Il sogno di Nesbo sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)Il sogno di Jo Nesbø: il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

In questi giorni ho in mano L’uomo di neve. Mi toglie ore di sonno, mi fa paura. La primavera mi conforta, vedessi un pupazzo di neve avrei incubi. Già per superare le prime pagine de Il leopardo ci avevo impiegato un anno. Volevo evitare cattivi sonni.

Leggo l’intervista a Jo Nesbø. Lo invidio. Ha giocato a calcio, suona in una band rock, scrive romanzi dal successo pazzesco. Nesbø racconta un sogno ricorrente, l’unico che fa mai, suggerisce. Penso che mente spudoratamente. Ricordo i sogni di Harry Hole, il suo protagonista. Harry beve, dorme male, si sveglia sudato e urlando da incubi atroci. Sono sicuro che uno che mette quei sogni nella mente del suo alter ego li fa davvero. Non te li puoi inventare. Magari li cambi, li colorisci, ma non emergono dal nulla.

Scettico, cerco di interpretare il sogno. Apparentemente è buono. La sua squadra ha fiducia in lui. Noi psicoterapeuti diremmo che il suo Altro interiorizzato ha qualità benevole. Nesbø desidera essere apprezzato, realizzare le sue fantasie. Ha dei dubbi su di sé. Ma l’Altro lo vuole, lo cerca, lo sostiene. Non solo. Gli dà un’attenzione speciale: le scarpe nuove, giuste per te. Tutto torna, Nesbø sta dannatamente bene e fa i sogni che ti aspetteresti da uno che nella vita ha osato, ha creato, ha avuto successo. Io non sono convinto. In parte è una questione di mestiere.

Il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

Per interpretarlo davvero voglio il sognatore davanti a me. Devo porgli domande, fare eco alle le sue parole, chiedergli cosa gli evocano. Cosa ha provato quando le hanno chiesto di giocare? Ansia? Gioia? Stupore? Non usava da tanto le scarpe, ricorda momenti in cui le calzava?

Se cogliessi nel viso un’ombra di tristezza, penserei che ancora porta le cicatrici dell’infortunio che – per nostra fortuna – gli ha troncato la carriera di calciatore e ci ha regalato una belva del noir. Glielo farei notare. C’è cupezza nel suo viso, o nostalgia, sbaglio? Sì, ma non per quello che pensa lei, potrebbe dirmi. E magari mi parlerebbe di una partita in cui qualcuno nel pubblico mancava. Qualcuno a cui teneva molto. Oppure tutta un’altra storia. Scorgerei nel viso un guizzo di gioia. E da lì, ricordi di un paio di scarpini da calcio che gli fu comprato da bambino.

I sogni sono fatti così. Perché svelino l’essenza devi parlare con il sognatore, attivare network di memorie, catturare i guizzi dei muscoli facciali.

Nesbø non è qui. Ma io sono furbo, lo cerco sul suo sito. Incauto, si fa trovare. Parla de Il leopardo. La chiusura mi colpisce. Nel romanzo, la vita sentimentale di Harry Hole è a pezzi (come sempre) mentre fa i conti con il padre morente. Nesbø sorride ambiguo: “Tra un paio d’anni, ripensando a questa storia, probabilmente vedrò che ha molto a che fare con la mia vita. Per ora penso che riguardi Harry”. Non doveva scoprirsi così: persisto nell’illazione che i sogni di Harry siano i sogni di Jo. Che se fai un sogno in cui dicono: “Ok, ti vogliamo”, e scrivi di serial killer, nascondi qualcosa. L’uomo di neve mi aspetta, il romanzo voglio dire. Harry Hole avrà incubi. Io saprò a chi chiedere per interpretarli.

 

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Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: Intervista con Antonio Semerari

 

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Antonio Semerari

Psichiatra e Psicoterapeuta

 

State of Mind intervista Antonio Semerari, Psichiatra e Psicoterapeuta, Fondatore del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

 

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Corsa in ambulanza – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.06 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #06

Corsa in ambulanza

– Leggi l’introduzione –

Corsa in ambulanza - Centro di Igiene Mentale - CIM Nr.05 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica. -Immagine: © Gstudio Group - Fotolia.comGrottesco! La radio dell’ambulanza ha appena comunicato l’assenza di posti letto in tutti gli SPDC della capitale dove si possono effettuare i trattamenti sanitari obbligatori (TSO). D’ora in avanti a Roma è vietato impazzire. L’infermiere, di fianco al guidatore, si attacca al radiotelefono di bordo a setacciare le altre province. Ancora un posto disponibile a Viterbo. La giornata sarà lunga. 

In altri CIM si teorizzava che, in caso di emergenza o TSO di un paziente in trattamento, non dovessero essere i curanti ad intervenire, per preservare la relazione terapeutica e non inquinarla con azioni forzose se non qualche volta violente.  Biagioli sosteneva la tesi opposta. Intanto, tutto si poteva svolgere con minor conflittualità se chi interveniva e il paziente si conoscevano, inoltre gli sembrava un tradimento  verso il paziente mandare qualcun’ altro a fare il lavoro sporco. Diceva, come esempio, che se c’era da fare un’ iniezione ad un suo figlio voleva essere lui a fargliela.

Così aveva convinto tutti ed era diventata prassi.

Quel giorno dunque per l’emergenza “Dante”, che si prospettava piuttosto complessa e vivace, in assenza dei curanti, le dottoresse Ficca e Filata, a salire sull’ambulanza con il medico del 118 furono i due che meglio conoscevano Dante: Giovanni Brugnoli e la sorella Maria detta Gilda.

L’ambulanza si diresse verso Roma perché l’SPDC di Vontano era chiuso da un mese per ristrutturazione e sarebbe stata una faccenda lunga.

Lei, con una mano, gli carezzava la fronte grondante sudore e sistemava i capelli all’indietro. Con l’altra, teneva ferma la mano dove avevano trovato l’unica via che ancora permettesse l’accesso di un ago. Del resto, era il suo lavoro, era infermiera e forse lo era diventata proprio per lui.

Giovanni puntellava il suo corpo massiccio che, ad ogni curva dell’ambulanza, era sul punto di cadere.

Dante sentiva il fluire rassicurante delle loro parole senza afferrarne il senso. Dopo essersi liberato lo stomaco, inondando di vomito alcolico l’altro infermiere dell’ambulanza, stava meglio e iniziava a dubitare della precedente certezza di morire.

Era una pellaccia lui, non  gliene importava poi tanto e da tempo aveva anche smesso di vergognarsi.

Giovanni era stato il primo ad entrare in casa. Avevano mandato lui in nome della loro antica amicizia e perché era tra gli operatori più bravi a immergersi nelle emergenze, forse perché non aveva paura ad ammettere la sua paura.

Piccolo com’era se la poteva permettere. Dante, invece, era quello che un tempo si sarebbe detto “un marcantonio”: superava il metro e novanta e, dunque di almeno venti centimetri, Giovanni. Spalle squadrate di chi ha sempre lavorato  fisicamente, occhi azzurri e liquidi come il mangiatore di patate di Van Gogh, che sembrano una predisposizione all’alcolismo; un  tempo fluenti capelli lunghi che lo assomigliavano al Che Guevara e lo chiamavano al suo destino di  rivoluzionario ribelle e, infine, accantonate le rivoluzioni, deviante, ormai ridotti e anch’essi sconfitti dall’avanzata calvizie che Maria amorevolmente cercava di nascondere, aggiustandoli.

Correva l’ambulanza e i ricordi. Giovanni era convinto che fosse stata proprio la differenza di stazza a spingere la maestra Vincenti a metterli nello stesso banco in prima elementare. Intanto, sarebbero entrati meglio nell’angusto banco di legno, invece era successo di più, erano diventati amici. Dante proteggeva Giovanni dai bulletti intenzionati a prevaricarlo per la sua piccolezza, Giovanni  mediava il rapporto faticoso di Dante con tutto ciò che era  lettere e calcolo ovvero l’oggetto e il motivo stesso della scuola, insomma un rapporto di mutuo soccorso che la diversità delle origini non minacciava ma piuttosto rafforzava.

Giovanni era figlio di un ferroviere, macchinista ambizioso arrivato a capostazione. Senza fargliene sentire il peso i genitori lo avevano visto medico già a tre anni quando aveva portato il termometro al letto della vecchia zia che viveva con loro. Alla fine, proprio in sanità lavorava, sebbene con i matti e come assistente sociale.

Dante era figlio di un cavatore di tufo. Il padre lo portava con sé perché la madre andava a lavorare come schiava nelle case dei ricchi. Il padre si sentiva in colpa per quanto successo dopo, perché molte volte aveva diviso con il piccolo Dante la colazione di metà mattina all’ombra di una quercia enorme all’ingresso della cava, mezza pagnotta ripiena di formaggio e vino rosso direttamente dal fiasco tenuto al fresco nel torrente. 

A lui sembrava di far bene togliendosi il pane e il vino di bocca per il figlio. Decenni dopo gli psicologi lo avevano fatto sentire un delinquente, ma allora nessuno gli aveva detto niente. Lo faceva per il suo bene e infatti Dante cresceva sano e forte e da grande voleva fare il lavoro del padre. 

Le cose vanno come devono andare: quando la madre resto incinta per la seconda volta, sembrava che sarebbero morte lei e la bambina per una gestosi gravissima. Armenia, allora, offrì la figlia alla madonna, la chiamò Maria e si dedicò completamente a lei.

Dante, nonostante avesse un fisico che gli avrebbe permesso un atteggiamento prepotente, era mite. Anzi, peggio, buono come spesso gli alcolisti. Aveva la commozione facile ed il pianto sempre pronto alle sofferenze altrui. Di tale sensibilità in quel corpo da gigante si vergognava al punto che neppure a Giovanni ebbe il coraggio di dire perché quel giorno in cui era finito in ambulanza con un trattamento sanitario obbligatorio aveva iniziato a bere. 

Qui, per completezza, lo riporto chiedendo, però, al lettore la massima riservatezza per rispetto a Dante.

Nel giardino di fronte alla sua casa c’era un meraviglioso cane lupo. Ogni volta che passava una ambulanza, evenienza frequente, il cane iniziava a rispondere all’ululato della sirena dell’ambulanza. Dal tono lamentoso Dante si era convinto che la povera bestia vivesse ogni volta l’illusione di un amore che  veniva poi infranta dallo scomparire della sirena nel traffico. Impotente di fronte alla sofferenza inconsolabile del lupo, Dante aveva aperto la bottiglia di grappa chiusa precauzionalmente nel buffet del salone poi, ovviamente, non era stato in grado di fermarsi al solo sorso che si era ripromesso.

I distacchi e le perdite erano un dolore cupo per lui sempre in agguato.

Anche su questo gli psicologi in seguito fecero molte ipotesi e qui la colpa toccò a Armenia, per non far torto a nessuno, responsabile di troppa dedizione verso la piccola Maria. Di nuovo mi raccomando che questa storia del cane e dell’ambulanza resti tra noi, non ho avuto da  Dante nè dal cane il permesso di narrarla.

Per gli psicologi poi Maria si era dedicata ad una professione di cura, come è l’infermiera, sentendosi in colpa per le tante attenzioni ricevute e per cercare di curare il padre e il fratello entrambi alcolisti. Si era sacrificata, rinunciando alla vita facile e lussuosa di attrice o, perlomeno modella, che il suo fisico meraviglioso le avrebbe consentito. Compiuti i tredici anni non c’era uomo che non la notasse tentando, se giovane di conquistarla, se adulto di molestarla. Dante aveva avuto il suo bel da fare a proteggere la sorellina dai desideri dei maschi a cominciare dagli zii materni e paterni.

Su richiesta di Giovanni che sapeva quanto agitasse Dante, l’autista aveva spento la sirena lasciando soltanto la muffola lampeggiante. L’ambulanza stazionava assediata dal traffico romano di un piovoso lunedì mattina di fine novembre.

Quale che fosse il dramma che si stava consumando al suo interno, la vita frettolosa e affannata che scorreva intorno al mezzo non poteva rallentare, moltiplicando i ritardi.

Figuriamoci poi se avessero saputo che si trattava solo di un ubriacone  arrogante. C’era tutto il tempo per i ricordi…

“Dante era abbonato al sette in condotta. Non riusciva a stare seduto nel banco e non c’erano le diagnosi di “disturbo….” a salvarlo, era solo un discolo vivace, disubbidiente da cui non si sarebbe tirato fuori niente.

Bacchettate sulle mani quando era sorpreso a copiare, bacchettate per furto quando spariva qualcosa.

Giovanni ancora si portava la colpa e la vergogna per l’episodio della merenda di Alina.

Alina aveva sempre come merenda sette barrette di Ciocorì, il cioccolato con riso soffiato e la sua estetica ne risentiva pesantemente. Superare i 100 chili prima dei tredici anni era consueto nella sua famiglia del sud che non aveva preso atto della fine della guerra e della fame e continuava a ingurgitare tutto ciò che capitava a tiro.

Al contrario, la famiglia di Giovanni era molto attenta alla salute e all’alimentazione, diffidente a tutto ciò che era confezionato, pubblicizzato in televisione e in definitiva, buono. La proibizione aumentava il desiderio di Giovanni, ergastolano dei panini con la marmellata di more fatta in casa.

L’unico ruolo che Dante aveva avuto nell’azione delittuosa era stato distrarre Alina, perdutamente innamorata di lui, invitandola in giardino durante la ricreazione.

Dopo la denuncia del furto la carta del ciocorì era stata ritrovata  dagli investigatori della scientifica, ovvero la maestra Vincenti, sotto il banco dei due. Entrambi avevano spergiurato la loro innocenza sospettando tremende conseguenze.

La certezza pregiudiziale aveva impedito alla Vincenti di notare  le sbafature di cioccolato che decoravano la bocca di Giovanni. Dalla paura Giovanni era corso in bagno a fare pipì e lì era rimasto come in un rifugio antiatomico ad aspettare il day after. Quando era uscito giustizia era stata fatta, Dante era dal preside a negoziare i giorni di sospensione.

I genitori accolsero il caloroso invito del preside di tenerselo a casa e lo ritirarono per quell’anno. Nel successivo, si presentò agli esami  di quinta elementare come privatista e fu inaspettatamente promosso. Le male lingue sostennero che era merito della madre. Armenia aveva ripreso a fare la domestica proprio a casa del preside e si era dimostrata molto, forse troppo, servizievole. Anche a casa di Giovanni giravano queste voci e la madre diceva che tutto una madre farebbe per un figlio aggiungendo poi, in modo del tutto incongruo, che il preside comunque era un uomo molto interessante che non dimostrava affatto i suoi cinquantacinque anni.

Era stato Giovanni, una volta deciso per il TSO, a chiedere a Maria se se la sentisse di accompagnarlo.

Sapeva quanto fosse legata al fratello e competente in situazioni d’urgenza, si conoscevano e stimavano reciprocamente sin da bambini. Avendola vista crescere aveva sviluppato per lei una sorta di tabù dell’incesto perciò, pur riconoscendo la sua bellezza, così assoluta da essere quasi dolorosa da vedere, non la considerava una possibile partner. Per lei era il suo unico amico maschio e gli faceva continue confidenze sulle sue molteplici, originali e sfrenate attività sessuali. Due anni prima, preso da una tachicardia parossistica durante l’ennesimo racconto, le aveva chiesto di soprassedere sui dettagli.

Se l’aveva sempre considerata al di fuori della sua portata, troppa era la differenza tra di loro, Maria aveva abitato stabilmente le sue fantasie.  Il periodo di maggiore invasione fu quando studiava per diventare infermiera.

Giovanni gli disse che lui, grandissimo secchione, non poteva rifiutarsi di darle una mano per l’esamone di anatomia. Si aggiunga che la materia stessa con la necessità di vedere concretamente e toccare con mano quanto letto in astratto, si prestava ad essere galeotta. Furono mesi difficili, conclusi con un prestigioso trenta e lode. Unico strascico la fine della relazione di Giovanni con Valeria, sua storica fidanzata.

Anche adesso, nell’ambulanza sobbalzante su sampietrini e binari, lo sguardo di Giovanni illanguidiva sul corpo di Maria, gli sembrava sconveniente ma non era sotto il suo controllo e a  forza riportava il pensiero su Dante, il da farsi attuale e quante ne avevano passate insieme. Lo aveva pensato più volte di molti pazienti ma ovviamente con Dante, per il lungo percorso comune, era un pensiero ricorrente e più fondato.

Il fatto che Dante fosse il curato, il matto e lui il curante, il sano, gli sembrava del tutto casuale, le parti si sarebbero potute facilmente invertire nella commedia della vita. I ruoli restano attaccati addosso cosicchè ti chiamano sempre  a recitare lo stesso personaggio. Dopo un po’ non sai fare altro. Quello che c’era di specifico, nel caso di Dante, era il senso di colpa che provava, quasi fosse stato lui ad appropriarsi della buona sorte che spettava all’altro, derubandolo della sua fetta.

Quando Valeria lo aveva lasciato, Dante era ancora il suo migliore amico e da lui, dispensatore inesauribile di conforto e certamente distrazione, era corso. Giovanni stesso aveva francamente esagerato in quel periodo con il doppio malto e il tetraidrocannabinolo, come amava dire per sottolineare la sua preparazione.

Ma il macchinista capostazione si era prontamente accorto che stava viaggiando verso il deragliamento ed era intervenuto. Poche entrate a gamba tesa aveva fatto nella sua vita, tutte però decisive. Oggi gli era grato per questo nonostante allora avesse scalciato riluttante. Aveva avuto un padre presente, solido e discreto che Dante gli invidiava nonostante la sua maggiore libertà.

In quel periodo i due amici stavano sempre insieme, la  mattina a scuola, il pomeriggio alla sezione della FIGC e la notte  a casa di Dante, sempre più libera o, potremmo dire, vuota. Anche Dante era stato lasciato da poco da Zoe, la sua ragazza del tempo, ma in un modo più definitivo.

Era una compagna greca venuta a studiare scienze infermieristiche alla Sapienza e a stabilire i contatti con i movimenti giovanili italiani per sostenere l’opposizione ai colonnelli. Olivastra di carnagione, capelli e occhi color della pece, aveva nella sua vitalità ed estroversione gran parte del suo fascino. Secondo la terminologia maschile ciò significava che non era un granchè, appena un gradino in più del cosiddetto “tipo”.

Dopo cinque settimane di ritardo e due test positivi era stata proprio Maria ad accompagnarla da Giuseppina.

L’anziana ostetrica aveva fatto nascere mezzo quartiere ed ora integrava la misera pensione precorrendo, da militante comunista, i tempi della legalizzazione dell’IVG. I soldi li aveva presi in prestito Dante, ma questa è un’altra storia. Dante si prese quattro mesi con la condizionale per lesioni personali allungando la sua fedina penale.

Quel grandissimo cornuto del tassista non aveva voluto far salire Zoe per non sporcare di sangue la tappezzeria.

Avevano dovuto aspettare l’ambulanza che aveva caricato entrambi,  Zoe pallida come la morte che se la stava prendendo a vent’anni con i jeans zuppi di sangue. Lo strenuo difensore delle tappezzerie Fiat con una mandibola fratturata incapace di sputare i due incisivi che bighellonavano nel cavo orale.

Il collettivo dei giovani comunisti greci non trovò i fondi per il rientro della salma che rimase in ospedale senza nessuno che la reclamasse. Giovanni, per esperienza, sapeva che quei corpi finivano a far bella mostra di sé all’istituto di Anatomia umana di via Borrelli.

Grottesco! La radio dell’ambulanza ha appena comunicato l’assenza di posti letto in tutti gli SPDC della capitale dove si possono effettuare i trattamenti sanitari obbligatori (TSO). D’ora in avanti a Roma è vietato impazzire. L’infermiere, di fianco al guidatore, si attacca al radiotelefono di bordo a setacciare le altre province. Ancora un posto disponibile a Viterbo. La giornata sarà lunga. 

A Giovanni il pentimento di essere partito si legge sulla faccia. Maria lo guarda supplice e rimproverante ad un tempo.

Gli dice che quello è il loro posto, che a Dante glielo debbono e  alimenta il senso di colpa di Giovanni.

La corsa sulla Cassia fa sentire meglio che l’annaspare nel traffico romano. Se pure il tempo potrà essere leggermente superiore si ha l’impressione di fare qualcosa, di essere attivi e protagonisti. E’ meglio rispetto all’accanirsi sul clacson o al pregare che il semaforo rinverdisca. L’ambulanza sfreccia al di sopra dei limiti di sicurezza. Si rischia grosso un paio di volte. La paura distrae gli occupanti da altri pensieri. Maria vuole arrivare per accendersi una sigaretta, le sembra di impazzire senza. Giovanni invita alla prudenza ed è incerto se pensarsi saggio o vigliacco. Poi prova nausea ma non è il mal d’auto ma l’essersi scoperto a pensare a se stesso anche in quel frangente. Ecco cos’è, disgustoso.

“Il prestito, per il maledetto intervento di Zoe, Dante l’aveva avuto dalle casse della sezione della Federazione Giovanile comunista di cui era tesoriere. Non erano tempi cui si badava ancora al conflitto di interessi, per cui il fatto di essere il postulante del prestito e anche il concedente non l’aveva considerato un problema. Gli era sembrato ipocrita persino aprire una pratica e prenderne nota. Quei soldi, in fin dei conti, erano stati utilizzati per la crescita del movimento giovanile internazionale. Una finalità statutaria, non c’era bisogno di rimetterceli. Il successo  in un operazione incrementa l’audacia. Se quei soldi potevano essere usati per aiutare una compagna greca perché no per aiutare un giovane compagno italiano tutto dedito all’attività del partito perseguitato da biechi strozzini, cani da guardia del capitalismo e  della proprietà privata?  Quando il revisore regionale se ne accorse l’ammanco era di quindici milioni di lire. La federazione rinunciò alla denuncia perché quelle cose a sinistra non dovevano succedere e quindi non erano successe. La fedina in quell’occasione non crebbe, ma tutti si sentirono un po’ più irreprensibili additandolo con disprezzo. Fu una gara tra i compagni a prendere le distanze da lui. Non andava più bene neanche per il calcetto, pomeriggi e serate si spopolarono di impegni e la compagna più fedele fu la bottiglia.

Anche Giovanni, l’amico più caro, brillante funzionario in ascesa impegnato con psichiatria democratica per l’applicazione della legge Basaglia,  mostrava imbarazzo a frequentarlo. A se stesso diceva che l’amico aveva sbagliato ed era meglio che lo punisse il partito che continuasse così a ficcarsi nei guai. L’ostracismo aveva una funzione educativa”.

Il corpo nei momenti meno adatti prorompe a ricordarci la nostra natura animale. Forse fu a motivo della temperatura che  scendeva, lungo la salita verso il passo dei Monti Cimini, sta di fatto che senza dir nulla l’autista, avvistata una piazzola tra i faggi accostò bruscamente, annunciando che avrebbe pisciato. Giovanni provò irritazione per non essere stato consultato, in fondo era il capo della missione. Maria sorrise felice e si precipitò ad accendere la sigaretta. Catturò gli occhi di tutto l’equipaggio quando, finita la sigaretta, si calò i jeans fino alle caviglie e si accucciò seguendo l’esempio dell’autista. La sua naturalezza nel mostrarsi nuda senza imbarazzo non riduceva la sua potenza erotica. Giovanni sentì muovere dentro i suoi pantaloni ma gli sguardi degli altri gli dissero che non era il solo. Ricordò severo agli altri che si trattava di una emergenza e  il viaggio riprese.

“Finito il liceo con un trentasei politico, ma pur sempre in soli cinque anni,  Dante si iscrisse a Scienze politiche. Quale posto migliore per portare avanti la sua solitaria rivoluzione, ora che il partito gli aveva voltato le spalle.

Si avvicinò sempre di più all’area della sinistra rivoluzionaria ed un giorno raccontò a Giovanni con troppi particolari come si poteva costruire una bomba. Era diventato estremamente difficile contattarlo ed ebbero una feroce discussione sulla venuta di un importante sindacalista alla Sapienza. Lui era tra i più  accaniti contestatori,  Giovanni preoccupato che si mettesse nei guai lo segnalò al servizio d’ordine. Quali che fossero i contatti di questo con la polizia, sta di fatto che il giorno prima fu arrestato per detenzione di stupefacenti e trascorse tre giorni in cella a Rebibbia. Il sospetto di una soffiata non lo abbandonò ma, ma che fosse stato proprio Giovann, non lo pensò mai”.

Il reparto di Viterbo avvertì che potevano prendersela con calma: avendo cambiato comune e persino provincia, la procedura del TSO andava riattivata daccapo, la cosa migliore sarebbe stata se fossero passati direttamente loro in comune dove il delegato del sindaco gli avrebbe predisposto l’ordinanza. Era però necessario che la proposta di ricovero di Biagioli fosse convalidata da un medico del locale Centro di Salute Mentale ed in quel momento nessuno era reperibile. La burocrazia prima di tutto.

Giovanni si chiedeva se fosse valsa la pena di tutte le lotte fatte se quella era la psichiatria che avevano costruito.

Si sentì come doveva essersi sentito Dante il giorno che i carri armati russi erano entrati a Praga e Jan Palach era diventato un eroe nazionale. Ricordava come allora litigarono, Dante inferocito  contro  i sovietici e lui pronto a giustificarli in vista di un bene superiore. Non era proprio un uomo di apparato, come lui, idealista intransigente che non mediava mai con la realtà. Non sapeva se ammirarlo o compiangerlo e si salvò in angolo pensando che al mondo servono entrambi, sia i disordinati che i tutori dell’ordine, come era finito per essere lui. L’ambulanza parcheggiò nella bellissima piazza del comune. Giovanni diede indicazioni precise, dovevano  aspettarlo senza che nessuno si allontanasse mentre lui saliva a prendere l’ordinanza.

“I due ragazzi del ’57  si persero di vista  quando iniziarono a guadagnarsi da vivere.

Giovanni nelle cooperative sociali rosse che si occupavano di salute mentale in Emilia Dante, che conosceva bene le lingue, come centralinista alla Alenia azienda di astronautica e strumentazioni di volo.

Poi ,dopo la chiusura, call-center sempre diversi e più precari.

Quando ci si rincontra dopo anni con un coetaneo si ha netta la sensazione del tempo passato e delle speranze perdute, di ciò che poteva essere e non è stato, di ciò che non doveva essere ed invece era stato.

Ci si avvede d’un tratto dei tradimenti peggiori ,quelli fatti a se stesso senza neppure accorgersene.

Loro si erano ritrovati su due sponde diverse ed era stato ancora più penoso.

Aveva riconosciuto Maria nella sala d’attesa del centro di salute mentale dove lavorava. Per un istante aveva sperato che fosse venuta a dichiarargli il suo amore eterno e  l’intenzione di non lasciarlo mai più. Non era così.

Gli disse che Dante era in macchina e si vergognava a salire. Tutto era precipitato negli ultimi  tre anni, il  padre era morto  in un incidente sul lavoro,  l’INAIL aveva chiesto l’incriminazione del datore di lavoro per il mancato rispetto della legge 626 sulla sicurezza, ma il  risarcimento era però rimasto in sospeso proprio in attesa della conclusione del processo penale. Senza una compagna e nel completo disinteresse degli ex amici, disse Maria con una malcelata aria di rimprovero, Dante aveva cercato conforto nella bottiglia. Non riuscendo a mantenere nessun impiego da quasi due anni viveva come un barbone, spesso a Roma nella zona tra la stazione Termini e via Cavour. Piccoli furti, l’elemosina  dei passanti per comprarsi da bere, ormai la cocaina non se la poteva permettere.

Mangiate saltuarie con gli avanzi dei ristoratori della zona. L’unico reddito era il suo bilocale a San Lorenzo, investimento del risarcimento per la morte del padre, affittato a 300mila lire a tre studentesse calabresi.

La metà di quei soldi li consegnava regolarmente alla madre che  non aveva nessun reddito, collaborando con Maria che faceva le notti in cliniche private, al suo mantenimento”.

Seduto nella bellissima sala d’attesa affrescata del comune di Viterbo, Giovanni  si affacciava ogni tanto sulla piazza a verificare che l’ambulanza fosse al suo posto. Non si sarebbe meravigliato di vederla partire con alla guida Dante ed a fianco quella sciagurata di sua sorella dopo aver convinto il personale di bordo che prima del ricovero potevano andare a darsi una rinfrescata nelle acque del lago di Vico e fare una buona merenda, che poi chissà cosa ti davano in ospedale. Nonostante le pessime condizioni di vita Dante non aveva perso l’ inquietante bellezza che condivideva con la sorella, l’intelligenza, l’ironia ed il carisma che ne facevano un trascinatore di anime. Sbracciandosi e chiamando fece capire che li teneva sottocchio. Intanto ricordava…

“Dante aveva accettato di farsi curare ma da quel momento non erano più stati amici quei due ragazzi del ‘57.

Giovanni era il curante, sano, piccolino ma normale e benestante, apprezzato e stimato nel servizio e nel partito dove si dedicava alla formazione.

Dante era il fallito, l’esempio da non seguire, il matto, il deviante, alcolista e tossicodipendente.

Ogni volta che si guardavano negli occhi provavano un sentimento di reciproca pena, anche Dante nei confronti di Giovanni, cui Dante aggiungeva un pizzico di vergogna e Giovanni una lancinante fitta di colpa.

Negli anni aveva preferito, com’è buona norma, che fossero altri colleghi meno coinvolti a seguirlo.

Lui supervisionava a distanza, non c’era neppure bisogno di dire nulla, tutti sapevano che quello era un paziente cui Giovanni teneva molto perché amichetti fraterni sin da piccoli. Inoltre era il fratello di Maria, un paziente specialissimo e difficilissimo.

Avevano tentato tutte le armi a disposizione di un centro di salute mentale: i farmaci che lo rendevano uno zombie sempre più gonfio e rallentato, le varie attività ricreative e ludiche del centro diurno che ne facevano un matto impegnato e divertito ma sempre di più un matto. Gli avevano trovato un lavoro protetto da un carrozziere e gli davano un sussidio che lo rendeva un matto lavoratore con qualche soldo in tasca, ma sempre di più un matto. Corso di inglese, tango e cucina etnica all’università popolare. Gli avevano trovato un alloggio piccolo in una casa famiglia di matti. D’estate facevano due soggiorni, una settimana al mare ed una in montagna, vacanze da matti. Cosa faceva quell’ingrato? I soldi del sussidio li sprecava in puttane, seppure economiche ed alcool e per ringraziamento a quanto facevano, ogni tanto tentava il suicidio, con le medicine che gli passavano gratis condite con fiumi di brandy scadente. Risultato: corsa all’ospedale, lavanda gastrica e pulizia dell’alloggio stracolmo di vomito ed escrementi. Al servizio iniziava ad essere odiato perché i risultati che non c’erano erano frustranti per i curanti  e motivo di rimproveri da parte di Biagioli”.

Negli ultimi tempi Giovanni si faceva avanti solo nei momenti più difficili, sentiva di dover risarcire personalmente quell’amico perduto, esattamente come era successo quella mattina che aveva avvertito un richiamo inarrestabile a partire per andare a stanarlo.

Non poteva nascondere a se stesso una certa irritazione, a volte lo avrebbe volentieri preso a calci nel sedere.

Lui e tutti gli altri facevano il possibile ma ci doveva anche mettere del suo. Gli capitava di pensare che ognuno ha ciò che si merita ed è artefice del proprio destino. Al contrario, altre volte sentiva che si è vittime del caso, che sia il destino cinico e baro o un Dio capriccioso e di pessimo carattere poco cambia, le cose avvengono  perché ci si trova al posto giusto al momento giusto o al posto sbagliato al momento sbagliato (questa seconda frase finiva sempre per bloccarlo in un rimuginio ossessivo perché formalmente senza senso) e agli uomini spetta solo di raccogliere i cocci.

Questa volta il tentativo di suicidio se lo aspettavano tutti  perché Maria aveva telefonato tre giorni prima dicendo che aveva trovato il fratello in uno stato pietoso.

La mamma aveva avuto un ictus ed era ricoverata al San Giovanni con una tetraparesi, i problemi di assistenza che si sarebbero posti se sopravviveva sarebbero stati enormi.

Dante le aveva ripetuto cupamente e ossessivamente: “l’unica soluzione è la morte”. Si era talmente spaventata che non aveva mai lasciato la madre sola con Dante. Forse però non si riferiva a lei, pensò Giovanni.

Con l’ordinanza del sindaco in mano scese le scale di corsa, col radiotelefono allertò nuovamente l’ospedale che stavano arrivando a momenti con un gravissimo tentativo di suicidio. Gli risposero che chi di dovere stava già aspettando da un pezzo e iniziava a spazientirsi lamentando altri impegni urgenti, frase sibillina e incomprensibile.

Forse a forza di stare in mezzo ai matti un po’ lo si diventa, pensò Giovanni.

Frenata sulla porta del pronto soccorso, le porte posteriori vomitano il malato, Maria e Giovanni corrono ai lati della lettiga, una signora nerovestita alta e ossuta come nella più tradizionale iconografia si mostra spazientita, ha sempre un gran da fare, dà il cambio ai due nel sostenere la barella e si porta via uno dei due ragazzi del ’57.

Al funerale c’era tutto il CIM, persino Francesco Altamura, direttore generale ASL e Rodolfo Torre, attuale direttore del Dipartimento, presero la parola durante le esequie ricordando i periodi in cui avevano lavorato nel CIM di Monticelli, esaltando la scarsità di risorse messe a disposizione dalla politica e la generosità degli operatori.

Due argomenti che catturavano sempre la benevolenza ma non quella di Maria che, splendida nel suo tailleur nero, si rifiutò di stringer loro la mano e stette tutto il tempo sottobraccio a Giovanni.

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Vittimizzazione sessuale: 4 adolescenti su 10 costretti dalle donne

 Di Valentina Goduto

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una grande percentuale di adolescenti e studenti universitari di sesso maschile ha riportato che sono stati costretti almeno una volta ad avere rapporti  sessuali.

Tali risultati possono aiutare a una migliore prevenzione individuando i vari tipi di costrizione che subiscono gli uomini e a riconoscere le donne come responsabili di tale coercizione.

La vittimizzazione sessuale maschile continua ad essere un problema diffuso negli USA, ma raramente indagato. Secondo un nuovo studio condotto dall’Università di Missouri e  pubblicato sulla rivista Psychology of Men and Masculinity il sesso coatto non è raro tra i  giovani maschi adolescenti.

Una grande percentuale di adolescenti e studenti universitari di sesso maschile ha riportato che sono stati costretti almeno una volta ad avere rapporti  sessuali. Tali risultati possono aiutare a una migliore prevenzione individuando i vari tipi di costrizione che subiscono gli uomini e a riconoscere le donne come responsabili di tale coercizione.

Il campione analizzato includeva 54  studenti delle scuole superiori  e 230 universitari  e un’età compresa tra i 14 e i 26 anni e di varie etnie: bianchi, neri, asiatici-  americani, latini e multirazziali. Il 43% degli intervistati ha riferito di aver avuto un’esperienza sessuale indesiderata e di questi, il 95% ha indicato come aggressore una donna.

Il 18% del campione ha riportato di aver subito coercizione sessuale attraverso la  forza fisica (“mi ha minacciato di usare o ha usato un’arma”); il 31% ha affermato che era stato costretto verbalmente (mi ha minacciato di smettere di vedermi) , il 26% di essere stato sedotto attraverso comportamenti sessuali indesiderati (ha cercato di sedurmi toccandomi anche se non ero interessato); e il 7% ha dichiarato di essere stato costretto dopo aver ricevuto alcool o droghe (“mi ha incoraggiato a bere alcoolici e poi ha approfittato di me”). La metà degli studenti ha detto che ha finito per avere rapporti sessuali completi , il 10% ha segnalato un tentativo di avere rapporti sessuali e il 40% ha detto che il risultato è stato baciare o toccare.

Per differenziare la coercizione sessuale da eventuali abusi su minori , è stato chiesto agli studenti di non includere le esperienze con i familiari. Per ulteriori informazioni,  I ricercatori hanno inoltre chiesto ai partecipanti di descrivere il momento in cui si sono sentiti costretti sessualmente. Gli studenti hanno anche risposto a numerose valutazioni psicologiche per misurare il loro livello di funzionamento psicologico, disagio e comportamenti a rischio.

Essere costretti a  rapporti sessuali è apparso correlato ad un maggior pericolo di consumo di alcool e di adozione di comportamenti sessuali a rischio, e gli studenti che sono stati costretti in stato di ebbrezza  o sotto effetto di droghe hanno mostrato un disagio significativo. Tuttavia avere rapporti sessuali non desiderati sembra non avere influenza sull’autostima delle vittime  come invece accade per le donne.

Il tipo e la frequenza di coercizione sessuale varia secondo l’etnia delle vittime. Gli  studenti latini  hanno riportato una percentuale significativamente alta (40%) di esperienze sessuali indesiderate contro l’8% degli americani di origine asiatica , il 19% dei bianchi e il 22% degli studenti multirazziali.

I risultati di questo studio hanno rivelato la necessità di osservare scientificamente la sottile differenza esistente tra la “seduzione sessuale” e la “coercizione sessuale” in quanto la seduzione è una forma particolarmente rilevante e pervasiva di coercizione sessuale.

ARGOMENTI CORRELATI:

SESSO-SESSUALITA’GENDER STUDIES  – ABUSI E MALTRATTAMENTI – ADOLESCENTI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

French, B. H., Tilghman, J. D., & Malebranche, D. A. (2014, March 17). Sexual Coercion Context and Psychosocial Correlates Among Diverse Males. Psychology of Men & Masculinity. Advance online publication.

 

Prendimi l’anima (2002) – Cinema & Psicoterapia nr.22

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #22

Prendimi l’anima (2002)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Prendimi l'anima-LOCANDINA

Nel film emerge in maniera chiara e forte come tra paziente e terapeuta si possano oltrepassare i confini e quali conseguenze ne derivano per la terapia.

Un ottimo esempio da utilizzare per metacomunicare sulla relazione terapeutica quando essa assume aspetti che possono sfuggire ad una corretta gestione.

Info:

Un film di Roberto Faenza. Interpretato da Iain Glen ed Emilia Fox. Italia 2002. Drammatico.

Trama: 

Due giovani studiosi si trovano a Mosca per svolgere ricerche sulla vita della psicoanalista russa Sabina Spielrein. I due ricostruiscono la vita di Sabina, dal suo ricovero a Zurigo nel 1904 per una grave forma di isteria, all’incontro con Carl Gustav Jung, che la prende in cura e riesce a guarirla. Sabina comincia ad interessarsi di psicoanalisi. Nasce così un’intensa relazione amorosa tra lei e Jung. La storia finisce, i due si lasciano e la ragazza completa la sua cura presso Freud, torna in Russia e diventa ella stessa una delle pioniere dell’analisi applicata ai bambini.

Motivi di interesse:

Il giovane dr. Jung non resiste al fascino di Sabina Spierlein, giovane paziente isterica che si innamora di lui. Il film non mostra quali siano le cause dei disturbi della paziente né tanto meno come il terapeuta li cura. La narrazione è incentrata sulla relazione, che rischia di provocare uno scandalo. La psicanalisi era ancora giovane e poco affermata.

Jung regala a Sabina la sua Anima, la parte femminile della psiche maschile – necessaria per avere un rapporto pieno con l’altro sesso (nella donna la parte maschile viene chiamata Animus). Il percorso per arrivare a questa donazione è lungo e spesso illusorio. L’Anima può essere incarnata sia in un’ideale immaginario un amore idealizzato sia in una donna reale.

Sabina era l’Anima di Jung e Jung l’Animus di Sabina? 

L’interrogativo rimane aperto come in tutti i casi in cui nella relazione terapeutica si va oltre. Solo la supervisione e un serio lavoro personale può condurre alla comprensione, ma in quel tempo i pericoli di un metodo che consisteva nell’entrare in intimo contatto con il paziente non erano completamente noti. Jung a fatica si rivolge a Freud per capire cosa stava accadendo. Il timore delle conseguenze negative sul suo prestigio e lo scandalo che poteva suscitare una storia del genere con le implicazioni per tutto il movimento erano troppo forti. Lo stesso Freud fa del tutto per salvaguardare la nascente scienza psicoanalitica e l’immagine del suo prediletto allievo.

Il film non si sofferma più di tanto, quindi, sulle conseguenze della violazione del setting. Sabina verrà seguita da Freud, Jung non sappiamo come risolse il rapporto e guarì le sue ferite, ma il film ci mostra il giovane analista che chiede a Sabina di interrompere la relazione dicendo “Io ti ho compresa nella tua malattia… Ti prego, ora comprendi me nella mia…”. 

Indicazioni per l’utilizzo: 

La violazione del setting è un tema su cui troppo spesso si è sorvolato. Nel film emerge in maniera chiara e forte come tra paziente e terapeuta si possano oltrepassare i confini e quali conseguenze ne derivano per la terapia. Un ottimo esempio da utilizzare per metacomunicare sulla relazione terapeutica quando essa assume aspetti che possono sfuggire ad una corretta gestione. La visione può essere molto interessante anche in chiave didattica, per la formazione dei trainee.

Trailer:

 

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

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BIBLIOGRAFIA:

 

Lo smartphone: un’arma a doppio taglio per la produttività

 

 

Lo smartphone- un'arma a doppio taglio per la produttività. - Immagine:© Scanrail - Fotolia.com Sembra che la percezione di una definizione più o meno netta tra lavoro e vita privata moderi la relazione tra uso dello smartphone a scopo produttivo e percezione dello stress legato al lavoro.

In Italia, il 41% della popolazione possiede uno smartphone e in media ogni utente lo utilizza per navigare la rete per quasi 2 ore al giorno (dati “We are Social” aggiornati a gennaio 2014). Se ci aggiungiamo il tempo che si passa al lavoro (chi su PC o altri dispositivi, chi lontano da essi), possiamo presumere che buona parte di quelle due ore faccia riferimento al tempo speso a casa.

Il web stesso pullula di notizie che sottolineano quanto gli smartphone, soprattutto attraverso i social network, stiano danneggiando la nostra vita sociale e relazionale. Aperitivi passati ognuno con gli occhi sul proprio schermo, concerti non ascoltati ma ripresi dalle telecamere dei telefonini, essere sempre fisicamente da una parte e con la testa da un’altra. Le polemiche si sprecano, dalle selfie a ogni ora e in ogni posizione, alla mania di Instagrammare i piatti prima di mangiarli, ai giochi più o meno pericolosi che spopolano su facebook sotto la forma di catene di Sant’Antonio.

Quando si parla di smartphone e produttività, si tende a pensare a quanto questi strumenti possano distrarre dal lavoro e dalle mansioni, provocando un calo nelle prestazioni. Si considera poco l’altra faccia della medaglia, cioè la misura in cui questa possibilità di essere contemporaneamente in più posti si ripercuota sul benessere dei lavoratori una volta che arriva il momento di tornare a casa.

Una ricerca condotta dall’Università di Rotterdam (Derks et al., 2014) ha indagato la relazione tra l’utilizzo dello smartphone per scopo di lavoro ma fuori dall’orario lavorativo (come la lettura delle e-mail), il distacco psicologico dal lavoro una volta rientrati a casa e la sensazione di stanchezza lavorativa, prendendo in considerazione anche la percezione di una divisione più o meno netta tra la vita privata e quella lavorativa.

In particolare, Dersk e colleghi hanno indagato con un diario quotidiano su 4 giorni lavorativi successivi quanto i partecipanti si sentivano in dovere di controllare messaggi e e-mail fuori dall’orario di lavoro, quanto erano in grado di lasciare le questioni lavorative fuori dalla porta di casa, quanto valutavano stressante il proprio lavoro e quanto percepivano che la loro azienda incentivasse e richiedesse un impegno e una reperibilità anche al di fuori delle otto ore.

Analizzando i dati raccolti in quattro diversi setting è emerso come un maggiore uso degli smartphone a scopo lavorativo una volta rientrati in casa fosse correlato con una maggiore difficoltà a staccare la spina e, a sua volta, come questo fosse correlato con una sensazione di maggiore stress e maggiore stanchezza per il proprio lavoro. E fin qui, sono risultati che potevamo immaginare.

La cosa interessante è il ruolo che sembra giocare la percezione dei lavoratori rispetto alle norme implicite dettate dall’azienda per quanto riguarda la chiarezza dei confini tra lavoro e vita privata. Sembra, infatti, che, le persone che normalmente accettano di buon grado che il proprio lavoro si inserisca anche nel tempo in cui non sono in ufficio siano più capaci di staccare dal lavoro nei giorni in cui utilizzano di più il proprio smartphone. Secondo gli autori, queste persone potrebbero essere abituate a continuare a preoccuparsi per questioni lavorative anche una volta rientrate a casa, e l’utilizzo dello smartphone in questo senso potrebbe funzionare da strumento di controllo con la capacità di calmare queste preoccupazioni.

Sembra allora che la percezione di una definizione più o meno netta tra lavoro e vita privata moderi la relazione tra uso dello smartphone a scopo produttivo e percezione dello stress legato al lavoro.

In questo senso, politiche come quella promossa dalla Volkswagen, che prevedono che le e-mail degli impiegati non siano più utilizzabili 30 minuti dopo la fine dell’orario di lavoro, potrebbero risultare in realtà ansiogene e più stressanti per quei lavoratori che accettano di buon grado di continuare a monitorare le proprie mansioni anche una volta fuori dall’ufficio.

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BIBLIOGRAFIA:

Community-based treatment: trattamenti domiciliari – Psichiatria

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio indiano pubblicato in questi giorni sulla rivista The Lancet evidenzia che i cosiddetti “community-based treatment”- trattamenti domiciliari individualizzati che consentono al paziente di rimanere all’interno della propria comunità gestiti da operatori sociali – sarebbero statisticamente moderatamente più efficaci (in associazione al trattamento usuale psichiatrico) rispetto ai soli trattamenti standard (in tale contesto intesi come visite psichiatriche della durata media di 15-20 minuti con prescrizione di farmaci antipsicotici e brevi informazioni sulla patologia e sulla sintomatologia).

Il trial clinico ha coinvolto 282 pazienti di tre regioni indiane tra l’inizio del 2009 e la fine del 2010. In realtà, il senso dei trattamenti “community-based” nei paesi poveri si innesta paradossalmente anche su un limite di tali sistemi sanitari in termini di scarse disponibilità e accessibilità ai servizi di salute mentale.

L’intervento community-based care messo a punto nello studio mira a promuovere la collaborazione tra soggetti –operatori  sociali afferenti alla rete sociale del paziente selezionati considerando un livello di scolarità medio, buone skills interpersonali e formati per sei settimane per l’erogazione di micro interventi  flessibili finalizzati alla psicoeducazione e basica riabilitazione nell’ambito della psicosi.

Per tali facilitatori è prevista una continua supervisione all’interno dei team di specialisti della salute mentale (tecnici della riabilitazione e psichiatri). Il campione dello studio è composto da pazienti con diagnosi di schizofrenia di età compresa tra i 16-60 anni randomicamente assegnati alla condizione di trattamento standard oppure alla condizione di interventi community-based in associazione al trattamento standard.

Tra le misure di outcome adottate ritroviamo la PANSS (Positive and negative syndrome scale) e la Indian disability evaluation and assessment scale (IDEAS). Dopo 12 mesi, i punteggi delle scale PANSS e IDEAS risultavano significativamente inferiori nel gruppo sperimentale di interventi “community-based” associati al trattamento standard rispetto al gruppo di controllo.

Anche se non si sono riscontrate differenze nella percentuale di pazienti che hanno presentato una riduzione di più del 20% della totalità dei sintomi. In particolare, la riduzione più significativa nella sintomatologia e nella quota di disabilità si è riscontrata nei villaggi rurali del Tamil Nadu che non avevano accesso ad alcuna struttura di salute mentale; riduzione sintomatologica maggiore rispetto alle altre due aree semi-urbane con maggiore accessibilità ai servizi psichiatrici.

Interessante anche notare che gli interventi riabilitativi community-based domiciliari però non hanno avuto modo in ogni caso di modificare la stigmatizzazione e migliorare la comprensione della patologia da parte dei familiari. Lo studio è registrato come un International Standard Randomised Controlled Trial, numero ISRCTN 56877013.

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SMART methodology: sequential multiple assignment randomized trial

 

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SMART methodology. -Immagine: © Yabresse - Fotolia.com

A SMART is unique from other clinical trials as it uses multiple randomizations and a tailoring variable to customize treatment to meet individuals’ needs, while still maintaining its research integrity.

To the State of Mind community,

In my absence from state of mind for the last several months, I spent my days implementing, managing and coordinating a newly developed clinical trial research methodology. The clinical trial that I have been working on is named a sequential multiple assignment randomized trial or SMART.

A SMART is unique from other clinical trials as it uses multiple randomizations and a tailoring variable to customize treatment to meet individuals’ needs, while still maintaining its research integrity.

A SMART is able to do this through structured treatment sequencing and the timed application of a tailoring variable. Ultimately, in contrast to the standard randomized control trial (RCT), which compares the effectiveness of two treatment types, SMART compares two-treatment types as well as four embedded treatment strategies.

The development of a SMART begins much like an RCT. Investigators decide on two initial structured treatment types that they wish to compare the effectiveness of.  A third treatment type is also included.  This third treatment type plays an essential role in the trial, but will not be utilized until later in treatment. Investigators then decide upon the timing of treatment and the measures used to assess their participants progress.

There are three essential measurement points in a SMART.  Like an RCT, there is a baseline assessment and a follow up assessment. In theory, these assessments measure participants’ initial symptoms and their symptoms at completion of the trial.  The third assessment point that is unique to the SMART is called the tailoring variable. The three treatments and tailoring variable, sums the essential content of a SMART.

The best way to explain a SMART is to walk readers through the methodology.

An individual is recruited for the study based on predetermined criteria.  The individual is then assessed using a battery of questionnaires to determine their eligibility (baseline assessment).  If they are deemed eligible, they are then randomized into one of two forms of treatment. Individuals will then continue their assigned treatment for a predetermined period of time.  After this time is finished, individuals are assessed again using a battery of questionnaires. This battery assessment makes up the tailoring variable.  Depending on the individuals’ scores on this assessment, one of two things can happy. They can continue treatment (if they are progressing well).

The second option is that they can be re-randomized (if their scores are lower than the pre-determined cut-off scores).  If an individual is re-randomized, they can either be placed into a new form of treatment entirely or continue their original treatment alternated or combined the third form of treatment (typically medication).  Individuals will then continue in their predetermined course of treatment while being assessed periodically.  Once treatment is completed, individuals will complete their follow up assessment.

The successful completion of a SMART results in the comparison of multiple treatment pathways.  This includes the comparison of two treatment types, as you would in a standard RCT, as well as the sequence of multiple treatment types. This is truly a novel way of examining not only the effectiveness of individual treatment, but treatment sequences as well.

I’m happy to answer any questions about SMART methodology.

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True: piani di vita e scopi esistenziali nell’autobiografia di un campione

 

 

 

TRUE: LA MIA STORIA.

Una lettura in chiave LIBET dell’autobiografia di un campione

 

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True: la mia storia di Mike Tyson - Immagine: copertinaSin dai primi capitoli emergono forti esperienze di paura, indegnità e marcata deprivazione affettiva che il giovane Tyson si trova a vivere, tanto in un contesto familiare instabile e degradato quanto all’esterno, vittima di bullismo e violenze da parte di coetanei e membri della delinquenza locale.

Questa è molto più della storia di un campione della boxe. E’ la traiettoria epica di un uomo in lotta con le sue paure”.

Le parole di Spike Lee sembrano descrivere alla perfezione la recente opera autobiografica di Mike Tyson, nella quale l’ex campione plurititolato dei pesi massimi ripercorre le tappe salienti della sua esistenza, dall’infanzia a Brownsville fino alla sua vita odierna da genitore e uomo di spettacolo, passando attraverso la scoperta del pugilato, le vittorie (quasi tutte per KO nelle prime riprese), le sconfitte, gli eccessi, i guai giudiziari, la bancarotta e la voglia di riscattarsi dal passato e divenire una persona migliore.

Attraverso il lavoro autobiografico, siamo in grado di cogliere tutti quei significati personali, quei modelli cognitivi e quei temi caratterizzanti la storia di vita della persona – oltre che la loro evoluzione temporale – che stanno alla base degli eventi narrati; possiamo inoltre farci aiutare dal modello LIBET e identificare quei “luoghi mentali intollerabili” e piani di vita  per meglio inquadrare e comprendere il personaggio “Iron Mike”.

Sin dai primi capitoli emergono forti esperienze di paura, indegnità e marcata deprivazione affettiva che il giovane Tyson si trova a vivere, tanto in un contesto familiare instabile e degradato – fatto di continui sfratti, carenza d’igiene e una madre quale unica figura genitoriale, descritta come anaffettiva, svalutante, dipendente dall’alcool e spesso fisicamente abusante – quanto all’esterno, vittima di bullismo e violenze da parte di coetanei e membri della delinquenza locale.

Tali vissuti dolorosi, e il costante bisogno di affetto e riconoscimento sociale contribuiscono allo sviluppo di veri e propri piani di vita di carattere impulsivo e sopraffacente che se da un lato gli consentono maggiore protezione e rispetto sulla strada, dall’altro lo portano costantemente a contatto con le forze dell’ordine, ad essere arrestato e collocato in riformatorio.

L’incontro con l’allenatore Cus d’Amato rappresenta uno snodo centrale nella vita di Tyson: da lui acquisirà l’impostazione tecnica, la preparazione atletica e quella convinzione narcisista di essere il miglior pugile di tutti i tempi, fattori che lo portano, a soli vent’anni, a diventare Campione Mondiale dei Pesi Massimi.

La fama e i successi sportivi però non bastano: Tyson si sente un “naufrago della vita”, senza figure significative presenti nella sua vita, e con sensi di indegnità e non amabilità affrontati nuovamente mediante strategie di ipercompensazione a breve termine –  fatte di abusi di sostanze, promiscuità sessuale, eccessi di spesa e ripetute aggressioni – sostenute da convinzioni di carattere vendicativo (“a che scopo comportarsi bene se nessuno tiene a te?”) e rivendicativo (“volevo che la gente si inchinasse ai miei piedi”).

L’accusa di stupro, il carcere, la sconfitta con Lewis, la bancarotta dichiarata nel 2003 e soprattutto la morte della figlia Exodus incrinano progressivamente il fragile narcisismo di Mike, che sprofonda nella depressione e nella dipendenza da sostanze; queste esperienze dolorose, tuttavia, sono anche la fonte di una nuova consapevolezza di sé e dei suoi trascorsi, attraversata dal rimorso  ma anche dalla ferma intenzione di costruire una nuova vita e modelli relazionali più funzionali.

L’impegno nella disintossicazione e nell’acquisizione stabile di un ruolo maritale e genitoriale ci mostrano un Tyson nuovamente sul quadrato, impegnato nel match più duro e prezioso di tutta la sua vita: quello contro sé stesso.

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Depressione & Postura: quale legame? – Embodied Cognition

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Anche minimi cambiamenti a carico del sistema motorio possono influenzare uno dei bias cognitivi chiave in gioco nella depressione.

Le nuove propsettive dell’embodied cognition evidenziano quanto le nostre cognizioni siano fondate (e influenzate) dal corpo, con uno strettissimo legame tra percezione, azione e cognizione. Similmente, se parte costitutiva delle emozioni sono le valutazioni cognitive, il sistema motorio, in termini di azioni motorie e posture corporee, può significativamente influenzare anche i processi emotivi.

Un recente studio ha analizzato gli effetti di differenti posture sulla tendenza di soggetti clinicamente depressi a richiamare alla memoria episodi e ricordi negativi autoriferiti.

Trenta pazienti con diagnosi di depressione e sono stati coinvolti nello studio chiedendo loro di assumere una posizione slumped oppure una postura eretta mentre immaginavano mentalmente sé stessi leggendo parole positive o negative-depressive presentate sullo schermo di un pc.

Al termine della presentazione delle parole è stato chiesto loro di rievocare e verbalizzare quante più parole possibile avevano visualizzato. Dai dati è emerso un interessante effetto di interazione tra il tipo di postura assunta e il tipo di parole visualizzate (in termini di valenza): i pazienti che avevano assunto una postura slumped presentavano un bias nel recupero mnestico di parole a valenza emotiva negativa, e cioè rievocavano in misura maggiore parole negative rispetto a parole positive; effetto assente in pazienti depressi ma che durante il task avevano assunto una postura eretta.

Dunque , anche minimi cambiamenti a carico del sistema motorio possono influenzare uno dei bias cognitivi chiave in gioco nella depressione.

Se è vero che la postura ricurva è per antonomasia una delle manifestazioni posturali corporee della tristezza, è anche da riconoscere il ruolo di feedback che tale postura ha nel mantenere o probabilmente accrescere la tristezza, le memorie a valenza negativa e le relative convinzioni autosvalutative del sé.

Va da sé che condividere con il paziente la consapevolezza di tali fenomeni e i loro effetti di interazione tra mente e corpo apre la strada anche ad interventi di carattere integrato non solo top-down (dalla mente al corpo) ma anche bottom-up (dal corpo alla mente).

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BIBLIOGRAFIA:

  • Michalak, J., Mischnat, J. & Teismann, T. (2014). Sitting Posture Makes a Difference—Embodiment Effects on Depressive Memory Bias. Clinical Psychology and Psychotherapy. Published online in Wiley Online Library (wileyonlinelibrary.com). DOI: 10.1002/cpp.1890

 

Sixto Rodriguez, storia romantica di una resurrezione.

 

 

 

Sixto Rodriguez - fotoLa notorietà in Sudafrica non ha lasciato segno nel resto del mondo. Amatissimo lì, questo amore chiuso in un mondo isolato, non ha potuto essere esportato. E in fondo fare il cantante di bar a Detroit assomiglia a essere isolati come nel mondo africano di quegli anni. La povertà e l’oppressione dei posti esclusi del mondo.

Il primo livello di questa storia: un documentarista (Malik Bendjelloul) va in Sudafrica cercando una bella storia, la sua storia. Per fare un documentario.

E la trova.

La storia della ricerca da parte di due persone sudafricane (Sugar, venditore di dischi, e un giornalista) di un cantante folk, Sixto (o Jesus) Rodriguez, estremamente famoso e conosciuto in Sudafrica, in Australia in Rhodesia e del tutto sconosciuto nel resto del mondo, soprattutto negli Stati Uniti.

Di Rodriguez si favoleggia si sia ucciso sparandosi sul palco dopo un concerto infelice e senza successo.

Una morte tragica e romantica. Rodriguez è negli anni settanta la colonna sonora delle lotte dell’apartheid in Sudafrica. Una figura mitica che vende centinaia di milioni di dischi in Sudafrica, e del quale non si sa nulla nel resto del mondo.

Il secondo livello della storia è quello del documentario in sé (che vincerà al Sundance Film Festival nel 2013). Che racconta della ricerca di Rodriguez da parte di Sugar e il giornalista. E alla fine, in modo indipendente per una serie di circostanze fortuite,  lo trovano.  Rodriguez è vivo, non si è ammazzato e sta bene.

La suspense del documentario è costruita proprio dalla ricerca di questo cantante mitico e sparito. Rodriguez appare soltanto a metà della storia.  Timidamente dietro una finestra chiusa.

Il terzo livello è Rodriguez stesso, che è vivo, fa il muratore e il demolitore di case a Detroit. Fino al 1998 è sparito da ogni scena (a parte due piccoli tour negli anni 80 in australia) ed è un uomo giusto.  Un cantante straordinario, uno scrittore di testi complessi e poetici (crucify your mind ad esempio) e un personaggio capace di tenere la scena e di giustificare le sue scelte di vita e artistiche come pochi altri.

Dopo che i due dischi d’esordio  non ebbero alcun successo in Usa viene abbandonato dalla sua casa discografica e torna a fare il muratore e a suonare la chitarra per puro divertimento. Si sposa (anche se la moglie è l’unico vero fantasma di questa storia) ha tre figlie, si candida a sindaco di Detroit, perde le elezioni, si laurea in filosofia. Da ciò che raccontano le figlie è stato un bravo padre, curioso e colto che le portava nei musei e discuteva di politica.

Poi è stato “ritrovato” e nel 1998 ha fatto alcuni concerti in Sudafrica di grandissimo successo,  l’incarnazione da vivo di un fantasma che per decenni aveva vissuto solo nelle copertine dei suoi due dischi.

Poi c’è stato il documentario che ha raccontato questa storia e che ha vinto l’Oscar 2013 per il miglior documentario. Oggi questa è  divenuta una storia globale.

Che commuove e che ha commosso tutto il mondo.

Ma cosa ci commuove?

Discutendo con alcuni giovani intorno a un bicchiere di vino dopo aver visto Searching for Sugar Man ho chiesto a ciascuno di loro quale fosse il punto più commovente di questa storia.  Per Giulia il punto commovente è il tempo che Rodriguez ha perso, il tempo della sua vita che non tornerà più. Per Brian, che nella vita studia archeologia dell’Africa, il punto doloroso fino alle lagrime è l’isolamento che ha avuto il Sudafrica ai tempi dell’apartheid. Questo isolamento  spiega che la notorietà in Sudafrica non ha lasciato segno nel resto del mondo. Amatissimo lì, questo amore in un mondo isolato, non ha potuto essere esportato. E in fondo fare il cantante di bar a Detroit assomiglia a essere isolati come nel mondo africano. La povertà e l’oppressione dei posti esclusi del mondo.

Per Stefano il punto doloroso di questa bellissima storia è che se sei sparito chiunque può sparire e molti non verranno mai ritrovati, trovati, il dolore delle vite che non hanno qualcuno che le sappia raccontare.  Per fabrizio è la restituzione dell’equità ad una storia che era stata profondamente ingiusta.

Per Livia  la commozione ha a che fare con la morte che è vicina, con il timore che la morte arrivi, e lo porti via ora, che ha più di settanta anni e sembra che la sua vita abbia finalmente raggiunto il punto del riconoscimento che gli era dovuto.

Questo discorso, la memoria che unica permette alle storie di vivere e alle vite di avere avuto un senso, mi ricorda un libro struggente e straordinario di Daniel Mendelsohn che ho letto in questi mesi, si chiama The Lost, e racconta la puntigliosa ricerca di una famiglia ebraica persa nella catastrofe della seconda guerra mondiale, al confine tra Polonia e Ucraina.  Cercare e trovare la storia di ciascuno è costruire il senso stesso di queste vite perdute.

Ma non è questo il tema che segna il nostro secolo a cavallo tra novecento e il secondo millennio? Anche il narratore della Recherche, che non è il protagonista Marcel, ma colui che costruisce il libro,  mettendo insieme tutti i pezzi della memoria del protagonista in una sintesi, dà un senso, costruisce e spiega, un secolo intero, e forse la vita stessa.  Proust scrisse l’ultimo capitolo della Recherche dopo avere scritto il primo. Un cerchio chiuso,  che era già previsto all’inizio.

Cosa ha commosso me in questo documentario che consiglio a tutti di vedere? La melanconia del tempo perso ma anche la commozione, tutta novecentesca del lieto fine. La visione del concerto a Capetown del ‘98, dove, alla fine Rodriguez, sul palco appare, come se nulla fosse, si mette a suonare, e le sue canzoni sono straordinariamente belle (una voce struggente e unica al servizio di queste canzoni) e cantate da tutti tra le lacrime,  è la commozione del lieto fine che tutti sogniamo, quando la vita ci chiede prove dure e difficoltà,  e sembra non darci la speranza che tutto alla fine andrà in ordine. La commozione in realtà è dolorosa ma anche piena di speranza.

E come è accaduto a Milano con il suo concerto di questi giorni, tutti vorremmo un lieto fine, essere accompagnati sul palco, tremanti e anziani, per un ultimo applauso.

 

VIDEO: Crucify your mind. Sixto Rodriguez

RIFERIMENTI: 

 

 

 

Una scrivania in ordine stimola la generosità, una in disordine la creatività

 

 

 

Se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata,

di cosa sarà segno allora una scrivania vuota?

Albert Einstein

 

Scrivania disordinata. - Immagine: © Stauke - Fotolia.comL’essere ordinati e prediligere ambienti precisi è sempre stato visto come qualcosa di positivo, che stimola e accentua caratteristiche psicologiche altruistiche, e l’accordo è unanime in letteratura; ma anche il disordine può esserlo?

Oppure è soltanto l’altra faccia della medaglia legata, quindi, ad aspetti maggiormente negativi come il non rispetto delle regole e delle convenzioni?

Un gruppo di ricercatori (Vohs, Redden, & Rahinel, 2013) si è posto questa domanda, conducendo tre esperimenti volti a capire quali stati psicologici e quali comportamenti vengono attivati da un ambiente ordinato e quali da uno in confusione.

La ricerca ed i lavori passati sembrano essere d’accordo nel descrivere le persone che preferiscono l’ordine come persone che attribuiscono valore alle tradizioni, alle convenzioni e al conservazionismo (Dollinger, 2007). Da un punto di vista antropologico sembra che l’ambiente fisico ordinato sia spesso legato alla moralità e alla correttezza, mentre il disordine si leghi maggiormente alla devianza e i taboo. Analogamente alcuni studi dimostrano che un concetto simile, e in parte legato all’ordine, come quello della pulizia conduca a buoni comportamenti morali come la reciprocità (Liljenquist, Zhong & Galisky, 2010).

Non c’è niente di buono nell’essere o nel preferire ambienti disordinati? O magari ci sono conseguenze positive anche nell’avere una scrivania in confusione?

Gli studiosi sono partiti dall’ipotesi che un ambiente ordinato, in linea con quanto viene riportato dai lavori precedenti, possa incoraggiare l’aderenza alle convenzioni sociali mentre un ambiente disordinato possa comunque favorire la ricerca di novità.

Nello specifico hanno deciso di valutare se una stanza in ordine potesse predirre comportamenti che in letteratura sono associati con le convenzioni come il mangiare sano (Roberts, et al. 2009) e l’essere generosi (Lilijenquist, et. Al, 2010). In più hanno cercato di indagare se, invece, una stanza in disordine, potesse stimolare la creatività e la novità.

Nel primo esperimento 34 studenti sono stati assegnati casualmente ad una delle due condizioni previste, stanza ordinata o disordinata ricevendo un piccolo compenso per la partecipazione. Le stanze in questione erano adiacenti e della stessa dimensione e configurazione in modo da tenere sotto controllo ogni altra variabile compresa l’esposizione alla luce e la grandezza degli spazi. All’interno di questi ambienti ai soggetti è stato chiesto di compilare un questionario in modo da rendere omogeneo anche il tempo trascorso nell’ambiente. Successivamente i partecipanti venivano informati circa un iniziativa promossa dal Dipartimento in supporto a bambini in difficoltà. Pertanto è stato chiesto loro se e in che misura volessero prendere parte al contributo scrivendo su un pezzo di carta l’importo che avrebbero donato. Infine i ricercatori, nel momento di discutere con i soggetti quanto compilato nel questionario, invitavano gli stessi a prendere una mela od uno snack.

I risultati supportano quanto previsto. I soggetti che avevano preso parte all’esperimento e avevano trascorto tempo nella stanza ordinata hanno donato circa il doppio rispetto agli altri prediligendo lo spuntino sano piuttosto che quello al cioccolato in misura maggiore rispetto a coloro che erano stati assegnati alla stanza disordinata. Pertanto stare seduti in una stanza ordinata porta a comportamenti maggiormente desiderabili come mangiare cibi sani ed essere maggiormente generosi. 

Nel secondo esperimento i ricercatori hanno cercato di valutare gli effetti potenzialmente positivi di una stanza in disodine. Se il caos incoraggia il rompere le regole e le convezioni questo dovrebbe favorire la creatività, così analogalmente all’esperimento precedente 44 soggetti hanno preso parte ad una delle due condizioni in 2 stanze uguali in tutto eccetto che per il grado di disordine e il compito al quale sono stati sottoposti è stato quello di inventare 10 nuovi usi per una pallina da ping pong.  Giudici indipendenti hanno valutato tali idee arrivando al risultato che supporta l’ipotesi iniziale, cioè coloro che hanno svolto il compito nella stanza disordinata sono risultati maggiormente creativi sia in qualità che in quantità di idee.

Infine l’ultimo esperimento è stato condotto in modo da verificare se un ambiente disordinato o ordinato tendesse a portare a scelte “nuove” piuttosto che “classiche”. Anche l’ultimo esperimento conferma quanto previsto. I soggetti assegnati alla condizione di disordine tendevano a prediligere l’etichetta “nuovo” al contrario del gruppo assegnato alla stanza ordinata che tendeva ad effettuare scelte più conservative.

In conclusione gli esperimenti condotti dagli studiosi supportano un corpo di dati già presenti in letteratura sugli ambienti ordinati che stimolano qualità altrustische, comportamenti convenzionali nel rispetto delle norme e delle tradizioni, aggiungendo però anche un punto in più per coloro che preferiscono ambienti disordinati e scrivanie piene di fogli; ciò non significa essere necessariamente devianti o avere comportamenti fuori dalle regole, ma potrebbe essere uno stimolo per cercare di vedere oltre, incoraggiando il pensiero creativo e l’insight.

D’altronde come disse il genio, e sicuramente creativo, Einsten: Se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata, di cosa sarà segno allora una scrivania vuota?

 

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