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High place phenomenon: quell’impulso a buttarsi (Urge to Jump) – Psicologia

 

 

 

High place phenomenon- quell’impulso a buttarsi. -Immagine: © Chlorophylle - Fotolia.comQuando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

In una scena del  film “Pirati dei Carabi: Oltre i confini del mare“ il capitano Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, guardando il mare dal ciglio di uno strapiombo afferma: “Sai quella voce che ti parla nei posti molto alti, hai presente? E che ti dice ‘salta!’… Io non la sento!”

La versione originale, in lingua inglese, non parla di voce, ma di “urge to jump”, ovvero una sensazione di crescente impulso e spinta a tuffarsi.

A differenza del capitano, un buon numero di persone riferiscono di aver provato quel tipo di sensazione almeno una volta nella vita.  Alcune di esse riportano di avvertire tale tensione ogni volta in cui si trovano in prossimità di altezze particolarmente elevate.

Questo tipo di fenomeno, chiamato dai francesi anche “Appel du vide” (traducibile come “Richiamo del vuoto”) è stato spesso associato, in maniera speculativa, con le ideazioni suicidarie, tuttavia con scarsi dati a sostegno dell’ipotesi.

Un gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia della Florida State University, guidato dalla dott.ssa Jennifer L. James, ha condotto uno studio su tale fenomeno,  rinominato High Place Phenomenon (HPP), con l’obiettivo di evidenziare che esso è comune alla popolazione generale e al fine di esplorare il ruolo della sensibilità all’ansia (anxiety sensitivity) nell’esperienza dell’HPP.

L’ipotesi del gruppo di ricerca è che l’esperienza dell’HPP nasca da un’errata interpretazione di un segnale interno di sicurezza o di sopravvivenza.

Secondo i ricercatori, le persone particolarmente reattive riguardo a tali segnali  (es. “attento, arretra, potresti cadere!”), saranno quelle che più frequentemente riferiranno di provare la sensazione di impulso.

Un particolare tratto caratteristico di questa tipologia di individui sarebbe la sensibilità all’ansia, quella tendenza a temere i sintomi e le sensazioni corporee tipiche dell’arousal.

Per verificare tali assunti sono stati coinvolti 431 studenti di college ai quali sono stati somministrati questionari per indagare quanto frequentemente hanno provato l’HPP, per valutare la sensibilità all’ansia (Anxiety Sensitivity Index; ASI; Reiss et al., 1986), eventuali stati depressivi e ideazioni suicidarie (Depressive Symptoms Inventory-Suicide Subscale; DSI-SS; Metalsky and Joinet, 1997; Beck Depression Inventory, BDI, Beck et al., 1979).

I risultati della ricerca mostrano che l’HPP è piuttosto frequente nella popolazione.

Tra le persone del campione che non hanno mai avuto idee legate al suicidio, più del 50% hanno riferito di aver provato il fenomeno almeno una volta nella vita. Questo dato contribuisce a confutare l’esclusivo legame di connessione tra l’impulso e i pensieri di suicidio e a sfatare il vecchio pensiero di matrice psicanalitica che vuole che tali tipi di pensieri nascondano in realtà un inconscio desiderio di morte.

Un altro interessante aspetto che emerge dallo studio coinvolge il ruolo della sensibilità all’ansia, che potenzierebbe la frequenza del fenomeno tra le persone senza ideazioni suicidarie.

Tale ruolo è spiegato dai ricercatori prendendo in considerazione il circuito neurale della paura. L’HPP rappresenterebbe uno di quei casi in cui i sistemi percettivi che regolano tale emozione funzionano in maniera discordante.

In concreto, quando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

Nelle persone con sensibilità particolarmente elevata ai sintomi dell’ansia vi è in generale una maggior tendenza a percepire i segnali enterocettivi e talvolta ad attribuire ad essi una valenza opposta.

Il lavoro di J.L. James e colleghi rappresenta il primo studio empirico su tale fenomeno, piuttosto comune ma poco approfondito.

Future ricerche di approfondimento potrebbero prendere in considerazione possibili correlazioni tra HPP e particolari tratti di personalità, come il sensation seeking o disturbi tipici delle strutture ansioso-fobiche, come il disturbo ossessivo-compulsivo.

Alcuni strumenti per l’assessment dei sintomi del DOC, infatti, individuano tra i possibili pensieri ossessivi  la paura di agire sotto un impulso involontario, in particolare il Padua Inventory (Sanavio, 1988) sembra identificare bene l’HPP nell’item 46 “Quando guardo giù da un ponte o da una torre provo una specie d’impulso a gettarmi nel vuoto”.

È importante sottolineare, come già evidenziato nella ricerca e come confermato dal prof. J.S. Abramovitz, che tali pensieri intrusivi sono sperimentati occasionalmente da gran parte della popolazione, tuttavia in maniera meno resistente, ansiogena e ripetitiva rispetto alle persone con DOC.

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BIBILOGRAFIA:

Open – La mia vita, di Andre Agassi (2011) – Recensione

Alessia Incerti

«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. 

 Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. 

Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…». 

Andre Agassi

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Open Andre Agassi - Recensione
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina

Scoprire che vincere, che essere campione non risana tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

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Uno dei piú grandi campioni di tennis di tutti i tempi racconta la propria storia di vita, quella di bambino , di atleta adolescente , di professionista del tennis, di uomo con chiarezza e accettazione compassionevole.

Andre Kirk Agassi (Las Vegas, 29 aprile 1970) è un ex tennista statunitense.

Racconta la propria storia di atleta e di uomo partendo dalla fine: incuriosisce il lettore con la descrizione dei preparativi della sua ultima partita prima di congedarsi al pubblico sportivo. 

Una doccia indispensabile per riattivare un corpo stanco , che porta le ferite dei combattimenti e nel  sotto fondo le voci allegre dei figli che fanno colazione con la mamma, Stephi Graff.

Ma chi è Andre Agassi ?

Ha vinto 60 titoli ATP e 8 tornei dello Slam, Agassi è uno dei 7 giocatori che nella loro carriera sono riusciti a vincere tutti e 4 i titoli dello Slam,  ed il primo a realizzare il Career Grand Slam su tre diverse superfici. Ed inoltre medaglia d’oro del singolare olimpico e infine è stato introdotto nella International Tennis Hall of Fame. In una parola una leggenda nel suo sport, ma ciò che egli stesso racconta nella sua autobiografia è una storia di dolore, di sofferenza emotiva di doveri, di mancanza di affetto e riconoscimento e di fatica nel costruirsi un’ identità che sappia volersi bene, chiedersi cosa vorrebbe e di cosa ha bisogno.

Andre e i suoi fratelli crescono negli Stati Uniti, terra natale della madre, mentre il padre è iraniano di origini armene e assire, trasferitosi a Las Vegas dopo aver gareggiato come pugile nelle Olimpiadi del 1948 e del 1952 per  l’Iran. Soltanto dopo aver acquisito la cittadinanza americana il padre decide di cambiare il suo cognome in Agassi.

Mike Agassi era un grande appassionato di tennis e sognava per i suoi quattro figli un futuro da campioni. Provò a trasformare ognuno di loro in un professionista di successo, ma l’impresa riuscì soltanto col figlio più piccolo, Andre, al quale già all’età di due anni mise in mano una racchetta e da allora tutte le sue conversazioni con il padre riguardavano il tennis e l’obiettivo era di diventarne il numero uno.

Tuttavia, quello che sarebbe diventato uno dei più grandi campioni di sempre, non ha un ricordo positivo della sua infanzia. Il suo incubo inizia con “il drago”, ma non quello delle favole che viene sconfitto dal principe, quello delle favole che i genitori leggono ai piccoli per favorire il sonno, ma il drago- macchina che il padre stesso aveva progettato per lanciare palle velocissime. Nel libro con estrema passione ed al tempo stesso lucidità, l’autore racconta delle eccessive pressioni del padre: “Da ragazzino avevo odiato il tennis, vivevo nella paura di mio padre, che mi voleva campione a tutti i costi”.

Racconta di un’infanzia senza divertimento , con poca o nulla  libertà di fare amicizie e semplicemente giocare , imparare e crescere. Un infanzia che permette di esplorare solo ciò che il padre include nel suo scopo: “un figlio campione di tennis”.

Agassi descrive bene come questo lo ha condotto a soffrire di una sofferenza emotiva che lo conduce a creare un altro obbiettivo per la propria vita : potersi dire io vado bene così , io sono importante per me e per qualcun altro. Scoprire che vincere , che essere campione non risane tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

Agassi descrive i fatti, i luoghi, le persone che lo hanno odiato e lo hanno amato, i propri pensieri che diventano tormenti e le emozioni dolorose che diventano da fuggire.

Racconta della solitudine e di come la vicinanza affettuosa di persone, amici, mentori, fidanzate e mogli lo abbia sostenuto nel suo percorso di crescita umana, portandolo a divenire l’uomo che si descrive ora : un marito e un padre amorevole; uno che ha sofferto ma che ha potuto imparare che ha un valore come persona a prescindere dal risultato.

Consigliato ai genitori  ai  figli; agli atleti e ai terapeuti.

Consigliato a chi fatica a essere onesto e compassionevole nei propri riguardi.

 

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Secondo una nuova ricerca le caratteristiche del viso di un uomo contengono alcuni indizi sulla sua intelligenza. Lo stesso però non si può dire per i tratti del viso delle donne. 

I ricercatori della Charles University di Praga hanno reclutato 80 studenti , che hanno completato un test di QI e sono stati fotografati con un’espressione neutra . Altri 160 studenti hanno valutato le 80 fotografie per intelligenza o per attraenza.

I risultati indicano che le persone che sono state percepite come più attraenti avevano anche la tendenza a essere percepite come più intelligenti, sia dai partecipanti maschili che da quelli femminili. Questo legame tra bellezza e intelligenza percepita era più forte per i volti femminili che per i volti maschili.

Inoltre i partecipanti hanno valutato come più intelligenti proprio gli uomini con un più alto QI, basandosi unicamente sulla loro fotografia. Per le donne, invece, i ricercatori non hanno trovato alcun legame statisticamente significativo tra l’intelligenza percepita e il QI reale.

Naturalmente , i risultati hanno sollevato la questione del perché la gente poteva prevedere l’intelligenza degli uomini, ma non quella delle donne, basandosi unicamente sul loro volto. I ricercatori hanno proposto una serie di spiegazioni che verranno testate in future ricerche: una possibile spiegazione è che indizi di intelligenza superiore siano legati al dimorfismo sessuale e siano pertanto evidenti solo nei volti degli uomini. Un’altra possibilità è che le donne siano per lo più giudicate sulla base della loro attraenza. L’effetto alone della bellezza può quindi impedire una corretta valutazione dell’intelligenza delle donne.

Esaminando le caratteristiche geometriche dei volti , i ricercatori sono stati in grado di determinare un legame tra certe caratteristiche facciali e l’intelligenza percepita, sia per gli uomini che per le donne .

In entrambi i sessi, un volto più stretto con un mento più sottile e un grande naso prolungato caratterizza lo stereotipo previsto di alta intelligenza, mentre un viso piuttosto ovale e ampio con un mento enorme e un naso piccolo caratterizza la previsione di scarsa intelligenza“, hanno detto i ricercatori.

Ma queste caratteristiche facciali sono state associate solo con l’intelligenza percepita; i ricercatori infatti non hanno trovato alcun legame tra questi tratti facciali e i punteggi QI reali.

Questi volti di presunta alta e bassa intelligenza probabilmente non rappresentano niente di più che uno stereotipo culturale, perché questi caratteri morfologici non correlano con la vera intelligenza dei soggetti “, sottolineano i ricercatori.

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GAP – Gioco d’Azzardo Patologico: personalità & alcool – Psicologia

Maddalena D’Urzo

 

GAP - Gioco d’Azzardo Patologico: personalità & alcool - Psicologia. - Immagine: © Kenishirotie - Fotolia.comQuesto studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra Gioco d’Azzardo Patologico e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento.

Numerosi studi evidenziano che le persone affette da Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) tipicamente hanno anche altri disturbi in comorbilità come: Disturbi d’Ansia, Disturbi dell’Umore (Depressione), Suicidalità, Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità (Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2011). Anche l’Abuso di Sostanze (in particolare di alcool) spesso viene riscontrato nei giocatori patologici (Maccallum et al. 2002;  Grant et al. 2002; Toneatto et al. 2002; Brunelle et al., 2003; Grant et al. 2004).

La relazione che intercorre tra GAP e uso di alcool è molto complessa e ancora poco chiara; come evidenziano Stewart e Kushner attualmente in letteratura sono state formulate tre ipotesi per spiegarla (Stewart & Kushner, 2005).

1) L’assunzione di alcool può contribuire al GAP. Le evidenze che supportano questa prima ipotesi sono emerse sia da studi condotti sui giocatori mentre erano sotto l’effetto dell’alcool che mediante self-report. Dai risultati è emerso che i giocatori, quando assumono bevande alcoliche, sono  generalmente meno inibiti, e hanno sia una maggiore tendenza a correre dei rischi che una maggiore persistenza.

2) Il GAP causa l’assunzione di alcool. Siccome nei luoghi in cui si gioca d’azzardo l’alcool è sempre disponibile, i giocatori potrebbero utilizzarlo, come meccanismo di coping, per alleviare lo stress associato alle ingenti perdite di denaro.

3) Per concludere, una terza ipotesi, potrebbe implicare dei fattori sottostanti, ancora sconosciuti, che renderebbero le persone particolarmente vulnerabili a entrambi i disturbi.

Un recente studio australiano (Abdollahnejad, Delfabbro & Denson, 2014) pubblicato su Addictive Behaviors, ha indagato se l’alta prevalenza di comorbilità psichiatrica, spesso osservata nei giocatori patologici, sia influenzata dalla co-occorrenza di abuso di alcool.

La ricerca è stata effettuata su un campione di 140 giocatori (59 uomini e 81 donne, con un’età media di 47 anni) a cui sono stati somministrati dei test per valutare la gravità del GAP, l’uso di alcool e la presenza di diagnosi in asse I o II. I soggetti che sono stati inclusi nel campione hanno riferito di giocare almeno ogni quindici giorni a video poker, corse, scommesse sportive, casinò.

Lo studio ha evidenziato che la maggior parte dei Disturbi Psichiatrici, e in particolare i Disturbi di Personalità, si riscontrano nel gruppo di soggetti con una doppia diagnosi (Gioco d’Azzardo Patologico e Disturbi da Uso di Alcool); in questo gruppo, si riscontra la prevalenza più alta di Disturbi di Personalità, in particolare quelli del cluster B (Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità).

Mentre nel secondo gruppo, giocatori che non abusano di alcool, sono state riscontrate caratteristiche di personalità di tipo depressivo, evitante o ossessivo.

Questo studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra GAP e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento. È infatti possibile che riuscendo a ridurre il Disturbo di Personalità sottostante almeno una parte dei problemi legati alle dipendenze patologiche si riduca.

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Eros e Cioccolato – Gli effetti del cioccolato sul tono dell’umore

Antonio Scarinci, Sofia Piccioni

 

Il piacere della cioccolata può generare benessere e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Amore e odio già in Empedocle rappresentavano forze contrapposte che con Freud si trasformano in pulsioni di piacere e di morte, Eros e Thanathos.

Eros nella mitologia greca è il Dio dell’amore e del desiderio e per i greci l’amore è ciò che fa muovere verso qualcosa. Cupido scaglia le sue frecce e fa innamorare gli dei.

Il cioccolato o cioccolata, è un alimento derivato dai semi del cacao, per le antiche civiltà dell’America centrale era il cibo degli dei. La bevanda amara ed energetica che veniva ricavata dai semi del cacao era afrodisiaca, eccitava e alleviava la sensazione di fatica.

Molti personaggi famosi nel corso della storia hanno avuto una forte passione per il cioccolato, Casanova, per esempio, ne faceva abbondantemente uso per gli effetti afrodisiaci.

Oggi il cioccolato è consumato in tutto il mondo e soprattutto per interessi commerciali sono stati effettuati diversi studi su di esso.

I risultati sono controversi, alcuni (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) attestano gli effetti antiossidanti e di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro, altri sconsigliano (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica) il consumo di cacao perché può dare dipendenza, può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima.

Il cacao contiene monoammine tra cui la feniletilammina, la teobromina e stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre una serie di effetti sull’umore e su alcune funzioni biologiche (inibizione dell’appetito, riduzione della sensazione della fatica, innalzamento del tono dell’umore, mantenimento della veglia e attivazione delle funzioni mentali).

La feniletilammina è stata definita “love-drug” e, modulando la trasmissione dopaminergica, è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Alcuni studi arrivano ad indicarla come una sostanza migliore dei farmaci antidepressivi.

La serotonina è un neurotrasmettitore e l’inibizione della sua ricaptazione è il meccanismo con cui alcuni psicofarmaci agiscono sul tono dell’umore.

Il cioccolato è anche uno stimolante naturale, alcuni risultati di ricerca ottenuti dall’Università di Wheeling in West Virginia dimostrano che il consumo di cioccolato provoca un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e un incremento del rendimento mentale.

Altri studi condotti con metodiche di neuroimmaging hanno rilevato che la contemplazione, l’odore ed il sapore del cioccolato attiva il metabolismo nell’insula anteriore della circonvoluzione temporale superiore e della corteccia orbito frontale, le stesse zone che si attivano nelle dipendenze da droga quando i soggetti pensano al consumo.

Il consumo di cioccolato offre sensazioni di rilassamento e felicità e consente di attenuare l’ansia. L’Università di Helsinki ha condotto uno studio su 300 donne in gravidanza, i figli di quelle che avevano consumato regolarmente cioccolato risultavano più attivi e reattivi.

Naturalmente, i risultati di questi studi possono essere influenzati dal committente (spesso sono i produttori a commissionarli) tant’è che altre ricerche attestano risultati esattamente contrari.

Una ricerca pubblicata su Archives of Internal Medicine, sostiene che il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione.

Un’altra ricerca australiana pubblicata su Journal of Affective Disorders esclude un effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.

Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e forse per questo se ne consuma in grandi quantità.

Il tono edonico positivo migliora il benessere (Heller et al. 2009; Schacter et al. 2007).

I sistemi edonici del cervello che abbracciano i livelli corticali e sottocorticali filogeneticamente sono comparsi precocemente e hanno una grande importanza nel fitness, svolgono una funzione adattiva e si sono evoluti per mediare comportamenti legati al sesso al cibo e al sonno e ad altri piaceri sensoriali (Koob, Volkow 2010; Panksepp 1998; Tindell et al. 2006).

I sistemi neurali dei piaceri edonici sensoriali più semplici vengono riciclati per la generazione dei piaceri derivanti dai comportamenti sociali e intellettuali (Frijda 2010; Harris et al. 2009; Salimpoor et al. 2011; Skov 2010; Frith, Frith 2010; Kringelbach et al. 2008; Leknes, Tracey 2008).

Il nucleo accumbens, il pallidum ventrale e le regioni profonde del tronco encefalico codificano le reazioni di gradimento e le connettono a varie regioni della corteccia orbitofrontale (Pecina 2008; Pecina, Smith 2010; Smith et al. 2011).

Il piacere della cioccolata può, quindi, generare benessere (Lorenzini, Scarinci, 2013) e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Inoltre, la codifica del piacere che agisce sul tono edonico tende a diffondersi nel cervello e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche (Beckmann et al. 2009), può raggiungere l’apice nella localizzazione di alcune regioni della corteccia orbitofrontale e la sua attivazione determina le valutazioni soggettive di piacevolezza legate al gusto ma anche ad aspetti affettivi e astratti (Georgiadis, Kortekaas 2010; Veldhuizen et al. 2010; Vuust, Kringelbach 2010; Kringelbach 2010).

Del resto, la corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nei disturbi emotivi e nelle dipendenze (Kringelbach 2005).

Occorre tener presente, però, che l’eccesso di desiderio sembra svincolato dal piacere e dall’eudemonia (Wiers, Stacy 2006; Camerer 2006).

Il cioccolato non è solo, quindi, un piacere effimero, può predisporci alla relazione, crea le condizioni per l’esternazione, per vivere un profondo contatto.

D’altra parte può essere un nutrimento che appaga il vuoto affettivo, la noia, può esaudire compulsivamente il desiderio in modo rapido e in quantità e quindi generare dipendenza. Questi aspetti contrapposti, dolce/amaro; liquido/solido; chiaro/scuro sono propri dell’alimento e ne costituiscono il carattere ambivalente. Il cioccolato può essere dolce, dare calore, appagare e può anche essere qualcosa che fa ingrassare che rende dipendenti, che fa ammalare.

Ippocrate sosteneva “è la quantità che fa il veleno”. Il male non è nella sostanza ma nell’appetizione dei piaceri che contraddistingue il nostro tempo. Può dare sollievo alla fatica di esistere, fornire un po’ di piacere e “i piaceri semplici e naturali sono l’ultimo rifugio degli uomini complessi” (Oscar Wilde) . Senza, però, esagerare!

A proposito di esagerazioni, David Lewis neuropsicologo, a seguito di una ricerca condotta con alcune coppie giovani, sostiene che mangiare un pezzo di cioccolato fondente sia più eccitante che baciare il proprio partner. L’aumento del ritmo cardiaco è stato il parametro preso in considerazione che per durata e intensità, dopo il consumo di cioccolato ha avuto picchi sorprendenti, inoltre tutte le aree del cervello ricevevano uno stimolo più intenso e duraturo rispetto a quello registrato durante il bacio. Lo studio ha chiari limiti metodologici: un conto è baciare appassionatamente la propria amante in un posto riservato e al riparo da occhi indiscreti, altro è baciare la propria compagna in un laboratorio dove ti senti addosso il ruolo della cavia. Pasini (1994) evidenzia che mentre per gli uomini il cioccolato predispone alla sessualità, la maggior parte delle donne lo preferisce al sesso, mentre Murray (2001) associa addirittura i tratti di personalità del soggetto e il rapporto con l’alimento, proponendo una serie di interpretazioni psicologiche prive di basi empiriche.

Mettendo da parte le iperboli, sta ad ognuno restituire al cioccolato – lo stesso discorso si potrebbe fare per altri alimenti – il peso che gli spetta. Ci può far sorridere, renderci allegri, predisporci ad andare oltre il peccato di gola, trasportati dal piacere e dall’attivazione affettiva quando leggiamo il cartiglio che contiene una frase d’amore mentre gustiamo un bacio di cioccolato offertoci dalla donna che amiamo, ma non dobbiamo farci influenzare e trascinare dalle attese suscitate da informazioni e comunicazioni che spesso non sono affatto disinteressate.

Non possiamo essere certi che il cioccolato sia un afrodisiaco, ma può diventarlo quando si crea una certa atmosfera intorno al suo consumo e si attivano tutti i sensi. Simbolicamente può essere considerato di natura ermafrodita, copre tutte le forme della sessualità, è maschile ma anche femminile. Alimento indiscutibilmente tra i più amati e diffusi del nostro pianeta ha sicuramente valore gratificante, ma il significato che gli si attribuisce coinvolge naturalmente la scala di valori e lo stile di vita di ogni singolo consumatore.

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Come società abbiamo certamente equiparato la velocità all’intelligenza, e l’intelligenza ha probabilmente molto a che fare con fare collegamenti veloci, ma ha sicuramente altrettanto molto a che fare con fare i giusti collegamenti.

Nel 1884 Sir Francis Galton, noto anche come il padre della psicometria e dell’eugenetica, chiedeva tre pence a chi si sottoponeva a semplici test che misuravano la sua altezza, il peso, l’acutezza della vista e la rapidità nel colpire con il pugno; Galton raccolse così i dati di 17.000 individui.

Il dato che più lo interessava era la velocità di reazione di un soggetto, che credeva fosse fortemente correlata all’intelligenza.

Per decenni molti ricercatori hanno perseguito l’idea di Galton per la quale velocità è uguale a intelligenza e, mentre molti test recenti non hanno trovato alcuna relazione coerente tra queste due misure, alcuni hanno dimostrato una correlazione debole ma inconfondibile tra tempi di reazione brevi e punteggi più alti nei test di intelligenza.

Se c’è una logica a cui questa correlazione risponde, è che i segnali nervosi viaggiano veloci tra gli occhi, il cervello e i circuiti che attivano i nostri neuroni motori: più velocemente il nostro cervello elabora le informazioni che riceve e più acuto è il nostro intelletto.

Lo psicologo Michael Woodley della Umea University (Svezia) ha avuto abbastanza fiducia in questa correlazione, da utilizzare più di un secolo di dati sui tempi di reazione per confrontare la nostra intelligenza con quella dei vittoriani. Le sue scoperte mettono in discussione la  convinzione, a noi cara, che la vita frenetica che conduciamo sia un segno della nostra produttività e del nostro benessere mentale. Infatti quando i ricercatori hanno esaminato tempi di reazione di 14 studi condotti tra il 1880 e il 2004, hanno trovato un declino preoccupante, che corrisponderebbe ad una perdita di una media di 1.16 punti di QI a decennio.

Facendo due conti siamo mentalmente inferiori ai nostri predecessori vittoriani di circa 13 punti di QI .

Come società abbiamo certamente equiparato la velocità all’intelligenza, e l’intelligenza ha probabilmente molto a che fare con fare collegamenti veloci, ma ha sicuramente altrettanto molto a che fare con fare i giusti collegamenti.

Infine anche la percezione della velocità può essere ingannevole. Quando le cose vengono facilmente o velocemente, quando non dobbiamo lottare, tendiamo a sentirci più intelligenti. In uno studio, Adam Alter e altri psicologi della New York University hanno chiesto a dei volontari di rispondere a una serie di domande scritte con un font chiaro e nitido o leggermente sfocato, difficile da leggere. Le persone che hanno dovuto sforzarsi di più hanno finito per elaborare il testo più profondamente, rispondendo anche alle domande in modo più accurato .

Insomma, quando dobbiamo prendere una decisione ponderata, ci pensiamo a lungo e fatichiamo, e questo non è poi così diverso dal pensare lento.

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Memorie traumatiche – EMDR e strategie avanzate in Psicoterapia e Psicotraumatologia

 

 

Recensione Memorie traumatiche - Giannantonio Memorie traumatiche, forse più di altri libri dello stesso autore, sembra rappresentare una lucida e appassionata testimonianza di una carriera trascorsa a sperimentare, a cercare sempre nuove vie, senza mai accontentarsi, per offrire ai pazienti strumenti terapeutici sempre più efficaci, sfuggendo all’illusoria comodità della semplificazione, delle procedure schematizzate.

Stavo terminando il suo ultimo libro quando mi ha raggiunta la notizia della morte di Michele Giannantonio.

Essere immersa nelle sue parole, nei suoi pensieri mi ha fatto percepire in maniera ancora più forte il dispiacere per la scomparsa di un uomo e di un clinico che ho imparato ad apprezzare per la libertà di pensiero, il coraggio di aprirsi a nuove idee, di modificare il suo fare terapeutico al servizio del paziente.

Memorie traumatiche”, infatti, forse più di altri libri dello stesso autore sembra rappresentare una lucida e appassionata testimonianza di una carriera trascorsa a sperimentare, a cercare sempre nuove vie, senza mai accontentarsi, per offrire ai pazienti strumenti terapeutici sempre più efficaci, sfuggendo all’illusoria comodità della semplificazione, delle procedure schematizzate.

I protocolli rigidamente adottati sono come gli abiti dei grandi magazzini: vestono discretamente la maggior parte delle persone, ma non stanno benissimo a nessuno” (p. 157).

E’ un approccio invece sartoriale quello che Giannantonio ha proposto in queste pagine: un intervento cucito sul singolo paziente, adatto alle sue specifiche difficoltà, esigenze, capacità.

Il libro esplora un modello di “Psicoterapia Integrata-Corporea” che integra, modifica e arricchisce l’EMDR in funzione di una maggiore efficacia clinica.

Quest’ottica non tradisce affatto lo spirito integrativo e rivoluzionario che caratterizza e ha sempre caratterizzato l’EMDR, anzi, rende onore all’impostazione aperta e orientata alla sperimentazione che la stessa Francine Shapiro ha sempre incoraggiato.

L’EMDR nasce, infatti, come approccio integrativo rispetto a contributi provenienti da diverse scuole e metodologie terapeutiche, mirato al trattamento di tutti i livelli del funzionamento umano: cognitivo, emotivo, comportamentale e somatico. Ed è proprio il corpo al centro di questa riflessione sulle possibili evoluzioni e integrazioni dell’EMDR.

Il protocollo standard resta il migliore strumento a disposizione per il trattamento di situazioni standard, appunto, ma necessita di arricchimenti, modifiche ed integrazioni per adattarlo a situazioni più complesse, come ad esempio il trattamento di pazienti che provengono da storie di sviluppo in cui hanno subito molteplici e continuativi traumi di natura interpersonale. In questi casi i pazienti presentano alterazioni del funzionamento che vanno al di là dei sintomi del PTSD e che richiedono una specifica attenzione nel trattamento.
La prima parte del volume passa a setaccio il protocollo standard mettendone in luce punti di forza e potenziali limiti e criticità nel trattamento di pazienti con traumi complessi.

Ogni difficoltà, ogni blocco che si può incontrare nell’applicazione del protocollo standard evidenzia specifiche modalità di funzionamento del paziente, fornendo preziose informazioni che l’autore utilizza per proporre vie alternative di accesso e di elaborazione.

Il processo di elaborazione delle informazioni è composto di elementi cognitivi, emotivi e sensomotori, come un “cavo a tre fili”, e lo stallo può verificarsi all’interno di ciascun registro, in cui il paziente si trova confinato senza riuscire a progredire nella rielaborazione.

Fin dalla fase di assessment possono sorgere blocchi che rendono necessari accorgimenti e modifiche, che possono riguardare la relazione terapeutica, l’individuazione del target di intervento, della cognizione negativa e positiva, l’accesso alle emozioni e alla localizzazione corporea del disagio, il procedere dal passato al futuro, ecc.

Nella seconda parte del volume vengono approfondite le proposte di integrazione e modifica al protocollo, talvolta minimali, talvolta decisamente radicali, fino al suggerimento di lavorare con altri approcci, quando opportuno.

Includendo nel trattamento i contributi provenienti da altri approcci centrati sul corpo, in particolar modo dalla Psicoterapia Sensomotoria, Giannantonio mostra vie di accesso ad aspetti dell’esperienza umana altrimenti difficilmente raggiungibili, appartenenti all’implicito, all’indicibile, all’inconsapevole, come la postura, l’andatura, i movimenti, i confini corporei, che non possono essere ricondotti ad una memoria episodica e dunque non trattabili con il protocollo standard dell’EMDR.

Due i punti di maggiore rilievo di questa parte: la maggiore enfasi data alla dimensione somatica e il radicamento nella teoretica post-traumatologica e derivante dalla teoria dell’attaccamento, il tutto all’interno della imprescindibile cornice data dalla relazione terapeutica.

Il corpo svolge in effetti un ruolo assolutamente fondante nella nostra esperienza, determina cosa è possibile sentire, le risorse a cui abbiamo accesso e la mappa del mondo in cui ci muoviamo. E’ fonte preziosa di informazioni sul paziente e per il paziente stesso.

Data l’architettura cerebrale, inoltre, un cambiamento a livello somatico produce modificazioni a livello emotivo e cognitivo.

L’autore, inoltre, in linea con i modelli di intervento nel trattamento dei disturbi post-traumatici, mette in evidenza come il lavoro sulle memorie traumatiche sia solo una delle fasi del lavoro con questi pazienti.

Janet, per esempio, proponeva un modello in 3 fasi: stabilizzazione e riduzione dei sintomi; trattamento delle memorie traumatiche; integrazione della personalità.

La fase della stabilizzazione, in particolare, è di cruciale importanza nel lavoro con persone traumatizzate e può richiedere un lavoro anche molto lungo prima di poter accedere alla rielaborazione dei ricordi traumatici.

Per poter affrontare un ricordo traumatico il paziente deve collocarsi all’interno della “finestra di tolleranza” dell’attivazione e delle emozioni ed essere in grado di modulare tale attivazione; l’alleanza terapeutica deve essere sufficientemente solida e l’umore e le condizioni generali del paziente devono essere adeguate.

Un altro aspetto, messo in evidenza dall’autore, riguarda i sistemi motivazionali o sistemi d’azione: attraverso l’uso dell’EMDR e di altri approcci somatici, il paziente deve essere accompagnato nel percorso di riappropriazione dell’intera gamma dei suoi sistemi motivazionali.

Riconoscendo l’importanza che le sue difese hanno rivestito nel corso dell’esperienza traumatica, compito della terapia è aiutare il paziente a riconoscere come alcuni aspetti di queste difese siano ormai anacronistici e ad utilizzare in maniera flessibile tutte le risposte del sistema di difesa (quelle di mobilizzazione e di immobilizzazione).

Non solo: il paziente va accompagnato e sostenuto promuovendo il funzionamento nelle situazioni non minacciose della quotidianità, dando spazio alla libera espressività di ogni sistema motivazionale.

La terza parte del volume è dedicata agli approcci metodologici e alle specifiche tecniche di intervento proposti per affrontare proprio queste sfide.

L’aurore presenta dettagliatamente la sua proposta di integrazione del protocollo EMDR standard all’interno di una più ampia concettualizzazione di intervento, ovvero una “Psicoterapia Integrata-Corporea” che include i contributi della Psicoterapia Sensomotoria, della Psicoterapia Ipnotica, del Focusing, dell’Hakomi Method, del Somatic Experiencing e di altri approcci somatici.

Fil rouge di tutta la trattazione è la ricerca di un’attenta e rispettosa regolazione tra terapeuta e paziente, una regolazione che è in primo luogo somatica ed emotiva e che costituisce non solo una cornice all’interno della quale strutturare l’intervento clinico, ma che è essa stessa intervento clinico, esperienza correttiva e occasione di crescita per terapeuta e paziente.

E’ un bel regalo quello che Michele Giannantonio ci ha lasciato: l’invito a non fermarsi, a seguire la via di una ricerca continua, inseguendo innanzi tutto l’efficacia terapeutica, mettendo alla prova le nostre teorie e i nostri metodi e modificandoli quando serve.

Essendo lui stesso alla fine di un viaggio ha saputo infondere in queste pagine l’entusiasmo per nuovi inizi, nuovi viaggi, nuove scoperte

 

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  • Giannantonio, M. (2014). Memorie traumatiche. EMDR e strategie avanzate in Psicoterapia e Psicotraumatologia, Mimesis Edizioni ACQUISTA ONLINE 

 

Innamorata persa – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.07 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #07

Innamorata persa

 

– Leggi l’introduzione –

Innamorata persa CIM 07. - Immagine: © Web Buttons Inc - Fotolia.comSpinto dal destare l’interesse del lettore, temo di aver dato una idea distorta o perlomeno parziale del lavoro del  CIM. Non si deve pensare che sia un susseguirsi di emergenze di casi bizzarri e interessanti che si concludono rapidamente e più o meno positivamente.

Nella grande maggioranza, superato il momento dell’acuzie segue una lunga presa in carico che prevede aspetti psicologici, farmacologici e sociali e che dura per moltissimo tempo.

Sul singolo caso si concentrano dunque quelle risorse professionali che sono necessarie, formando mini equipe che coordinano i diversi interventi, anche tenendo conto della facilità dei diversi operatori a collaborare.

Maria detta Gilda non avrebbe mai seguito un caso insieme al Dr. Giuseppe Irati e tale reciproca intolleranza lasciava ai più molti sospetti su un periodo che si collocava tra il secondo ed il terzo matrimonio di Irati ed aveva visto l’improvvisa separazione di Maria.

Al contrario, Carlo Biagioli e Luisa sarebbero andati a fare una domiciliare anche a Lucifero nell’ultimo girone dell’inferno, se  avessero avuto l’opportunità di trascorrere una notte fuori insieme.

Per questo non c’è trasferta di durata superiore ad un giorno che non li veda candidati.

Ma lasciamo perdere i pettegolezzi e torniamo alla operatività normale.

Gli assistenti sociali curano la parte economica e, insieme agli infermieri, la riabilitazione e il reinserimento lavorativo che li porta ad essere costantemente impegnati in contatti istituzionali con gli amministratori locali, sindacati e organizzazioni di categoria.

Ancora, nella maggior parte dei casi la presa in carico avviene su richiesta dell’interessato o dei familiari senza alcuna emergenza.

Infine, le varie professionalità sono impegnate in diversi progetti per la promozione della salute mentale.

Il millennio appena iniziato dopo le vacanze di Natale vede gli assistenti sociali, Silvia Ciari e Giovanni Brugnoli, determinati come sempre, impegnati nella creazione di una rete di residenze per accogliere i pazienti che saranno dimessi dagli ospedali psichiatrici giudiziari entro due anni.

Le psicologhe, Filata e Ficca,  stanno predisponendo degli sportelli di ascolto nelle scuole superiori per intercettare, in collaborazione con i Sert, il disagio giovanile nel delicato periodo tardo adolescenziale che vede l’esordio delle patologie psicotiche e dei disturbi alimentari.

Le infermiere Maria e Luisa hanno calendarizzate le visite domiciliari per tenere il polso delle situazione, oltre che gestire alcune attività riabilitative per migliorare la qualità della vita e favorire il reinserimento nella comunità di chi ha avuto difficoltà che lo hanno costretto ad una sosta ai box.

I medici, Irati e Mattiacci, hanno varato un corso di aggiornamento per i colleghi di medicina generale sul rischio suicidiario con la sponsorizzazione delle aziende produttrici degli antidepressivi.

Salta immediatamente agli occhi che, per fare tutto questo, gli operatori risultano pochi.

Oltre alle richieste dell’assegnazione di ulteriori risorse sostenute, senza mediazioni, dal presidente dell’associazione dei pazienti e familiari, l’indomito Vitale Eusebi, cosa fare?

Facendo di necessità virtù, Biagioli ha inventato il metodo Ayax ad imitazione del calcio totale (tutti in attacco e tutti in difesa) giocato dall’indimenticabile  Olanda di Kruiff.

Ciò significava che, se la ideazione dei vari progetti era affidata alle specifiche professionalità, la realizzazione invece coinvolgeva tutti, con una feconda osmosi di competenze. Infermieri agli sportelli di ascolto nelle scuole, psicologi in domiciliare che scoprivano aspetti dell’esistenza dei loro pazienti banditi, in genere, dall’asettico ambulatorio, medici a confronto con i sindaci per ottenere benefici per i loro assistiti.

Il solo Biagioli, dedicandosi al coordinamento di tutte queste attività e, soprattutto, ai rapporti con il centro pulsante della ASL non ha specifici incarichi. Trascorre spesso le mattinate in verbose, lunghissime quanto inconcludenti riunioni con gli alti dirigenti della ASL per decisioni inerenti il management aziendale, la suddivisione delle risorse, la mediazione con i sindacati, la stipula di convenzioni ed appalti di ogni genere.

Durante tali insensati sperperi di tempo e denaro fissa ansioso il cellulare come un adolescente in attesa della conferma del primo appuntamento. Si auspica una chiamata di emergenza che gli consenta una giustificatissima fuga verso ciò che unicamente lo interessa: i pazienti, meglio se gravi.

Le riunioni cliniche in quel mese di gennaio del 2001 si concentravano su due casi provenienti entrambi dalle frazioni a sud di Monticelli che sembravano affette da una epidemia di follia: Antonella e Omero.

Il contatto con Antonella era avvenuto con la dottoressa Mattiacci, durante una consulenza nel reparto di ginecologia dell’ospedale generale di Monticelli.

Dopo la dimissione, la Mattiacci chiese di essere affiancata dalla dottoressa Maria Filata per la stima che aveva nei suoi confronti e perché riteneva utile una figura con lo spessore materno della Filata che lei, senza figli sentiva di non avere. Antonella, 33 anni, con una prevalenza di curve rispetto alle rette nel disegno del suo corpo, ha un modo infantile di relazionarsi sollecitando tenerezza e accudimento. Meglio la definisce una ambiguità di fondo per cui tratti infantili sono mischiati ad una femminilità seduttiva.  Sin da piccola ha dovuto farsi carico della gestione del padre, bracciante agricolo, durante le prolungate assenze della madre ricoverata in clinica per un disturbo bipolare risoltosi solo qualche anno fa con una corda intorno ad un trave della stalla.

Nella ricostruzione della sua storia, nella psicoterapia con la Filata, emergerà dopo parecchi mesi che aveva sostituito la madre non soltanto nella gestione della casa. Forse anche lei presentava oscillazioni stagionali del tono dell’umore, ma il ricovero in ginecologia era stato motivato dalla terza gravidanza isterica nel giro di due anni.

La sessualità per Antonella era un terreno scivoloso. Il suo primo ragazzo importante lo aveva avuto a 18 anni, nello stesso anno della morte della madre. Secondo la Filata, era stato un modo per arginare le richieste del padre che, dopo la vedovanza, erano diventate più pressanti.

Quando si innamorava, Antonella mostrava una gioia incontenibile che scivolava rapidamente in una specie di eccitamento sub maniacale. Eccedeva nel trucco e le manifestazioni affettive anche verso semplici conoscenti erano talmente esagerate da diventare moleste.

Una gelosia soffocante mise in fuga il giovane partner. Antonella per sei mesi non uscì più di casa, era il padre a fare la spesa e persino ad acquistare gli assorbenti per lei. Giorno e notte con la stessa tuta da ginnastica, aveva nel cibo il suo unico piacere, prese rapidamente 15 kg e la vergogna per il suo aspetto la relegò in casa.

Poi, al carnevale di cinque anni dopo, quando il paese aveva dimenticato la sua esistenza, si presentò alla grande festa mascherata del giovedì grasso.

Alla dottoressa Filata confidò che la madre le aveva parlato, assicurandola che avrebbe trovato in quella festa l’uomo della sua vita: la luce sinistra della follia già lampeggiava nei suoi occhioni da Lolita.

Il suo fare oltremodo disponibile fece si che quella notte incontrò non uno ma ben tre uomini della sua vita che, ubriachi, ne abusarono fino all’alba. Il padre preferì mettere tutto a tacere per non precludere un futuro matrimoniale alla figlia. Antonella tornò nella sua tuta bozzolo per altri cinque anni, quando fu un vero principe a risvegliarla.

Era estate, Antonella si avvicinava ai 30 anni e ai quasi 100 Kg, il padre chiamò il vecchio medico di famiglia per una dieta ma si presentò un giovane sostituto il dottor Alfonso neolaureato alla sua prima sostituzione.

Lui si interrogò a lungo per capire se avesse avuto responsabilità nello scatenamento di un delirio erotomanico di Antonella nei suoi confronti, ma la cosa più gentile che le aveva detto era stato “lei è ancora così giovane, non deve lasciarsi andare”.

Ancora non esisteva il reato di stalking, ma Alfonso si rivolse comunque ai carabinieri di Monticelli perché intimassero ad Antonella di cessare i comportamenti persecutori nei confronti suoi e della giovane moglie incinta.

Antonella, infatti, era convinta che Alfonso fosse perdutamente innamorato di lei e  impedito a realizzare la loro unione dalla macchinazione della moglie che lo tratteneva con una fattura magica che aveva anche provocato la gravidanza. 

A quel tempo nessuno si era premurato di segnalare la situazione al CIM, in paese tutti dicevano che Antonella era, come del resto la madre, strana ma innocua, ed anche un po’ mignotta senza scopo di lucro, per il piacere di ragazzi e anziani. Per la cattiva fama di cui godeva nessuno si avvicinava a lei con intenzioni serie, l’ultimo uomo lo aveva incontrato a Roma, Samyr, operaio cassaintegrato con un figlio di tre anni che le aveva giurato che l’avrebbe sposata e quando, per l’ennesima volta, aveva spostato la data del presunto divorzio, le mestruazioni erano scomparse, la pancia di Antonella aveva iniziato a lievitare ed il seno ad indurirsi e farsi scuro il capezzolo.

Non si capacitava che i test comprati in farmacia fossero negativi e per questo si presentò in pronto soccorso lamentando dolori e piccole perdite insomma un rischio di aborto.

Sei mesi più tardi in occasione di un altro rinvio dell’atteso divorzio ci fu una replica.

Un anno dopo Samyr scomparve definitivamente e Antonella fu nuovamente “incinta” e decisa a portare comunque avanti la gravidanza e a chiamare quel figlio con il nome del padre.

Solo durante questo ricovero e solo perché tramortì con una ginocchiata sui testicoli il tecnico ecografista che si ostinava a non vedere il delizioso piccolo Samyr annidato nel suo utero, fu chiamato il CIM.

I neurolettici e gli stabilizzatori dell’umore prescritti dalla dottoressa Mattiacci contenevano il vissuto emotivo di tristezza e rabbia.

Sedute settimanali con la dottoressa Filata cercavano di capire perché la sessualità e la maternità fossero così centrali e pericolose nei vissuti di Antonella. A tal proposito, la crescente ostilità del padre verso qualsiasi trattamento che non fosse esclusivamente farmacologico rinsaldò l’idea che ci fosse un oscuro segreto familiare.

Un primo inserimento lavorativo predisposto da Silvia Ciari in una cooperativa che gestiva l’asilo nido di Monticelli dovette essere interrotto: la presenza di bambini piccoli era troppo stressante per Antonella.

Un altro ramo della cooperativa si occupava di assistenza agli anziani e qui la sua opera fu molto apprezzata ed il contratto rinnovato.

Frequentato un corso al centro diurno si appassionò alla pittura e, nonostante i suoi quadri avessero qualcosa di profondamente inquietante, a 37 anni fece la sua prima collettiva nei locali del comune.

Non era una vera e propria collettiva, solo un altro artista esponeva ed era proprio quell’Omero che ho messo in stand by molte righe sopra.

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Psicoterapia Psicodinamica: Intervista con Vittorio Lingiardi

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Vittorio Lingiardi

Professore Ordinario di Psicologia Dinamica – Università La Sapienza di Roma

 

 

State of Mind intervista Vittorio Lingiardi, Psichiatra e Psicoterapeuta. Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Psicologia e Medicina – Università La Sapienza di Roma. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Menzogne: capite quando qualcuno sta mentendo? Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Menzogne: sei capace di capire quando qualcuno sta mentendo? Secondo una recente ricerca della University of California-Berkeley tutti possediamo questa abilità, almeno potenzialmente, perchè riuscire ad accedervi non è la stessa cosa che poterlo teoricamente fare.

In due esperimenti , il team di ricercatori ha scoperto che le persone tendono a percepire l’inganno utilizzando metodi indiretti, che attingono alla loro mente inconscia. La nostra mente conscia, invece, zoppicando su false credenze, rischia di farci inciampare continuamente.

Gli studi precedenti sugli esseri umani hanno evidenziato che la nostra capacità di discriminare tra ciò che è vero e ciò che è falso è tanto precisa quanto il lancio di una moneta; eppure i primati, come le scimmie e gli scimpanzè, sono in grado di individuare i comportamenti disonesti. Qual è allora il significato evolutivo del fatto che la nostra specie ignora questa preziosa abilità? I ricercatori sostengono che in realtà non ignoriamo affatto questa abilità; il problema starebbe piuttosto nel fatto che ci confondiamo con nozioni stereotipate, che i segnali non verbali ci segnalano come ingannevoli. Ad esempio, dicono i ricercatori, la credenza diffusa che i bugiardi distolgono lo sguardo e mostrano irrequietezza è falsa!

Per testare la loro ipotesi, i ricercatori hanno condotto un paio di esperimenti in cui la mente conscia e quella inconscia dei partecipanti hanno gareggiato per scovare l’inganno. I 72 soggetti hanno guardato per 90 secondi un “video interrogatorio” in cui 12 persone erano accusate di aver rubato 100 dollari dalla sala prove. La metà di queste aveva effettivamente preso i soldi, mentre gli altri erano ingiustamente accusati. Le domande a cui rispondevano le persone interrogate in video erano: “com’è il tempo fuori?” e “hai rubato tu i soldi?”; i partecipanti all’esperimento dovevano individuare i bugiardi (che sono stati identificati in appena il 44% dei casi).

Infine, i partecipanti hanno completato una versione del Implicit Association Test, che è progettato per misurare le associazioni inconsce e automatiche che facciamo tra le persone, gli oggetti e le idee . “In questo caso”, spiegano i ricercatori, “eravamo interessati a sapere se osservare qualcuno dire una bugia avrebbe, al di fuori della consapevolezza, attivato concetti mentali connessi con l’inganno“.

Grazie ai risultati hanno scoperto che i partecipanti erano più veloci nel categorizzare con precisione termini come ” disonesto ” e ” ingannevole ” quando la foto e il nome di uno dei ladri era visibile sullo schermo .

Sembra che la visualizzazione automatica di un bugiardo attiva concetti associati con l’inganno, e la visualizzazione di una persona che dice il vero attivi automaticamente concetti associati con la verità“, concludono i ricercatori.

Un altro risultato interessante è stato che le donne hanno dimostrato significativamente maggiore accuratezza nell’individuare i bugiardi rispetto ai partecipanti di sesso maschile.

Insomma, la nostra capacità di stanare i bugiardi sarebbe accurata se non ignorassimo continuamente le nostre valutazioni inconsce a causa di pregiudizi e false credenze.

 

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La gravidanza vista dall’interno di Joan Raphael-Leff – Recensione

 

 

La gravidanza vista dall’interno

di Joan Raphael-Leff

Astrolabio Ubaldini (2014)

 

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La gravidanza vista dall'interno. - Immagine: copertina

Oltre alla riattivazione di tematiche arcaiche, i genitori cominciano a fantasticare sul proprio bambino, sul suo aspetto fisico, sul genere, sul nome e, molto spesso, proiettano su di lui i propri desideri e i propri sogni. Talvolta, il bambino può assumere un ruolo specifico, quale quello di salvatore, riparatore, capro espiatorio, prova d’amore, ecc. 

Diventare madre: un evento comune a tante donne ma differente per ciascuna di esse, a causa dei molteplici parametri familiari, emotivi, subculturali ed etnici che influenzano la futura mamma, un’esperienza che comincia con il concepimento e che sconvolge la realtà interna ed esterna in primis della donna e in secundis del partner ed eventualmente degli altri figli.

Cosa accade nel mondo interno di una donna in attesa? Quali forze inconsce entrano in gioco? Come ci si sente ad avere dentro un’altra persona? Quali emozioni, sogni e fantasie accompagnano la donna durante il periodo della gravidanza? Quali sono le aspettative dei futuri genitori? Come si modifica la relazione coniugale? Questi sono solo alcuni dei quesiti ai quali Joan Raphael-Leff cerca di fornire una risposta in questo libro, adottando un approccio che, anziché assumere come punto di partenza lo sviluppo del sé psicologico del bambino, pone al centro l’esperienza psicologica dei genitori, l’interazione attuale col partner e con il bebè e gli eventuali interventi di supporto o psicoterapici che si possono richiedere nel periodo della gravidanza.

Le fonti cliniche alle quali l’autore ha fatto riferimento nella stesura del libro comprendono racconti diretti di futuri genitori, protocolli di psicoterapia, verbali di discussioni di gruppo, osservazioni dei bambini in casa, supervisioni di psicoterapie psicoanalitiche, fonti bibliografiche e discussioni con i colleghi o con gli allievi. Infatti, non mancano nel testo trascrizioni di colloqui individuali o di gruppo con donne in gravidanza o neo-mamme. 

La gravidanza è un periodo piuttosto delicato nella vita di ciascuna donna, in quanto comporta un’attivazione di sentimenti personali, ricordi, fantasie e immagini inconsce, legati molto spesso alle proprie relazioni infantili. Le esperienze passate e le relazioni primarie tendono ad essere evocate quando una donna scopre di essere in attesa e possono influenzare la qualità dell’interazione postnatale con il bambino.

La gravidanza può essere desiderata o non programmata, può arrivare troppo presto o troppo tardi, può essere cercata per colmare un lutto o un precedente aborto, può essere desiderata da entrambi i partner o solo da uno, può derivare da un’inseminazione artificiale o può essere la conseguenza di uno stupro o di un rapporto sessuale fortuito; da questo si comprende come non sempre la notizia della nascita di un bambino sia accolta con entusiasmo dai futuri genitori. Anche nei casi in cui la gravidanza sia cercata, quest’evento genera, comunque, una serie di cambiamenti nella donna: deve condividere il suo corpo con il feto e questo comporta anche una modifica della propria immagine corporea; deve cambiare le sue abitudini alimentari, di lavoro, il suo stile di vita.

Secondo Raphael-Leff, il periodo della gravidanza può essere suddiviso in 3 fasi: la prima è caratterizzata principalmente dalle nuove sensazioni corporee e dai sintomi fisici; la seconda fase comincia con i movimenti del feto e comporta la presa di coscienza che un nuovo essere cresce dentro di sé; l’ultima fase comincia quando la madre inizia a concepire il bambino un organismo capace di vivere autonomamente.

Durante queste fasi, oltre alla riattivazione di tematiche arcaiche, i genitori cominciano a fantasticare sul proprio bambino, sul suo aspetto fisico, sul genere, sul nome e, molto spesso, proiettano su di lui i propri desideri e i propri sogni. Talvolta, il bambino può assumere un ruolo specifico, quale quello di salvatore, riparatore, capro espiatorio, prova d’amore, ecc. 

Secondo l’autore, la gravidanza può generare dei cambiamenti anche nella relazione con il partner: in primis, l’attività sessuale in alcuni casi viene incentivata, in altri casi viene interrotta, in quanto si riattivano desideri infantili o si percepisce la propria privacy violata dalla presenza di un terzo; inoltre, il partner può sentirsi escluso dalla relazione privilegiata tra la madre e il feto, mentre la donna può sentirsi invasa o poco attraente.

Anche nel partner, durante questo periodo, possono attivarsi emozioni intense e ricordi legati al passato con i propri genitori o si possono sviluppare sintomi psicosomatici o difficoltà sessuali, sociali o lavorative. Inoltre, il padre può partecipare il più possibile alla gestazione, al parto e alla cura del neonato oppure può delegare alla donna qualsiasi responsabilità.

Anche le relazioni con i propri genitori possono modificarsi durante questa fase: alcuni futuri genitori tendono a rivendicare la propria indipendenza e a stabilire con i genitori relazioni più paritarie; altri diventano ancora più dipendenti e delegano, spesso, alcuni compiti ai nonni del bambino.

Il rapporto tra maternità e lavoro è un’altra questione trattata dall’autore del libro: alcune donne cercano di riprendere appena possibile l’impiego a tempo pieno, altre abbandonano l’attività lavorativa o rimandano la ripresa del lavoro nei primi due anni dopo il parto oppure optano per un impiego part-time. Inoltre, talvolta la gravidanza può generare delle difficoltà non indifferenti nello svolgimento di mansioni che richiedono un eccessivo sforzo fisico o la posizione seduta prolungata.

Un capitolo molto interessante del libro viene dedicato dall’autore ai diversi approcci alla genitorialità. Chi ha un orientamento definito Facilitazione considera la maternità un’esperienza completamente gratificante, ricerca continuamente la vicinanza del piccolo e tende a rimandare la ripresa dell’attività lavorativa. Al contrario, la donna che ha l’orientamento della Regolazione cerca di tornare il prima possibile alle sue attività quotidiane, affidando la cura del bambino anche ad altre figure significative. In una posizione intermedia si colloca l’orientamento della Reciprocità, che prevede un equilibrio tra le due posizioni precedenti. 

Tutti i cambiamenti succitati possono comportare nella donna lo sviluppo di disturbi psichici, quali il Maternity blues e la depressione post-partum. Il Maternity Blues si risolve nell’arco di un paio di settimane ed è caratterizzato da oscillazioni dell’umore e passeggere crisi di pianto, mentre la depressione generalmente è caratterizzata da ansia, pianto, irritabilità e, nei casi più gravi, può comportare disturbi del sonno, dell’appetito, idee suicidarie, inadeguatezza e disperazione.

Soprattutto in questi casi, può essere importante fornire alle donne un intervento di supporto o psicoterapico, talvolta associato ad un trattamento farmacologico. Gli ultimi due capitoli del libro sono, appunto, dedicati alla psicoterapia pre e perinatale e nei primi mesi di vita del bambino e rimarcano quanto, in questa fase così delicata, possa essere indispensabile mettere a disposizione delle donne interventi terapeutici individuali o di gruppo di diverso orientamento. Come sottolinea lo stesso Raphael-Leff, molto spesso, nei corsi di preparazione al parto si insegna alle mamme come cambiare i pannolini, fare il bagnetto, allattare, mentre non si preparano quasi mai i genitori ai cambiamenti emotivi e relazionali ai quali andranno incontro.

La lettura del libro è consigliata a studenti di psicologia, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e alle future mamme che intendono conoscere la gravidanza dall’interno e tutti i cambiamenti emotivi, affettivi, fisici, relazionali e sociali che la caratterizzano.

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Le capacità di metacognizione come focus per i trattamenti della schizofrenia

Luisa Buonocore

 

Deficit metacognitivi e schizofrenia. - Immagine: © fotodo - Fotolia.comLa capacità metacognitiva come focus per i trattamenti della schizofrenia: durante gli ultimi 15 anni è cresciuto l’interesse nell’idea che i deficit metacognitivi giochino un ruolo centrale nel corso e nei potenziali esiti della schizofrenia. La ricerca in questi anni ha confermato che molte persone affette da schizofrenia sperimentano difficoltà nel cogliere i propri pensieri e quelli degli altri.

Questi pazienti non riescono a descrivere i propri pensieri e i propri stati emotivi o a utilizzare le informazioni sugli stati mentali per formulare piani per superare i problemi psicologici. Inoltre, livelli più alti di tali difficoltà sono legati a livelli alti di paranoia, sintomi negativi, disturbi del pensiero e scarsi livelli di funzionamento sociale (Popolo, Salvatore & Lysaker, 2012; Dimaggio & Lysaker, 2011).

Nell’articolo “Metacognitive Capacities for Reflection in Schizophrenia: Implications for Developing Treatments” pubblicato su Schizophrenia Bulletin (Marzo 2014) gli autori Paul H. Lysaker e Giancarlo Dimaggio descrivono la base teorica e i risultati di un nuovo paradigma di ricerca che ha indagato il ruolo centrale dei deficit metacognitivi nella schizofrenia.

Gli autori descrivono la metodologia utilizzata per valutare le difficoltà nella capacità di riflettere sugli stati mentali, di formare idee complesse su se stessi e gli altri  e di usare queste informazioni per rispondere ai cambiamenti psicosociali e per la realizzazione dei propri obiettivi. Per superare le difficoltà nell’assessment della metacognizione con compiti di laboratorio, che utilizzano stimoli emozionalmente e personalmente neutri (ad esempio indovinare le emozioni di persone fotografate), gli autori propongono un’intervista semistrutturata l’Indiana Psychiatric Illness Interview che permette di valutare la metacognizione per come si manifesta durante un discorso generato spontaneamente.

Le narrazioni elicitate da questa intervista vengono valutate utilizzando le 4 scale della Metacognitive Assessment Scale Abbreviated (MAS-A). Diverse ricerche hanno evidenziato l’attendibilità e la validità di questo metodo. La presenza di deficit metacognitivi nella schizofrenia è rappresentata da punteggi più bassi alla MAS-A nei campioni di pazienti affetti da questa patologia. A livello descrittivo, i pazienti schizofrenici hanno difficoltà nel riconoscere la soggettività dei pensieri, nel riconoscere che gli altri hanno stati interni complessi, che gli eventi possono essere compresi da prospettive diverse e incapacità di utilizzare la conoscenza metacognitiva per gestire lo stress. Punteggi bassi alla MAS-A sono correlati a livelli più bassi di competenze funzionali e maggiori livelli di sintomi negativi.  Nei campioni di pazienti schizofrenici i punteggi della MAS-A hanno, inoltre, predetto i livelli di funzionamento lavorativo futuro e mediano l’impatto dei deficit metacognitivi sul funzionamento sociale. I dati di ricerca riportati suggeriscono che i pazienti con schizofrenia riportano gravi deficit nella capacità di integrare le informazioni in idee complesse su se stessi e gli altri e tali deficit predicono un peggior funzionamento psicosociale indipendentemente da sintomi e deficit neurocognitivi.

Secondo gli autori questi risultati suggeriscono qualcosa di nuovo: la ridotta capacità di costruire rappresentazioni complesse ed integrate di se stesso e degli altri potrebbe essere la caratteristica principale del disturbo; mentre i sintomi e i deficit neurocognitivi  possono rendere difficile capire come fare le cose, i deficit metacognitivi rendono impossibile capire perché seguire una certa linea d’azione.

Queste ricerche evidenziano la necessità di interventi che abbiano come bersaglio i deficit metacognitivi nella schizofrenia. In aggiunta a interventi volti a ridurre i sintomi, fornire supporto e aiutare a mettere da parte convinzioni disfunzionali, sembra estremamente importante cercare di promuovere le abilità di pensare in termini di stati mentali. Interventi che aiutino i pazienti a monitorare i propri stati interni, rinforzare la capacità di pensare a cosa pensano gli altri e di integrare i diversi elementi dell’attività mentale a dare senso a ciò che accade nella loro mente e in quella degli altri (Lysaker et al. 2013; Popolo, Salvatore & Lysaker, 2012; Salvatore et al. 2012a; Salvatore et al. 2012b; Lysaker et al. 2011)

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche“Dream: ON”un’app la cui funzione è monitorare il sonno e riproducendo uno specifico “scenario sonoro” (soundscape) di sottofondo.

Non sarebbe bello poter sognare ciò che vogliamo e quindi svegliarci ogni giorno felici? Secondo quando riportato da Richard Wiseman, professore  della University of Hertfordshire, si. Nel 2010 Wiseman  ha iniziato una collaborazione con YUZA, una compagnia specializzata nella creazione di app (variante delle applicazioni informatiche dedicate ai dispositivi di tipo mobile, tipo smartphone e tablet), per dar vita a “Dream: ON”, ovvero un app la cui funzione è monitorare il sonno e riproducendo uno specifico “scenario sonoro” (soundscape) di sottofondo.

L’obiettivo era verificare se e come questi  “scenari sonori” influenzassero il contenuto onirico dei soggetti  e ogni soundscape era stato creato a partire dall’ipotesi secondo cui è possibile evocare sogni  piacevoli e rilassanti, come per esempio camminare in un bosco o essere distesi su una spiaggia. Alla fine del sogno, l’app produceva poi un delicato suono dopo il quale veniva chiesto al soggetto di fornire una immediata descrizione del sogno.

L’app, una volta messa in commercio, è stata scaricata da oltre 500.000 persone, permettendo così al team di ricerca di ottenere un buono quantità di dati. Incrociando i dati forniti nelle descrizioni dei soggetti con il tipo di soundscape ascoltato, i risultati  sembrano confermare l’ipotesi di Wiseman e colleghi “Chi sceglieva un soundscape nel quel venivano riprodotti i suoni della natura, di solito sognava fiori e piante, chi invece sceglieva un soundscape da spiaggia tendeva a sognare il sole, e la sensazione di questo quando colpisce la pelle”.

Curiosamente, i ricercatori hanno poi osservato che i sogni fatti durante la fase lunare di luna piena tendevano a essere particolarmente bizzarri e particolari “In accordo con quanto scoperto dai ricercatori della University of Basel, ovvero che i pattern del sonno tendono a essere più disturbati quando c’è la luna piena, anche noi abbiamo identificato una relazione tra questo periodo del ciclo lunare e i sogni, che sembrano essere più curiosi e stravaganti”.

Infine, il team di Wiseman ha dimostrato che alcuni particolari soundscape conducono a fare sogni molto più piacevoli di altri.

Sognare qualcosa di bello aiuta le persone a svegliarsi di buono umore e a migliorare la loro perfomance quotidiana. Con questo studio abbiamo scoperto come possiamo avere sempre dei “sogni d’oro” e ciò potrebbe addirittura essere l’inizio di un nuovo tipo di terapia nella cura di alcuni disturbi, tra cui per esempio la depressione”.

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di Giuseppe Tornatore

 

La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione

Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore – Ritratto di un Escluso

La migliore offerta La migliore offerta: non avrebbe guastato un bis di Oscar a Tornatore per questo film internazionale nella tematica e nel cast, intrigante come Shutter Island (altro film sulla perfezione del delirio) che disorienta e affascina. Va visto solo perché è bello ma se si ha bisogno di un alibi  per concedersi lo svago ci si può dire che è denso di spunti per chi si occupa di psicopatologia.

Può considerarsi un master di specializzazione per paranoici. Mi ha ricordato un ammonimento di mia nonna che diceva che le ragazze cresciute in convento dalle monache erano le prime a rimanere incinte alla prima uscita (non a caso il protagonista,  un bravissimo Geoffrey Rush, si chiama “Virgin”). Non accennerò alla trama che  riserva continue inaspettate sorprese e si presta a molte possibili interpretazioni su diversi piani. Mi limito ad alcune suggestioni:

Quanto il disturbo evitante di personalità e il disturbo paranoideo di personalità hanno territori di sovrapposizione?

Il film visto da un paranoico potrebbe fare un doppio effetto: convincerlo ad aumentare ancora di più sospettosità e diffidenza o accettare che qualsiasi precauzione non sia sufficiente e dunque sia inutile stare costantemente in guardia. C’è dunque modo di utilizzarlo in terapia, eventualmente anche per promuovere l’evoluzione di un evitante in paranoico.

Le donne dipinte ed in genere le cose al contrario delle donne vere non invecchiano ma si possono perdere come e di più degli amori reali che, perlomeno, restano nel ricordo.

Fuggire elicita nell’interlocutore il comportamento complementare dell’inseguire (“in amor vince chi fugge” di nuovo op. cit. nonna,… ma attenti al rinculo come insegnano, invece, gli  Orazi e i Curazi)

Quando si è presi dal “furor curandi” si perde il lume della ragione. Se poi il partner ha meno della metà dei propri anni non si torna più indietro.

Prima di gettarsi a capofitto a sconfiggere la patologia una accurata anamnesi ed una ricostruzione della situazione reale è opportuna.

Il narcisista disprezzando gli altri (l’amico Billy, Donald Suterland) intreccia la frusta che gli percuoterà le terga.

Ma alla fine Virgin ha davvero perso tutto o almeno si è goduto una botta di vita?

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I nuovi media e il rischio del cyberbullismo: quali segnali?

 

 

 

I nuovi media e il rischio del cyberbullismo- quali segnali?. -Immagine:© rnl - Fotolia.com Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi. Esso ha però delle caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

In tutti i paesi europei, un terzo dei bambini tra i 9 e i 10 anni e più dei due terzi (l’80%) dei quindici-sedicenni usano internet quotidianamente. In Italia il 60% usa internet tutti i giorni o quasi. Inoltre, l’età di chi utilizza tale strumento è diminuita, infatti i bambini cominciano a usare internet sempre prima. L’età media in cui si inizia ad andare online è 7 anni in Danimarca e Svezia, 8 anni negli altri paesi nordici e 10 anni in Grecia, Italia, Turchia, Cipro, Germania, Austria e Portogallo.

Molti bambini e ragazzi hanno dei profili in dei social network e l’accesso a internet da un dispositivo mobile è una pratica diffusa in oltre il 20% dei ragazzi e delle ragazze in Svezia, Regno Unito e Irlanda. In Italia il 59% dei ragazzi e delle ragazze accede a internet dalla propria camera e solo il 9% da un dispositivo mobile (Livingstone, S., Haddon, L., Görzig, A., & Ólafsson, K., 2010)).

Questi dati mettono in allarme poiché stiamo assistendo sempre più a dei fenomeni che in passato abbiamo conosciuto, come il bullismo, ma tuttavia, adesso hanno uno scenario diverso e pongono delle  questioni di classificazione e di prevenzione adeguata.

Andiamo ad esaminare il fenomeno del bullismo che può essere descritto come un comportamento, intenzionale e ripetitivo, da parte di un individuo o un gruppo, che hanno lo scopo di danneggiare un’altra persona e tra la vittima e l’aggressore c’è uno squilibrio di potere (Olweus, D., 2003).

Il bullismo è un fenomeno complesso che comprende sia fattori legati alla personalità di coloro che sono coinvolti (bulli, vittime e spettatori), sia fattori sociali, come ad esempio il clima scolastico, che è stato descritto come un fattore di rischio o di protezione.

Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi (Smith, P. K., del Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013). Esso ha però delle caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

La vittima invece, può avere delle difficoltà a scollegarsi dall’ambiente informatico, non sempre ha la possibilità di vedere il volto del suo aggressore, e può avere una scarsa conoscenza circa i rischi insiti nella condivisione delle informazioni personali su Internet (Casas, Del Rey,  Ortega-Ruiz, 2013).

Sono molti gli studi che si sono occupati dell’effetto della vittimizzazione da parte dei cyberbulli. Infatti, queste esperienze si associano a bassi livelli di rendimento scolastico, ad una inferiore qualità dei rapporti familiari e problemi legati inoltre a bassa autostima e problemi affettivi (Machmutow, K., Perren, S., Sticca, F., & Alsaker, F. D., 2012). Tuttavia, questi i risultati sono molto simili a quelli riportati dalle vittime di bullismo tradizionale. In entrambi i fenomeni l’intervento di prevenzione si basa sulla capacità di offrire consapevolezza ai giovani  della gravità e delle conseguenze che le diverse forme di bullismo può creare (Salmivalli, C., 2010).

Ecco sinteticamente alcune strategie di prevenzione per i minori:

1. Non fornire mai informazioni personali, le password, numeri PIN, ecc .

2. Non credere a tutto quello che si vede o si legge, non è detto che sia la verità.

3. Usare la gentilezza con gli altri che sono on-line, proprio come si farebbe off-line. Se qualcuno usa toni sgarbati o minacciosi è meglio non rispondere. I Bulli online sono proprio come off-line.

4. Non inviare un messaggio quando si è arrabbiati. Attendere fino a quando si ha avuto il tempo di pensare.

5. Non aprire un messaggio da qualcuno che non si conosce. In caso di dubbio è bene rivolgersi ai genitori, tutori o un altro adulto.

6. Durante la navigazione in Internet, se si trova qualcosa che non piace, che fa sentire a disagio o  spaventa, spegnere il computer e raccontare l’accaduto un adulto.

7. Concedetevi una pausa da Internet, mettendo la modalità off-line per trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici.

8. Se si è stati vittima di un cyberbullo è importante parlare con un adulto che si conosce e di cui si ha fiducia.

9. Non cancellare o eliminare i messaggi dei cyberbulli. Non c’è bisogno di rileggerlo, ma tenerlo è la prova.

10. Non organizzare un incontro con qualcuno conosciuto online a meno che i genitori non vengano con te.

Molti sono gli interrogativi che si pongono i genitori, ad esempio come fare a capire se il proprio figlio o figlia è vittima di Cyberbullismo.

I  segnali di vittimizzazione possono essere così sintetizzati:

• Utilizzo eccessivo di internet.

• Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.

• Rifiuto ad utilizzare Internet.

• Comportamenti diversi dal solito.

• Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.

• Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.

• Immagini insolite trovate nel computer.

• Disturbi del sonno.

• Disturbi dell’alimentazione.

• Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).

• Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri studenti.

• Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.

• Bassa autostima.

• Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.

Ma una cosa molto importante è insegnare ai vostri figli a comunicare con voi, a raccontare ciò che è accaduto per non rimanere nel dolore del silenzio.

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Autismo: la genesi già nel periodo prenatale – Neuroscienze

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati ottenuti dal presente lavoro supporterebbero l’idea che nei bambini con autismo il cervello possa, a volte, ricostruire alcuni connessioni, compensando in questo modo i deficit focali precoci, e  sollevare, quindi, la speranza che comprendere questi meccanismi possa aprire nuovi orizzonti per la comprensione di tali processi di plasticità cerebrale.

Sul “The NEW ENGLAND JOURNAL of MEDICINE” è stato recentemente pubblicato uno studio che sembrerebbe dimostrare come l’autismo possa trovare una sua genesi già nel periodo prenatale, a causa di un difetto nella formazione della struttura della neocorteccia cerebrale.

Gli autori – Eric Courchesne, professore di Neuroscienze e direttore dell’ “Autism Center of Excellence” presso l’Università della California di San Diego; ED S. Lein, PhD presso l’ “Allen Institute for Brain Science” di Seattle e Rich Stoner, PhD presso l’Università della California – hanno analizzato 25 geni estratti dal tessuto cerebrale post-mortem di bambini con o senza autismo.

Come affermato dal Professor Courchesne, la corteccia cerebrale umana è costituita da sei strati cellulari e nel tessuto cerebrale della maggior parte dei bambini con autismo sarebbero state individuate delle aree focali in cui i normali processi di sviluppo avevano subito un’interruzione.

Durante lo sviluppo precoce del cervello, ogni strato corticale si sviluppa in uno specifico tipo di cellule cerebrali, ognuno con schemi di connettività differenti che assolveranno un ruolo unico e importante nella futura elaborazione delle informazioni. Tali caratteristiche peculiari sono codificate da specifici marker genetici.

Dal presente studio è emerso come nel cervello dei bambini con autismo, alcuni marker genetici chiave fossero assenti nelle cellule cerebrali in strati multipli della corteccia. Courchesne afferma che tale assenza possa indicare che le fasi precoci cruciali per la creazione dei sei strati corticali, ciascuno con specifici tipi di cellule cerebrali, che avviene tipicamente durante il periodo prenatale, siano difettose nei bambini con autismo. Inoltre, tale difetto sarebbe presente in aree focali della corteccia e non in maniera uniforme. In particolare, le regioni maggiormente colpite da tale assenza dei marker genetici sarebbero la corteccia frontale e quella temporale.

Tale tropismo è chiaramente associato ai deficit riscontrati nei disturbi dello spettro autistico: la corteccia frontale, infatti, è associata a funzioni cerebrali di alto livello, come la comunicazione complessa e la comprensione degli stimoli sociali, mentre la corteccia temporale è associata alle competenze linguistiche. Al contrario, la corteccia visiva – un’area del cervello deputata alla percezione, la quale risulta risparmiata nell’autismo – non presenterebbe anormalità.

Ricercare le origini dell’autismo è sicuramente una sfida stimolante, in quanto tipicamente relata allo studio di cervelli adulti e, quindi, ad una procedura a ritroso. “In questo caso”, sottolinea Lein, “siamo in grado di studiare soggetti autistici e di controllo in giovane età, permettendoci uno sguardo su come l’autismo si presenta nel cervello in via di sviluppo”.

Come affermato da Courchesne, la scoperta che tali difetti avvengano in zone precise della corteccia e non nella sua intera superficie, ci offre speranza circa la comprensione della natura dell’autismo. Tale diffusione delle aree compromesse, in opposizione ad una patologia corticale uniforme, potrebbe spiegare il fatto che molti bambini con autismo mostrino miglioramenti clinicamente significanti con trattamenti precoci e prolungati nel tempo.

Infine, i risultati ottenuti dal presente lavoro supporterebbero l’idea che nei bambini con autismo il cervello possa, a volte, ricostruire alcuni connessioni, compensando in questo modo i deficit focali precoci, e  sollevare, quindi, la speranza che comprendere questi meccanismi possa aprire nuovi orizzonti per la comprensione di tali processi di plasticità cerebrale.

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La doppia diagnosi nelle attività di consulenza psichiatrica – SOPSI 2014

 

 

 

SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

La doppia diagnosi nelle attività di consulenza psichiatrica

*N. VERDOLINI, **F. FRATERNALE, *P.M. BALDUCCI, ***S. ELISEI, ****R. QUARTESAN

*Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan **Università degli Studi di Perugia

***Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan ****Direttore Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan 

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La responsabilità della prescrizione: aspetti medico legali – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014 – Incontro con l’esperto

La responsabilità della prescrizione o la prescrizione responsabile: aspetti medico legali

 

SOPSI 2014 - CASTELNUOVOL’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti. 

Durante “L’incontro con l’esperto” tenutosi durante il Congresso SOPSI 2014 l’Avvocato cassazionista Andrea Castelnuovo ha illustrato in maniera rigorosa quali sono i rischi in cui si incorre in caso di malpractice nella prescrizione farmacologica. L’intervento, che solleva importanti quesiti medico-legali, si è aperto con la descrizione di quanto accade in tribunale, sia nel processo civile che penale, in caso di malpractice, concentrandosi sul tema del risarcimento e della copertura assicurativa. Nella seconda parte dell’intervento Castelnuovo ha affrontato l’argomento della prescrizione farmacologica e dei suoi potenziali rischi, in particolare per quanto riguarda le prescrizioni on label e off label, i farmaci generici e gli integratori.

Alcune definizioni prima di cominciare

Danno = lesione di un interesse altrui

Risarcimento = modo attraverso il quale si rimborsano coloro che hanno subito un danno ingiusto.

Dolo = l’evento è preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (Mi sono rappresentato che l’evento si sarebbe verificato e l’ho voluto)

Colpa = violazione di norme di comportamento (violazione di norme tecniche, di protocolli…)

Cause di colpa generica:

● Imprudenza = inosservanza di un divieto assoluto di agire o di un divieto di agire secondo determinate modalità

● Negligenza = omesso compimento di un’azione doverosa

● Imperizia = negligenza o imprudenza in attività che richiedono l’impiego di particolari abilità o cognizioni (Ti sei astenuto da un intervento che non eri in grado di fare?)

La malpractice in tribunale: i criteri di responsabilità

Qualsiasi caso di malpractice, qualunque atto medico che sfoci in un danno per il paziente (dove per danno non si intende solo l’aver arrecato positivamente un danno, ma anche il mancato ottenimento del risultato) ha sempre una doppia valenza punitiva: penale e civile. Questo perché il bene su cui si va ad incidere con qualsiasi intervento, trattamento, prescrizione farmacologica è un bene tutelato dall’Art. 32 della Costituzione, ovvero la salute. La lesione del diritto alla salute è colpito penalmente dai reati (lesioni colpose, omicidio colposo, dolo…) e comporta il risarcimento del danno. Quindi in caso di malpractice si va incontro sia a processo civile che a processo penale.

Quali sono gli elementi dei quali si va a dibattere in caso di responsabilità penale o civile?

Si risponde per un danno qualora quel danno sia posto in connessione causale scientificamente accertata con una condotta che può essere commissiva o omissiva (es. è stato dato il farmaco sbagliato o non non è stato dato il farmaco giusto). Il dibattito in tribunale tendenzialmente non riguarda tanto il danno o la condotta tenuta, quanto il nesso di causa su cui si appostano tutte le azioni di responsabilità: il giudice vorrà sapere con quale percentuale di probabilità l’operazione sbagliata che avete fatto (o l’operazione non fatta che avreste dovuto fare) ha causato il danno. Ma quanto è difficile dare al giudice una risposta di questo tipo? Proprio su questo elemento dal 2008 si apposta la prima differenza tra processo civile e processo penale.

Nel processo civile la regola è quella della probability causation: ciò significa che il giudice può condannarvi a risarcire tutto il danno (100%) anche se accerta il nesso di causa con un grado di probabilità del 30-40%; per di più l’onere della prova negativa spetta all’imputato.

Fino al 2008 valeva lo stesso discorso anche per il processo penale, ma dal 2008, per effetto della sentenza “Franzese” della Corte di Cassazione, nel processo penale il nesso di causa deve essere accertato con un grado di probabilità prossimo al 100% (il che è scientificamente impossibile!). Il risultato è che ad oggi la maggior parte delle denunce penali finiscono con l’archiviazione o con un’assoluzione (anche se, magari, l’assoluzione avviene in terzo grado).

Quindi per una stessa causa ci sono ottime probabilità di vincere in sede penale e di perdere in sede civile. In conclusione, è buona prassi assicurarsi un buon difensore in sede penale (magari con una clausola di tutela legale dell’assicurazione) e aver stipulato una buona assicurazione di responsabilità civile.

Il Decreto Balduzzi

Nel settembre 2012 il legislatore tecnico scrive:

Art. 3

Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie

1. L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.

Il Decreto Balduzzi afferma che non si risponde più penalmente laddove vi sia colpa lieve e si dimostri di essersi attenuti alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma si risponde solamente per una colpa significativa e se non si sono seguiti i protocolli. Tale decreto, però, presenta delle criticità di cui già si dibatte nelle aule di giustizia. Infatti il Tribunale di Milano ha rimandato la norma del Decreto Balduzzi alla Corte Costituzionale evidenziando come critico il passaggio “si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. A quali linee guida si fa riferimento? E a quante? Con quale autorevolezza? Non c’è, in pratica, una predeterminazione delle soglie di rilevanza! In altre parole, qual è il protocollo che posto davanti al giudice determina la mia assoluzione?!

Il risarcimento del danno

Dal punto di vista giuridico il danno può essere definito come la lesione di un interesse altrui e “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” (Cod. Pen. 185).

Esistono due categorie di danno che vengono risarcite:

● Danno patrimoniale: danno che si cagiona al proprio paziente sotto il profilo del denaro  (danno emergente e danno per mancato guadagno / lucro cessante)

● Danno non patrimoniale: tutto ciò che attiene alla sfera fisica, psicofisica, psichica, ma anche morale ed esistenziale del soggetto. È una rivalutazione in termini costituzionali del diritto e del valore di una persona rispetto al valore delle cose. Si distinguono:

○ Danno biologico temporaneo o permanente (funzione crescente rispetto all’entità del danno e funzione decrescente rispetto all’età)

○ Danno morale (shock da reato)

○ Danno esistenziale

○ Danno da lutto – Il nostro ordinamento non risarcisce il soggetto morto, bensì i familiari che hanno subito un danno da lutto, danno tabellato con una somma che varia dai 100000 ai 300000 euro per ciascun membro della famiglia nucleare.

Cosa accade nei processi penale e civile in caso di danno?

Il processo penale è un processo a parti contrapposte: il PM, che rappresenta la pubblica accusa, e l’imputato, che si difende illustrando la bontà della scienza che ha applicato e portando la quantità di prove prodotte quali il consenso informato, la cartella clinica ben tenuta, non falsificata e comprensibile, la potenza della propria perizia e il non essere stato negligente o imperito.

Il processo civile invece si gioca tutto sulla CTU e sulla credibilità, l’autorevolezza, la scientificità degli argomenti delle CTP. In tutto ciò si inserisce il Decreto Balduzzi che ha dato ancora più importanza ai protocolli e alle linee guida. Il giudice vuole infatti sapere dal CTU e dal CTP qual è il protocollo giusto, quali sono le linee guida, quali sono le condotte che il medico avrebbe dovuto tenere e non ha tenuto: ma se le avesse tenute, in ragione di quel protocollo, avrebbe ottenuto un risultato oppure no? Si è distaccato dal protocollo? Lo ha fatto per imperizia? Per negligenza? In base alle risposte ottenute verrà infatti eventualmente commissionata una pena e riconosciuto un risarcimento.

La copertura assicurativa

Se si è liberi professionisti si ha l’obbligo deontologico e legale di avere un’assicurazione per la responsabilità civile che copra in maniera totale e con dei massimali importanti (2-3-4 milioni) proprio per rendere conto del fatto che ci sono dei risarcimenti imprevedibili tali per cui non si può sapere che tipo di danno si andrà a causare e se anche si sapesse non sarebbe prevedibile il tipo di riflesso che potrebbe avere.

Il consiglio quindi è quello di avere una polizza di tutela legale: “Nell’ambito della garanzia di responsabilità civile con qualche euro in più si ha l’avvocato pagato ed il consulente di parte pagato – afferma Castelnuovo – Chiedete, verificate che siano il vostro consulente, il vostro avvocato. Non c’è niente di peggio che vedersi assegnato d’ufficio l’avvocato o il perito dell’assicurazione poiché non è detto che il suo interesse sia il vostro: l’avvocato d’ufficio dell’assicurazione ha interesse a pagare il meno possibile e il più tardi possibile, mentre voi avete l’interesse a definire il prima possibile il penale anziché temporeggiare”.

La questione è più complicata se si lavora in ambito ospedaliero perché l’ospedale dovrebbe essere assicurato e dovrebbe coprirvi, ma se si dimostra in sede di causa che la vostra condotta è stata posta in essere con colpa grave, l’ospedale può chiedere l’azione di rivalsa a carico vostro. Assicuratevi pertanto a prescindere, soprattutto per la colpa grave in rivalsa.

Copritevi con una polizza moderna con poca franchigia e grosso massimale.

La prescrizione farmacologica responsabile

La prescrizione dei farmaci è regolamentata da specifiche norme, sia scientifiche che di matrice legale. Nei seguenti paragrafi verranno sollevate alcune problematiche di cui bisogna essere a conoscenza per operare delle scelte quando si prescrivono dei farmaci.

PRESCRIZIONE ON LABEL

Si prescrive secondo scheda tecnica (prescrizione on label). Questa non è solo una regola deontologica; da una decina d’anni infatti è anche una regola di diritto.

Nel rispettare tale norma può sorgere un problema quando si deve tenere conto degli aspetti economici (farmaci di fascia A, C, H) e delle note di un farmaco. Si dice che da una parte si devono rispettare – in favore del paziente e a tutela del diritto e dovere di dargli la miglior cura – soltanto i criteri di appropriatezza prescrittiva clinica (il miglior farmaco al paziente giusto), ma dall’altra parte si devono rispettare dei criteri di appropriatezza prescrittiva finanziaria che non sempre sono collimanti: le note  AIFA (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/note-aifa).

Il tema è molto complesso in quanto le linee guida e i protocolli che interessano gli psichiatri, i pazienti, il giudice e la responsabilità del Decreto Balduzzi sono quelle di natura clinica. E attenzione, quelle “giuste” (giuste secondo il Decreto Balduzzi) potrebbero essere quelle di matrice internazionale che nulla hanno a che fare con gli aspetti di natura finanziaria tipici del nostro ordinamento (ma potrebbe valere anche il contrario nel caso in cui le linee guida internazionali fossero inquinate da aspetti di natura finanziaria o di rimborso magari statunitensi, inglesi, etc.).

PRESCRIZIONE OFF LABEL

La prescrizione off label è sempre stata pratica diffusa, ma solo nel 1998 venne regolamentata grazie ad un caso eclatante di grande attenzione mediatica, il caso Di Bella, da cui la legge prese il nome. La legge 94/98, o Legge Di Bella, (http://www.camera.it/parlam/leggi/98094l.htm#decreto) prevede nel comma 1 dell’Art. 3 un dovere che prima era solo deontologico: si prescrive secondo indicazione terapeutica.

“Fatto salvo il disposto dei commi 2 e 3, il medico, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità.”

Il comma 2 invece stabilisce gli aspetti scientifici per fare un off label regolare:

“In singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.”

In singoli casi si può sotto la propria diretta responsabilità e con il consenso informato del paziente fare offlabel. Si può fare tutto l’off che si vuole (usare un medicinale per un’indicazione diversa, altre vie di somministrazione, modalità e posologia, off combinato…) se si ritiene in base ad atti documentabili che il paziente non possa essere trattato con un farmaco on. L’off label è legittimo nella misura in cui non esiste un’alternativa on label e l’impiego sia conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.

A tal proposito il decreto Balduzzi è tecnicamente peggiore rispetto alla Legge Dibella perché, come già sottolineato in precedenza, non dà una soglia di rilevanza, di autorevolezza, a differenza della Legge Dibella in cui il legislatore indica le pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale come punto di riferimento.

Il caso Veronica (Tribunale di Pistoia – Sezione penale – sentenza 24 novembre 2005-20 gennaio 2006)

Il caso Veronica viene ricordato per la famosa sentenza su una prescrizione farmacologica off label andata male. Per far dimagrire una bambina di 12 anni una psichiatra prescisse alla paziente del Topamax (antiepilettico) per sfruttarne off label l’effetto collaterale anoressizzante; il farmaco venne inoltre prescritto in dosi massicce (20 volte il dosaggio previsto). La bambina dimagrì, ma riportò i normali effetti collaterali del farmaco quali sonnolenza, emicrania, allucinazioni, depressione. Notare che non si risponde mai per gli effetti collaterali di un farmaco prescritto, a meno che non vi sia uno sbilanciamento. Il giudice in questo caso stabilì che gli effetti collaterali furono lesioni personali dolose e comminò una pena pari a 6 mesi; se la bambina fosse morta la pena sarebbe stata l’ergastolo. Nel 2008 la Corte di cassazione confermò la responsabilità professionale della psichiatra, ma l’ha ricondusse a colpa e non più a dolo.

Quindi la violazione di una norma di legge che stabilisce un percorso scientifico, ma anche legale e burocratico nella prescrizione del farmaco comporta, laddove cagioni un danno, responsabilità per colpa. 

GLI INTEGRATORI

Quando si raccoglie l’anamnesi spesso i pazienti alla domanda “Lei prende qualcosa?” rispondono di non prendere niente, omettendo di assumere sostanze naturali perché, appunto, naturali. Ma in realtà nella prescrizione di farmaci bisogna tenere conto dell’assunzione di sostanze naturali, omeopatiche, etc. poiché queste possono avere effetti collaterali o di interazione con i farmaci prescritti.

Dal punto di vista normativo c’è una grossa differenza tra la messa in commercio di un farmaco e di un integratore. Da una parte abbiamo studi clinici, l’approvazione dell’AIFA e di altri organi di controllo, la farmacovigilanza e la letteratura scientifica, dall’altra abbiamo la compilazione di un modulo di notifica di integratore alimentare che deve essere inviato al Ministero della Salute il quale ha 90 gg di tempo per dire che l’etichetta (NB. non il contenuto) va bene. L’integratore entra in commercio così, senza farmacovigilanza né studi scientifici a supporto. Il tema dell’assunzione da parte dei pazienti di integratori è pertanto da tenere a mente ed essendo materia completamente nuova potrebbe  tra non molto entrare nelle aule di tribunale.

FARMACO GENERICO

Il farmaco generico dal 2005 viene chiamato farmaco equivalente. Già la definizione di legge presenta delle tematiche medico-legali da risolvere: il decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 definisce il medicinale generico come “un medicinale che ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma farmaceutica del medicinale di riferimento nonché una bioequivalenza con il medicinale di riferimento dimostrata da studi appropriati di biodisponibilità”. (Art. 10, comma 5 D.lvo n. 219/06; art. 10, comma 2 Direttiva europea 2001/83/CEE successive modificazioni.)

Per ottenere l’autorizzazione all’emissione in commercio (AIC) di un farmaco innovatore è necessario presentare un dossier completissimo riportante risultati di diversi studi condotti, mentre per ottenere l’AIC di un farmaco generico è necessario presentare uno studio di bioequivalenza in base al quale si va a dimostrare se vi sia o meno la biodisponibilità del principio attivo. Il limite degli studi di bioequivalenza, di cui è bene essere consapevoli, è la pretesa che pur essendo condotti in tempi brevi su un campione ridottissimo di soggetti abbia dei risultati tali da poter essere estesi alla popolazione generale fruitrice del farmaco in questione.

La stessa normativa, inoltre, riporta che:

● I vari sali, esteri, eteri, isomeri, miscele di isomeri, complessi o derivati di una sostanza attiva sono considerati la stessa sostanza attiva se non presentano differenze significative delle proprietà relative alla sicurezza e/o efficacia.

● Le varie forme farmaceutiche orali a rilascio immediato sono considerate una stessa forma farmaceutica.

● Gli eccipienti possono essere differenti.

Negli studi di bioequivalenza si studia che vi sia nella biodisponibilità un delta che non superi il +/- 20%. Ciò implica lo studio di tre elementi (in realtà due) della farmacodinamica: Tmax (tempo richiesto per il raggiungimento della massima concentrazione plasmatica), Cmax (massima concentrazione plasmatica) e l’AUC (area sotto la curva della concentrazione plasmatica rispetto al tempo). In pratica si va a verificare se l’AUC di un farmaco sia corrispondente, uguale, in altre parole bioequivalente, all’AUC dell’altro farmaco; si controlla che non vi sia una differenza significativa tra le curve dei farmaci (che si misura nel range +/- 20%, che corrisponde alla variabilità interindividuale).

Ora immaginiamo un grafico che riporta due curve che hanno AUC uguale, ma Tmax differenti: le due curve rappresentano due farmaci bioequivalenti in quanto le due aree che sottendono la curva sono equivalenti nonostante la Tmax sia differente. Questo perché negli studi di equivalenza tendenzialmente la Tmax non viene considerata! Ma se la Tmax è diversa, può essere un problema: ci sono psicofarmaci in cui l’emivita (il tempo in cui il farmaco entra in circolo) ha una rilevanza non da poco ed è un parametro da tenere in considerazione nella prescrizione farmacologica.

Problemi medicolegali dei farmaci generici

1. Se è vero che rispetto ad un farmaco Originator (Or) ciascun farmaco generico (Gn) è bioequivalente, non esiste però una proprietà commutativa tra i farmaci generici: G1 = Or e G2 = Or ma G1 e G2 non sono bioequivalenti tra loro.

Problema: siete convinti che il vostro paziente prenda una molecola G1. Se per qualsiasi motivo in farmacia gli danno G2 e successivamente in un’altra farmacia gli danno G3 c’è una continua modifica dello stato stazionario.

2. Indicazioni terapeutiche 

Problema: I farmaci generici hanno sempre meno indicazioni terapeutiche rispetto al rispettivo farmaco Originator pur essendo bioequivalenti. Essendo farmaci vecchi si portano dietro la loro indicazione terapeutica originaria oppure per questioni economiche l’azienda ne ha approvate di meno. Se il paziente prende un farmaco generico che non prevede l’indicazione terapeutica per un determinato disturbo (ma un altro generico invece la prevede) ci troviamo di fronte ad un caso di Off label non gestito!

L’AIFA, interpellata in merito, non ha fatto un’estensione delle indicazioni terapeutiche per quanto riguarda l’utilizzo dei farmaci generici, ma ha solo espresso un parere (autorevole, certo) che però è contrario a quanto disposto dalla Legge Dibella che non consente di estendere l’indicazione terapeutica tra farmaci.

3. Gli eccipienti possono essere diversi (e lo sono). 

Problema: In un caso verificatosi nel New England (2009), una paziente che assumeva da sempre Omeprazolo sviluppò improvvisamente una grave reazione allergica. Si scoprì che aveva assunto farmaci generici con eccipienti a cui era allergica (proteine della soia). Il medico, che era a conoscenza dell’allergia, non aveva gestito il fatto che in farmacia fosse stato dato alla paziente un farmaco generico contenente eccipienti a cui era allergica.

E se avete un paziente celiaco? Oppure diabetico? L’avete gestito correttamente?

4. Non sostituibilità del farmaco e prescrizione per principio attivo

Dal 2011 quando si prescrive un farmaco con brevetto scaduto si può apporre sulla ricetta la clausola di NON SOSTITUIBILITA’. In assenza di tale clausola il farmacista consegna al paziente il farmaco che costa di meno. La regola finanziaria, nata nel 2011, afferma che il fatto che abbiate dato al paziente un farmaco originator piuttosto che generico non cambia niente dal punto di vista del rimborso poiché il SSN rimborsa il costo più basso, dopodiché la quota a parte è a carico del paziente. Nell’agosto 2012 un decreto legge stabilisce una novità epocale: nasce la prescrizione per principio attivo.

Il medico che curi un paziente, per la prima volta, per  una patologia cronica, ovvero per un nuovo episodio di patologia non cronica, per il cui trattamento sono disponibil i più medicinali equivalenti, è tenuto ad indicare nella ricetta del Servizio sanitario nazionale la sola denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco.  Il medico ha facoltà di indicare altresì la denominazione di uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo; tale indicazione è vincolante per il farmacista ove in essa sia inserita, corredata obbligatoriamente di una sintetica motivazione, la clausola di non sostituibilità di cui all’articolo 11, comma 12, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Il farmacista comunque si attiene a quanto previsto dal menzionato articolo 11, comma 12.

Per i farmaci a brevetto ormai scaduto è necessario prescrivere per i nuovi pazienti cronici indicando sulla ricetta solamente il principio attivo (per i vecchi pazienti cronici vale la vecchia regola del “non sostituibile”). Si ha la facoltà di indicare anche la denominazione di uno specifico medicinale che diventa vincolante per il farmacista indicando con la clausola di non sostituibilità una succinta motivazione. Si può così gestire la problematica legata agli eccipienti.

CONCLUSIONI

L’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti. 

 

 

ARGOMENTI CORRELATI:

FARMACI-FARMACOLOGIA  – PSICOFARMACOLOGIA –  SOPSI 2014CONGRESSI

 

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