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L’arte di comunicare con gli altri e in terapia di Francesco Aquilar

 

 

Il libro Parlare per capirsi, scritto da Francesco Aquilar ed edito da Franco Angeli, apre una finestra sul mondo della comunicazione, arte quotidianamente utilizzata per poter interagire con l’altro in ogni ambito della vita.

Capita, spesso di non riuscire a comunicare sempre in maniera efficacie quello che si pensa, e questo porta a una  compromissione dei rapporti e delle relazioni, anche in ambito terapeutico.

Ed è proprio su come riuscire a comunicare in maniera efficace che si focalizza questo libro. Mira, infatti, a esplorare i diversi aspetti della comunicazione inter-personale e sociale non solo nelle diverse situazioni di vita, ma, anche, nella psicopatologia, con l’obiettivo di indicare le modalità che permettono di uscire da un empasse comunicativo.

Lo scopo, dunque, è quello di migliorare la qualità della vita migliorando la qualità della comunicazione.

Ognuno di noi comunica secondo una propria modalità che riflette, inevitabilmente il proprio modo di essere ed è figlia dell’ambiente nel quale si è vissuti. Questo perché la forma della comunicazione dipende dalle caratteristiche personologiche presentate, dal carattere che ognuno possiede e, di conseguenza, dal tipo di organizzazione di personalità mostrata. Quindi, è possibile identificare alcune forme di comunicazione efficaci e inefficaci tipiche di alcune strutture di personalità.

Individuare dei modelli comunicativi permetterebbe non solo di capire in che modo si affrontano le relazioni, ma anche, e soprattutto, quali conseguenze adducono.

Il libro si divide sostanzialmente in tre parti: una didattica, in cui si parla largamente delle difficoltà di comunicazione incontrate in una serie di situazioni significative, come la famiglia, il partner, gli amici, etc., una psicoterapeutica, in cui sono illustrate le modalità secondo cui è possibile implementare le abilità di comunicazione grazie ad una serie di tecniche riferitesi alla terapia cognitiva e cognitiva-sociale, e, infine, una scientifica, dove si fa riferimento alla letteratura, per capire cosa è più idoneo adottare nella comunicazione partendo dai dati empirici.

In generale, è possibile affermare che l’esperienza del comunicare permette di apprendere sempre cose nuove e innovative e questo è importante non solo nella relazione con gli altri, ma anche per incrementare il proprio dialogo interiore in maniera funzionale e non fallace.

Ma oltre al dialogo con gli altri esiste il dialogo interno. Come possiamo parlare con noi stessi per capirci? Come possiamo usare il nostro dialogo interiore per aumentare lo stato di benessere e le emozioni positive, distaccandoci dagli stati negativi?

La strada più semplice da adottare sembrerebbe quella dell’Auto-Osservazione Guidata che favorisce la consapevolizzazione dei propri pensieri, delle proprie emozioni, delle proprie azioni e delle proprie conclusioni e prospettive.

Ogni metodo di Auto-Osservazione Guidata, il più famoso è l’ABC proposto da Ellis,  consente di avere una maggiore coscienza del proprio modo di pensare e delle possibili conseguenze.

In questo libro la tecnica di auto-osservazione proposta dall’autore è identificata con l’acronimo SEMPRE, che renderebbe possibile aumentare le proprie capacità di auto-osservazione e di integrazione consapevole fra pensieri, emozioni e azioni.

Cosa significa SEMPRE?

S :Situazione, contesto, antefatto, premessa;

E :Emozioni, stati d’animo, stati corporei

M: Meta-emozioni: cosa ho provato per aver provato “E”

P:Pensieri, idee, immagini mentali

R:Risposta: Che cosa ho fatto io e che cosa hanno fatto gli altri;

E:Esito: Come è andata a finire e che ho imparato dall’evento

In sostanza questo schema permetterebbe di essere coscienti di cosa accade dentro di noi e consente, in questo modo, di essere guardinghi su cosa determina malessere e come poterlo affrontare in maniera funzionale. Insomma, mette ordine al dialogo interiore permettendo di individuare in maniera strutturata il problema, le conseguenze e le alternative che poi, una volta comprese, possono essere anche comunicate all’altro in maniera funzionale.

Per concludere, dopo aver capito cosa comunicare possiamo farlo in modo efficacie seguendo i suggerimenti riportati nel libro:

– stiamo attenti a noi stessi e agli altri per negoziare migliori soluzioni e goderci maggiormente la comunicazione e le relazioni;

– decentriamo e descriviamo con chiarezza il nostro punto di vista.

– legittimiamo e ridimensioniamo le emozioni e le opinioni degli altri

– prendiamoci cura psichica e fisica di noi stessi e degli altri

– ricordiamoci dei valori personali, che sono in una gerarchia diversa per ciascuno,

– evitiamo di ripetere le stesse cose per evitare circoli viziosi inutili, monotoni, ripetitivi, inefficaci

– sviluppiamo noi stessi tenendoci in esercizio mentale

– dividiamo la torta in parti uguali, ma non dimentichiamoci della nostra parte. legittimando una parte di sano egoismo.

– dedichiamo tempo a situazioni che ci portino gioia procedendo verso i propri obiettivi realizzabili.

– lasciamo liberi noi stessi e gli altri non cercando di organizzare gli altri secondo i propri schemi mentali

– incrementiamo la creatività dedicando un po’ di tempo e di attenzione a cose che piaccino

–  esercitiamo la memoria  non solo su cose e episodi negativi, ma anche di quelli positivi.

La speranza è che, imparando a comunicare meglio, ognuno di noi possa non solo tollerare, ma anche amare e apprezzare la diversità da sé, e concepirla e viverla come ricchezza e anche come straordinario antidoto alla solitudine e alla noia esistenziale.

 

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  • Aquilar, F. (2013). Parlare per Capirsi. Strumenti di psicoterapia cognitiva per una comunicazione funzionale. Franco Angeli Editore.  ACQUISTA ONLINE

Stimoli uditivi reali o immaginati: quali sono le aree cerebrali coinvolte?

 

 

– FLASH NEWS-

Essere in grado di distinguere che cosa sia reale e cosa no può sembrare una banalità, ma l’incapacità di tale distinzione è alla base di diversi disturbi psichiatrici ed è ciò di cui si sono occupati in un recente studio alcuni ricercatori dell’Università di Yale.

Alcuni studi in letteratura hanno già identificato specifiche aree cerebrali deputate all’identificazione di uno stimolo visivo come “reale” vs.  “immaginato”; il nuovo studio si focalizza sull’esistenza di specifiche aree cerebrali attivantisi in relazione alla distinzione tra stimoli uditivi reali o immaginati.

Ai soggetti è stato chiesto di completare un task di riconoscimento uditivo durante sessioni di scanning di risonanza magnetica funzionale: il compito prevedeva di segnalare la percezione reale di una parola registrata, se i soggetti la stessero immaginando oppure se stessero percependo visivamente uno stimolo visivo.

Analizzando i dati i ricercatori hanno scoperto che vi sarebbe un aumento di attivazione cerebrale nel giro frontale mediale sinistro (MFG) durante la codifica di parole correttamente identificate come “immaginate”, mentre un’area del giro frontale inferiore sinistro sarebbe più attiva nel momento in cui vi è riconoscimento corretto di parole realmente udite. Invece, relativamente agli errori di codifica si è registrato un incremento di attivazione a carico del giro temporale superiore, con una correlazione positiva tra tale attivazione e la tendenza ad avere allucinazioni uditive (variabile misurata attraverso la Auditory Hallucination Experience Scale).

Tali risultati possono essere interessanti dal punto di vista neuropsicologico per identificare i correlati neurali di determinati sintomi – ad esempio alluncinatori- in specifiche patologie psichiatriche.

 

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Sindrome da spogliatoio o dismorfofobia peniena: pene piccolo, grande o deforme?

Teresita Forlano

Alcuni uomini ritengono di avere il pene diverso dalla norma. Una convinzione, spesso immotivata, che causa ansie e timori. La convinzione di avere un pene troppo piccolo, ma anche troppo grande, troppo curvo oppure con anomalie legate al glande o al prepuzio, ha un nome scientifico preciso, cioè dismorfofobia peniena.

Questo disturbo è noto anche come Sindrome dello spogliatoio, in quanto chi ne soffre tende a evitare di fare la doccia insieme ad altri uomini dopo l’attività sportiva nel timore di essere sottoposti a giudizio per via delle dimensioni o della forma dei propri genitali. A volte queste preoccupazioni non sono motivate dalla presenza di reali anomalie, ma ciò non impedisce ad alcuni uomini di diventare preda di idee ossessive e di comportamenti compulsivi, come il guardarsi continuamente allo specchio nel tentativo di confermare le proprie valutazioni o ricorrere a frequenti controlli medici per potere correggere il (presunto) problema.

Stando ad alcune statistiche, circa l’80% dei pazienti che si sottopongono a interventi di allungamento del pene non ne avrebbero alcun bisogno, avendo un organo genitale di dimensioni normali.

Ma qual è la dimensione “normale” dell’organo genitale maschile? I diversi studi effettuati sulla misurazione del pene, considerando la difficoltà a procedere in un’indagine valutata come invasiva e le varie tecniche di misurazione utilizzate, hanno evidenziato alcune dimensioni standard, ovvero relative alla media della popolazione (normalità statistica). La concordanza dei dati evidenzia una dimensione a riposo pari a 8-10 cm in lunghezza (dalla radice dorsale del pene alla punta). Allo stato di erezione, invece, la lunghezza media varia tra i 12-16 cm con una circonferenza pari a 11- 12 mm.

Lo stato di flaccidità del pene ha una dimensione del tutto variabile e questo dipende essenzialmente da alcuni fattori:

  • la struttura anatomica costituzionale dell’individuo;
  • agenti ambientali come temperature troppo elevate (il pene si distende); oppure troppo fredde (il pene si restringe);
  • condizioni di “salute” dello stesso individuo.

Inoltre, è importante sottolineare quanto la percezione che un uomo può avere del proprio organo genitale sia visivamente distorta rispetto al possibile confronto con un altro simile posizionato di fronte.

Gli specialisti concordano nel ritenere che è opportuno parlare di micropene quando la sua lunghezza,in stato di erezione, è inferiore ai 7 centimetri. Condizione davvero molto rara. Questo è stato definito in base all’impossibilità di un pene con tali dimensioni in erezione , di riuscire a penetrare la cavità vaginale. Infatti, le dimensioni del canale vaginale a riposo sono di circa 7,5 cm, quindi un pene che in erezione ne misura mediamente il doppio non avrà particolari difficoltà durante il coito.

Probabilmente l’uomo che rimane legato al concetto di potenza-virilità non valuterà positivamente tali dati numerici, bensì continuerà a confrontarli con le dimensioni degli organi genitali di uomini più dotati, iniziando un confronto anche con la pornografia: tutto questo può rimandare costantemente ad una visione distorta della realtà dei fatti.

Avendo accennato alle caratteristiche dei genitali femminili è importante ricordare che la dimensione della larghezza vaginale ha invece una particolarità: essa può essere definita una cavità virtuale; a riposo le sue pareti sono normalmente unite e si adattano al pene durante il coito. Possiede una grande elasticità e si conforma a dimensioni diverse, non perdendo mai il contatto con il pene che la penetra. Spesso alcuni uomini durante la penetrazione hanno la convinzione che il loro pene non sia adatto per quella vagina. Questo viene riportato essenzialmente in alcune sensazioni dove è presente un’abbondante lubrificazione vaginale. Sarebbe necessario ricordarsi che, se la vagina è particolarmente lubrificata, la donna sta vivendo un costante e piacevole stato di eccitazione e dovreste godere di ciò, invece, di farvi problemi sull’abbondanza del liquido vaginale e sulle dimensioni del pene!(dovreste preoccuparvi se la vostra partner fosse poco o per niente lubrificata)

La sindrome del pene piccolo pare essere in aumento, questo è quanto si evince dagli ultimi dati in andrologia e sessuologia, che rivelano un aumento delle richieste di risoluzione psico-fisica.

A tale proposito, una corretta diagnosi differenziale per comprendere il vero stato delle reali dimensioni dell’organo genitale è indispensabile ed utile. Non è un caso che alcuni studiosi abbiano evidenziato quanto la richiesta di eventuali interventi di allungamento non fosse direttamente correlata ad una reale caratteristica di micropene. Ciò rimanda ad una dismorfofobia peniena, che difficilmente si sarebbe risolta con l’ausilio di tecniche di allungamento chirurgiche e/o fisioterapiche.

In questo caso occorre l’intervento di un sessuologo o di uno psicologo che miri a lavorare sul vissuto problematico del soggetto, consentendogli di riappropriarsi della propria autostima e di imparare ad accettare il proprio corpo perché possa essere accettato anche dagli altri.

Gli uomini che si convincono del fatto che i propri organi genitali siano differenti rispetto agli standard medi provano scarsa stima per se stessi. Le loro ansie diventano di frequente motivo di disagio non soltanto nelle relazioni sessuali ma pure nei rapporti sociali e professionali, nei casi più gravi spingendo i soggetti con dismorfofobia all’isolamento.

In conclusione, l’intervento chirurgico va considerato solo se esiste , secondo lo specialista, realmente una qualche anomalia nella forma o nelle dimensioni del proprio pene : esso può rappresentare una soluzione capace di sollevare il paziente dalle sue preoccupazioni, restituendogli una normale vita di relazione.

 

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L’ incontro tra Ian e Leila, avvenuto in circostanze non proprio idilliache ( liberazione di Leila dalla morsa dell’impero), non manca, già dai primi momenti, di segnalare una dinamica relazionale che sembrerebbe propendere verso il polo della simmetria.

Nella saga di Star Wars, una coppia importante e singolare per le dinamiche dell’incontro nonchè per l’evolversi della storia stessa è quella di Ian Solo, un contrabbandiere correliano e capitano della astronave Millenium Falcon, e Leila ( Leia in versione americana) Organa generata, insieme al gemello Luke Skywalker, dall’unione fra la senatrice di Naboo Padmé Amidala (morta subito dopo il parto) e lo Jedi Anakin Skywalker (divenuto Dart Fener).

Subito dopo la nascita sul pianeta di Polis Massa nel 19 BBY, i gemelli furono separati per ordine di Yoda: mentre Luke fu affidato alla famiglia Lars su Tatooine, Leila fu adottata e cresciuta su Alderaan dal senatore, principe Bail Organa e sua moglie, la regina Breha Organa.

L’ incontro tra Ian e Leila, avvenuto in circostanze non proprio idilliache ( liberazione di Leila dalla morsa dell’impero), non manca, già dai primi momenti, di segnalare una dinamica relazionale che sembrerebbe propendere verso il polo della simmetria. Ian con le sue espressioni gergali frutto di un credo misogino e Leila , esperta di dinamiche politiche , e reduce di lotte per affermare una versione diversa del femminile principesco, si ritrovano impelagati in dinamiche relazionali volte al controllo della stessa che li porta, chi per un verso e chi per un altro, ad adottare l’uno verso l’altro pattern relazionali volti alla continua sfida della posizione, dell’ idea e del ruolo dell’altro.

Cigoli e Scabini (Il famigliare, 2010) hanno ampiamente documentato, con studi in letteratura, sulle dinamiche che si innescano nell’incontro, con particolare riguardo alla creazione del patto di coppia ed alla duplice dimensione di patto esplicito ed implicito.

Complessa risulta la convergenza delle due tipologie, avendo questi premesse non sempre in sintonia fra di loro. Volendo considerare la coppia Ian-Leila e, seguendo i parametri suddetti, sembrerebbe esserci un patto esplicito dove il desiderio di potere (Minuchin, 1978) e di dominazione sull’altro ( presenza maggiore della dimensione discordia-deprezzamento, modello circonflesso di Cigoli, Scabini) hanno la prevalenza. “Un antipatto” ( Cigoli docet) ,intendendo con tale terminologia, un devastante attacco al legame. Tuttavia tali considerazioni non sembrano collimare con l’epilogo della storia (convolamento a nozze).

Come si spiega questa duplice dimensione del patto (esplicito ed implicito) non confluente con l’epilogo? Una possibile spiegazione, a mio avviso, potrebbe essere questa: l’apparente non confluenza delle due dimensioni del patto di coppia, sarebbe, in realtà, una mistificazione: patto esplicito e implicito, in modo celato, confluirebbero nell’accordo volto ad una pseudosimmetria (apparente competizione) con prevalenza di pattern comunicativi volti alla squalifica ed alla disconferma, la cui finalità potrebbe essere la creazione di un contesto che funga da compromesso con la dimensione di lealtà alla propria biografia (quella del contrabbandiere scevro di sentimenti di Ian e quella della Leila senatrice con sfera morale ed etica incorruttibile al richiamo dell’amore). Ergo,una apparente non confluenza di patti che, in quel contesto stellare matrice di significati ( Bateson docet), da un lato funge da deterrente per la genesi di un “Altrove” dove le dimensioni emotive, cognitive, politiche si integrano a dispetto del mito societario; dall’altro, salvaguarda la dimensione identitaria socialmente costruita dei due personaggi.

 

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Ansia d’esame e Stress cronico: come superarli

 

 

– FLASH NEWS-

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Lo stress è una naturale risposta del corpo sano, che negli esseri umani si è evoluta in modo da proteggerli in caso di pericolo. Questo vantaggio evolutivo è eccellente se ci prepariamo alla lotta o alla fuga in caso di pericolo imminente, ma non è molto utile quando si tratta di affrontare un esame, in quel caso infatti il panico può mettere a dura prova la memoria, mettendo a rischio l’esito dell’esame.

Lo stress è una naturale risposta del corpo sano, che negli esseri umani si è evoluta in modo da proteggerli in caso di pericolo. Quando un individuo si trova ad affrontare un fattore di stress, il corpo rilascia un ormone che provoca diversi cambiamenti fisiologici: il cuore inizia a pompare più velocemente per fornire ai muscoli una maggiore quantità di ossigeno, la pressione sanguigna aumenta e il corpo suda per prevenire il surriscaldamento dovuto all’aumentato del metabolismo.

Questo vantaggio evolutivo è eccellente se ci prepariamo alla lotta o alla fuga in caso di pericolo imminente, ma non è molto utile quando si tratta di affrontare un esame, in quel caso infatti il panico può mettere a dura prova la memoria e creare il classico vuoto di memoria, mettendo a rischio l’esito dell’esame a cui magari ci si è preparati faticosamente per settimane.

Secondo i risultati dello studio di un ricercatore in psicologia sociale, Martyn Denscombe, gli adolescenti soffrono di stress da esame per quattro motivi: le conseguenze educative o professionali connesse con l’esito della prova; la loro autostima connessa alla prestazione (voti più alti=maggiore autostima); giudizi da parte di amici e genitori in relazione alle prestazioni; e la paura di deludere i loro insegnanti.

 Cosa si può fare, concretamente, per gestire lo stress da esame? In primo luogo, è necessario ricordare che, anche se sembra come la cosa più importante del mondo, questo esame non vale lo sforzo fisico che il corpo sta compiendo. Quando il cervello sembra vuoto è bene bere un sorso d’acqua e respirare profondamente e lentamente. Questo permetterà al corpo di reidratarsi e fermare gli effetti della risposta allo stress. È importante anche cercare l’aiuto e il supporto della famiglia per discutere in termini realistici sulle conseguenze di un esame andato male, sfatando il mito che solo voti eccellenti possono assicurare una carriera professionale soddisfacente. Come evitare il “vuoto di memoria”? Eccessiva ansia può rendere quasi impossibile allo studente concentrarsi sull’esame e ricordare tutto quello che ha studiato. Questo perché, sotto stress, il corpo rilascia grandi quantità di cortisolo che altera la velocità di recupero della memoria nell’uomo. Il biochimico nutrizionale Shawn Talbott ha dimostrato che c’è il 50% in più di cortisolo nel sangue se un individuo ha dormito sei ore invece delle otto consigliate . E ‘anche importante mantenere una dieta ricca, bere molta acqua e mangiare tre pasti al giorno; questo manterrà il cortisolo al livello naturale, permettendo piena concentrazione sul compito.

Ansia anticipatoria

Se abbiamo vissuto una prova come molto stressante è possibile che alle prove successive si attiverà l’aspettativa, costruita sull’esperienza precedente, di un’esperienza altamente stressante. Questa forma di stress cronico provoca gli stessi cambiamenti fisiologici della risposta immediata allo stress, ma per un periodo di tempo prolungato. Lo stress cronico è difficile da superare e può causare ipertensione, malattie cardiache e indebolire gravemente il sistema immunitario. Alla luce di queste informazioni è importante identificare i potenziali fattori di stress all’inizio dell’anno scolastico, pianificare il calendario e frequentare le lezioni regolarmente evitando di procrastinare lo studio fino all’ultimo minuto.

 

 

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L’utilizzo del Photolangage nel supporto alla genitorialità. Il Progetto: Cresci tu che cresco anch’io.

Maria Aliprandi, Chiara Gusmani

 

Gli incontri sono nati con l’obiettivo di aiutare i genitori a comprendere i bisogni dei propri figli, e con l’intento di sostenerli nella ricerca di personali modalità che consentano di affrontare, da un punto di vista emotivo ed educativo, problematiche legate alla crescita.

In questo articolo verranno illustrati l’utilizzo del Photolangage e la sua applicazione nel contesto di incontri a un gruppo genitori di bambini dell’asilo nido; il percorso è stato condotto da due psicologhe e psicoterapeute dello studio ArteCrescita di Milano, che si occupa di psicoterapia dell’età evolutiva e dell’utilizzo della fotografia in ambito clinico e formativo.

Il Photolangage

Il Photolangage, inizialmente teorizzato da Alain Baptiste e Claire Belisle a Lione nel 1965, è stato sviluppato e approfondito da Claudine Vacheret nel suo libro Photo, groupe et soin psychique: si tratta di un dispositivo estremamente duttile, che viene utilizzato sia nella pratica clinica (con adolescenti a rischio, pazienti psichiatrici, tossicodipendenti) sia nella formazione.

Il setting classico del Photolangage è strutturato in sessioni settimanali da un’ora e un quarto circa, condotte da due psicologi, psicoterapeuti, per un gruppo di otto-dieci partecipanti.

La sessione è divisa in due momenti: vi è un primo tempo per la scelta della fotografia in risposta ad una consegna, e un secondo tempo per il confronto in gruppo.

I conduttori pongono una domanda a cui i partecipanti rispondono scegliendo una fra le fotografie disposte sul tavolo. La consegna viene elaborata dai conduttori dopo ogni seduta in base ai contenuti emersi e agli obiettivi del gruppo.

Nella seconda fase ciascun partecipante racconta il perché della sua scelta e ascolta gli altri commentare la stessa immagine portando il loro punto di vista.

Succede quindi che, dando un senso all’immagine scelta, il soggetto prende coscienza del proprio punto di vista e si trova a sostenerlo condividendolo con il resto del gruppo.

Si esercita l’attenzione, l’ascolto attivo e la cooperazione, si sperimenta la fiducia e il sostegno reciproco, arrivando alla condivisione di un’identità di gruppo.

Il ciclo di incontri Cresci tu che cresco anch’io

Lo specifico di questa esperienza è l’applicazione di tale tecnica in un contesto differente: un gruppo di genitori di bambini di un asilo nido che hanno partecipato al progetto “Cresci tu che cresco anch’io”.

Il progetto è nato dalla consapevolezza che la crescita di un bambino attiva in tutta la famiglia, e in particolar modo nei genitori, emozioni e dubbi non sempre facili da comprendere e da condividere. Crescere i propri figli significa anche integrare nuovi aspetti di sé e sperimentare intensi vissuti; il passaggio dall’essere coppia all’essere genitori richiede un cambiamento e una riorganizzazione del proprio assetto, come sintetizzato nel titolo scelto per il percorso.

Gli incontri sono nati con l’obiettivo di aiutare i genitori a comprendere i bisogni dei propri figli, e con l’intento di sostenerli nella ricerca di personali modalità che consentano di affrontare, da un punto di vista emotivo ed educativo, problematiche legate alla crescita.

I percorsi di crescita sono spesso differenti: ogni bambino ha la sua storia e ogni genitore vive emozioni ed affetti che nel gruppo possono essere rielaborati e valorizzati nella loro diversità.

Le tematiche affrontate nel ciclo di incontri sono state quelle tipiche della fase di sviluppo del bambino da zero a tre anni, come ad esempio lo svezzamento, le emozioni, le regole, i bisogni corporei ed affettivi.

Uno degli incontri più sentiti di questo percorso è stato quello dedicato alle regole. Ai partecipanti è stato chiesto di scegliere una fotografia che rispondesse a questa consegna: “che cos’è per te il limite?”. L’utilizzo dell’immagine ha permesso ai genitori, in maniera immediata e spontanea, di esprimere contenuti affettivi profondi legati a questo tema. In linea con le ipotesi di C. Vacheret, sembra si siano attivate aree preconsce, sulle quali è stato poi possibile riflettere attraverso la discussione in gruppo.

La scelta e il confronto sul tema delle regole ha permesso di affrontare sia le difficoltà nel dare regole ai propri figli, sia il vissuto legato al porre dei limiti : Come nella foto, mi sento la mamma cattiva che dice sempre no, e poi mi sento male e cedo, ha verbalizzato una mamma.

Ogni genitore ha raccontato e descritto il proprio concetto di limite, stupendosi talvolta della posizioni degli altri. Alcune foto per esempio suscitano emozioni molto differenti in chi le osserva, ascoltare la versione degli altri può essere inizialmente molto fastidioso, ma consente poi possibilità e aperture nuove.

Sottolineiamo, a tale proposito, che non era negli obiettivi del percorso fornire precise indicazioni pedagogiche ed entrare nel merito di quale sia il “comportamento giusto per affrontare la crescita dei bambini”, dando indicazioni sulle procedure o i modelli psicoeducativi da seguire rispetto a sonno, alimentazione, regole quanto piuttosto provare ad accrescere la capacità riflessiva di ogni genitore su sé e sulla propria relazione col figlio.

Che cosa aggiunge la fotografia ad un percorso di incontri sulla crescita?

Attraverso l’utilizzo del Photolangage, un dispositivo gruppale strutturato e contenitivo nelle sue modalità di svolgimento, è stato possibile favorire l’identità del gruppo, all’interno del quale ogni partecipante ha avuto modo di riflettere sulle tematiche evocate dalle immagini, di conoscere e accettare il punto di vista altrui e di sviluppare una maggior conoscenza di sé e degli altri.

La fotografia è stata un catalizzatore dei contenuti personali e ha facilitato la narrazione di sé, talvolta permettendo piccoli insight: ogni partecipante ha giocato un ruolo attivo negli incontri, alla ricerca della propria modalità di affrontare le sfide poste dal diventare genitore.

 

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State of Mind intervista:

Ezio Sanavio

Professore Ordinario di Psicologia Clinica
Università di Padova

 

Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Ezio Sanavio , Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università di Padova. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

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Neuroscienze: esiste un legame neurobiologico tra il dolore fisico ed emotivo

 

 

– FLASH NEWS-

L’associazione tra dolore fisico e dolore emotivo non è solo metaforica, l’espressione avere il cuore spezzato è stata scientificamente confermata da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto da un gruppo di medici della Johns Hopkins University (Wittstein et al., 2005).

Vi sarebbe una rara ma grave condizione di compromissione della funzionalità cardiaca causata da uno stress emotivo acuto, condizione tecnicamente nota come “cardiomiopatia da stress”, più volgarmente detta “sindrome del cuore spezzato”.

Dal punto di vista neurobiologico, diverse evidenze dimostrano una stretta connessione tra dolore fisico ed emotivo: dagli studi di Panksepp (1978) sui cuccioli di cane in cui una minima dose di morfina (oppioide in grado di ridurre il dolore fisico) era in grado di alleviare il distress emotivo al momento della separazione dalla madre, agli studi di neuro imaging di Naomi Eisenberger (Eisenberg et al., 2003; Eisenberg et al., 2012) in cui le aree della corteccia cingolata anteriore (ACC) e della corteccia prefrontale ventrale destrale – aree tipicamente attivate nelle condizioni di dolore fisico- si attivavano anche in relazione alla sensazione di esclusione sociale (in qualche modo intesa come forma di dolore emotivo).

Eisenberger propone dunque una lettura evolutiva di tale stretto legame: i piccoli di umano nati in condizioni di neotenia necessitano di legami sociali per sopravvivere fisicamente: recuperare nutrimento e ricevere protezione dai pericoli sono necessità evolutive possibili per il cucciolo di umano solo nella relazione con il caregiver: dunque può essere che nel corso degli anni si sarebbero evoluti di pari passo il sistema di allerta sociale e il sistema di processamento del dolore fisico.

Sulla scia di tali studi, alcune ricerche più recenti (Kross, et al., 2011) si sono poste l’obiettivo di indagare ulteriormente tale legame neurobiologico tra dolore fisico ed emotivo, tentando di indurre nei soggetti un dolore emotivo più intenso e autobiografico presentando ai soggetti fotografie di ex-fidanzati e chiedendo loro di pensare al momento della fine della relazione; in secondo luogo i partecipanti venivano sottoposti anche ad una stimolazione fisica di calore intenso sull’avambraccio che causasse loro una condizione di dolore fisico. Dai risultati è emerso che, oltre alla corteccia cingolata anteriore, il dolore fisico e quello emotivo condividono anche l’attivazione di aree della corteccia somatosensoriale.

Prendendo in considerazione l’aspetto della cura e del trattamento, dunque una nuova linea di ricerca si sta chiedendo se i rimedi dell’uno possano essere utili anche per l’altro. Una ricerca americana (DeWall et al., 2010) ha testato la somministrazione di 1000mg al giorno di paracetamolo – tipicamente usato come antidolorifico- per due settimane in relazione alla riduzione del dolore emotivo (inteso qui in relazione all’esclusione sociale): i soggetti sottoposti a trattamento farmacologico con paracetamolo riportavano minori livelli di dolore emotivo e una minore attivazione della corteccia cingolata anteriore rispetto al gruppo placebo.

In uno studio del 2009 (Master et al., 2009) è stato dimostrato che il supporto sociale è in grado di ridurre l’intensità del dolore fisico: una ventina di donne sono state invitate in laboratorio con i loro partner, e sono state sottoposte a stimolazioni fisicamente dolorose in condizioni di contatto con il partner di diverso livello (dalla presenza fisica alla visione di una fotografia del partner alla totale assenza). Stare in contatto diretto con il proprio partner riduce la sensazione di dolore fisico, così come visualizzarne la fotografia anche se in misura meno intensa.

Dunque tale legame anche in termini di cura sembra essere bidirezionale: i rimedi del dolore fisico possono modulare quello emotivo, e viceversa. E’ importante però fare attenzione a veloci e pericolose implicazioni applicative: cautela – come minimo- rispetto all’uso di terapie per il dolore fisico per la diminuzione di intensità del dolore emotivo: l’assunzione indiscriminata, non prescritta e non controllata di farmaci – tra cui anche antidolorifici- può rispondere al bisogno di spegnere e inibire completamente le emozioni dolorose intense. Tale modalità è sconsigliata e controproducente poiché non consente un’adeguata e funzionale regolazione emotiva spesso con diverse conseguenze negative per il benessere della persona.

 

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I Disturbi di Personalità nel DSM-5: Osservazioni e Livello di Funzionamento

 

 

PARTE 1

DSM-5_Osservazioni generali e livello di funzionmento della personalità

Per la prima volta il DSM descrive davvero cosa è un Disturbo di Personalità, non basandosi su sintomi e comportamenti, ma azzarda l’analisi dell’esperienza interna e di quelle funzioni psicologiche che permettono di comprendere gli stati mentali, dare senso agli stessi e utilizzarli per guidare la propria azione e regolare le relazioni sociali.

La diagnosi di Disturbo di Personalità (DP) nel DSM 5 è il frutto di conflitti e compromessi. I membri della task force incaricati di rivedere questa sezione sono andati incontro ad ogni sorta di disaccordo, privato e pubblico, non risparmiandosi commenti duri in sede congressuale.

Il risultato è inaudito: il manuale include due modi del tutto differenti di classificare i DP. Il primo, ufficiale, è identico a quello precedente: i disturbi sono rimasti gli stessi, i criteri anche, le descrizioni sono state aggiornate e approfondite. Chi ha familiarità con il DSM-IV-TR non avrà problemi a utilizzare il DSM 5 per diagnosticare i DP, mantenendo sicuramente gli stessi dubbi e insoddisfazioni del passato.

Nella sezione III, Proposte di nuovi modelli e strumenti di valutazione, è incluso però un “Modello alternativo del DSM-5 per i disturbi di personalità”. Si trattava in effetti del sistema di classificazione per i DP che l’American Psychiatric Association aveva intenzione di adottare tout court. Ma tali sono state le critiche e le pressioni della comunità scientifica che all’ultimo momento lo si è mantenuto solo come un’ipotesi che necessita di ulteriore studio.

Se il clinico cercava quindi nel manuale una risposta chiara, solida e definitiva a cos’è un DP e come si classifica, non la troverà e ne rimarrà anzi sconcertato. Due sistemi di classificazione? Così diversi? Quale adottare? Qual è il più utile? Quale descrive meglio i disturbi?

A dispetto di incertezza e confusione, molti aspetti di questa doppia classificazione sono stimolanti. Il primo su cui mi soffermo è l’introduzione nel modello alternativo del Criterio A: Livello di funzionamento della personalità. Non ci si lasci ingannare. Non si parla di gravità del disturbo. Si affrontano per la prima volta degli aspetti davvero centrali dei DP, divisi nel funzionamento del Sé e in quello Interpersonale.

Questi includono: l’autoriflessività; la capacità di avere un’esperienza di sé coerente e integrata; la capacità di riconoscere e regolare le emozioni; l’autodirezionalità ovvero avere obiettivi a lungo termine percepiti come propri e inseguiti con persistenza; la capacità di comprendere il punto di vista degli altri, accettare che sia diverso dal proprio (in termini metacognitivi: decentrare) ed essere empatici; la capacità di stabilire e mantenere relazioni interpersonali profonde e intime.

A pagina 900-903 del manuale si trova la Scala del Livello di funzionamento della personalità. La leggo incredulo.

Per la prima volta il DSM descrive davvero cosa è un DP, non basandosi su sintomi e comportamenti, ma azzarda l’analisi dell’esperienza interna e di quelle funzioni psicologiche che permettono di comprendere gli stati mentali, dare senso agli stessi e utilizzarli per guidare la propria azione e regolare le relazioni sociali.

A me sembra un mezzo miracolo. Si potrà avanzare qualsiasi critica al DSM 5, ne sono già arrivate tante (molte giustissime) e tante ne arriveranno. Ma queste quattro paginette da sole valgono la lettura.

Perché? Un solo esempio, la Scala è suddivisa in 5 livelli: 0 indica nessuna compromissione, 4 estrema compromissione. Il Livello 3 indica grave compromissione.

Come è fatta una persona che funziona a livello 3? Ha un senso di sé debole e non è autonomo; prova un senso di vuoto; i confini tra sé e gli altri sono labili, agli estremi di iperidentificazione ed eccessiva indipendenza. L’autostima è fragile, l’immagine di sé incoerente o priva di sfumature. Ha difficoltà a stabilire e conseguire obiettivi personali, e questo è uno dei marchi di fabbrica del DP, il problema nell’agency, nella capacità di farsi motore della propria azione grazie al riconoscimento, apprezzamento di uno slancio che viene dall’interno e che ci guida a formare piani per il futuro e perseguirli superando difficoltà e frustrazioni.

Che senso dà alla vita una persona a cui mancano gli obiettivi: la scala ci dà immediatamente una risposta coerente: la vita è priva di significato o pericolosa. E poi la sorpresa più grande, cito alla lettera: La capacità di riflettere sui propri processi mentali e di comprenderli (il manuale scrive “di non comprenderli” ahimè, un refuso) è compromessa in modo significativo.

Sì, sì, avete letto bene. Si tratta proprio di metacognizione, mentalizzazione, funzione riflessiva, teoria della (propria) mente. Indugio a pensare che gli psichiatri americani siano impazziti. Del tutto. Una sindrome che neanche loro riuscirebbero a classificare, o magari la introducono nei disturbi dello spettro della schizofrenia. Il fatto straordinario è che hanno introdotto tale criterio in presenza di limitatissimi dati empirici.

In altre parole: un criterio quasi completamente guidato dalla teoria e dalle osservazioni cliniche. Insomma, i modelli dei disturbi di personalità che fanno leva sulla difficoltà a riflettere sugli stati mentali, in particolare quelli basati sulla mentalizzazione e metacognizione ne ricevono una bella spinta in avanti.

Non posso certo dirmi dispiaciuto. Il livello di funzionamento 3 continua: sono pazienti che faticano a considerare e comprendere i pensieri e i sentimenti che guidano il comportamento degli altri e accettare il loro punto di vista, dal quale si sentono facilmente minacciati. Sono scarsamente consapevoli dell’impatto che le loro azioni hanno sugli altri, attribuendo loro intenzioni in modo erroneo. Non si può dire alla lettera che gli autori della scala abbiamo preso pari pari la Scala di Valutazione della Metacognizione o quella della Funzione Riflessiva… però siamo lì.

Non è finita qui: queste persone entrano in relazione basati su convinzioni di avere assolutamente bisogno dell’affetto degli altri e temono di essere abbandonati o maltrattati. Allora: o si parla del deficit di accudimento ipotizzato da Nanni Moretti (e non da Bowlby come si tende erroneamente a credere) oppure è stato introdotto il concetto di schema interpersonale patogeno. Direi, la seconda.

Anticipavo che il supporto empirico per questa sezione è scarso. Da scienziato dovrei essere critico. Da scienziato dico: bravi, coraggiosi! Ora si vada avanti con la ricerca. Donna Bender, la prima autrice della Scala del livello di funzionamento della personalità sta procedendo estesamente con la ricerca in vari paesi per garantire supporto empirico.

Un paio di lavori, svolti sul database del Terzo Centro Di Terapia Cognitiva, supportano la scala. Semerari e colleghi (2014) hanno trovato che la metacognizione è tanto più compromessa tanto più numerosi sono i criteri di DP soddisfatti. Dimaggio e colleghi (2013) hanno trovato che le rappresentazioni delle relazioni interpersonali erano più compromesse al crescere del numero di criteri di DP soddisfatti.

In sintesi: compromissione crescente di capacità riflessive e attribuzione di significato alle relazioni interpersonali all’aumentare della gravità del disturbo intesa come vastità delle aree patologiche della personalità .

Di sé naturalmente la scala non sarebbe sufficiente, è necessario poi comprendere gli elementi del contenuto, gli stili comportamentali, le modalità disfunzionali di regolazione delle emozioni e di coping preferite e le specificità dei vari disturbi. Per questo sarà necessario approfondire le altre sezioni.

Il tentativo fatto in questa sezione è di descrivere i singoli disturbi a partire dal modo in cui è organizzata la scala dei livelli di funzionamento. Per esempio: un paziente con disturbo narcisistico secondo questo inquadramento farebbe riferimento eccessivamente agli altri per la definizione di sé e la regolazione dell’autostima e oscilla tra estremi di grandiosità e autosvalutazione. Mi occupo di narcisismo da tanto tempo. È la prima volta che trovo le fluttuazioni dell’autoimmagine nella descrizione del disturbo del DSM. Una grande svolta.

Mi occuperò prossimamente della sezione dedicata ai disturbi specifici. Luci e ombre. Luci nelle descrizioni. Ombre nella scelta dei disturbi da conservare.

 

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L’Alleanza Terapeutica secondo la Prospettiva Cognitivo-Evoluzionista di Liotti e Monticelli

 

 RECENSIONE:

Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica

Una prospettiva cognitivo-evoluzionista

 A cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli

Raffaello Cortina Editore (2014)

Teoria e clinica dell'alleanza terapeutica di Liotti e Monticelli- recensioneNegli otto capitoli di cui è composto il libro, divisi tra teoria e pratica terapeutica, si enuclea dettagliatamente il concetto di alleanza terapeutica. Attraverso la presentazione di casi clinici e di ricerche scientifiche svolte nell’ambito, i concetti qui brevemente sintetizzati trovano maggiore spazio e dimensione.

Il libro di cui parleremo oggi, Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli edito da Raffaello Cortina, si sviluppa intorno al concetto di alleanza terapeutica, costrutto di cui si è sentito molto parlare e che risulta uno degli aspetti focali da considerare durante il percorso terapeutico. Esso si dipana e si consuma all’interno di una cornice cognitivo – evoluzionista, che funge da base teorica.

In primis, è necessario fare delle precisazioni: cosa si intende per relazione terapeutica? E per alleanza terapeutica? Solitamente, sono termini usati in maniera interscambiabile, ma, in realtà, sottendono significati gerarchicamente diversi.

Infatti, la relazione terapeutica è un concetto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. Quest’ultima rappresenta solo una delle variabili che possono portare alla costruzione della relazione terapeutica, malgrado potrebbe essere considerata la più importante da identificare per valutare l’efficacia della psicoterapia.

Il concetto di alleanza terapeutica, dunque, nasce in ambito psicoanalitico e riguarda la creazione della relazione terapeutica nel qui ed ora, ed è composta da tre parti: gli obiettivi terapeutici, i compiti reciproci durante il trattamento e il legame affettivo costituito da fiducia e da rispetto.

L’alleanza terapeutica raggiunge qualità ottimali quando entrambe i membri della diade terapeutica sono cooperativi nel perseguire i tre punti sopra citati. In questo caso, il sistema motivazionale che si attiva è quello cooperativo che manterrebbe salda l’alleanza terapeutica.

Nel caso in cui durante la terapia si attivasse il sistema dell’attaccamento, si assisterebbe ad un cambiamento, ovvero si passerebbe dal sistema cooperativo ad uno degli altri sistemi motivazionali. Questo passaggio porterebbe con molta probabilità al manifestarsi di una crisi all’interno dell’alleanza terapeutica.

Ogni crisi dell’alleanza terapeutica si definisce lungo un continuum di gravità, si parte, dunque, da una flessione, incrinazione senza rottura del rapporto, per arrivare ad una vera e propria rottura della stessa, fine della relazione.

Per ricostruire l’alleanza è necessario ripristinare il sistema della cooperazione attraverso due modalità: dirette o indirette. Quelle dirette consistono nell’analisi delle dinamiche motivazionali che si sono manifestate e utilizzate nella relazione terapeutica, mentre quelle indirette si basano sull’analisi degli stili interpersonali del paziente in relazioni diverse da quella terapeutica.

In sostanza, ripristinare l’alleanza terapeutica significa esaminare e correggere le distorsioni della percezione interpersonale che si generano tra terapeuta e paziente. Questo processo porta a dei cambiamenti cognitivo-interpersonali fino a far emergere il disturbo per il quale il paziente aveva avanzato la richiesta terapeutica. Per questo la riparazione della rottura dell’alleanza terapeutica diventa parte fondamentale del cambiamento terapeutico stesso.

Negli otto capitoli di cui è composto il libro, divisi tra teoria e pratica terapeutica, si enuclea dettagliatamente il concetto di alleanza terapeutica. Attraverso la presentazione di casi clinici e di ricerche scientifiche svolte nell’ambito, i concetti qui brevemente sintetizzati trovano maggiore spazio e dimensione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti G., & Monticelli F. (2014). Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista, Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE

Allenare l’ Empatia con il neuroimaging funzionale – Neuroscienze

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Si può indurre la mente ad essere più empatica grazie all’ uso della fRMI.

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, i pensieri dell’altro, creando un forte legame interpersonale. Essa è alla base di tutti i comportamenti pro-sociali. Tuttavia non tutti gli individui riescono a provarla, non allo stesso modo almeno.

Un gruppo di neuroscienziati dell’istituto D’Or de Pesquisa e Ensino (IDOR) ha dimostrato che è possibile allenare le persone all’empatia. Scopo della ricerca era indagare se i partecipanti riuscissero ad avere un qualche controllo volontario sui pattern di attivazione cerebrale associati all’empatia e alle emozioni affiliative (ad esempio compassione e tenerezza).

Già altri studi hanno documentato che ricevere un feedback visivo relativo alle attivazioni cerebrali rilevate attraverso Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), potesse aumentare la capacità di modulazione volontaria dell’attivazione cerebrale stessa associata alle emozioni di base positive e negative. Tuttavia non c’erano ancora evidenze circa la possibilità che le persone potessero fare altrettanto anche con stati emotivi complessi come quelli che sottendono all’empatia.

 Il nuovo studio Moll e colleghi dimostra che la stessa tecnica si può utilizzare anche per facilitare l’induzione di stati mentali empatici. A 25 soggetti era stato chiesto, in fase preparatoria, di pensare a 3 eventi autobiografici in cui avessero vissuto sentimenti di tenerezza, orgoglio e uno emotivamente neutro. Si è cercato poi di  rievocare tali stati d’animo durante l’esperimento, attraverso la presentazione scritta di parole chiave prima delle sessioni di scanning di fMRI. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: al gruppo sperimentale veniva fornito un feedback in tempo reale della loro attività neurale durante i ricordi “empatici”, al gruppo di controllo invece non veniva fornito alcun feedback ma venivano sottoposti alla visione di stimoli random.

I risultati confermano l’ipotesi di partenza: comparando l’ultima sessione con la prima, il gruppo sperimentale aveva un incremento della percentuale di prove correttamente classificate come caratterizzate da tenerezza, al contrario del gruppo di controllo. Il feedback visivo delle proprie attivazioni cerebrali avrebbe dunque effetti significativi. Tale evidenza è importante perché apre la possibilità allo studio e allo sviluppo di interventi per potenziare stati psicologici sani e funzionali e contrastare così comportamenti maladattivi legati alla carenza di empatia, che sono spesso resistenti ad un approccio psicologico, farmacologico e sociale.

 

 

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La Valutazione della Personalità con la Shedler-Westen Assesment Procedure (SWAP-200)

 

Swap 200_Valutazione della personalità_Recensione Lo scopo degli autori (impegnati da oltre 15 anni in tale progetto) è stato quello di sviluppare una metodologia di valutazione della personalità che colmasse lo spazio concettuale che intercorre tra la necessità dei clinici di uno studio complesso del paziente – dove peculiari componenti strutturali e funzionali risultano embricate tra loro – e il rigore dei dati empirici derivati dalla ricerca.

La valutazione della personalità, nonchè dei suoi disturbi, costitituisce un argomento ampiamente dibattuto nella letteratura scientifica. Valutare la personalità di un individuo, infatti, può assumere significati e funzioni diverse a seconda delle finalità della valutazione stessa (i.e., misurazioni psicometriche, diagnosi descrittive o, in psicoterapia, formulazione del caso clinico).

In tal senso, lo scopo degli autori (impegnati da oltre 15 anni in tale progetto) è stato quello di sviluppare una metodologia di valutazione della personalità che colmasse lo spazio concettuale che intercorre tra la necessità dei clinici di uno studio complesso del paziente – dove peculiari componenti strutturali e funzionali risultano embricate tra loro – e il rigore dei dati empirici derivati dalla ricerca.

Gli item della SWAP (200 affermazioni relative a comportamenti osservabili o deducibili attraverso un’intervista specifica, derivati dai criteri del DSM e dalla letteratura scientifica sui Disturbi di Personalità) rappresentano la definizione operativa dei costrutti necessari a formulare un’adeguata diagnosi funzionale.

Nella procedura di valutazione, che può essere effettuata già dopo 3/5 incontri, il compito del clinico è quello di valutare (all’interno di una distribuzione fissa, per limitare eventuali bias) le affermazioni in relazione a quanto siano applicabili al paziente (da 0 a 7, da affermazioni non applicabili al soggetto ad affermazioni che ne colgono elementi centrali e pervasivi).

Il nuovo manuale della SWAP, più corposo e ricco di appendici rispetto alla prima versione del 2003, risulta suddiviso in tre parti principali.

Nella prima parte vengono illustrati i criteri di costruzione e validazione dello strumento, i principali contributi teorici di Drew Westen e le problematiche che si riscontrano nella ridefinizione dei costrutti, delle categorie e dei criteri diagnostici dell’Asse II del DSM. Ampio spazio, inoltre, è dedicato alla riflessione sulla diagnosi di personalità in adolescenza.

Nella seconda parte del manuale, invece, gli autori focalizzano la loro attenzione sull’ampia applicazione della SWAP nella ricerca in psicopatologia, prendendo in esame recenti studi su pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare (con particolare enfasi ai sottotipi di personalità presenti nei campioni esaminati), narcisisti e istrionici, fornendo un quadro maggiormente diversificato di tali patologie, oltre che interessanti spunti clinici.

Nella terza parte gli autori descrivono l’utilità dell’applicazione della SWAP nella misurazione del cambiamento di personalità nella psicoterapia (di orientamento psicodinamico e psicoanalitico) di due differenti pazienti (Melania, Disturbo Borderline di Personalità e Giovanna, una paziente con tratti ossessivi, ostili e paranoidi), sottolineando i limiti tipici degli studi single case ma, contestualmente, rimarcando l’utilità dell’utilizzo – sia nella ricerca clinica che nella formulazione del caso clinico – di strumenti clinician-rated affidabili. Inoltre, nell’ultimo capitolo del manuale vengono descritti due indici (Personality Health Index – PHI e RADIO), non presenti nella versione del 2003, deputati alla valutazione del buon funzionamento della personalità e utili nella valutazione dell’outcome della terapia.

In particolare, l’indice PHI, basandosi sui 200 item della SWAP, fornisce delle indicazioni globali relative agli aspetti sani della personalità del paziente mentre, l’indice RADIO, ne illustra i punti di forza e le difficoltà.

Nelle 7 appendici conclusive troviamo il manuale della SWAP-200 con le indicazioni per la compilazione della stessa, il confronto tra i prototipi SWAP (ricavati mediante l’analisi Q-Factor) degli stili di pers’onalità e i Disturbi di Personalità presenti nel DSM-5, la SWAP-200 nella sua versione per adolescenti, la SWAP-II, l’intervista Clinico-Diagnostica (CDI; CDI-A, nella sua versione per adolescenti; CDI-F, nella versione forense) ideata da Westen per la valutazione della personalità con la SWAP, una guida al contenuto degli item e una descrizione del metodo prototype matching (ovvero quanto gli aspetti clinici di un paziente si avvicinino al quadro complessivo di un certo disturbo).

Allegato al manuale, inoltre, è presente un CD-Rom contenente un utile software in grado di eseguire una diagnosi di Personalità sia categoriale (Personality Disorder – PD; legata ai disturbi di Personalità DSM) che dimensionale (attraverso i Q-factor della SWAP-200; categorie diagnostiche, empiricamente derivate, a cui è stata applicata la Q-factor analysis).

Ciò che piace di questo manuale, oltre alla rigida impalcatura teorica e alla generosa quantità di materiale fornito (sia in termini di software che di interviste cliniche), è il continuo tentativo di unire e combinare le caratteristiche peculiari dei clinici e dei ricercatori.

Tale ottica, che mira a massimizzare le competenze di ogni figura coinvolta nei numerosi studi condotti, è tesa a superare la vexata quaestio che vede la ricerca empirica sistematica contrapposta ai clinical case studies. Un argomento, quest’ultimo, molto attuale nel panorama internazionale, sia in ambito cognitivista che psicodinamico, soprattutto dopo le accuse – più o meno condivisibili – di eccessivo riduzionismo epistemiologico che il nuovo manuale diagnostico dell’APA ha attirato a sé.

Questa discussione, se orientata alla comprensione e al trattamento dei Disturbi di Personalità, può sicuramente trarre beneficio dal lavoro teorico svolto da Shedler e collaboratori; l’utilizzo della SWAP, infatti, offre al clinico, contestualmente, una lettura dimensionale della patologia, unitamente a un buon grado di affidabilità, di “ripetibilità” e di accuratezza predittiva dello strumento utilizzato.

 

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  •  Shedler J., Westen D., Lingiardi V. (2014). La valutazione della personalità con la SWAP-200: Nuova edizione. Milano: Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

 

AUTORE: Walter Sapuppo 

Psicologo, AAI Certified Coder, svolge la sua attività clinica tra Napoli e Roma. Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR). E’ stato Professore a Contratto presso il CDL in “Psicologia Clinica” e Docente al Master di II Livello in “Psicodiagnostica clinica dell’individuo e delle istituzioni” presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. È docente presso le Scuole di Psicoterapia “Studi Cognitivi” ed è autore di pubblicazioni scientifiche su Disturbi del Comportamento Alimentare, Cicli Cognitivo-Interpersonali, “process” terapeutico e psicopatologia correlata ai traumi. 

Imparare a dire No: l’importanza di affermare se stessi e le proprie esigenze

 

 

imparare a dire no © Coloures-pic - Fotolia.com

Poter dire un no, corrisponde a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Quanti di vuoi faticano a dire NO?.

Come è possibile che una parola mosillaba possa creare così tanti problemi nel pronunciarla?

Eppure, dire un no crea molti problemi, soprattutto perché mette in gioco una serie di emozioni negative, difficili da tollerare.

Rispondere con un sì a tutto, anche quando si pensa l’esatto contrario di quello che si sta affermando, cela chiaramente la necessità di voler essere compiacenti nei confronti dell’altro, perché si teme possa accadere qualcosa di catastrofico, difficile da gestire.

Nel dettaglio, si dice si perché, tendenzialmente, si ha paura di non piacere all’altro e di conseguenza l’altro potrebbe avere un pessimo giudizio della nostra persona, oppure per paura del conflitto e delle conseguenze che potrebbe portare in futuro, o, ancora, paura di poter perdere un’occasione importante e che non possa ripresentarsi mai più.

Poter dire un no, corrisponde, invece, a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Le ricerche dimostrano che è più facile rispondere con un a una richiesta perché dire no mette a disagio e fa emergere emozioni negative, come la colpa, la vergogna, la paura. Ciò è particolarmente vero quando le persone si trovano a prendere una decisione vis a vis.

Nel remoto caso in cui si dovesse rispondere con un no, pare si diventi più propensi a dire alle richieste successive. Il senso di colpa che deriva dall’aver detto il no determina il bisogno di rimediare al danno arrecato per recuperare al presunto torto compiuto senza creare ulteriori disagi. La gente è addirittura d’accordo ad acconsentire a richieste immorali piuttosto che rischiare l’ imbarazzo di dire un  no.

Da un punto di vista neuroscientifico pare che i nostri cervelli abbiano una maggiore reazione al negativo che al positivo, tant’è che le informazioni negative producono una attivazione cerebrale più ampia e un’attività elettrica più rapida della corteccia, rispetto alla risposta positiva.

Sembra che i ricordi negativi siano più forti di quelli positivi, perché un ricordo di qualcosa di negativo ci dà memoria di quanto è stato e permette di evitare quella cosa in futuro, quindi ha una funzione adattiva e di apprendimento.

In uno studio pubblicato sulla rivista Personality e Social Psychology Bulletin, la dottoressa Bohns e il suo team avevano chiesto a un gruppo di studenti universitari di rovinare un libro della biblioteca scarabocchiandolo. La metà di loro ha accettato di deturpare il libro. Secondo la Bohns questo comportamento è determinato dal sentirsi appartenenti a un gruppo sociale. Quindi, dire no farebbe sentire in pericolo di espulsione dallo stesso e di conseguenza metterebbe a repentaglio le relazioni sociali.

Spesse volte, sentirsi dire un no lascia basiti, perché nell’immaginario collettivo questa parola assume connotazione negativa di rifiuto ogni qualvolta è usata. Ma le conseguenze del dire un no spesso sono sovrastimate da noi stessi, poiché non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Naturalmente , non tutti hanno problemi a dire no. Sembra che alcuni abbiano più difficoltà di altri, dipende dal carattere che si ha. La Bohns dice di non aver trovato differenze di genere nella sua ricerca, al contrario di alcuni esperti che sostengono che le donne possono avere più difficoltà a dire di no rispetto agli uomini , in quanto spesso sono condizionate a mantenere i rapporti e a preoccuparsi troppo dei bisogni degli altri al punto da fugare i propri.

Tutte queste persone col tempo, e a proprie spese, imparano ad apprezzare l’importanza di dire no, perché apprendono che così facendo proteggono la propria individualità e i propri bisogni, altrimenti tendono a soddisfare solo gli interessi degli altri e non i propri.

Insomma, dire no significa non rispondere e non adeguarsi alle pressioni cognitive e sociali dettate da terzi e questo serve a tutelare i propri valori.

Ma, allora, qual è il modo migliore per rifiutare una richiesta? Di seguito alcuni suggerimenti.

1. Essere semplici e diretti nel dare una risposta:

Ti ringrazio, ma non posso.

Grazie, ma non riesco.

2. Motivare la risposta riferendosi a circostanze esterne:

No, grazie. Ho preso un altro impegno.

Mi spiace, ma avevo promesso a mio figlio di passare del tempo con lui.

3. Essere convincente, ma educato:

Preferisco rifiutare, mi spiace;

No, grazie.

In sostanza, bisogna:

1. Allenarsi nel provare a dire di no per non rimanere senza parole nel caso si presentasse questa evenienza.

2. Costruire delle frasi pronte del tipo: “Ci penserò” da utilizzare all’occorrenza.

3. Rimandare una risposta aumenta la possibilità di dire no.

4. Addolcire il tono della voce per far si che il no detto non offenda troppo le persone.

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl senso comune ci suggerisce che di fronte a un obiettivo da raggiungere o a un problema da risolvere saremmo tentati di lasciar perdere, se ce ne venisse offerta la possibilità.

Ma in uno studio recentemente pubblicato su Psychological Science, due ricercatori americani hanno scoperto l’esatto contrario, cioè che quando abbiamo concretamente la possibilità di tirarci indietro o di indugiare, ci impegniamo di più.

Per testare la loro ipotesi i ricercatori hanno reclutato un campione online che doveva lavorare su un compito di ricerca di parole, ai partecipanti veniva detto che potevano vincere un bonus in base al  punteggio ottenuto. Il compito prevedeva che i giocatori trovassero quante più parole potevano su uno specifico argomento all’interno di un puzzle costituito da una matrice di lettere.

Ogni partecipante è stato assegnato a una di tre condizioni: la condizione di scelta forzata,  in cui doveva trovare i nomi di attori famosi e di capitali. La condizione scelta-rifiutabile, in cui poteva scegliere di non partecipare al compito. E una terza condizione di scelta-forzata, in cui aveva la possibilità di scegliere tra la ricerca di nomi di attori, di città, o di ballerini famosi (la più ostica). I risultati indicano che nella seconda condizione (scelta-rifiutabile), nessuno ha rinunciato a svolgere il compito e nella terza (scelta forzata multipla) nessuno ha scelto la strada più difficile, cioè il puzzle relativo a nomi di ballerini famosi. Inoltre, nelle due condizioni di scelta forzata, non ci sono state differenze nella quantità di impegno messo dai partecipanti. Ma i partecipanti nella condizione scelta-rifiutabile si impegnavano più a lungo sul compito rispetto a quelli nelle altre due condizioni .

Schrift e Parker hanno condotto altri due esperimenti per testare la loro ipotesi, impiegando alcune varianti rispetto alle opzioni disponibili e i risultati sono stati ancora una volta replicati: in ogni esperimento  chi era assegnato a condizioni di scelta-rifiutabile era più tenace nello svolgere il compito e aveva risultati migliori rispetto a chi si trovava in condizioni di scelta-forzata.

Insomma, se è la motivazione a cominciare che ti manca, concediti la possibilità di tirarti indietro sul serio;  se invece stai per cedere proprio quando il gioco si fa duro ricordati che quando hai iniziato eri libero di non cominciare neanche, ti aiuterà a non mollare!

 

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Gioia Negri
Psicologa Psicoterapeuta 

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Smettere di fumare: indicatori prognostici nel trattamento del tabagismo

 

 

 

Smettere di fumare indicatori prognostici nel trattamento del tabagismo - © Serhiy Kobyakov - Fotolia.comNel trattamento del tabagismo sia il trattamento farmacologico sia l’approccio di tipo psicologico si sono rivelati efficaci. Quale che sia l’approccio psicologico, la fase diagnostica iniziale è determinante.

Nel trattamento del tabagismo non è ancora stata individuata una terapia che in assoluto si sia dimostrata migliore di altre. Lasciando da parte i metodi che non hanno mai dimostrato chiaramente di essere efficaci né tantomeno scientifici, pur avendone le sembianze (auricoloterapia, agopuntura), le terapie fai da te, i manuali di auto aiuto più o meno celebri, i guaritori mistici e i motivatori pseudoscientifici, sappiamo che qualche certezza esiste: sia il trattamento farmacologico sia l’approccio di tipo psicologico si sono rivelati efficaci, in più, l’intervento multidisciplinare integrato (medico e psicologo) incrementa l’efficacia della disassuefazione (Fiore, 2008).

Quale che sia l’approccio, la fase diagnostica iniziale è determinante. La diagnosi psicologica dovrebbe comprendere i seguenti aspetti:

  •  Storia tabaccologica
  •  Livello di dipendenza dalla nicotina
  •  Analisi della motivazione al cambiamento
  •  Stima della Self-efficacy
  •  Presenza di dipendenza/abuso di alcol o altre sostanze psicotrope
  •  Presenza di disturbi del comportamento alimentare
  •  Presenza di disturbi depressivi
  •  Presenza di disturbi d’ansia
  •  Altre patologie psichiatriche (MMPI, SCID, MAC-T, ecc.)

 

Questa analisi darà origine ad un “profilo del fumatore”; la terapia, che procede necessariamente per fasi prestabilite che gradualmente portano dalla dipendenza alla disassuefazione completa, deve garantire flessibilità ai cambiamenti che man mano il paziente dimostra. E’ bene che il clinico abbia a disposizione diversi strumenti psicodiagnostici dato che, per essere efficace, il trattamento prevalentemente “psicologico” della dipendenza tabagica implica una verifica continua degli effetti della terapia mediante la rilevazione di indici che orientano e correggono il tiro terapeutico.

   Esistono differenti criteri di valutazione pertinenti alla valutazione del fumatore. I due principali riguardano il livello di dipendenza fisica dalla nicotina e il livello motivazionale del paziente, ovvero la misura della volontà di cessare l’utilizzo della sostanza.

Il primo parametro si ottiene facilmente tramite somministrazione del “Fagerström Test for Nicotine Dependence” (Fagerström, 1996), che ad oggi risulta essere lo strumento più valido e utilizzato. Il livello motivazionale invece può essere misurato mediante l’applicazione del modello transteoretico di Prochaska e Di Clemente, tenendo conto che gli stadi motivazionali di Contemplazione, Determinazione o Azione costituiscono un antecedente progressivamente facilitante la riuscita dell’intervento. (Prochaska, Di Clemente, 1982).

L’incrocio di questi due parametri (livello di dipendenza fisica dalla nicotina – livello motivazionale al cambiamento) inquadra 4 differenti classi di fumatori:

AM-BD (alta motivazione-bassa dipendenza)

AM-AD (alta motivazione-alta dipendenza)

BM-BD (bassa motivazione-bassa dipendenza)

BM-AD (bassa motivazione-alta dipendenza)

In seguito, sarà necessario valutare il livello di autoefficacia (Bandura, 2000) e determinare l’orientamento del locus of control poiché uno stile di coping problem focused orienta funzionalmente le intenzioni del soggetto, i piani d’azione, il livello motivazionale e l’atteggiamento mentale. Vanno rilevate eventuali dipendenze in comorbidità (alcol, stupefacenti) e psicopatologie relative all’umore, allo spettro ansioso, ai disturbi psicotici e ai disturbi di personalità; ogni condizione psicopatologica aggiuntiva sia in Asse I che in Asse II (DSM-IV-Tr, APA, 2000) costituisce un indicatore prognostico sfavorevole. Nel caso di diagnosi aggiuntive starà al clinico valutarne la gravità, l’incidenza sulla terapia e quale condizione debba ricevere per prima attenzione.

Riguardo le funzioni esecutive, le terapie risultano più efficaci in assenza di deficit cognitivi o di memoria e ancora, quando il soggetto appare sufficientemente informato sui meccanismi dannosi provocati dal fumo. Tra i fattori anamnestici pertinenti con l’esito del trattamento troviamo l’età di inizio del fumo, la presenza o meno di patologie correlate agli apparati interessati (per es. broncopneumopatia cronica ostruttiva, infarto) e il numero di tentativi falliti di smettere: si smette di più tra il quarto-quinto tentativo, mentre le probabilità di una disassuefazione duratura calano drasticamente all’aumentare di questo numero (Tinghino, 2009).

Infine, la presenza o meno di una rete di supporto sociale è una variabile importante per la riuscita della terapia.

Riassumendo, i predittori di esito rilevabili precocemente nel soggetto che si appresta a smettere di fumare sono:

  •  Livello di dipendenza fisica dalla nicotina
  •  Polidipendenza (alcolismo – tossocodipendenza – controllo degli impulsi)
  •  Presenza di patologie in Asse I
  •  Presenza di patologie di personalità (Asse II DSM)
  •  Livello motivazionale
  •  Livello di autoefficacia
  •  Locus of control
  •  Età di inizio del fumo
  •  Numero di tentativi falliti di cessazione del fumo
  •  Rete sociale di sostegno
  •  Deficit di comprensione o memoria
  •  Livello culturale
  •  Patologie mediche fumo correlate

La procedura psicodiagnostica del fumatore è un processo piuttosto semplice ma fornisce il grande vantaggio di poter immediatamente individuare e in seguito discutere con il paziente variabili, spesso del tutto psicologiche, che svolgono un ruolo importante nel mantenimento della dipendenza.

Quello della disassuefazione tabagica è un campo stimolante e di importanza estrema perché il fumo rappresenta la prima causa di morte evitabile al mondo. Per chi sceglie di operare in questo campo implementare una terapia accurata e sensibile ai risultati di monitoraggio dei parametri garantisce ottimi tassi di successo, sia nel breve periodo che nei follow up.

 

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L’eco della violenza: l’ EMDR per il trattamento di vittima e aggressore

 

 

L’Associazione EMDR Italia si è recentemente dedicata all’importanza dell’EMDR nei casi di violenza, focalizzando l’interesse e l’opinione degli esperti che vi fanno parte, sugli interventi terapeutici efficaci non solo sulle vittime di violenza ma anche sui sex offenders.

Nell’ultimo Congresso Nazionale sull’EMDR “Labirinti Traumatici: il filo diretto dell’EMDR”, tenutosi a Milano dall’8 al 10 novembre 2013, Isabel Fernandez (Presidente dell’Associazione Italiana EMDR) ha esposto una presentazione volta a sottolineare come l’importanza dell’intervento terapeutico diretto all’elaborazione dei traumi pregressi aiuti a prevenire e ridurre i costi psicologici ed economici legati alla violenza. Dei 16,719 miliardi di euro spesi ogni anno a causa della violenza di genere, 2,377 sono costi diretti: sanitari, farmacologici, giudiziari, consulenze e trattamenti psicoterapici, centri antiviolenza, ecc.

Nel 2013 si sono contate 128 donne vittime di violenza domestica e fino a 17 miliardi spesi ogni anno in assistenza. Tale dato si ritiene sia sottostimato rispetto alla realtà.

Derek Farrel (Presidente del Comitato di accreditamento EMDR UK & Irlanda) ha invece focalizzato il suo intervento sull’importanza dell’EMDR per il trattamento di sopravvissuti ad abusi subiti da membri del clero o religiosi, sottolineando come tale tipologia di abuso si verifichi principalmente durate l’infanzia e come tali avvenimenti costituiscano un fattore di vulnerabilità per una possibile ri-traumatizzazione. L’autore ha sollecitato l’attenzione verso un’attenta diagnosi, capace di cogliere sintomi di PTSD non contemplati dal DSM-IV per queste persone, associati alla credenza che Dio abbia contribuito all’abuso attraverso strategie implicite/esplicite dell’obbligo al silenzio, attuato da preti perpetratori, oppure al timore del significato associato al suo non esser intervenuto. Sintomi, quindi, associati ad aspetti propri della rappresentazione di sé inerenti l’identità spirituale, temi religiosi e politici, che diventano target dell’intervento con EMDR.

Cosa dire invece di coloro che abusano e violentano? All’interno dello stesso convegfno, Julie Stowasser (Formatrice per l’Istituto Californiano EMDR e Consulente per i Programmi di Assistenza Umanitaria EMDR-HDA) si è soffermata sul trattamento dei perpetratori di violenze domestiche, sottolineando l’importanza di fare riferimento al background traumatico di coloro che agiscono la violenza e introduce tecniche specifiche, da affiancare al protocollo EMDR standard, per intervenire ad hoc su tali pazienti.

 Ronald Ricci (Ricercatore presso l’Istituto Politecnico in Virginia e in Pennsylvania) ha anche confermato come i traumi sessuali subiti in infanzia possano portare ad un arousal sessuale deviante e confuso, quindi fattori di rischio specifici per reati sessuali in età adulta, quindi riporta i dati di efficacia nel miglioramento con interventi EMDR a confronto con interventi standard rivolti ai sex offenders.

Attraverso l’alternarsi degli studi e delle ricerche esposte dai maggiori esperti dell’EMDR, riportate anche nel corso del Convegno Nazionale, sia sul trattamento della rabbia patologica (Mark Nickerson, formatore EMDR in Massachusetts) sia sugli effetti neurofisiopatologici delle violenze subite e dell’intervento con EMDR (Marco Pagani, Primo Ricercatore presso Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione CNR, Roma), si evince che la violenza, come manifestazione della mente, ha una base dimostrabile e dimostrata: i correlati neurobiologici dei comportamenti vilenti sono localizzabili in particolar modo nell’amigdala e nell’ippocampo, l’attivazione patologica di queste strutture comporta delle alterazioni del sistema limbico.

L’efficacia dimostrata dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e i sintomi da essa derivanti rende quest’intervento uno dei miglior candidati nel trattamento sia dei disturbi traumatici sia delle sindromi comportanti violenza e aggressività.

 

Violenza sulle donne: EMDR, una terapia per la speranza anche in Italia. Guarire il trauma nelle vittime, interrompere la catena della rabbia negli aggressori.

 

L’impegno dell’Associzione Italiana EMDR verso il tema della violenza lo si può evincere dallo spazio riservato, all’interno del Congresso Nazionale di cui sopra, a una tavola rotondain cui si sono confrontate associazioni informali con professionisti esperti, tutti rivolti all’impegno attivo verso la ‘cura della violenza’.

In ambito nazionale, l’Emilia Romagna si è particolarmente distinta grazie al Programma di Trattamento della Violenza di Genere e Intrafamiliare, promosso dall’AUSL di Modena e presentato dalla Dr.ssa Daniela Rebecchi (Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica del Dipartimento Salute Mentale ).

Questo programma sperimentale ha risposto al Progetto Nazionale ‘Violenza alla donna’ 2008-2009 attraverso l’Istituzione del Centro ‘Liberiamoci dalla Violenza’, nato il 2 dicembre 2011, finanziato dai fondi pubblici della Regione Emilia-Romagna. Tra gli psicoterapeuti che lavorano al centro, il Dr. Paolo de Pascalis, presente al Convegno di Milano, ha sottolineato come il Consultorio Familiare rappresenti uno dei nodi della rete di servizi che deve esser capace di fronteggiare la richiesta d’aiuto per le donne vittime di maltrattamenti, per i minori che assistono e per gli aggressori che chiedono di esser aiutati a interrompere i comportamenti di violenza. Ad oggi il Centro ha accesso volontario ed è coordinato da un’équipe di professionisti esperti e formati nel trattamento della violenza. Ad Ottobre 2013 si contano circa 243 contatti totali, fra uomini, partner, figure professionali che hanno fatto riferimento al centro. Il dato permette di intuire la necessità sia di un intervento competente sugli autori di violenza e su coloro che la subiscono sia di una coordinazione in rete delle risorse del settore di psicologia clinica e di comunità, protagonista sensibile alla sofferenza.

 

 

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