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Sinestesia – Definizione da Psicopedia

 

 

 

Sinestesia

 

PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataLa sinestesia (dal greco syn, “insieme” e aisthánestai, “percepire”) è un processo percettivo (non cognitivo) inconsueto che consiste nell’interazione e sovrapposizione spontanea e incontrollata di più sensi.

Essendo il cervello dotato di una funzionalità selettiva dei dati esterni, distribuita in più aree (si parla infatti di “specializzazione funzionale” della corteccia cerebrale e di “corteccia associativa”), la percezione dei differenti elementi che costituiscono la realtà interessata – ossia il colore, il movimento, i volti ed i suoni – avviene generalmente in maniera molto localizzata e distinta. La percezione cromatica, ad esempio, interessa una zona della corteccia visiva definita area V4; quella uditiva interessa una zona detta corteccia uditiva; il movimento è codificato in un’area della corteccia visiva detta V5 etc…

In alcuni casi, tuttavia, accade che la percezione di uno stimolo esterno venga associata a quella di uno completamente diverso e perfino inesistente rispetto alla realtà con cui ci si sta rapportando in quell’istante. Ad esempio in qualche soggetto la percezione del suono riesce a stimolare la zona corticale V4, specializzata nel riconoscimento dei colori (si parla in questo specifico caso di sinestesia di tipo A), provocando un’inedita percezione cromatica, senza che sia effettivamente intervenuto lo stimolo coloristico.

Nel caso della sinestesia di tipo A, un uomo è in grado pertanto di percepire e riprodurre un colore attraverso l’ascolto di un particolare suono o nota, perfino sovrapposto all’eventuale immagine osservata in cui tale cromia è elusa.

Si parla così di “sinestesia”, processo che resta ancora misterioso per i neuroscienziati, i quali propendono per l’ipotesi della presenza di connessioni particolari (o l’esistenza di vere e proprie zone di contatto tra le differenti aree o di particolari fibre nervose all’interno delle singole aree cerebrali) che conferirebbero alla persona interessata la capacità di saper individuare delle nuove relazioni.

Mozart e Kandinsky, per riportare due famosissimi esempi, “soffrivano” di questa corrispondenza che quasi certamente ha contribuito allo sviluppo della loro creatività.

La presenza di alcune cellule predisposte ad associare percezioni e concetti anche lontani, presenti generalmente in numero maggiore in alcuni individui più “creativi” ha ultimamente condotto a pensare che ci sia un effettivo legame tra sinestesia e creatività.

Probabilmente, senza essere dei soggetti sinesteti, è possibile, affinando la propria sensibilità con il coinvolgimento globale dei sensi, conquistare l’ispirazione artistica!

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori dell’Università della California hanno recentemente scoperto che i farmaci antipsicotici hanno un’azione anti-tumorale proprio contro il glioblastoma.

Il glioblastoma è uno dei tumori cerebrali più conosciuti e si stima che vengano diagnosticati 10000 nuovi casi all’anno negli USA. Attualmente il glioblastoma è uno dei tumori con il più elevato tasso di mortalità, con una prognosi che nella maggior parte dei casi si attesta intorno ai due anni di sopravvivenza, seppur la mediana dei tempi di sopravvivenza si attesti ancora intorno ai 14 mesi, in quanto altamente aggressivo e resistente ai trattamenti radio e chemioterapici e praticamente impossibile da asportare chirurgicamante per la sua caratteristica infiltrante.

 

I ricercatori dell’Università della California hanno recentemente scoperto che i farmaci antipsicotici  hanno un’azione anti-tumorale proprio contro il glioblastoma.

Questo gruppo, capitanato dal dottor Chen, ha utilizzato una tecnica nota come  shRNA (alla cui scoperta è stato assegnato il Premio Nobel in Fisiologia/Medicina nel 2006) per testare come ciascun gene del genoma umano contribuisca alla crescita del glioblastoma. Gli shRNAs permettono infatti di scoprire la funzione dei geni, funzionando come “disattivatori” molecolari contro ciascun tipo di gene del genoma umano. Una volta costruiti gli shRNA vengono inglobati nei virus e introdotti nelle cellule tumorali.

Il principio di azione è quindi il seguente: se esistesse un gene specifico per la crescita del glioblastoma, essendo lo shRNA in grado di eliminare la funzione di qualsiasi gene, le cellule tumorali smetterebbero di crescere o morirebbero.

La scoperta di questo gruppo di ricerca è stata che molti geni necessari per la crescita del glioblastoma sono necessari anche per il funzionamento dei recettori dopaminergici. La dopamina è una piccola molecola rilasciata dai neuroni che si lega ai recettori dopaminergici che circondano i neuroni, rendendo possibile la comunicazione intra-neuronale. Un’anomala regolazione della dopamina è associata alla Malattia di Parkinson, alla schizofrenia e al Deficit di Attenzione-Iperattività, per la cui cura vengono utilizzati farmaci detti appunto dopamina-antagonisti, tra cui alcuni anti-psicotici.

Seguendo quanto scoperto attraverso l’utilizzo degli shRNA questo gruppo di ricerca ha sperimentato gli effetti delle molecole dopamina-antagoniste contro il glioblastoma trovando che questi farmaci hanno un effetto anti-tumorale significativo sia nelle cellule coltivate in laboratorio che nei modelli animali. Questi farmaci combinati con altri farmaci utilizzati per il trattamento del glioblastoma hanno mostrato un’azione sinergica nell’arrestare la crescita tumorale.

Questa scoperta è quindi molto importante in quanto questi farmaci ad azione dopamina-antagonista vengono normalmente utilizzati per altri scopi nell’uomo e quindi per essere utilizzati nel trattamento del glioblastoma non necessitano di lunghi tempi di test pre-clinici. Inoltre questi farmaci si sono mostrati in grado di superare la barriera emato-encefalica, e quindi di entrare nel cervello, contrariamente a quanto avviene per il 90% dei farmaci in commercio.

 

 

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 BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

La Resilienza e i Disturbi Depressivi – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

 La Resilienza e i Disturbi Depressivi

Anastasi Serena 1, Verdolini Norma 1, Scierma Tiziana 2, Elisei Sandro 2, Quartesan Roberto 3

1 Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Perugia
2 Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia
3 Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia

 

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Will Hunting – Genio ribelle (1997) – Cinema & Psicoterapia nr.21

 

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #21

Will Hunting – Genio ribelle (Good Will Hunting)(1997)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Will Hunting – Genio ribelle (1997) – Cinema & Psicoterapia nr.21

Il film può essere un’ottima base di discussione sulla valenza della self-disclosure, su come, quando e perché il terapeuta può svelare aspetti di sé o eventi di vita personali vissuti. 

Info:

Un film di Gus Van Sant. Interpretato da Matt Damon, Robin Williams, Ben Affleck e Minnie Driver. Commedia. Usa 1997. Vincitore di due premi Oscar.

Trama: 

Il film racconta la storia di Will Hunting, un ragazzo prodigio, autodidatta che lavora come bidello al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Dimostra un gran talento per la matematica superando, nella risoluzione di problemi complessi, anche i docenti universitari.

Will vive, però, in modo precario e scombinato, con alcuni amici teppisti. Non sfrutta il suo talento, ha difficoltà a relazionarsi con le altre persone, persino con Skylar (Minnie Driver), la sua ragazza, studente ad Harvard.

Dovrà imparare ad affrontare e superare la paura dell’abbandono per amare e fidarsi. In questo compito lo aiuterà il suo amico Chuckie (Ben Affleck) e sopratutto il dottor Sean McGuire (Robin Williams) uno psicologo che ha vissuto esperienze difficili simili a quelle del ragazzo. Tra i due nasce una relazione terapeutica che porterà Will a cambiare profondamente e il Dr. McGuire a rivedere molte cose della sua vita. 

Motivi di interesse:

Il protagonista è un ragazzo apparentemente come tanti che sfoga la sua rabbia la sera in strada e nel tempo libero legge moltissimo. La sua cultura è paragonabile a quella di un laureato che ha brillantemente concluso il corso di studi. Il professor Gerald Lambeau scopre le capacità intellettive di Will che nel frattempo era stato arrestato per una delle tante risse, e gli propone la libertà in cambio della frequenza alle lezioni di matematica e di un percorso settimanale con uno psicologo.

Dopo aver preso in giro e messo in fuga molti psicologi Will incontra il dr. McGuire, con cui dopo un inizio titubante instaura un bel rapporto. McGuire viene dal suo stesso ambiente, anche lui ha subito abusi dal padre e il cancro gli ha ucciso la moglie.

Le scene più rilevanti del film riguardano proprio lo snodarsi della relazione terapeutica, tra impasse e rotture da confronto e da ritiro. Will ripropone nel rapporto con il terapeuta gli schemi che hanno determinato le difficoltà con le altre figure significative del suo mondo. Si trascina un forte senso di colpa per un episodio di vita passato.

L’emozione gli impedisce di costruire relazioni – persino con Skylar di cui è innamorato – e mettere a frutto le notevoli risorse di cui dispone. L’attesa paziente del terapeuta, il suo porsi in termini autorevoli e mostrarsi affidabile, dopo una serie di ritiri e di confronti anche aggressivi porta Will a fidarsi.

Sarà, però, il rivelare trascorsi di vita dolorosi e intimi del Dr. McGuire che determinerà nel ragazzo la consapevolezza della necessità di risolvere i suoi problemi e l’impegno a farlo.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può essere un’ottima base di discussione sulla valenza della self-disclosure, su come, quando e perché il terapeuta può svelare aspetti di sé o eventi di vita personali vissuti. 

Trailer:

 

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Si segnala anche: 

  • Il discorso del re (The King’s Speech). Un film di Tom Hooper, con Colin Firth, Geoffrey Rush. Gran Bretagna, Australia. Storico. 2010.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’educatore emozionale. Di Maria Buccolo (2013) – Recensione

 

 

 

L’educatore emozionale.

Percorsi di alfabetizzazione emotiva per l’infanzia.

 di Maria Buccolo

Franco Angeli (2013)

 

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 L'educatore emozionale. Percorsi di alfabetizzazione emotiva per l'infanzia.  di Maria Buccolo Franco Angeli (2013)

Spesso, i genitori, gli educatori, le figure di riferimento per il bambino, non sono in grado di gestire e riconoscere l’emotività di questo esserino. Per questo  spesso soffocano  il vissuto emotivo minimizzando o non riconoscendo l’emozione esperita.

Questo comportamento ha un unico risultato: rendere opaca la mente del bambino al riconoscimento dell’emozione, fino ad apprendere che non gli è concesso di vivere emotivamente qualcosa.

Le emozioni animano la vita quotidiana di ognuno di noi rendendola colorata e appetibile. Infatti, quando siamo felici tutto diventa irresistibilmente meraviglioso, e una giornata uggiosa assume una particolare connotazione. E’ un compito molto arduo far dialogare e coniugare  le diverse parti della vita di ognuno di noi, ma è un obiettivo da raggiungere se si volesse ottenere un corretto sviluppo emotivo. “L’emozione è al centro dell’individuo, è espressione della vita stessa. Saper ascoltare e rispettare le emozioni significa ascoltare e rispettare la persona nella sua globalità“. Riconoscere e vivere le proprie emozioni è un aspetto fondamentale per costruire se stessi e la propria identità.

Le emozioni sono risposte a stimoli provenienti dall’ambiente esterno che provocano cambiamenti a livello fisiologico, comportamentale e psicologico. Cosa fondamentale è vivere pienamente le emozioni senza soffocarle o fugarle.

Non esistono emozioni buone o cattive, giuste o sbagliate, ma solo emozioni che si provano, lo scopo da ambire è “saperle gestire” e non “subirle”.

In questo libro ” L’educatore emotivo. Percorsi di alfabetizzazione emotiva per l’infanzia“, scritto da Maria Buccolo ed edito da Franco Angeli nella sezione il mestiere della pedagogia , avente scopo didattico e rivolto a tutti coloro che lavorano con i bambini, sono presentate le emozioni e le tecniche, esercizi, utilizzabili per confrontarsi e imparare a riconoscerle. Il libro è formato da una prima parte composta da 3 capitoli in cui si enuclea la tesi e da una seconda in cui sono presenti esercizi, schede pratiche.

Capire le emozioni concede la possibilità di empatizzare meglio con il prossimo mettendo in atto comportamenti adeguati e rispondenti alle diverse esigenze e ai vari bisogni.

Spesso, i genitori, gli educatori, le figure di riferimento per il bambino, non sono in grado di gestire e riconoscere l’emotività di questo esserino. Per questo  spesso soffocano  il vissuto emotivo minimizzando o non riconoscendo l’emozione esperita. Questo comportamento ha un unico risultato: rendere opaca la mente del bambino al riconoscimento dell’emozione, fino ad apprendere che non gli è concesso di vivere emotivamente qualcosa.

Nascondere e soffocare le emozioni porta a conseguenze dannose sulla crescita e sullo sviluppo psicofisico del bambino, dando seguito alla messa in atto di una serie di evitamenti e alla costruzione di una corazza che gli permetterà di affrontare malamente il mondo.

Il bambino entra in contatto con le emozioni, inizialmente, attraverso il gioco, e per questo nel libro sono inseriti degli esempi pratici, tipo giochi, che guidano e iniziano al mondo delle emozioni.

Educare con amore e dare il giusto peso non solo ai sorrisi ma anche e soprattutto al pianto del bambino, cercando di capire cosa c’è che non va, dovrebbe essere un presupposto imprescindibile per il sano sviluppo cognitivo. “Saper gestire le proprie emozioni influisce in modo positivo sull’autostima, sulla fiducia e, di conseguenza, sulla riuscita in campo lavorativo e personale, quindi sulla qualità della vita“.

Vivere con la consapevolezza di accettare le emozioni riconoscendole e validandole concede a noi tutti la possibilità di godere a pieno qualsiasi esperienza.

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BIBLIOGRAFIA:

I giovani vittime di violenza familiare hanno più probabilità di sviluppare sintomi depressivi

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli abusi e la violenza subiti dai familiari vengono definiti dal Centers for Disease Control and Prevention come IPV (intimate patner violence) e vengono descritti come danni fisici, sessuali o psicologici da parte di partner attuali o ex o coniugi e rappresentano un problema molto diffuso negli Stati Uniti.

Una recente ricerca della Bowling Green State University mostra che gli adolescenti e i giovani adulti che commettono o sono vittime di IPV sono più propensi a sviluppare un maggior numero di sintomi depressivi.

I ricercatori hanno esaminato i questionari sulla vittimizzazione e sulla perpretazione dell’IPV e hanno preso in considerazione il ruolo del singolo individuo nella violenza (ad esempio se la violenza era reciproca o vissuta solo come vittima o solo come autore). Essi hanno scoperto che alcuni intervistati hanno riportato continui coinvolgimenti in abusi e violenza familiari durante tutte le loro relazioni.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che la vittimizzazione, la perpretazione della violenza e la violenza reciproca portano ad un aumento di sintomi depressivi. Per di più, questi risultati sono validi sia per i giovani maschi che per le femmine, documentando quindi che anche i maschi non sono immuni alle conseguenze psicologiche negative associate all’IPV.

In generale, le giovani donne sviluppano più sintomi depressivi rispetto ai loro colleghi maschi”, spiega la dottoressa Giordano “Tuttavia, in termini di IPV, il nostro studio indica che alti livelli di contrasto all’interno di una relazione intima hanno un simile effetto negativo sul benessere emotivo sia nei giovani uomini che nelle donne”.

La dottoressa Johnson precisa che mentre la vittimizzazione ha un legame più diretto e intuitivo con un peggioramento della salute mentale, la perpretazione corrisponde anche ad aumento dei sintomi depressivi, questo perché la perpretazione è un indicatore di un maggior coinvolgimento in una relazione intima caratterizzata da conflitti estesi e altre dinamiche negative.

Gli sforzi di prevenzione incentrati sull’IPV sembra abbiano cambiato l’atteggiamento della gente comune nei confronti di una generale accettabilità di questo tipo di comportamenti, infatti i responsabili di queste azioni e coloro che fanno uso di violenza nei rapporti intimi non sono immuni da critiche e giudizi sociali negativi”, afferma Johnson.

Lo studio continua, infine, affermando che lo stress psicologico derivante da questi maltrattamenti, inclusi i sintomi depressivi, potrebbe minare all’autostima e alla fiducia in se stessi, compromettendo il naturale passaggio dei giovani all’età adulta.

Di conseguenza, le conseguenze di IPV possono essere a lungo termine e avere ulteriori implicazioni sulle scelte degli individui di formare una propria famiglia e raggiungere la stabilità, nonché il raggiungimento di una stabilità economica e di un’educazione adeguata.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Le distorsioni cognitive nel gioco d’azzardo patologico: quali sono e come agiscono

 

 

 

Distorsioni cognitive nel gioco d'azzardo patologico. - Immagine: ©-Alex-Tihonov-Fotolia.comPer ciò che riguarda la salute occorre distinguere tra chi gioca in modo adeguato (tipicamente per un periodo di tempo breve, con perdite accettabili e in un certo senso calcolate), e coloro che manifestano nel gioco perdita di controllo sulla condotta, disagio emotivo, compulsività e dipendenza.

Oggi tutti sappiamo che ci si può ammalare a causa del gioco. La campagna di sensibilizzazione sociale sui rischi che vi sono connessi ha influito positivamente sulla percezione comune che il gioco, tra rischio sociale ed opportunità economica per lo Stato, rappresenta un fenomeno di rilevanza eccezionale da qualsiasi punto di vista, non ultimo quello sanitario.

Per ciò che riguarda la salute occorre distinguere tra chi gioca in modo adeguato (tipicamente per un periodo di tempo breve, con perdite accettabili e in un certo senso calcolate), e coloro che manifestano nel gioco perdita di controllo sulla condotta, disagio emotivo, compulsività e dipendenza.

Per questo tipo di soggetti trova applicazione la categoria diagnostica di “Gioco d’Azzardo Patologico” (GAP), malattia mentale che rientra tra i disturbi del controllo degli impulsi (APA, 2000). Coloro che ne soffrono divengono progressivamente incapaci di smettere di giocare; i tentativi di controllare o ridurre l’attività di gioco falliscono. In più, l’impegno, il tempo e il denaro spesi nel gioco tendono ad aumentare. A ciò possono associarsi disturbi dell’umore, abuso di sostanze, ideazione suicidaria, tentativi di suicidio. Il decorso è generalmente cronico.

Le terapie per il Gioco d’Azzardo Patologico esistono. Tuttavia, solo il 10% dei giocatori in difficoltà richiede un intervento specifico; molto spesso il giocatore d’azzardo giunge alla richiesta d’aiuto per tentare di risolvere i problemi che scaturiscono secondariamente alle perdite economiche, e non perché desideroso di smettere di giocare o perché cosciente di essersi ammalato.    

Gli approcci di derivazione cognitivo-comportamentale (TCC) hanno dimostrato di essere utili nel gestire il desiderio di giocare e nel prevenire le ricadute. In molti casi oggetti di studio, per mezzo della Ristrutturazione Cognitiva e spesso sfruttando le potenzialità del cosiddetto “thinking-aloud-method”, i terapeuti hanno cercato di aiutare i pazienti a realizzare che le loro verbalizzazioni legate al gioco possono essere basate su pensieri irrazionali. Infatti, i giocatori patologici mostrano di intrattenere un rapporto particolare con la categoria della “sorte”: il loro pensiero risulta determinato da euristiche e pregiudizi che influiscono in maniera determinante sulla valutazione della realtà, aumentando la probabilità che il comportamento dannoso venga ripetuto.

Quelle che seguono sono le distorsioni cognitive che tipicamente affliggono il pensiero del Giocatore d’Azzardo Patologico:

Gambler’s fallacy: quando un evento generato dal caso devia dalla media, l’evento opposto viene giudicato più probabile (ad es. “se per 4 volte è uscito il nero, allora è più probabile che esca il rosso”);

Overconfidence: gli individui esprimono una aumentata fiducia nelle proprie capacità che non è giustificata da dati reali (ad es. ritenersi più bravi di altri nell’indovinare i numeri, nel capire i meccanismi sottesi al gioco, nell’implementazione di strategie di gioco efficaci).

Trends in number picking (Tendenze nei numeri): vengono individuate tendenze e “leggi” relativamente a distribuzioni casuali (errore tipico di chi pensa che i numeri “ritardatari” abbiano più probabilità di essere estratti, oppure che un numero appena estratto non sia probabile nelle estrazioni successive).

Illusory correlations (Correlazioni illusorie): si rileva quando due eventi appartenenti a differenti domini della realtà vengono giudicati interdipendenti se si presentano in concomitanza (ad es. comprare un gratta e vinci fortunato e continuare a recarsi sempre nello stesso bar per acquistarne altri). E’ anche alla base dei comportamenti ritualistici e scaramantici.

Avaliablity of other wins (Vincite altrui): un errore logico che distorce in maniera piuttosto diretta la stima delle probabilità si presenta quando venire a conoscenza delle vincite realizzate dagli altri (tramite mass media o esperienze più o meno dirette) fornisce la convinzione (credenza) che “vincere” sia un evento che capita regolarmente e che “per vincere basta continuare a giocare”.

Inherent memory bias ( Pregiudizi inerenti la memoria): questo pregiudizio interpretativo permette ai giocatori di far riferimento (inconsapevolmente) più spesso alle proprie esperienze positive di gioco piuttosto che a quelle negative (dimenticate), facilitando la decisione di mantenere il proprio comportamento.

(Liberamente tratto da Kahneman & Tversky, 1974)

L’importanza della correzione di tali distorsioni cognitive quale componente essenziale per il trattamento del Gioco d’Azzardo Patologico è stata dimostrata (Fortune & Goodie, 2011). In uno studio in particolare, dopo 6-8 settimane di trattamento venne rilevato che circa l’80% dei partecipanti alle sedute che comprendevano la ristrutturazione cognitiva non presentava più il disturbo secondo i criteri del DSM-IV. Gli effetti positivi vennero mantenuti anche nei 12 mesi successivi (Calbring, Smith, 2008).

Infine, da tenere ben presente, coloro che soffrono per il gioco spesso soffrono anche a causa di comorbidità rilevanti: depressione, ansia, forti sentimenti di impotenza, abuso di sostanze. A prescindere dall’approccio terapeutico scelto (oltre alla TCC si sono dimostrati efficaci gli approcci che potenziano la rete di sostegno attorno al paziente, come i gruppi di auto-aiuto -Giocatori Anonimi- e le terapie sistemico relazionali), questi aspetti non devono passare in secondo piano.

 

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Leadership negli Sport di Squadra #17 – Conclusione

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #17:

Conclusione

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli Sport di Squadra #17 - Conclusione. -Immagine:© mevsuf - Fotolia.com Il leader non è colui che sa comportarsi in un modo ma colui che sa comportarsi nel modo giusto al momento giusto per poter migliorare sia il livello di produttività che quello di soddisfazione dei membri della squadra.

Lo sport è un mondo che ci ha permesso e ci permette tuttora di studiare l’insieme complesso delle dinamiche intragruppo in modo piuttosto chiaro, per quanto chiare possano essere queste tematiche. E’ difficile, anche dopo anni di ricerche, potere affermare di essere giunti a una conclusione riguardo l’argomento della leadership, tanto meno del leader sportivo, dove sino a non molto più di vent’anni fa la maggior parte delle ricerche si fondava ancora sulle teorie dei tratti di personalità.

Alcune considerazioni rilevanti, però, sono state raggiunte. Per lo meno appare ormai assodata l’importanza di non considerare il leader come uno status con caratteristiche rigide e universali. In ogni ambito, ma soprattutto nello sport, il leader non è colui che sa comportarsi in un modo ma colui che sa comportarsi nel modo giusto al momento giusto per poter migliorare sia il livello di produttività che quello di soddisfazione dei membri della squadra.

Questa considerazione ci porta a concludere che il leader in grado, non tanto di raggiungere, quanto di mantenere la propria posizione è colui che sa essere versatile ed eclettico nel proprio comportamento.

In particolare, la squadra sportiva rappresenta un ambiente che, in alcuni aspetti, si differenzia dalla maggior parte dei gruppi sociali. Uno di questi aspetti è la tendenza, quasi totale, a presentare due diverse posizione di leadership, che sono state definite come istituzionale e intima e che sono occupate rispettivamente dall’allenatore e dal capitano. E’ doveroso sottolineare che questa non è una caratteristica esclusiva del gruppo sportivo anche se in questo si manifesta con assiduità estremamente elevata. Entrambi, allenatore e capitano, sono dei leader e hanno i compiti di un leader; il primo è scelto dalla dirigenza, il secondo dagli atleti; il primo dirige la preparazione rimanendo fuori dal campo, il secondo dirige il gioco all’interno della partita; ognuno quindi può arrivare dove non arriva l’altro.

Questa considerazione, e gli studi precedentemente presentati, rende evidente l’importanza che la collaborazione dei due leader ha per la squadra e, al contempo, il danno che può infliggere un loro eventuale conflitto aperto. Infatti le variabili che, appartenenti alla leadership, influenzano la produttività e il morale degli atleti sono influenzate dal comportamento di entrambi.

I livelli di cui l’allenatore e il capitano devono preoccuparsi per poter svolgere i propri compiti sono, in definitiva, due: la prestazione e la soddisfazione della squadra. Come è stato descritto, esistono molte variabili influenti l’uno o l’altro di questi livelli anche se la maggior parte dei fattori considerati agisce su entrambi. In effetti la prestazione e il morale del team sono evidentemente interdipendenti, agire sull’uno equivale influenzare anche l’altro.

Per questa loro caratteristica è importare evitare di mantenere un atteggiamento eccessivamente polarizzato sul compito o sulla relazione poiché, così facendo, il rischio è quello di essere controproducenti, non solo per l’altro aspetto ma anche per quello sul quale si stanno investendo i propri impegni. Questa interdipendenza, evidenziata dal modello di Martens e Peterson [1971] e Williams e Harker [1982], non è altro che un’altra prova, un’altra conferma, dell’importanza, per sopperire ad entrambi, di mantenere un comportamento versatile e adattabile a diverse esigenze della situazione o dei compagni di squadra.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

I Disturbi del Sonno sono malattie curabili in tutto il mondo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’insonnia e le malattie del sonno costituiscono una piaga sociale. Hanno un effetto sul lavoro, sulle relazioni e sugli incidenti stradali.  Oggi ad esempio solo l’insonnia è diffusa tra la popolazione Europea e USA con una frequenza che va dal 10 al 30%.

È importante proprio a pochi giorni della giornata nazionale dei Disturbi del Sonno, e con questi dati alla mano,  parlarne perché è un vero costo sociale!

Nelle storia sono eclatanti i disastri che hanno avuto come concausa la sonnolenza derivata dalla mancanza di sonno, oggi per evitare questi disastri, (anche i più piccoli disastri personali!) ci vengono in aiuto non solo farmaci ma anche terapie psicologiche.

Queste terapie sono  riconosciute a livello scientifico e si servono si tecniche cognitive comportamentali che hanno il beneficio non solo di ridurre il sintomo in breve tempo, ma anche di eliminarlo, al contrario dei farmaci che sono semplicemente palliativi.

È chiara quindi l’importanza del creare una giornata sui disturbi del sonno per fare informazione e prevenzione e soprattutto sponsorizzare cure efficaci perché i disturbi del sonno si possono curare!

Considerato che:
– l’eccessiva sonnolenza e la mancanza di sonno hanno rilevanza epidemica a livello globale e mettono a repentaglio lo stato di salute e la qualità di vita;
– molto può essere fatto per prevenire e curare l’eccessiva sonnolenza e la mancanza di sonno;
– la coscienza del problema a livello degli operatori professionali e del pubblico è il primo passo per poter agire;
si dichiara
che i disturbi del sonno sono patologie prevenibili e curabili in tutti i Paesi del mondo
.

 

Guarire dalle malattie: “Perché non riesco a dormire bene?”Consigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Il 14 marzo si celebra la Giornata Mondiale del Sonno. I disturbi del sonno sono tra i problemi di salute più diffusi nella popolazione e nella pratica clinica. Una persona su dieci, prima o poi, avrà un disturbo del sonno. Più andremo avanti con gli anni e più diventerà probabile. Non riusciamo ancora a dare una risposta soddisfacente alla domanda di cure che questo popolo di insonni ci presenta. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Zzz… Il sonno è una cosa seria!
L'insonnia può avere conseguenze significative sulla salute quindi la sua gestione richiede approcci mirati e diversificati
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Tornare a dormire. Una guida pratica per dormire meglio e superare l’insonnia (2021) di Federica Farina
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Burnout e strategie disadattive di gestione dello stress lavoro-correlato

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sindrome da Burnout”: forma di stanchezza, senso di scarsa realizzazione personale e cinico disinteresse per il proprio lavoro correlati a lunghi periodi di stress lavorativo.

Con il problema della disoccupazione alle stelle è curioso che negli Stati Uniti l’1,7% dei lavoratori abbia, nell’ultimo anno, lasciato il posto lavoro e che questo valore sia in lenta crescita dal 2009.

Chi si è occupato di interpretare questa tendenza ne ha attribuito la responsabilità alla “ Sindrome da Burnout”, cioè quella forma di stanchezza, senso di scarsa realizzazione personale e cinico disinteresse per il proprio lavoro correlati a lunghi periodi di stress lavorativo.

Un certo livello di stress fa parte inevitabilmente di ogni esperienza lavorativa, ma oltre quale soglia lo stress soverchia le risorse individuali? E cosa rende un individuo più vulnerabile allo stress di un altro?

Una nuova ricerca suggerisce che ci sono almeno tre diversi sottotipi di burnout, e ciascuno di questi ha a che fare con specifiche strategie di coping, tutte disfunzionali rispetto a un’efficace gestione dello stress.

429 lavoratori universitari sono stati oggetto di un sondaggio che ha permesso ai ricercatori di raccogliere dati su diversi sottotipi di burnout e correlarli con differenti strategie di coping dei lavoratori dipendenti.

Il primo tipo di burnout – a cui giunge chi lavora freneticamente per il successo fino all’esaurimento – è quello di chi affronta lo stress lamentandosi della gerarchia organizzativa sul lavoro, con la sensazione che questa rappresenti un limite ai propri obiettivi e alle proprie ambizioni . Questa strategia disadattiva di coping porta ad un sovraccarico di stress e alla fine a gettare la spugna.

Il secondo tipo di burnout nasce dalla noia e dalla mancanza di sviluppo personale ed è più strettamente associato a una strategia di coping di evitamento. Questi lavoratori poco esigenti tendono a gestire lo stress prendendo sempre più le distanze dal lavoro fino ad approdare a un senso di spersonalizzazione e di cinismo.

L’ultimo tipo di Burnout – il sottotipo esausto – sembra derivare da una strategia di coping basata sulla rinuncia a fronte di stress: anche se queste persone desiderano raggiungere un certo obiettivo, non riescono a trovare la motivazione necessaria a superare gli ostacoli per raggiungerlo.

Identificare le strategie di coping dello stress lavoro-correlato associate ai diversi tipi di burnout può essere utile a sviluppare terapie mirate a ciascuna strategia disfunzionale di coping e preventive rispetto al burnout. I trattamenti dovrebbero focalizzarsi sulla regolazione delle emozioni e sull’acquisizione di una maggiore consapevolezza e flessibilità cognitiva, suggerisce il gruppo di ricerca guidato da Jesus Montero Marin dell’Università di Saragozza.

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Olimpiadi delle Neuroscienze 2014

Fonte: Università di Trento

 

 

Olimpiadi delle Neuroscienze 2014

Olimpiadi delle Neuroscienze 2014 - Università di Trento

Le Olimpiadi delle Neuroscienze costituiscono le fasi locale e nazionale della International Brain Bee (IBB): una competizione internazionale, a tre livelli, che mette alla prova studenti delle scuole medie superiori sul grado di conoscenza nel campo delle neuroscienze.

Ragazzi e ragazze di tutto il mondo competono per stabilire chi ha il “miglior cervello” su argomenti come l’intelligenza, la memoria, le emozioni, lo stress, l’invecchiamento, il sonno e le malattie del sistema nervoso. Scopo principale della competizione è diffondere fra i giovani l’interesse per le neuroscienze.

Da sempre, il cervello affascina l’uomo. Pesa circa 1500 grammi ed è appena più grande di un pugno, ma è l’organo più importante del nostro corpo. È costituito da un’intricata rete composta di cento miliardi di cellule nervose che orchestra ogni più piccolo aspetto del nostro pensiero, delle nostre percezioni, del nostro comportamento. È il cervello che definisce quello che siamo ed è anche l’oggetto di studio delle neuroscienze, tra le discipline scientifiche a maggior crescita nell’ultimo decennio.

L’edizione 2014 delle Olimpiadi delle Neuroscienze è organizzata per la seconda volta dall’Università di Trento, promossa dal Centro di Biologia Integrata (CIBIO) e dal Centro Interdipartimentale Mente e Cervello (CIMeC).

Le Olimpiadi delle Neuroscienze si articolano in 3 fasi:

  1. Fase locale (22 febbraio 2014): si tiene nelle singole scuole. Ogni scuola deve individuare i 5 migliori studenti.
  2. Fase regionale (8-16 marzo 2014): si svolge nelle sedi indicate dai coordinatori regionali di riferimento (ved. box “Download”). In questa fase vengono selezionati i 3 migliori studenti per ogni regione.
  3. Fase nazionale (12 aprile 2014): si svolge a Trento, dove, tra i 3 migliori studenti di ogni competizione regionale, viene individuato il vincitore nazionale. Il vincitore rappresenterà l’Italia nella competizione internazionale (Washington, USA – agosto 2014).

In alcune regioni viene infine proposta agli insegnanti l’iniziativa “Aspettando le Olimpiadi delle Neuroscienze”, un’opportunità di formazione sui diversi aspetti biologici e sui meccanismi funzionali del cervello, con l’auspicio che lo studio dell’organo più complesso del nostro corpo possa trovare maggiore spazio nei curricula scientifici della scuola italiana.
In Trentino-Alto Adige l’iniziativa “Aspettando le Olimpiadi delle Neuroscienze”  è organizzata dal Museo Civico di Rovereto, in collaborazione con il Centro di Biologia Integrata (CIBIO) ed il Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMEC) dell’Università di Trento. Il corso di formazione ed aggiornamento si rivolge primariamente ai docenti di area scientifica delle scuole secondarie di II grado delle province di Trento e Bolzano e del Veneto.
Maggiori informazioni sul corso di formazione sono disponibili a questo link.

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The Hunt – Il Sospetto (2012) di Thomas Vinterberg – Cinema & psicologia


 

 

The Hunt – Il Sospetto

(2012) di Thomas Vinterberg

 

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The HuntThe Hunt: se chiedessimo alle persone di definire in una parola il tema principale del film di Thomas Vinterberg  (lo stesso regista di Festen),  sicuramente qualcuno risponderebbe che tratta di “pedofilia”. Tuttavia l’argomento è un altro, ovvero cosa accadrebbe nella “possibilità” che un abuso del genere fosse avvenuto?

La traduzione del titolo rimane fedele dal danese “Jagten” all’inglese “The hunt” mentre subisce la variazione in italiano diventando “Il sospetto”, che si rivela comunque azzeccato.

Anche in questa occasione il regista si contraddistingue per la cura nella costruzione psicologica dei personaggi. E’ particolarmente verosimile la rappresentazione del funzionamento mentale del bambino e di come la memoria e i ricordi possano essere influenzati in momenti di forte stress.

Il film mostra una comunità che vive circondata dai boschi; tutto appare circoscritto, pulito, sicuro, ideale. Poi, come è naturale in qualsiasi sistema, subentra l’elemento perturbante, la dissonanza: l’uomo mite e generoso che lavora in un asilo viene accusato di pedofilia da una bambina a cui non manca l’immaginazione. La direttrice dell’istituto, appresa la notizia, ricerca a suo modo la migliore risoluzione, di fatto gettando nello sconcerto l’intera comunità.

Come si reagisce di fronte al pericolo, all’orrore, al disgusto e alla paura? Cosa possono fare le persone per controllare vissuti così potenti e destabilizzanti? In sostanza, come si ristabilisce l’equilibrio perduto quando qualcosa di totalmente inaspettato, uno dei peggiori incubi per un genitore prende forma?

The Hunt” è un film interessante (candidato all’Oscar 2014 per il migliore film straniero) con un valore aggiunto: richiama alla memoria un fatto di cronaca incredibilmente simile avvenuto nei pressi di Roma negli anni 2006-2007, e che conviene non dimenticare.

Nel film, la direttrice non cerca di capire cosa può veramente essere successo, agisce unicamente nel desiderio di confermare i propri sospetti: in seguito alle accuse della bambina il protagonista non viene ascoltato e neanche debitamente informato; immediatamente si aggiudica il ruolo di “mostro”. Qui lo spettatore comprende bene come l’operazione non lasci scampo, e non potrebbe essere altrimenti perché lo scopo della donna non sembra essere “capire” davvero bensì porre rimedio, il più in fretta possibile, alla propria catastrofe emotiva.

Esiste una ragione che spieghi una condotta tanto precipitosa, quando il normale buonsenso farebbe prefigurare a chiunque uno scenario in cui il presunto pedofilo venga quantomeno ascoltato in prima istanza?

E’ stato osservato che in situazioni di forte stress le strategie di coping utilizzate tendono ad essere quelle meglio consolidate, quelle che operano più velocemente e quelle che richiedono una minore mediazione da parte di vie nervose più fini (superiori) e degli apprendimenti che le riguardano. In questo senso, è piuttosto probabile che gli individui ricorrano a difese meno complesse in caso di forte stress (Stern, 1987). Può essere il caso dei cosiddetti processi proiettivi, dove potersi liberare in fretta dal malessere e inoltre dare una forma ben definita a ciò che si teme, poterselo trovare “di fronte” per così dire, permette verosimilmente una migliore strategia di gestione.

Il “sospetto” che sorregge la trama e suggerisce il titolo ai traduttori italiani, è un termine intimamente legato alla proiezione e quello maggiormente rappresentativo di quello spazio di variabilità interpretativa esplorato in massimo grado da quegli individui che vivono la realtà da una prospettiva paranoide di personalità; se la “paranoia” rimanda a precise patologie, la “proiezione”, che ne è il motore, è totalmente slegata dal concetto di malattia; e le persone ne fanno un largo uso. Per fare un esempio, quanti ritengono che il tramonto sia un fenomeno emotivamente connotato? Tutti bene o male assistendovi ne siamo affascinati o pensiamo addirittura che sia romantico: l’attribuzione di qualità umane (emozioni) a fenomeni non umani (rotazione terrestre) può permetterci di mettere in forma significati che altrimenti rimarrebbero inespressi (Searles, 1960).

In altri casi invece, quando quello che ci accade è così intenso da andare oltre le normali capacità di reazione, quando il “colpo”, pur non essendo della massima severità, provoca una iniziale paralisi delle strategie di problem solving, la proiezione può subentrare e risolvere lo stato di emergenza emotiva. 

Quando la direttrice dell’istituto afferma che nei suoi molti anni di esperienza ha sempre creduto alla purezza e alla bontà insita “nell’animo” dei bambini, comunica anche che non è disposta ad accettare dentro di sé una rappresentazione più complessa e meno idealizzata della realtà, ovvero che i bambini possano mentire, che possano manipolare gli altri a proprio vantaggio e non essere poi così puri. 

Il coping di tipo proiettivo muove da una rappresentazione di sé e da un’identità costruita attorno a precisi valori, poco modificabili. La soluzione più efficace, molto agita e poco pensata dalla direttrice, potrebbe essere: “sarei troppo angosciata se dovessi credere che una bambina può fare una cosa tanto mostruosa, perciò devi essere per forza tu il mostro”.

Una comunità che si riconosce nel senso di sicurezza assoluto che può garantire ai suoi membri, un quartiere in cui la fiducia tra le persone è tale che i bambini possono aggirarsi tranquillamente fuori da casa, fa della capacità di mantenere inalterati tali caratteri una questione principale. Infatti saranno sufficienti condizioni minime, “sospetti” appunto, per allertare i meccanismi di salvaguardia del livello di purezza di una comunità che ha, come del resto nel mondo reale, la necessità di riconoscersi nel “bene” e allontanare da sé il “male”.

Infine, possiamo domandarci, e gli psicologi lo facciano in maniera piuttosto seria, “cosa è accaduto nella comunità di Rignano Flaminio?”. All’epoca dei fatti, una perizia psicologica del valore di decine di migliaia di euro condotta sui minori (16 tra i 3 e i 4 anni), ha contribuito all’arresto di 4 persone. Testualmente, le accuse pronunciate dal tribunale di Tivoli furono:  “maltrattamento di minori, atti osceni, sottrazione di persone incapaci, sequestro di persona, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale aggravata, violenza sessuale di gruppo”.

Ecco, appunto, come si passa da questo, alla sentenza del 2012 che “assolve con formula piena gli imputati per insussistenza dei fatti” dato che nessun abuso è mai avvenuto nell’istituto Olga Rovere?

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Possessività: l’amore patologico – Psicologia & Relazioni sentimentali

 

 

Possessività: l'amore patologico. Relazioni sentimentali. -Immagine: © Creativa - Fotolia.comAmare qualcuno vuol dire riconoscerlo nella propria individualità, ma soprattutto significa essere liberi. Contrariamente a quello che si pensa unione non significa fusione, niente di più sbagliato, ma rispetto della libertà altrui.

La parola amore si fa risalire al termine sanscrito kama ovvero desiderio, passione, attrazione. Anche il verbo amare deriva dalla radice indoeuropea ka da cui (c)amare cioè desiderare in maniera viscerale, in modo integrale, totale… Mannaggia, comincia l’inganno! Un’altra interpretazione etimologica della parola amore, fa risalire il termine al verbo greco mao: desiderio, da cui il latino amor da amare che indica un’attrazione esteriore, quasi animalesca.

Un’ulteriore e meno probabile ma curiosa ed interessante interpretazione etimologica della parola amore individua nel latino a-mors, senza morte, l’origine del termine, quasi a sottolineare l’intensità senza fine di questo potentissimo sentimento. Quindi, io voglio te e solo te in maniera univoca, animalesca e per l’eternità!

Pare sia insito nella parola amore il concetto di unione e fusione che accompagna e correda questo temine, e l’inganno continua! Amare qualcuno, ahimè, vuol dire riconoscerlo nella propria individualità, ma soprattutto significa essere liberi. Contrariamente a quello che si possa pensare unione non significa fusione, niente di più sbagliato, ma rispetto della libertà altrui.

Mi spiego meglio, amare qualcuno è riconoscere la persona per quello che è con i suoi pregi e difetti lasciandolo libero di essere se stesso anche e soprattutto nella relazione di coppia. Chiaro, non è facile amare in maniera libera e sana mantenendosi indipendenti, rispettando l’individualità dell’altro, preservandone volontà e identità. Spesso, infatti, anziché dare e ricevere amore si precipita in situazioni che bloccano, fanno soffrire e portano all’implosione della coppia.

Una delle forme di falso amore è la possessività spesso scambiato per gelosia ma è qualcosa di ancora più forte, profondo, connaturato e atavico. E’ uno specchietto per le allodole che lo confondono per dimostrazione di affetto, ed ecco che l’inganno si esplicitata!

Le relazioni di coppia fluttuano tra passione, coccole, pariteticità, crescita a scambio reciproco. Quando ci si focalizza sul vicendevole possesso si vira ineluttabilmente e irrimediabilmente  verso la distruzione del rapporto.

La dinamica relativa all’amore e alla possessività è forse il frutto di una serie di messaggi che giungono a noi da film, romanzi ed anche da certe fantasie ancestrali che hanno visto nell’essere una sola cosa, qualcosa di fantastico da rincorrere a tutti i costi. Si crea in questo modo un distacco dal reale e ci si cela nell’anelato amore fantasticato, nulla a che vedere con la realtà oggettiva dei fatti. E’ frutto dell’amor cortese, il voler fare tutto insieme al partner; concetto su cui si proiettano le timidezze dei tanti cuori solitari.

Si parte dalla gelosia, che se eccessiva, sfocia nella possessività, cioè possedere l’altro e la sua libertà. La libertà è la fiducia che permette di vivere una vita di coppia felice. Il controllare l’altro è il manifestarsi di una profonda insicurezza relazionale che ha origini antiche. Chi è possessivo è fragile, insicuro, e si definisce con l’altro e nell’altro.

La possessività è uno stato profondamente infantile, il bimbo vuole possedere tutte le attenzioni e l’affetto della madre. Questo stato può mantenersi anche nella condizione adulta quando si creano grandi screpolature di insicurezza, fameliche di essere riempite fino a fagocitare e divorare le persone e le cose per garantirsi un’assoluta certezza e fedeltà.

Senza te non esisto!

Certo, la fase di innamoramento un po’ somiglia alla possessività, ma è assolutamente naturale che all’inizio si ha voglia di condividere tutto con l’altro, serve infatti a far crescere il sentimento e ad avvicinarsi. Il pretendere di voler mantenere questo tipo di rapporto oltre la fase dell’innamoramento determina la rottura della relazione e inizia il sabotaggio: che la fine abbia inizio!

Rendere “proprio” l’altro significa portarlo a rispondere a propri bisogni affettivi derivanti dal passato che non potranno mai essere colmati. Quindi, si pensa che la totale devozione dell’altro gratifichi e colori la vita di senso.

Il possesso è qualcosa che invade totalmente fino a non consentire quasi più la vita e l’autenticità di una persona. E’ indubbio che vi sono gradi diversi di possesso, da quello apparentemente bonario che fa leva sui bisogni infantili e che si comporta in modo “benevolo” verso l’altro, a la vera e propria “possessione” che ha lo scopo di limitare e di avere potere totale sull’altro fino a bloccarlo in ogni sua espressione, in casi estremi anche la vita.

La fusione con l’altro è un bisogno umano talmente profondo e antico, spesso è stata paragonata alla ricerca del paradiso perduto; gli psicoanalisti parlavano di ritorno nell’utero materno e i poeti si riferivano a uno stato catatonico tale da privare i partner di alcuni bisogni primari: perdita di sonno, appetito etc.

Insomma, in una relazione di coppia  sana, durevole e gratificante si dovrebbe saper modulare la distanza tra i due componenti, quella distanza di primaria importanza che riguarda il rispetto della persona e ancora prima si basa sul riconoscimento dell’altro. In mancanza di questa distanza, si cede al bisogno irrefrenabile di fusione totale e completa tanto da arrivare a smarrire i confini con il proprio Sé. La conseguenza è la sensazione di soffocamento e oppressione che l’altro respira.

Il progetto di coppia dovrebbe essere quello di far crescere ed evolvere entrambi i partner affrontando all’unisono e non in maniera fusionale le difficoltà. L’amore è libertà, e, se sostituito dalla negazione della stessa, ovvero possessività, è destinato a finire.

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Affamati di “like”: Facebook e disturbi dell’alimentazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Oggi Facebook rappresenta un fenomeno globale di confronto e condivisione tra le persone ed è strettamente connesso ad una serie di indici psicologici di diversità entità, tra cui quello dell’immagine corporea.

Al fine di approfondire questo legame un team di studiosi ha sviluppato una ricerca per valutare quanto tempo delle studentesse di un college spendono sul social network, quanto sono importanti i “like” e la presenza, o meno, di “tag” alle proprie foto personali. Un primo step ha indagato quanti soggetti hanno un profilo su Facebook e, tra questi, la quantità di tempo trascorsa sulla piattaforma sociale. Circa il 95% delle studentesse ha un proprio account e spende circa 20 minuti ad ogni ingresso per un totale di circa 60 minuti al giorno sul sito.

Le donne che trascorrono più tempo davanti alla piattaforma riportano sia una maggiore incidenza di comportamenti focalizzati sull’aspetto fisico sia una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo alimentare.

Questi soggetti, infatti, hanno la tendenza ad attribuire forte significato agli apprezzamenti e ai commenti positivi ricevuti su Facebook, in misura maggiore rispetto agli altri, e spesso tendono a non condividere con gli amici immagini personali e a confrontarsi spesso con quelle degli altri.

Quali sono allora le conseguenze immediate dovute all’uso di Facebook dopo 20 minuti? L’uso continuativo contribuisce ad aumentare la preoccupazione e l’ansia per il proprio peso e forma corporea, se confrontato con un gruppo di controllo con utilizzo limitato del social network.

Il legame tra prolungato utilizzo della piattaforma Facebook e maggiore preoccupazione per la propria forma fisica getta luce sulla patologia dei disturbi alimentari,  strettamente connessa ai fattori rilevati nella ricerca. Numerosi studi scientifici hanno rilevato come sia l’ansia che la preoccupazione per la propria immagine corporea accrescono il rischio di sviluppare disturbi dell’alimentazione.

Indubbiamente lo sviluppo dei disturbi alimentari è dovuto ad una serie di fattori interagenti tra loro, e l’utilizzo di uno strumento di condivisione sociale come Facebook potrebbe rappresentare piuttosto un fattore di mantenimento della patologia che di rischio.

All’interno di un programma di intervento, quindi, sarebbe utile incoraggiare le donne a sviluppare primariamente una buona immagine di se stesse e del proprio corpo e ad educare ad un uso responsabile dei social network. 

 

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Costruttivismi – Nuova rivista semestrale della AIPPC

Gabriele Chiari e Lorenzo Cionini

Costruttivismi

Rivista semestrale edita dalla

Associazione Italiana di Psicologia e Psicoterapia Costruttivista

Costruttivismi - Copertina - gennaio 2014 - Rivista di Psicoterapia Cognitivo-CostruttivistaEditoriale

Le psicologie e le psicoterapie che si rifanno ad una concezione costruttivista della conoscenza stanno andando incontro ormai da diversi anni ad una rapida diffusione, sia in ambito internazionale sia in ambito nazionale. Tale diffusione appare ancora più evidente e significativa se si tiene conto del fatto che alcuni orientamenti possono legittimamente essere considerati “costruttivisti” anche se non utilizzano direttamente tale denominazione. È questo il caso della psicologia e della psicoterapia dei costrutti personali, del movimento del costruzionismo sociale, della psicologia culturale, della psicologia discorsiva, dell’interazionismo simbolico, della terapia cognitiva post-razionalista, tanto per citare gli orientamenti più noti e affermati. Si consideri inoltre che al costruttivismo fanno attualmente riferimento anche alcuni recenti sviluppi di approcci psicoterapeutici “classici” (la psicoanalisi ad esempio, per citare il caso più significativo, ma anche la terapia della Gestalt), che nelle loro formulazioni originarie si basavano su epistemologie diverse.

Fu proprio con lo scopo di promuovere la diffusione dell’orientamento costruttivista in Italia che nel 1997, con alcuni colleghi facenti parte della Scuola di Specializzazione in psicoterapia cognitiva ad indirizzo costruttivista del CESIPc di Firenze, fondammo l’Associazione Italiana di Psicologia e Psicoterapia Costruttivista (AIPPC), probabilmente la prima a porsi tale obiettivo a livello statutario.

Degli strumenti utilizzati dall’AIPPC per perseguire il suo scopo, oltre alla organizzazione di congressi, convegni e seminari, ha fatto parte fin dal primo anno della fondazione una newsletter, che nel 2003 prese il nome di Costruttivismi e la cui pubblicazione, in formato cartaceo e diffusa ai soli soci, si è interrotta nel 2006. Ora il comitato direttivo dell’AIPPC ritiene che i tempi siano maturi per una rivista vera e propria, ed è stato scelto il formato elettronico per la possibilità che offre di raggiungere un più ampio pubblico di lettori.

Lo scopo principale della rivista – che continuerà a chiamarsi Costruttivismi per sottolineare la presenza delle diverse facce che si rifanno al costruttivismo psicologico – è quello della diffusione dell’orientamento costruttivista in Italia, per cui i lavori pubblicati saranno prevalentemente in italiano (con un abstract in inglese); ma la rivista è aperta anche alla pubblicazione occasionale di lavori in lingua inglese, che saranno proposti nel formato originario e in traduzione italiana integrale. La rivista è peer-reviewed: i lavori sottoposti alla redazione verranno valutati in forma anonima da un gruppo di esperti che ne considereranno la pubblicabilità o meno sulla rivista e che forniranno agli autori un feedback su eventuali revisioni da apportare al manoscritto.

Oltre a lavori originali, che saranno pubblicati nella sezione “Articoli”, la rivista si propone di pubblicare la traduzione italiana di scritti di “Protagonisti del costruttivismo” internazionale. Una sezione della rivista sarà dedicata a resoconti di “Casi clinici” trattati in psicoterapia, dei quali gli autori hanno ottenuto il permesso alla pubblicazione dalle persone direttamente interessate, garantendone l’anonimato. Le “Esperienze” nell’applicazione dell’orientamento costruttivista in setting diversi da quello strettamente psicoterapeutico sono raccolte in una apposita sezione.

L’abbonamento alla rivista, che è gratuita e avrà una cadenza semestrale, consentirà di leggere e/o scaricare gli articoli. Per abbonarsi è sufficiente registrarsi e utilizzare la password di accesso fornita.

Il Comitato Scientifico di Costruttivismi comprende alcuni dei più importanti nomi del costruttivismo psicologico internazionale e nazionale. Tra questi ultimi, molti sono i rappresentanti della maggior parte delle Scuole italiane di specializzazione in psicoterapia costruttivista. La loro entusiastica adesione al nostro invito a farne parte rappresenta per noi e per il comitato di redazione tutto un forte incoraggiamento ad intraprendere questa avventura.

I Direttori di Costruttivismi
Gabriele Chiari e Lorenzo Cionini

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOTERAPIA COGNITIVA COSTRUTTIVISTA

 

RIFERIMENTI:

La rivista Costruttivismi è edita da AIPPC, Associazione Italiana di Psicologia e Psicoterapia Costruttivista. 

 

Senza sogni saremmo lucertole – Psicologia dei Sogni Pt.5

 

PIANO DEL SOGNO PT. 5

Senza sogni saremmo lucertole

 

MONOGRAFIA PIANO DEL SOGNO

Senza sogni saremmo lucertole - Piano del sogno Pt. 5. -Immagine:© Serg Nvns - Fotolia.com Senza sogni saremmo lucertole. Questo beneficio del sogno è particolarmente curioso perché non richiede che il sogno venga realizzato. Si tratta di un moto dinamico dell’essere umano che prescinde dal risultato, quello che conta è viaggiare verso un desiderio e non raggiungerlo.

Fino ad ora abbiamo descritto la malattia di un sogno inteso come desiderio astratto, rigido, cieco e perseverante. Conviene verso la fine di questa piccola monografia indugiare su quali siano le utilità e i vantaggi di questa facoltà umana.

Il sogno offre un’immediata gratificazione virtuale attraverso l’immaginazione. La mente può rappresentare una realtà alternativa e futuribile capace di offrire stati mentali ed emozioni molto simili alla reale esperienza.

Questo potere concede all’uomo di alimentarsi in un presente deprivato e soprattutto aiuta a sostenere sforzi e frustrazioni quotidiane rinforzando la perseveranza a fronte delle difficoltà. Il sogno permette una spinta motivante che rende l’uomo capace di costruire e di costruirsi secondo una rotta desiderata. Senza quella spinta ideale le grandi opere dell’uomo forse non avrebbero mai visto la luce.

Il sogno e i desideri rappresentano anche ciò che ci motiva ad esplorare la vita oltre i nostri bisogni di base. Senza i desideri e gli orizzonti forse usciremmo in barca solo per procacciarci il cibo o fuggire un pericolo.

Senza sogni saremmo lucertole. Questo beneficio del sogno è particolarmente curioso perché non richiede che il sogno venga realizzato. Si tratta di un moto dinamico dell’essere umano che prescinde dal risultato, quello che conta è viaggiare verso un desiderio e non raggiungerlo.

Ne consegue che anche i sogni mai realizzati hanno lo stesso valore di quelli che giungono al termine; contribuiscono a scrivere un romanzo esistenziale dai ricchi ingredienti: la capacità di non temere la sofferenza, di fronteggiare la durezza della realtà, di valicare con coraggio gli ostacoli in nome di un orizzonte liberamente scelto.

Infine, per alcune persone, il sogno può rappresentare una protezione e una fuga da contesti infantili caotici e dolorosi. Il sogno può diventare un elemento organizzatore di un progetto esistenziale che protegge dal caos e aiuta a non essere sopraffatti dal dolore. Un potente alleato che abbracciamo con coraggio nel mare in tempesta e che possiamo salutare con malinconia quando la riva ci offre nuove terre da esplorare.

PIANO DEL SOGNO: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4

 

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BIBLIOGRAFIA:

Razionalità primaria e Attaccamento Madre-Feto: dinamiche di sviluppo durante la Gravidanza

Alessia Maria Romanazzi

 

 

Razionalità primaria e attaccamento madre-feto: dinamiche di sviluppo durante la gravidanza

PREMIO STATE OF MIND 2013

Razionalità primaria e attaccamento madre-feto - Premio State of Mind 2013. -Immagine: © Anyka - Fotolia.comLo scopo principale del presente studio è stato quello di indagare la relazione tra i temi della costellazione materna (Stern, 1995), principalmente la relazionalità primaria, e l’attaccamento materno-fetale. Ha partecipato al nostro studio un campione di 257 donne suddivise, in base al periodo di gravidanza, in quattro gruppi (<7 mesi, 7mesi, 8 mesi, 9 mesi).

I principali strumenti utilizzati sono stati: un questionario atto ad indagare la costellazione materna (MCI) e la Maternal-Fetal Attachment Scale (MFAS).

I risultati sembrano mostrare che, a differenza degli altri temi, quello della relazionalità primaria, non presenti un picco intorno al settimo mese di gravidanza, come viene descritto in letteratura.

Sono state, inoltre, indagate la correlazione tra i due costrutti e le novità apportate dalla costellazione materna nello studio degli stati d’ansia e di depressione.

Lo studio ha evidenziato l’utilità della costellazione materna e dell’attaccamento materno-fetale nella comprensione delle dinamiche sottostanti la nascente relazione madre-bambino e dei fattori di rischio ad esse associate.

 

PAROLE-CHIAVE: Costellazione Materna, Relazionalità primaria, Attaccamento madre-feto, Ansia materna, Depressione materna.

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GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ ATTACCAMENTOANSIA DEPRESSIONE

PREMIO STATE OF MIND 2013

 

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AUTORE: 

Alessia Maria Romanazzi ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia con l’articolo intitolato “Relazionalità primaria e attaccamento madre-feto: dinamiche di sviluppo durante la gravidanza”.  Tratto dalla tesi di laurea magistrale, discussa a Milano il giorno 8/02/2011 (Relatore: Prof. Diego Sarracino).

Strange But True: Music Doesn’t Make Some People Happy – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Strange But True: Music Doesn’t Make Some People Happy: è capitato a tutti di sorridere sulle note di Pharrell Williams o di emozionarsi su quelle dei Pink Floyd con “Wish you were here”. Di sentire un nodo allo stomaco ascoltando una canzone romantica o di avere una sensazione di felicità sulle note di Bob Marley.

Si, è capitato a molti a ma non a tutti.

La scoperta, casuale, proviene da un team di psicologi dell’Università di Barcellona intenti a lavorare ad una ricerca sulla valutazione delle emozioni in risposta alla musica.

Per circa il 5% dei partecipanti però non è stata riscontrata alcuna risposta emotiva all’ascolto di diverse composizioni musicali, come se queste persone non “sentissero” la musica.

L’incapacità di comprendere ed apprezzare la musica viene definita amusia, e rappresenta un deficit nel “sentire” la musica, nel distinguerne le note e le diverse melodie. L’amusia è una patologia neuropsicologica di origine cerebrale, dovuta a fattori congeniti o acquisiti nel corso dello sviluppo ed è piuttosto rara tra la popolazione (circa il 4%).

Il team di studiosi decide, quindi, di valutare se questi soggetti, un gruppo di studenti spagnoli, sono in grado di identificare le emozioni nei diversi tipi di musica proposti. I soggetti sono divisi in tre gruppi a seconda del loro grado di sensibilità alla musica (basso, medio, alto). Ai partecipanti viene chiesto di fornire del loro materiale musicale che gradiscono di più ma per alcuni risulta difficile rispondere positivamente alla richiesta. Una parte dei soggetti, infatti, non riesce a consegnare nessun cd musicale né materiale in formato mp3 perché sono sprovvisti di materiale musicale. Successivamente a ciascuno dei 30 volontari è stato chiesto di ascoltare delle melodie giudicate piacevoli dai colleghi più sensibili alla musica e viene misurato il battito cardiaco e la conduttanza cutanea durante l’ascolto come indicatori dell’attivazione emotiva.

I soggetti che non avevano riferito alcuna sensazione di piacevolezza dopo l’ascolto musicale non mostrano alcuna risposta fisica, a differenza dei colleghi che avevano gradito le melodie. In questo gruppo, invece, i soggetti si presentano come se non sentissero la musica e non avessero alcuna risposta dal punto di vista fisico.

Qual è il motivo di questa incapacità di provare piacere durante l’ascolto di una canzone giudicata gradevole? Questo problema si collega ad un deficit nel sistema dei circuiti cerebrali legati alla ricompensa ed è specifico per la musica. Per le altre attività, infatti, come la ricompensa monetaria, non viene riscontrato alcun danneggiamento nella risposta fisica (battito cardiaco e conduttanza cutanea).

Quando a questi soggetti, infatti, viene chiesto di partecipare ad un gioco con una possibile vincita monetaria, la loro risposta corporea è simile a quella di chiunque altro.

Il deficit, quindi, è limitato al sistema della ricompensa legato alla musica e non ad uno scarso funzionamento del network della ricompensa in generale, responsabile della gratificazione che si ricava ad esempio dal cibo, dal sesso o dalle vincite di denaro.

Gli studiosi hanno definito questa particolare condizione come “anedonia specifica musicale”. Questi risultati fanno ipotizzare, quindi, che esistono diverse vie per accedere al sistema della ricompensa e che la loro efficacia è variabile in ciascun individuo. 

 

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NEUROPSICOLOGIAMUSICA – NEUROMUSICOLOGIA

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

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