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La Self-Mirroring Therapy: usare i Neuroni Specchio per comprendere se stessi

 

 

 

Neuroni specchio. - Immagine: ©-ktsdesign-Fotolia.comLa SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni e gli stati emotivi degli altri.

La self mirroring therapy ( SMT ), ideata e sviluppata da Piergiuseppe Vinai e Maurizio Speciale, nasce dall’esigenza di trovare un’applicazione psicoterapeutica alle recenti scoperte neurofisiologiche sul sistema dei neuroni specchio.

Se da una lato, infatti, tali scoperte hanno avuto un grande valore esplicativo incominciando a chiarire  i meccanismi  alla base delle  dinamiche emozionali che avvengono durante la relazione  paziente- terapeuta, dall’altro non hanno avuto un altrettanto valore applicativo nel facilitare il processo di cambiamento da parte del paziente.

La SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni  e gli stati emotivi degli altri.

Attraverso tale procedura  il paziente osservandosi  come se fosse un “personaggio” di un film, riconosce le proprie emozioni  non a partire  dalle proprie capacità autoriflessive e introspettive (capacità alquanto limitate nella popolazione clinica in generale e, in particolare, nei pazienti alessitimici) ma dalla visione del proprio comportamento non verbale e, in particolare, dalla propria espressione mimico- facciale.

Inoltre l’osservarsi dall’esterno  facilita una maggior riflessione sui propri stati mentali incrementando cosi’ le proprie capacità metacognitive.

Nel setting, quindi, tale metodologia  “sfrutta”  come fattore terapeutico oltre che le “parole” soprattutto la visione di se stessi. A tal proposito  la ricerca neuroscientifica  mostra  sempre più chiaramente  l’importanza dell’esperienza visiva; essa, attivando il meccanismo dei neuroni specchio,  si configura come una processo multimodale che implica l’attivazione di circuiti cerebrali non solo “visivi” ma anche sensori-motori, viscero-motori e affettivi .

Quando, osserviamo un altro individuo esprimere un’espressione emotiva, si attivano gli stessi circuiti motori, viscero-motori ed affettivi che sono coinvolti quando noi stessi produciamo quella stessa espressione emotiva; la vista, ad esempio, di un individuo che provando l’emozione di  disgusto  è in in preda a conati di vomito, induce spesso nell’osservatore reazioni simili  a quelli che proverebbe lui stesso assaggiando un alimento disgustoso.

Questo meccanismo  definito da Vittorio Gallese “simulazione incarnata” (embodied simulation) ci permetterebbe non solo di “vedere” l’espressione emotiva altrui ma anche di “comprenderla” come se fossimo noi stessi a provare quella particolare emozione.

La SMT fa si che il paziente usi questo “potere” dell’immagine e, in particolare della propria immagine, (che, come confermano recenti studi  neuroscientifici, attiverebbe ancor più intensamente il sistema dei neuroni specchio) a  fini terapeutici per comprendere in modo più  “profondo” le proprie emozioni,  le proprie convinzioni  e più in generale il proprio modo di funzionare.

L’effetto terapeutico per il paziente è una sorta di insight  sulle convinzioni disfunzionali che nel tempo ha sviluppato su di se e sugli altri attivando, conseguentemente, stati emotivi di  accudimento, compassione  e di “perdono” verso se stesso. 

Tutto ciò gli  consente  di entrare più in sintonia e di  migliorare il rapporto  con quel “personaggio” che osserva nel video e, quindi, in ultima analisi, di raggiungere, in tempi relativamente brevi, un maggior  livello  di benessere psichico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • P.Vinai, M.Speciale ( 2013) “Il colloquio nella Video-Based cognitive Therapy” in G. Ruggiero, S.Sassaroli ” Il colloquio in psicoterapia cognitiva” Raffaello Cortina, Milano
  • M.Speciale, F.Tonello, P.Vinai (2014) “Incontro tra Tecnologia e Psicologia: esperienze italiane” in A. Cantagallo “Teleriabilitazione ed ausili: la tecnologia in aiuto delle persone con disturbi neuropsicologici” Franco Angeli, Milano
  • P. Vinai, M. Speciale, L.Vinai, C. Bruno, P. Vinai, M. Ambrosecchia, M. Ardizzi, G.M. Ruggiero, V. Gallese “Implementing the ABC framework of the Rational Emotive Behavior Therapy through the Self Mirroring technique: clinical implications and neurophysiological background”.  Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.   (submitted)

CONSULTA IL SITO:  www.selfmirroringtherapy.com

 

Strategie per incrementare l’efficacia della regolazione emotiva

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

Una delle criticità nello studio dei processi di regolazione emotiva nell’ambito della psicologia generale consiste nella appropriazione di efficaci strategie nel medio e lungo periodo. Di fatto le ricerche sperimentali in tale ambito hanno dimostrato l’efficacia di alcune strategie regolatorie che i soggetti erano chiamati ad utilizzare durante la singola sessione sperimentale.

Un nuovo studio pubblicato su Emotion si è occupato di come incrementare l’efficacia della regolazione emotiva a medio termine in soggetti sani.

Focalizzandosi sulla strategia del reappraisal cognitivo, che implica il reframing cognitivo degli eventi emotigeni allo scopo di modulare l’emozione stessa, i ricercatori hanno utilizzato un task sperimentale di reppraisal già noto in letteratura e hanno misurato l’efficacia in termini di regolazione emotiva a seguito di 4 sessioni sperimentali consecutive ( a distanza di 3-5 ciascuna) di training e pratica guidata in due diverse strategie di reappraisal cognitivo.

Tutti i soggetti hanno compilato questionari self-report come misure di outcome tra cui Perceived Stress Scale e il Positive and Negative Affect Schedule.

Tre gruppi di soggetti sono stati randomicamente assegnati alle condizioni “distanziamento” (tecnica di reppraisal per cui al soggetto si chiede di vedere l’immagine emotigena come oggettiva, imparziale e secondo un’ottica scientifica distaccata), “reinterpretazione” (tecnica di reappraisal che prevede che i soggetti cerchino di raccontarsi una storia tale per cui l’immagine emotigena aversiva evolverà in modo più positivo oppure di focalizzarsi su dettagli non cosi terribili), “controllo” (assenza di strategie di regolazione emotiva).

I risultati dimostrano che sia nella condizione di “distanziamento” che “reinterpretazione” si ha una riduzione nei self-report dell’affettività negativa, anche se gli effetti più significativi e a lungo termine relativamente alla riduzione dello stress percepito nella quotidianità si riscontrano solo a carico del gruppo “Distanziamento” rispetto alla condizione di controllo (effetto dunque non attribuibile all’abituazione).

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

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La simulazione di patologia in ambito giuridico – Psicologia

Cristina Fratini

 

 

La simulazione di patologia in ambito giuridico. -Immagine: © ra2 studio - Fotolia.comSimulare e dissimulare come due facce di una realtà nascosta e unica, due processi che compromettono il nucleo significativo della relazione medico-paziente.

Mettere in scena una malattia mentale, mostrare in modo esagerato dei sintomi psichici, fingere di non avere problemi quando invece si è afflitti da una condizione morbosa a carattere psichiatrico, sono tutti comportamenti accomunati dal fatto che il soggetto che li mette in atto, riferisce una menzogna rispetto alla malattia presentata, con motivazioni e finalità che possono essere completamente differenti.

La possibilità che un paziente manifesti un quadro clinico che non ha un’effettiva corrispondenza con la sua realtà psicologica, oppure presenti dei sintomi che non corrispondono alla sua esperienza sensoriale, è certamente più frequente di quanto il clinico ritenga di solito.

Il problema della simulazione va ben al di là del fenomeno in sé e per sé considerato e investe il nucleo significativo della relazione medico-paziente: il contratto basato su un rapporto di reciproca fiducia.

In un setting valutativo come quello peritale è normale che il periziando/vittima/convenuto faccia il suo gioco autotutelante e cerchi di ottenere il massimo vantaggio con il minimo rischio. Simulare una malattia psichiatrica è azione dai molti risvolti positivi per l’interessato: in ambito penale, non dover rispondere agli interrogatori; non dover partecipare al processo; invalidare la credibilità di testimonianze; godere di trasferimenti in reparti clinici o psichiatrici o di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere; vedersi riconosciuto un vizio di mente al momento del fatto e via dicendo.

In ambito civile i vantaggi possono essere il vedersi riconosciuto un danno biologico di natura psichica a varia genesi e dinamica; ottenere una pensione; godere di un favorevole riconoscimento del danno e via discorrendo. Porre un’ipotesi di simulazione crea facilmente una condizione di conflitto tale da far precipitare la relazione medico-paziente. Da questa situazione si generano le innumerevoli difficoltà che s’incontrano, sia sotto il profilo medico-legale sia sotto il profilo prettamente psichiatrico, quando ci si trova nella condizione di dovere differenziare una patologia vera da una patologia simulata (Ferracuti S., Parisi L. & Coppotelli A., 2007).

L’analisi psicopatologica è l’unica che può dimostrare se è per lo meno lecito dubitare del “significato di malattia” e discriminare i veri malati da quelli che tali non sono (Fornari, 2011). Una definizione di simulazione che tutt’oggi può essere ritenuta valida a livello operativo è quella di Callieri e Semerari (1959): “un processo psicologico caratterizzato dalla decisione cosciente di riprodurre, imitandoli, sintomi patologici, e di mantenere tale imitazione per un tempo più o meno lungo e con l’aiuto di uno sforzo continuo fino al conseguimento dello scopo, quando il simulatore non si renda conto dell’inutilità del suo atteggiamento”.

Il concetto di simulazione porta con sè il tema della dissimulazione in cui chi mente nasconde, minimizza certe informazioni senza dire effettivamente nulla di falso, fa trasparire solo in parte la propria sofferenza e i segni della malattia.

Come afferma Bruno (2000): “simulare e dissimulare possono essere considerati due facce di una realtà nascosta e unica, due soci che sono tutt’uno come la patologia e il benessere. Negare la realtà e affermare i desideri: non sempre illegale è la simulazione. Ottenere un beneficio e conservare un ruolo: non sempre immorale è la simulazione. Divenire quello che non si è, o che si pensa di non essere”.

Da un punto di vista pratico le difficoltà sono legate alla varietà di tipologie cliniche di simulazione messe in atto dal soggetto. Verranno di seguito elencate le patologie che maggiormente vengono simulate senza però entrare nello specifico dei comportamenti che il simulatore mette in atto.

La simulazione di schizofrenia è rara e la si osserva in contesti psichiatrico-forensi a carattere penale, di solito per reati gravi e ci si riferisce al simulatore cosciente, ossia alla persona che in piena lucidità attua una serie di comportamenti e riferisce dei sintomi che hanno come scopo quello di accreditare la presenza di una schizofrenia. Le motivazioni sono varie: valutazione di pericolosità sociale e, in ambito civile, evitare licenziamenti, cambi di ruolo lavorativo, mobbing. Molto frequente è la dissimulazione nei procedimenti di adozione o affidamento dei minori.

La sindrome di Ganser: stato crepuscolare isterico durante il quale il detenuto cerca di recitare la parte del malato di mente, in conformità con quello che egli ritiene essere la malattia mentale.

I quadri depressivi sono simulati per finalità medico-legali che rientrano prevalentemente nella possibilità di ottenere un beneficio in relazione alla detenzione o al riconoscimento di un danno biologico. In sedi civilistiche si osserva anche la dissimulazione di condizioni depressive in corso di perizie di affidamento di minori da parte di uno dei genitori.

La simulazione di amnesia la troviamo molto spesso negli indagati o imputati di fatti di sangue che affermano di essere amnesici del fatto oppure nei casi di valutazioni di danno biologico a seguito di traumi. 

Il Disturbo Post-traumatico da Stress è simulato maggiormente per ragioni economiche. I sintomi principali sono ben conosciuti per la loro frequente rappresentazione attraverso i media e sono facilmente simulabili perché non verificabili.

I disturbi fittizzi e la sindrome di Munchausen sono condizioni cliniche non direttamente determinate da agenti patogeni esterni o processi degenerativi interni; questi pazienti “scelgono” di rendersi malati per una “necessità psicologica” che appare slegata dall’idea di ottenere da tale scelta vantaggi materiali riconoscibili.

In conclusione, si evidenzia come la simulazione di patologia sia un campo che a tutt’oggi necessita di approfondimenti poichè ricco di fenomeni che non consentono una facile soluzione e che richiedono necessariamente l’interazione di diversi punti di vista. Alla luce di tutto ciò appare idonea la frase di Lunghi “il limite della simulazione è l’immaginazione umana”.

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L’Odissea di Omero – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.08 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #08

L’Odissea di Omero

 

– Leggi l’introduzione –

L’Odissea di Omero - Centro di Igiene Mentale - CIM Nr.07 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica. -Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

L’invito ad occuparsi di Omero era giunto dal dottor Rodolfo Torre, attuale direttore del Dipartimento di salute Mentale che, ponendosi con atteggiamento rimproverante aveva immediatamente irritato Biagioli che non riusciva ad avere un rapporto sereno col suo vecchio maestro.

A sua volta Torre aveva raccolto le segnalazioni del sindaco di Monticelli che aveva sentito dire alla gente “ tanti appresso a quella sgualdrinella (intendendo Antonella) e nessuno che si occupi di quel povero ragazzo”.

Il povero ragazzo, al secolo Omero Cogliati, 45 anni portati malissimo, spalle curve, capelli scuri lisci, forforosi e già molto radi, occhi che esprimevano il più assoluto disinteresse, viveva da solo nel garage della casa della madre vedova, Assunta.

Un letto singolo, un tavolo e due sedie di formica marrone, un lavandino con poggiato uno scolapiatti di plastica rossa ed una stufetta elettrica con la parabola tutta ammaccata, la moto Guzzi 350cc del padre.

Alle pareti, una sventagliata di quadri caotica. Per usare il gabinetto saliva in casa della madre. Lì lasciava il sacchetto della roba da lavare e tornava con quella pulita. Comunque il cambio vestiti era previsto mensilmente e la doccia ogni due mesi. Nel garage aleggiava dunque quel classico odore di psicotico, un  misto di fumo freddo di sigarette, cibo stantio, essere umano in macerazione e fluidi corporei evaporati.

Non  cucinava e la madre gli lasciava di ritorno dalla spesa frutta, affettati, formaggi e pane sulla finestrina del garage che lui prendeva quando non visto.

La vita per Omero si era presentata subito in salita.

La madre era al secondo mese della sua gravidanza nell’agosto del 1956 quando apprese dalla radio che il marito Giovanni era tra i 136 italiani che sarebbero rimasti per sempre in terra belga nelle profondità della miniera di carbone di Marcinelle dove, per un errore umano, morirono 262 minatori.

Il padre, emigrante morto eroicamente per dare un futuro alla famiglia, restò nella mente di Omero come un mito irraggiungibile.

La famiglia, di origini molisane, non aveva parenti nè la madre, sposatasi contro la volontà della famiglia, ebbe coraggio di tornare al suo paese d’origine. Trattata come una vedova di guerra, ottenne un posto alle poste con cui riusciva ad andare avanti galleggiando sopra il livello di povertà. Quel figlio molto intelligente avrebbe rappresentato il suo riscatto.

In effetti, Omero alle elementari e poi alle medie era sempre il primo della classe e si immusoniva se non raggiungeva il dieci in tutte le materie. Tutta la sua vita era la madre, che non lasciava un istante, la scuola e i libri. Non aveva amichetti. Quando gli altri lo cercavano per giocare insieme spariva per ore e salutava a stento gli adulti che venivano a far loro visita. Sembrava una timidezza sconfinata ma era qualcosa di più, Omero tanto era interessato alle cose ed al loro funzionamento tanto era disinteressato agli esseri umani. 

Torturava i piccoli animali che riusciva a catturare nel giardino di casa, mutilava i ragni zampa dopo zampa fino a che non ne rimaneva la rotonda immobile palletta del ventre, collezionava le code delle lucertole e le ali strappate alle farfalle.

A 10 anni bruciò con la benzina presa dal serbatoio del motorino delle poste il gatto siamese dei vicini.

Da quel momento le famiglie non gradirono più che i loro figli giocassero con Omero che restò sempre più solo.

Non ne provava alcun dolore e ancora di più si dedicò ai suoi amati libri di matematica.

Certi del suo talento i professori sollecitarono la madre a garantirgli le scuole superiori, possibilmente il liceo scientifico, in vista di ingegneria o matematica pura come lui diceva spesso.

Le astrazioni lo attraevano così come la concretezza e gli umani lo ripugnavano.

I soldi per prendere il pullman tutti i giorni per raggiungere il liceo scientifico di Vontano non c’erano.

La sua altissima media però consentiva una possibilità: l’accademia militare della Nunziatella di Napoli non comportava spese per le famiglie dei più meritevoli, che si assumevano l’unico impegno di non lasciare l’esercito almeno per i cinque anni successivi alla laurea.

Per i primi sei mesi giunsero all’ufficio postale, dove la mamma lavorava, rassicuranti cartoline postali con su scritto “tutto bene”, “ niente di nuovo”, “quando vieni a trovarmi”, “ cibo abbondante”.

Poi, silenzio assoluto per altri sei mesi.

Quando la madre, preoccupata, stava racimolando i soldi per andare a sincerarsi di come stessero le cose ecco arrivare un telegramma proprio per Assunta Ginestra vedova Cogliati: la si pregava di recarsi all’ospedale militare del Celio di Roma a ritirare, diceva proprio così, suo figlio Omero che era stato riformato per motivi psichiatrici.

Assunta potè vederlo per una mezz’ora, poi il colonnello medico la liquidò, sostenendo che il ragazzo poteva agitarsi. Vista la madre sprovveduta e spaventata sul da farsi la rassicurò, dicendole che sarebbe stato l’esercito a sistemare Omero in un luogo idoneo.

Dunque dai 17 ai 30 anni Omero stette al Manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma (il più grande d’Europa) dove ricevette le migliori cure dell’epoca.

Assunta temeva quanto poi effettivamente si verificò nel 1986.

Per via della legge Basaglia i matti non erano più tali e dovevano occuparsene le famiglie.

In paese quasi non lo ricordava più nessuno, lei stessa ne aveva paura, così gli attrezzò il garage e iniziò il loro menage fatto di panni che salivano e scendevano, di affettati, formaggi e frutta sul davanzale.

Omero non usciva mai dal suo garage ed il paese presto ne dimenticò  l’esistenza.

Il sindaco si avvide di lui controllando le liste elettorali, chiese notizie in paese e  convocò il dottor Torre: stava  al CIM riesumarlo.

In una riunione con Biagioli , il sindaco e la madre formularono le ipotesi più assurde: Biagioli avrebbe potuto  presentarsi come un incaricato del comune per verificare l’abitabilità, oppure un idraulico o un talent scout per nuovi talenti della pittura, oppure la madre avrebbe potuto sbriciolare i farmaci all’interno delle pagnottelle che gli comprava o diluirli nell’acqua minerale.

Giovanni e Biagioli, che si occuperanno del caso essendo quelli delle “mission impossible” per la capacità di non scoraggiarsi e di inventare soluzioni creative ma, soprattutto, perché si divertono a lavorare insieme intendendosi al volo, scartano tutte le ipotesi che prevedano un inganno e scrivono una lettera per Omero che affidano alla madre.

“ Caro Omero, non ci conosciamo e se mi arrivasse una lettera da uno sconosciuto la getterei immediatamente, tanto più se si trattasse di uno psichiatra che  vuol farsi i fatti miei. Nulla di strano, dunque, se a questo punto la strapperai in mille pezzi, ti garantisco che sei libero di farlo e non ci saranno conseguenze. 

Ti scrivo perché tua madre e il sindaco sembrano preoccupati per la tua salute, insomma si chiedono se tu sia matto. Penso che vivere isolati sia una delle possibili scelte di vita e mi vengono in mente “gli stiliti” o, più vicine, le suore di clausura del convento della Consolata. Che sia una scelta libera, o una costrizione a motivo di qualche paura, tu solo lo sai. Siccome una mamma preoccupata scassa, volevo chiederti se, quando e se tu vorrai, ci darai una mano a tranquillizzarla in modo che tutti si possa campare più tranquilli.

 Se ti andrà di farlo fai una chiamata allo 0578992233  e cerca di me,  Carlo, o di Giovanni che lavora con me. 

In verità anche io sono un po’ curioso di sapere se sei matto o un gran fico che ha capito tutto. 

Per comunicare con me puoi utilizzare quello che preferisci: oltre il numero di prima ti dò anche il cellulare mio 3309874356 e la mail [email protected]. Vedi tu!”

Alla riunione generale partirono le scommesse: la chiamata di Omero era data 1 a 5, in altri termini veniva stimata con una probabilità del 20%.

La dottoressa Mattiacci era per un TSO per ripartire daccapo con un caso troppo trascurato, la dottoressa Ficca, la cui meticolosità ossessiva per le procedure e la paranoia erano peggiorate dall’inizio della convivenza con l’ingegner Riccardo, era per garantirsi da un punto di vista medico legale dopo la segnalazione, e fare una domiciliare comunque. Luisa era comunque sempre d’accordo con Biagioli, sebbene indispettita di non essere stata scelta come compagna per questa nuova avventura che si prospettava lunga, ma il crescere dei pettegolezzi su di loro e l’attivazione del marito di Luisa avevano consigliato diversamente o forse Biagioli, superato l’apice stava scivolando lungo la parabola discendente dell’innamoramento.

Gilda, poi, sosteneva  di non dover intervenire in alcun modo accusando il CIM di essere strumento di normalizzazione di tutte le devianze al servizio del potere costituito. Le sue posizioni si erano ancor più radicalizzate dopo la morte del fratello, di cui sentiva colpevoli la società in generale ed il CIM in particolare.

Giuseppe Irati, impeccabile in un doppiopetto grigio che lo faceva diverso dal resto del popolo in jeans d’ordinanza,  ribadiva che l’unico intervento possibile e deontologicamente corretto fosse sui portatori della richiesta, vale a dire la madre.

La saggezza della dottoressa Filata ricordò a tutti che  la discussione si sarebbe potuta rimandare a un mese, dopo aver concesso ad Omero il tempo di eventualmente farsi vivo.

Non era una situazione d’urgenza, ma cronica da anni, che solo la compilazione delle liste elettorali aveva sollevato dall’oblio, dunque calma.

Un mese dopo, alla riunione successiva, si discusse a lungo se chi aveva scommesso 1 contro 5 sulla telefonata di Omero  avesse o meno vinto.

Per la Ficca, che non aveva intenzione di pagare non c’erano dubbi: non c’era stata nessuna chiamata.

Al contrario la Filata, sempre attenta alla sostanza delle cose e poca incline a dispute nominalistiche che chiamava con un brutto nome, sosteneva che la presenza nella stanza accanto di Omero in compagnia di Carlo e Giovanni fosse un successo, anche se non aveva chiamato e si era presentato direttamente due giorni prima al portoncino del CIM. Addirittura, a suo avviso, i perdenti avrebbero dovuto pagare il doppio.

Per soddisfare la curiosità dei lettori debbo chiarire subito che Omero era effettivamente matto e non semplicemente un signore riservato o tutt’al più evitante o schizoide.

L’accademia militare della Nunziatella non lo aveva riformato, ma gli aveva affidato in gran segretezza una missione speciale: altro che caccia militari , razzi e astronavi, il futuro del trasporto intergalattico era il teletrasporto. 

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

Durante il periodo del ricovero al Santa Maria della Pietà (noto centro di tortura interplanetario) avevano tentato in tutti i modi violenti possibili di estorcergli il suo segreto.  Ora lo facevano in modo più subdolo  con onde elettromagnetiche che gli leggevano il pensiero.  Le onde però non riuscivano a penetrare la saracinesca metallica del garage e, per le rare volte che usciva, si era fatto un passamontagna completamente rivestito di carta stagnola anch’essa schermante le onde.

Lui era stato scelto per la sua attitudine matematica, l’intelligenza superiore e, soprattutto, per la stupidità della madre che le impediva di accorgersi di cosa le accadesse intorno e, dunque, del vitale segreto del figlio.

Aveva accettato di incontrarli perché recentemente, tormentato dalle pressioni esterne sentiva la sua resistenza venir meno e Carlo e Giovanni avrebbero potuto essere due preziosi alleati contro lo stress, proprio a motivo della loro professione. Della selezione del materiale che testimoniasse la nostra civiltà avrebbe continuato ad occuparsene personalmente, essendo il suo compito specifico, loro sarebbero potuti essere dei personal trainer per metterlo in perfetta forma in vista della missione.

Ricevuta la loro lettera aveva chiesto ai suoi superiori il permesso di coinvolgerli  e questo era giunto inequivocabile con un servizio televisivo del giorno stesso sul fitness fisico e mentale che si chiudeva con la famosa frase latina “mens sana in corpore sano”.

Nella cosmografia di Omero intorno a lui c’erano degli schermi protettivi, il metallo e la stupidità della madre, dalle spie mentali al servizio dei terribili extraterrestri che impedivano la piena liberazione della cultura terrestre. Lui, solo ma ora con l’aiuto dei suoi due trainer avrebbe liberato l’umanità dall’oppressione galattica.

Carlo, in privato, tentò una interpretazione collegata al doppio soffocamento del padre nelle viscere della terra a Marcinelle e di lui da una madre che  vi aveva riversato tutte le sue attese.

Giovanni replicò che i matti erano in due e che piuttosto trovasse una buona idea per mollargli dei neurolettici altrimenti non se ne usciva.

Affascinante il fatto che dopo anni di lavoro in continua osmosi di ruoli quelli che meno credevano al potere dei farmaci fossero proprio i medici.

Si accordarono per due  incontri settimanali. Il primo avveniva nel garage dove Omero mostrava loro i reperti raccolti durante la settimana e discutevano di quali sarebbe stato opportuno procurare nella settimana a venire. I tre parlavano lungamente di quali fossero le cose importanti della vita,  gli obiettivi esistenziali,  i pericoli e come preservarsene. Queste lunghe chiacchierate a tre costituivano una sorta di psicoterapia finalizzata a ricostruire la vicenda interiore di Omero con lo scopo di renderlo più forte di fronte alle prove che lo attendevano. Carlo lo convinse anche a prendere tutte le sere un farmaco  che lo avrebbe aiutato a superare lo stress in cui la missione affidatagli lo costringeva a vivere. 

Il secondo incontro della settimana era dedicato al fare concretamente per la cura del corpo. Con Giovanni, Omero iniziò a fare lunghissime passeggiate nei boschi circostanti a Monticello, così da zone meno frequentate e più rassicuranti ci si avvicinò sempre di più al centro del paese.

Omero diceva che la presenza di Giovanni lo rendeva più impermeabile e resistente alle influenze negative degli altri, modo bizzarro e delirante per segnalare la positività della relazione terapeutica.

In una di queste passeggiate raggiunsero il centro diurno.

Era il periodo in cui  la Signora Cristina Forni, vedova dell’indimenticato medico condotto, meglio nota alle nostre cronache psichiatriche come catwoman, teneva un corso di pittura a tempera e ad olio per i pazienti che lo frequentavano. Omero mostrò un immediato interesse per le composizioni astratte e, a detta di Cristina, anche un notevole talento.

La settimana successiva Giovanni e Carlo bussarono alla saracinesca del garage portando un regalo inaspettato: tele di varie dimensioni, pennelli, tubietti di colore e una splendida tavolozza.

Omero poteva frequentare il corso di Cristina ed esercitarsi per proprio conto.

La sua produzione artistica era emotivamente toccante con un assoluto predominio dei colori scuri e di sprazzi luminosissimi di rosso vivo. I suoi quadri non lasciavano indifferenti e sul loro significato e l’attribuzione di possibili titoli si centravano le lunghe chiacchierate dei tre compari. I quadri figurativi venivano usati come una tavola del T.A.T. e quelli astratti come una del Roschach.

I due operatori entusiasti del loro lavoro con Omero che, pur continuando ad essere immerso nel suo delirio galattico, li aspettava con ansia e con loro usciva tranquillamente di casa, riferivano mensilmente alla riunione generale del servizio. La puntigliosa dottoressa Ficca, forse invidiosa degli innegabili successi di chi agiva senza  le pastoie dell’osservanza cieca delle regole, sollevò un problema: in fondo la loro relazione con Omero non si basava su un inganno analogo a quello che avevano sdegnosamente rifiutato quando era stato proposto dalla madre?  Effettivamente lui riteneva volessero davvero aiutarlo nella missione interplanetaria che non era mai stata messa in discussione.

Biagioli si produsse allora in una appassionata difesa che fu ricordata come “il diritto all’autoinganno”: Carlo sosteneva che non si dovesse nascondere nulla ai pazienti, fornendo loro tutti gli elementi di realtà possibili, ma che non si dovesse forzarli a rinunciare alle loro spiegazioni soggettive spesso a scopo antalgico. 

Del resto, diceva l’autoinganno è una delle attività tipica degli uomini impegnati a rendere meno dolorosa la loro realtà. In particolare, ribadiva, si pensi ai malati terminali che nonostante mille evidenze continuano a proiettarsi nel futuro. 

E’ corretto dir loro come stanno le cose, ma sarebbe crudele impedirgli la speranza. 

Omero aveva ricevuto una lettera in cui si dichiarava chiaramente che erano operatori del CIM che volevano interessarsi della sua dubbia salute mentale, Carlo gli prescriveva farmaci che comprava in farmacia, con Giovanni andavano al gruppo di pittura del centro diurno psichiatrico, nessuno lo ingannava, ma perché rompere la bella favola che si raccontava?  Ormai da mesi la sua vita procedeva secondo una routine decisamente ampliata e la missione di teletrasporto intergalattico sempre meno presente nella sua mente.

Oltre i due incontri settimanali, trascorreva ore a dipingere , usciva a farsi la spesa da solo,  aveva imparato a prepararsi un pranzo caldo, pasta o minestre che integravano i secondi freddi.

Mancavano pochi giorni al Natale e avevano intenzione di proporgli di esporre i suoi quadri ad una collettiva  dedicata ad artisti esordienti.

Omero li aspettava come sempre sulla porta del garage ma aveva una faccia lugubre.

Li fece accomodare e gli spiegò il suo dolore: la televisione la sera prima era stata chiarissima, per  un incolmabile ritardo degli aspetti tecnici e per colpa dell’incompetenza della squadra degli ingegneri spaziali, il progetto era stato accantonato almeno per i prossimi cinquant’anni.

Lui, encomiato per il lavoro svolto, era comunque posto in congedo permanente e definitivo.

Anche il loro ruolo di suoi trainer non aveva più senso. Li congedò in una gelida antivigilia di Natale, dicendo che comunque avrebbe avuto piacere di rivederli ogni tanto e di continuare a discutere delle sue opere d’arte che erano state molto apprezzate alla mostra. Prendendo atto della sua richiesta le visite assunsero cadenza mensile, a titolo di follow up.

A distanza di tre anni la situazione è stabile, Omero non è certo guarito e non lo farà mai ma la sua qualità di vita è migliorata e il sindaco conta su un voto in più.

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Autismo: il racconto dell’esperienza di Uta Frith in un documentario

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma.

La BBC2 dedica attraverso Horizon Program un video documentario a Uta Frith, una delle studiose chiave che ha trasformato la comprensione dell’autismo dal punto di vista psicologico.

Non si tratta solo di un’intervista ma di un vero e proprio film documentario in cui la psicologa ricercatrice presenta se stessa e stralci di vera vita professionale – tra cui anche filmati in bianco e nero degli albori fino al famosissimo task di Sally and Anne- per trasmettere al pubblico non solo ciò che ha studiato, ma anche come lo ha fatto, quali erano i presupposti e le conoscenze a partire dagli anni 60 alla base del suo lavoro clinico con i bambini e gli adulti autistici.

Uta Frith, ora professore di psicologia dello sviluppo alla University College London, inizia la sua carriera negli anni 60 e dedica la sua vita professionale a cercare di capire come funzionano le menti di persone con autismo.

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma; durante tutto il corso del video documentario si rimanda poi a quali sono ad aggi e quali sono state negli anni passati le sfide cliniche e di ricerca rispetto a questo complesso tema.

 

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La testimonianza del minore. - Immagine: © TAGSTOCK2 - Fotolia.comCon il termine deposizione o testimonianza non si designa la  semplice fotografia di un evento, piuttosto una ricostruzione mnestica in cui si intercalano ritagli di realtà mai esperite o mai esistite.

La memoria è la capacità di conservare tracce di una esperienza passata a livello neuronale; le nostre esperienze, infatti, trasfigurano le sinapsi (le connessioni fra neuroni) e producono delle modifiche sia a livello di immagazzinamento delle informazioni sia a livello del recupero dei ricordi. La memoria non è, dunque, da considerare la capacità di ricordare gli eventi pregressi in maniera inattiva, essa in certe circostanze può diventare una produzione romanzesca densa di significati emozionali e affettivi, convalidate dall’interpretazione soggettiva e dalla singolarità individuale.

MEMORIA E SUGGESTIONABILITA’

1.LA MEMORIA

La memoria è un complesso costituito da diversi sottosistemi. La prima distinzione che bisogna fare è quella tra memoria a breve termine (MBT) o memoria primaria  e memoria a lungo termine (MLT) memoria secondaria. La funzione in cui si esprime la memoria è il ricordo. Cosa abbiamo mangiato oppure dove abbiamo lasciato un oggetto sono diversi tra loro, rispetto alla conoscenza che ho di un libro. I primi contenuti si  inseriscono nella memoria episodica, i secondi nella memoria semantica. La memoria episodica e la memoria semantica si inseriscono nella M.L.T., memoria a  lungo termine e rientrano nella memoria dichiarativa o esplicita. Quella che invece ci consente di andare sui pattini è la memoria procedurale che è una memoria implicita e non dichiarativa. In linea generale, la memoria è la capacità di  immagazzinare informazioni a cui possiamo attingere quando è necessario.

La memoria comprende due processi: l’apprendimento e il ricordo o memoria vera e propria. Durante l’apprendimento e la successiva rievocazione possiamo distinguere due fasi: la codifica che è l’elaborazione iniziale dell’informazione che consente di operare sui segnali di arrivo scelte in ordine agli input rilevanti per il soggetto, da discriminare da quelli inutili. Il consolidamento consente di immagazzinare l’informazione conservandone traccia nel tempo. Queste informazioni immagazzinate e conservate sotto forma di traccia vengono richiamate attraverso il ricordo. Il ricordo non è mai la riproduzione fedele, completa e completamente accurata di un evento. La memoria di un evento, quindi, non è mai la sua copia fotostatica, ma piuttosto il risultato dell’influenza di diversi fattori, frequentemente interagenti, che intervengono nelle diverse fasi del processo mnestico.

I ricordi, poi, non solo si modificano con il passare del tempo, ma la loro riproduzione più o meno corretta è legata a molteplici fattori, tra cui, principalmente, fattori emozionali e/o meccanismi di difesa, fattori cognitivi che possono ostacolare, o facilitare, il recupero dei ricordi stessi. La memoria è dunque molto malleabile e le distorsioni di essa relativamente alla testimonianza sono molto frequenti. Le distorsioni mnestiche, le cancellazioni o le diminuzioni della memoria a causa dell’ interferenza di stimoli sono frequenti; ciò accade maggiormente se questi stimoli si interpongono  tra  la fase dell’ apprendimento e la fase dei ricordo.

E’ ciò che potrebbe accadere, ad esempio, quando un minore è sottoposto a colloqui prolungati nel tempo, durante il quale ha potuto ricevere alcune informazioni su cui non vi era certezza assoluta. Appunto per questo, uno o più ascolti, non sempre ben condotti  in qualunque fase dell’iter processuale, caratterizzati da domande in cui sono contenuti suggerimenti e/o  informazioni false e inducenti, possono generare il fenomeno misinformazione, ovvero, la tendenza a peggiorare ed alterare il ricordo, sulla base di informazioni contenute nelle domande. Dall’età di 8-9 anni i minori sono suggestionabili; non solo possono modificare ricordi, eliminando o  aggiungendo particolari rilevanti, ma addirittura possono costruire falsi ricordi di realtà mai vissute. Diventa  fondamentale per lo psicologo giuridico prendere in considerazione il fatto che eventuali alterazioni nel menzionare qualcosa possono essere dovuti ad un difetto intervenuto in uno qualsiasi degli stadi di seguito riportati:

  • a livello dell’acquisizione, ad esempio a causa di un basso grado di attenzione al momento della registrazione del segnale;
  • al momento della ritenzione, se attività o segnali contemporanei si sono sovrapposti a quello iniziale e ne hanno impedito una corretta registrazione;
  • al tentativo di recupero dell’informazione che può fallire a causa dell’impiego di strategie inadatte o inefficaci.

Il focus attentivo poi  è un fattore determinante per l’accuratezza di un ricordo: ciò che viene elaborato e memorizzato corrisponde infatti a ciò che è stato oggetto di attenzione. Ciò che è stato oggetto di attenzione, infatti permette il passaggio dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Se l’attenzione, però, da un lato incoraggia la memoria dall’altro lato la inibisce, come quando pensare a ciò che è  stato detto impedisce di fare attenzione a ciò che si sta dicendo. Si deduce chiaramente la non poca probabilità  di dire cose senza senso, non vere, proprio per il fatto stesso di non riflettere sui processi linguistici.

 1.2 LA SUGGESTIONABILITA’

Una possibile conseguenza dell’esposizione ad informazioni nuove ed ingannevoli, molto pericolosa per la validità della testimonianza, è la costruzione di falsi ricordi: i dettagli suggestivi a vario livello richiesti, suggeriti o imposti, se accettati ed integrati dal bambino nel proprio racconto, finiscono per trasformarsi in vere e proprie scene mnemoniche, al pari di un episodio realmente accaduto ed appartenente al passato. Il racconto rischia inoltre di essere breve, incompleto, incoerente e disorganizzato. E’ basilare che lo psicologo  durante l’intervista cognitiva segua i costrutti di seguito indicati:

1) non mostri preconcetti attraverso il linguaggio verbale e non nei confronti del presunto abusante;

2) non perdere il focus dell’intervista, spostando l’attenzione del minore da un argomento all’altro;

3) non anticipi il giudizio del minore, durante il colloquio.

Di solito i bambini molto piccoli riferiscono spontaneamente molto poco, soprattutto se è un evento traumatico da dimenticare. Si è costretti a chiedere per poter sapere, ma si può chiedere senza suggestionare. Per esempio, si possono proporre domande involontariamente tendenziose su un argomento irrilevante. Per esempio: Sei venuto in aereo? (sapendo che non è vero). L’aspetto della possibile suggestionabilità dei bambini è sicuramente uno dei nodi  più problematici. Si inserisce in tale quadro psicologico – giuridico la storia della psicologia della testimonianza che è ricca di studi relativi alla suggestionabilità rivolti all’età evolutiva. Si fa notare, poi, che quanto più l’adulto è rivestito di autorità (agli occhi di un bambino anche il solo potere di porre domande ne è un indice), tanto più il bambino risulterà influenzabile da domande suggestive, che talora egli può vivere anche come impositive.

Se poi vengono dati rinforzi positivi o negativi, l’intervistatore può influenzare e modificare grandemente il ricordo del minore testimone, tale da farlo spaziare tra ricordo e fantasia, tra gioco e realtà. E’ comunque necessario eludere:

invocazioni che  possono contenere informazioni utilizzabili per formulare la risposta. In questi casi, generalmente, le informazioni fornite nella domanda si ritrovano nella risposta. Così la domanda diventa specchio per la risposta.

Modi di dire tipici di un intercalare riconducibile ad un comportamento genitoriale come: stai attento! Ascolta bene quello che ti chiedo! Negli occhi! Puoi  giocare se rispondi alla domanda ecc.

Espressioni di assenso o dissenso altamente suggestive come per esempio: sei bravissimo!, Non dire bugie! Sei un ragazzo in gamba!

Espressioni dubitative: Ma cosa dici? Non mi dire?

Esclamazioni di sorpresa: Oh ,veramente!

E’ opportuno inoltre saggiare con il bambino il suo adeguamento alla realtà e verificare se riesce bene a distinguere quest’ultima dalla fantasia.

Abbiamo visto come l’ascolto del minore soprattutto se vittima di un trauma, sia tra le tecniche più complesse e delicate nell’ambito della psicologia giuridica. Bisogna fare in modo che il bambino si senta sicuro e rilassato e sia in grado di  rievocare liberamente, formulando solo  eventuali domande di approfondimento di quanto narrato, infine chiudere l’interrogatorio controllando con il bambino di aver compreso bene le parti essenziali del discorso. Le strategie d’ascolto devono garantire, dunque, una testimonianza spontanea, utilizzando  le tecniche di ascolto, la cui validità è condivisa dalla comunità scientifica.

Ciò naturalmente non deve prescindere da una predisposizione empatica da parte dell’intevistatore che deve mettersi nei panni dell’intervistato, accogliendo il suo racconto ed i violenti sentimenti ad esso associati, ponendosi in un ruolo di estrema neutralità e attualità scientifica.

 

 

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Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale

 Nicola Schirru

 

 

 

Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale. -Immagine: © ryanking999 - Fotolia.com

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing.

In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Dai curricula ai test di abilità cognitive, dai test di personalità, alle interviste, i selezionatori del personale dispongono di diversi test psico­metrici per valutare i candidati. Gli ultimi due test presentano potenzialità fino ad oggi quasi inutilizzate, prime fra tutte le informazioni rilevabili attraverso la comunicazione (verbale e non verbale), manifestata parallelamente al momento delle risposte, verso stimoli specifici, e basata sul comportamento emozionale del soggetto, in cui è possibile rilevare scientificamente non solo la personalità ma anche la credibilità delle affermazioni dell’intervistato (es., DePaulo e colleghi, 2003; Vrij e colleghi, 2000); parafrasando, eventuali menzogne.

Un’indagine del Paul Ekman International (PEI) sostiene che ogni inganno non rilevato causi all’azienda un danno economico che oscilla dalle 4000 alle 7000 sterline. Potenziare le pratiche di recruiting attraverso l’introduzione di programmi di analisi comportamentale potrebbe condurre non solo a ridurre questi costi ma anche ad aumentare le predittività della futura performance lavorativa del singolo candidato.

Leader italiano in questo settore è il laboratorio di ricerca NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park, sede Gorizia, in cui da anni vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione verbale e non verbale, sul comportamento emozionale, sull’analisi della personalità e sulla valutazione della credibilità.

Chung e Pennebaker (2007) affermano che le parole scelte per esprimere pensiero e stati d’animo possono indicare la nostra personalità, tuttavia il linguaggio è notevolmente dipendente e strettamente legato alla comunicazione non verbale, che ha come funzioni quelle di esprimere emozioni, accompagnare, sostenere il discorso, o realizzare la rappresentazione del sé, attraverso gestualità facciali, movimenti corporali, postura, distanza interpersonale, ecc.

Il viso è il canale possedente la più alta validità per il riconoscimento delle emozioni, in cui sono stati trovati indicatori di universalità in espressioni facciali di gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, paura, disgusto e disprezzo (Ekman, 1992; Matsumoto, 1992). Il Facial Action Coding System (FACS) sviluppato da Ekman e Friesen (1978) è lo strumento più utilizzato ed efficace per l’analisi delle contrazioni dei muscoli del viso che distinguono le espressioni facciali, evolutosi nella misurazione delle emozioni umane attraverso l’EMFACS (Emotion FACS) e l’ISFE (Interpretation System of Facial Expressions; Legiša, 2014b).

Secondo Hartland e Tosh (2001) il corpo umano è in grado di produrre circa 700.000 movimenti diversi. Diversi sono i sistemi di codifica e decodifica del motore gestuale presenti in letteratura. Ekman e Friesen (1969) descrivono diverse azioni che caratterizzano il comportamento non verbale gestuale: emblemi, (sostituti di parole e frasi, come il gesto del “ciao” quando salutiamo), illustratori (accompagnatori o rafforzanti dei messaggi verbali, come quando indichiamo l’oggetto di cui stiamo parlando), manipolatori (riflettenti nervosismo e allentanti la tensione fisica o emotiva, come quando ci mordiamo le labbra), regolatori (controllanti il flusso e il ritmo della comunicazione), “esibitori” affettivi (dimostrazioni di emozioni).

Jasna Legiša (2014a), direttrice di NeuroComScience, ha sviluppato il più completo sistema di codifica e decodifica del motore gestuale presente in letteratura chiamato Body Coding System (BCS), che scompone i movimenti corporei in unità d’azione classificandoli sulla base dell’osservazione dei cambiamenti momentanei d’aspetto che si presentano a seguito di un’attivazione muscolare.

Questo descrive diverse gestualità congruenti in culture molto diverse tra loro, come per esempio spalle innalzate in caso di rassegnazione o dubbio (SP 5), generale tendenza della gestualità verso il basso in caso di tristezza (es., SP 6), braccia e mani in contatto in caso di paura (AB/B 12), grattarsi una parte del corpo o mani in avanti in caso di disgusto o disprezzo (M 18).

La letteratura scientifica (es., Argyle, 1999; Christiansen e colleghi, 1994; Goffin & Boyd, 2009; Zickar & Drasgow, 1996) suggerisce che interviste e analisi della personalità possano risultare i test più efficaci nella combinazione analitica con il comportamento emozionale.

Ad esempio, la stabilità emotiva è associata al controllo delle emozioni e controllo degli impulsi, l’estroversione implica maggiori sguardi e sorrisi verso l’interlocutore, un tono più alto (soprattutto i maschi), con più intensità vocale, ritmo veloce e meno pause (maggiormente le femmine), sguardo fisso ed un’espressività spontanea (quindi meno asimmetrica), l’introversione può essere associata all’imbarazzo, manifestato principalmente nel volto attraverso rossore, da un’estremità rigidità di postura (pochissimi movimenti ma con variazioni di posizione continui), pochi sguardi generalmente verso il basso e tendenti a deviare gli sguardi dell’interlocutore verso punti non interessanti, frequenti manipolatori, voce stridula con tonalità irregolari, balbettii, insoliti errori di grammatica, esitazioni, false partenze e lunghe pausa tra una parola e l’altra.

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing. In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Codifica e decodifica dei canali verbali, para­verbali e non verbali vanno eseguite separatamente da due codificatori con un accordo minimo dell’80% (Legiša, 2014b). Reazioni e sensibilità dei candidati dovranno sempre essere prese in considerazione: cercando di far percepire l’intervista come equa e obiettiva, pertinente alle pratiche del lavoro e non invasiva della privacy (Anderson e colleghi, 2008). Lo sviluppo di tecnologie quali ad esempio Skype o Google Hangout, stanno venendo incontro a queste esigenze, abituando i candidati alla presenza di strumenti di videoregistrazione nelle interviste di recruiting, sempre più frequenti e sempre meno percepite come intrusive.

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Memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive

 

 

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memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive - Immagine: ©Coloures-Pic - Fotolia.com

Secondo un nuovo studio pubblicato dalla rivista Memory la memoria umana avrebbe un bias pervasivo, universale e di carattere positivo: persone di diverse culture esperiscono quello che i ricercatori hanno chiamato

‘fading affect bias’ (FAB) e cioè la tendenza secondo cui le emozioni negative nella nostra memoria diminuirebbero di intensità più velocemente rispetto alle emozioni negative.

Se il bias del FAB era già noto in letteratura lo studio dimostra che questo fenomeno sarebbe universale a livello cross-culturale.

I ricercatori hanno coinvolto nello studio circa 500 individui appartenenti a diversi gruppi culturali, da studenti Ghanesi a cittadini tedeschi. Ai soggetti è stato richiesto di richiamare alla memoria un certo numero di eventi accaduti nella loro vita e di riferire le emozioni che provarono allora e al momento presente in cui stavano riportando l’evento alla memoria.

I risultati evidenziano che in ciascun gruppo culturale analizzato è presente il fenomeno del FAB, e cioè le emozioni negative associate ad eventi di vita tendono ad affievolirsi in termini di intensità in misura maggiore rispetto alle emozioni positive; questo sarebbe un bias universalmente presente in diverse culture.

Il maggior mantenimento dell’intensità di emozioni positive a discapito di quelle negative ha chiaramente una funzione adattiva in termini di regolazione emotiva.

Ciò non toglie che a certe condizioni esistano processi molto potenti – dal rimuginio alla ruminazione- in grado di mantenere le emozioni negative in tutta la loro intensità.

 

 

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Matrimonio: la felicità della coppia dipende dal marito (dopo una certa età)

 

La felicità in coppia dipende dal marito (dopo una certa età). -Immagine: © drubig-photo - Fotolia.comI risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Qual è la ricetta per una vita di coppia soddisfacente?

Nell’epoca dell’usa e getta, cosa rende davvero stabili le coppie e quale è il fattore che le porta a cercare di aggiustarsi, anziché buttare il bambino con l’acqua sporca?

Una recente ricerca dell’Università di Chicago ha cercato di rispondere a queste domande, analizzando le ricadute che la salute e le caratteristiche di personalità dei coniugi hanno sui conflitti di coppia in età avanzata.

Iveniuk e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti nel 2010-2011 dal National Social Life Health and Aging Project (NSHAP, Waite et al., 2003), uno studio condotto su 953 coppie eterosessuali conviventi o coniugate, con un’età compresa tra 63 e 90 anni e una media di anni di relazione pari a 39.

Entrando nel merito dello studio, i ricercatori hanno indagato la conflittualità di coppia ponendo a ogni partecipante tre domande relative alla frequenza con cui (1) il partner pretendeva troppo da loro, (2) il partner li criticava e (3) il partner li irritava. A ogni domanda, ogni partecipante intervistato poteva rispondere con “mai”, “raramente”, “qualche volta” e “spesso”.

La personalità di ogni componente della diade è stata valutata secondo il modello dei Big Five, utilizzando un questionario che oltre alle dimensioni canoniche di Apertura mentale, Coscienziosità, Estroversione, Amicalità e Neuroticismo (instabilità emotiva), aggiungeva la dimensione della Positività.

La salute fisica è stata indagata chiedendo ai partecipanti stessi di valutarla come eccellente, molto buona, buona, mediocre o scarsa, e lo stesso procedimento è stato utilizato per quanto riguarda il benessere psicologico.

I risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Le mogli con mariti che avevano una salute scarsa riportavano un maggiore livello di conflitto nella coppia, ma la stessa cosa non succedeva se erano le mogli a avere problemi fisici: in questo caso, non c’era nessuna differenza rispetto alla conflittualità riportata dai mariti.

Per quanto riguarda i tratti di personalità, le mogli di mariti con alti livelli di nevroticismo riportavano maggiori conflitti, mentre le stesse caratteristiche di personalità nelle mogli non spingevano i mariti a riportare una vita coniugale conflittuale.

Inoltre, le mogli di uomini più estroversi riportavano un rapporto più conflittuale rispetto alle mogli di uomini più introversi. Anche se questo può sembrare un risultato contro-intuitivo, ricordiamoci che l’estroversione, come concettualizzata dalla teoria dei big five, comprende dimensioni come l’impulsività e la carenza di autocontrollo; risulta quindi comprensibile che mogli di uomini più impulsivi e meno controllati riportino maggiori conflitti e maggiore difficoltà nella soluzione delle problematiche di coppia.

Infine, le mogli di uomini con maggiori punteggi nella scala Positività risultavano più soddisfatte del loro matrimonio, mentre ancora una volta la personalità delle mogli non sembrava influenzare il giudizio dei mariti rispetto alla propria soddisfazione di coppia.

Sembra quindi che il ruolo più importante per la soddisfazione di coppia sia da attribuire alle caratteristiche dei mariti, almeno considerando diadi con un’età avanzata.

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Arancia Meccanica (1971) – Cinema & Psicoterapia nr.23

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #23

Arancia Meccanica (1971)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

Recensione Arancia Meccanica (1971) - Cinema & Psicoterapia Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Info:

Un film di Stanley Kubrick. Interpretato da Malcolm McDowell, Warren Clarke, James Marcus, Michael Tarn. Usa 1971. Satirico. Vincitore di quattro premi Oscar.

Trama:

Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Anthony Burgess nel 1962, è considerato un film di culto. Presenta una società violenta in cui il pensiero è condizionato. Alex (Alexander DeLarge) è un eccentrico, antisociale e intelligente capo banda. Insieme a Georgie, Dim e Pete si dedicano al sesso, ai furti e a compiere violenze gratuite di ogni tipo. La banda dei drughi fa uso di droghe, indispensabili per compiere gli atti violenti a cui sono dediti.

Ascoltando la Nona di Beethoven Alex immagina esecuzioni, esplo­sioni, test nucleari ed eruzioni vulcaniche.

I genitori di Alex si dimostrano completamente impotenti e anche quando Georgie e Dim cercano di mettere in discussione la sua lea­dership, lui li picchia selvaggiamente e ristabilisce le posizioni di rango.

Durante una delle tante scorribande viene arrestato e condannato a 14 anni per omicidio. In carcere, si sente una preda tra predatori. La pre­senza di uomini più violenti e perversi di lui lo spinge a rigare dritto.

Viene a conoscenza di un programma di rieducazione del Governo che promette la libertà a chi vi si sottopone. Accetta il Programma Ludovico e viene costretto da uno stuolo di medici a vedere scene di violenza su uno schermo sotto l’effetto di una sostanza che gli procura dolore e nausea. Il condizionamento apparentemente funziona e Alex viene liberato. Quando torna libero trova molti cambiamenti: i suoi ex amici sono diventati poliziotti, le sue vittime si vendicano, i suoi geni­tori hanno affittato la sua stanza. Privo di libero arbitrio Alex vaga, fin­ché alcuni cospiratori che vogliono far cadere il Governo non gli chie­dono informazioni sul Programma Ludovico. Dopo aver avuto le rispo­ste desiderate lo inducono al suicidio costringendolo a gettarsi da una finestra.

Alex non muore, si risveglia da un sonno profondo, in un ospedale dove una psicanalista gli somministra un test di personalità. Alex è tor­nato alla fase pre-cura. Riferisce alla psicanalista un suo sogno ricor­rente: vede medici lavorare con la sua scatola cranica. La dottoressa gli dice che si tratta di un sogno normalissimo per chi è in via di guari­gione.

Il film si chiude con la visita ad Alex del Ministro dell’Interno, preoc­cupato per le ripercussioni politiche della vicenda. DeLarge inizia a ricat­tarlo e ha una improvvisa visione: la musica della Nona Sinfonia sale in un’orgia di sesso e violenza con una società plaudente che approva.

Motivi di interesse:

Se si prendono in considerazione i fatti di cronaca attuali il film assu­me toni profetici. La violenza gratuita sembra dilagare nella nostra socie­tà. Nella narrazione tra l’altro si embrica una violenza individuale e una violenza delle organizzazioni istituzionali, in un sottile e perverso gioco che richiama in continuazione un agonismo esasperato. È proprio il siste­ma di rango, sistema motivazionale a base innata, che è più frequente­mente attivo negli antisociali. Nella popolazione carceraria i disturbi di personalità di cluster B, arrivano a percentuali pari al 70%. L’incapacità di conformarsi alle norme sociali, la disonestà, l’impulsività, l’irritabilità e l’aggressività, la mancanza di rimorso sono elementi che definiscono gli antisociali e che vengono rappresentati nel film in modo magistrale. Ma oltre alla violenza dei “drughi” viene rappresentata la violenza della cura, la violenza del potere, la violenza delle istituzioni in un confronto che ci porta a riflettere su come certe patologie vengono influenzate e condi­zionate dal “pensiero unico” e dai modelli culturali dominanti.

Non possiamo sottrarci a questa riflessione nel vedere Alex sotto­posto al Trattamento del Programma Ludovico e non possiamo evitare di considerare l’intervento del Ministro dell’Interno e dell’organizzazio­ne che si contrappone al Governo un’utilizzazione strumentale degli elementi che caratterizzano la personalità del protagonista. Appunto l’utilizzazione strumentale come principio dominante e come scopo dell’agire delle istituzioni e degli individui: i corpi delle donne trattati come oggetti, gli stupefacenti per compiere gli atti violenti, l’aggressivi­tà per ottenere il denaro, e il dominio sugli altri, il ricatto per ottenere ciò che si desidera tutto recitato davanti ad un pubblico composto da spettatori plaudenti, come nella visione finale di Alex. Anche il sistema curante, medici e psicanalisti, utilizzano strumenti di cura violenti: Alex costretto a vedere sequenze filmate sotto l’effetto di sostanze che gli procurano dolore e nausea, legato ad una poltrona con due divaricato­ri tra le palpebre degli occhi. Violenza che genera violenza, antisociali che si contrappongono e che si offrono come modelli da imitare, quasi come in un’epidemia.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Trailer:

 

 

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ACHESS: un app in aiuto dei Disturbi da Uso di Alcool – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Addiction-Comprehensive Health Enhancement Support System (ACHESS), una app per smartphone, potrebbe aiutare i pazienti con Disturbi da Uso di Alcool (Abuso di Alcool e Alcool Dipendenza) a rimanere lontani dall’alcol e a gestire meglio il rischio di ricadute.

Centrale nell’alcolismo, e in generale nelle dipendenze, infatti, è il problema delle ricadute, tanto che la dipendenza da alcol ha tassi di recidiva simili ad altre malattie psichiatriche croniche.

Le ricadute riducono la qualità della vita delle persone, peggiorano i rapporti familiari e sono spesso associati alla criminalità, questo inoltre ha costi sanitari e sociali molto alti.

Sappiamo anche che la continuità nella cura per i pazienti che lasciano il trattamento residenziale è fondamentale a garantire esiti migliori a breve e lungo termine.

È in quest’ottica che è stata pensata ACHESS, un app che i pazienti possono imparare a usare nelle due settimane che precedono la dimissione dal centro per il trattamento residenziale, e che è stata pensata per permettergli di:

  • comunicare con gruppi di sostegno tra pari ed esperti di dipendenza;
  • monitorare tempestivamente per valutare il rischio di recidiva;
  • avere a disposizione un promemoria e avvisi per incoraggiare l’aderenza agli obiettivi terapeutici (per esempio avvisi che segnalano la vicinanza pericolosa di bar o locali);
  • usufruire di materiale didattico e strumenti di misurazione personalizzati sulle esigenze individuali
  • avere accesso in rete a risorse selezionate
  • disporre della comunicazione one-touch con il curante

Durante lo studio 349 pazienti con dipendenza da alcol sono stati assegnati, per un anno, in modo casuale a un programma di trattamento residenziale standard ( n = 179) o a un trattamento standard a cui era aggiunto l’uso di ACHESS ( n = 170 ).

I risultati indicano che i pazienti che hanno utilizzato l’applicazione hanno riferito un minor numero di giorni a rischio di consumo alcolico (quando il paziente beve nell’arco di due ore più di 4 bevande alcoliche standard, tre per le donne) rispetto ai controlli, con una media di 1,37 giorni a rischio in meno nel gruppo ACHESS. Una bevanda standard è una birra piccola, un bicchiere di vino o un misurino di distillato. I pazienti che hanno utilizzato ACHESS hanno anche avuto maggiori probabilità di rimanere lontani dall’alcol.

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Ordine degli Psicologi della Lombardia: risultati delle elezioni di rinnovo del Consiglio

 

Si sono appena concluse le elezioni 2014 per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La tornata elettorale ha restituito una lieve maggioranza della lista Professione Psicologo con 8 consiglieri eletti, Altrapsicologia 7 consiglieri.

 

Professione Psicologo: Mazzucchelli, Parolin, Bettiga, Ratto, Bertani, Longo, Pasotti, Micalizzi.

AltraPsicologia: Grimoldi, La Via, Cacioppo, Bozzato, Campanini, Contini, Marabelli.

 

La lista completa:

OPL - Ordine Psicologi Lombardia - Elezioni Consiglio 2014 - RISULTATI ELEZIONI-

 

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Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Maurizio Brasini

Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica

Una prospettiva cognitivo-evoluzionista

a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli

Raffaello Cortina Editore (2014)

 

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Teoria e Clinica dell'Alleanza Terapeutica - A Cura di Liotti e Monticelli - 2014Scopo dichiarato (ed efficacemente perseguito) di questo libro è fornire al lettore una cornice teorica, una chiave di lettura clinica e un metodo di lavoro sull’alleanza terapeutica.

Il libro si apre con tre capitoli di introduzione al tema centrale: il primo è una mirabile sintesi dei fondamenti teorici della prospettiva cognitivo-evoluzionista e del modello gerarchico dei sistemi motivazionali, con rinnovata attenzione all’interscambio tra i sistemi motivazionali interpersonali, i sottostanti sistemi motivazionali “arcaici”, e il livello sovraordinato dell’intersoggettività.

Il secondo è una rassegna sul costrutto di alleanza terapeutica e sulle ricerche più recenti in merito, con una apprezzabile inscrizione dell’alleanza nella più ampia cornice della relazione terapeutica.

Il terzo capitolo è dedicato ad illustrare come, a partire dalle vicissitudini dell’attaccamento, i deficit di organizzazione dell’assetto motivazionale si riflettono infine nelle alterne vicende della relazione terapeutica.

 

 

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Una volta acquisiti questi strumenti di base, il lettore viene introdotto ad un metodo per la costruzione, il monitoraggio continuo ed il ripristino dell’alleanza terapeutica.

Di particolare interesse l’illustrazione di come trasformare il lavoro sulle rotture dell’alleanza nella pietra angolare dell’intervento con i pazienti più impegnativi. Il metodo si snoda lungo tutte le fasi del processo terapeutico, in modo sorprendentemente specifico e dettagliato. L’esposizione del metodo è corredata da numerose vignette cliniche esemplificative, e da un capitolo dedicato a un caso clinico presentato alla luce della prospettiva teorica e clinica illustrata.

 

 

C’è un aspetto in quest’opera che a mio avviso è di particolare pregio, e spero non sfugga al lettore attento.

Mi ha fatto riflettere l’insistenza con cui gli autori tornano su un principio di base: la necessità che il terapeuta si disciplini ad un’attitudine autenticamente collaborativa e paritetica.

Io non penso si tratti di una ridondanza o di un caso; secondo me è un modo di veicolare un insegnamento: bisogna ripetersi all’infinito di fare le cose facili per imparare a improvvisare e ad essere creativi. E un reiterato invito ad allenarsi alla collaborazione punta a creare le condizioni per riuscire a farlo in modo autentico quando le condizioni si presentano più avverse.

 

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Disabilità e qualità della vita – Il tempo libero della persona disabile

 

 

 

 

Qualità della vita e disabilità. - Immagine: © Lifeinapixel - Fotolia.comAttualmente il concetto di salute si identifica in uno stato di benessere che coinvolge la dimensione fisica, psicologica e sociale dell’individuo.

Legata alla percezione di benessere è la qualità della vita: in pratica, un paradigma che rende la persona soddisfatta o insoddisfatta della propria quotidianità. La qualità della vita è data anche dall’impiego del tempo libero in attività gratificanti.

Nel disabile, spesso la qualità della vita appare scadente in virtù del fatto che il tempo libero è un tempo vuoto, abitato dalla solitudine e dalla noia.

 

La qualità della vita

Attualmente il concetto di salute è inteso non come assenza di malattia, ma in una accezione decisamente più ampia e completa. A questo riguardo gli organismi internazionali (Organizzazione Mondiale della Salute) hanno focalizzato la definizione di salute in una dimensione olistica, esplicitandola come una condizione di benessere che riguarda le tre dimensioni che caratterizzano la vita di ogni individuo, ovvero la dimensione fisica, psicologica e relazionale – sociale.

Laddove si vuol caratterizzare il costrutto di benessere, si deve ricorrere alla determinazione degli elementi che lo compongono. In pratica, potremmo definire un individuo in uno stato di benessere allorquando ha:

delle priorità che dirigono la sua vita;

la sensazione di guidare il corso degli eventi che compongono il suo ciclo vitale;

una buona relazionalità sociale, che lo fa interfacciare in termini positivi e gratificanti con l’alterità.

Sintonica e complementare con il concetto di benessere è la rappresentazione mentale individuale dell’idea di qualità della vita, che diviene il fondamento paradigmatico ed euristico della percezione del benessere personale. In altre parole, dalla qualità della vita le persone traggono le inferenze in grado di definire il proprio benessere in termini di presenza o assenza. I parametri che tipizzano la qualità della vita sono molteplici, ricoprendo tutti gli aspetti della vita quotidiana e fornendo gli archetipi per una prospettiva temporale positiva e ottimista. A questo riguardo si possono citare alcuni parametri, quali:

  • il possedere un’attività lavorativa appagante e gratificante;
  • l’avere la percezione della propria libertà personale;
  • il vivere in ambienti qualitativamente superiori;
  • il fruire di un tempo libero piacevole.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, investendo tutte le dimensioni che compongono la vita dell’individuo sia in un’ottica olistica che ecologica. Brown, citato in Soresi (2007), individua nel concetto di qualità della vita degli elementi oggettivi e soggettivi. Fra i primi sono da elencare:

  • le possibilità economiche;
  • le peculiarità dell’ambiente;
  • le condizioni di salute.

Fra i secondi sono da citare:

  • la sensazione di realizzazione;
  • la percezione della sintonia con la propria individualità e con l’alterità;
  • la conoscenza dei propri desideri;
  • l’impressione di essere sempre all’altezza del compito da svolgere in ogni situazione.

Il fatto che gli individui possano percepire in maniera differente le stesse situazioni di vita deriva dai costrutti personali che compongono la loro mappa cognitiva e che li fanno essere:

  • più o meno ottimisti,
  • più o meno fiduciosi in se stessi;
  • più o meno coscienti del proprio empowerment personale.

 

La disabilità

Attualmente, grazie alle rivoluzionarie concettualizzazioni sancite dall’ICF (2002), la disabilità è considerata uno stato di salute in un ambiente sfavorevole. In questo modo si pongono in evidenza le correlazioni che legano la percezione del proprio stato di salute e di benessere alle variabili ecologiche, che caratterizzato il contesto di vita dell’individuo, rimarcando ancora una volta come la sensazione di disabilità sia strettamente proporzionale alla qualità della vita vissuta. In altre parole, laddove il disabile ha l’impressione che la propria vita sia ricca di un vigore fisico, frutto anche di trattamenti abilitativi, riabilitativi e terapeutici idonei ed efficaci, di una serenità emotiva, di un contesto sociale, che favorisce l’evoluzione personale, che sostiene e incrementa i rapporti con gli altri individui, che non lede le prerogative personali e soprattutto che permette di esercitare il libero arbitrio, lì egli vivrà la sua disabilità come una diversa abilità.

La considerazione di tali costrutti ha permesso un salto di qualità nell’ambito dell’approccio e dell’intervento a carico della disabilità. In pratica, il paradigma fondante dei trattamenti biopsicosociali destinati alle persone affette da uno stato morboso invalidante è divenuto l’incremento della qualità della loro vita. Tale finalità si realizza, come la Donati (2003-2004) puntualizza, operando su due fronti:

da un lato ristrutturando il contesto esterno dell’individuo, ottimizzando la dimensione lavorativa e l’impiego del tempo libero;

dall’altro lato revisionando il suo contesto interiore, incrementando le chiavi di lettura positive che la persona adopera per leggere se stesso, gli altri e la realtà che lo circonda, ovvero attuando una riorganizzazione della cognitività e della percezione della realtà.

 

Il tempo libero della persona disabile

Frequentemente il tempo libero della persona disabile è un tempo vuoto, alimentato dalla noia e dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza, come messo in evidenza da Trisciuzzi, Fratini & Galanti (2010). Per lungo tempo si è provveduto ad ottimizzare il percorso scolastico e riabilitativo di chi è affetto da disabilità, trascurando questa importante dimensione che è rappresentata dal tempo non occupato, che, soprattutto, nell’adulto disabile, una volta terminata l’esperienza formativa, diviene il tempo prevalente.

I contesti educativi, nello specifico la scuola, sono chiamati ad intervenire in tal senso, insegnando al disabile tutte quelle abilità che gli possano permettere di vivere il tempo libero come un momento di gioia e non di tedio.

Wehman, citato in Donati (2003-2004), distingue nel tempo libero due parametri che lo contraddistinguono:

  • uno tangibile, legato alla porzione temporale impiegata;
  • l’altro personale, connesso alle emozioni positive e al senso di soddisfazione e di benessere che le attività svolte donano.

Nell’ambito del tempo libero della persona disabile un posto di rilievo lo deve occupare la pratica sportiva. Infatti, l’esercizio delle  attività motorie e sportive permette all’individuo diversamente abile di:

  • incrementare le risorse personali;
  • migliorare i comportamenti, le competenze, le capacità e le abilità;
  • implementare la relazione con l’alterità;
  • potenziare l’empowerment soggettivo;
  • ampliare l’autonomia personale.

Ci si riferisce, prevalentemente, all’attività fisica adattata, ovvero una pratica motoria e sportiva modificata per incontrare, accogliere e soddisfare i bisogni delle persone affette da disabilità.

A questo riguardo, già nel 1978, la Carta internazionale dell’Unesco, citata in Casalini (2008), dichiarava:

“Ogni essere umano ha il diritto fondamentale di accedere all’educazione fisica e allo sport, che sono indispensabili allo sviluppo della sua personalità. Condizioni particolari devono essere offerte ai giovani, compresi i bambini in età prescolare, alle persone anziane e ai disabili per permettere lo sviluppo integrale della loro personalità, grazie ai programmi di educazione fisica e di sport adattati ai loro bisogni”.

 

Le storie di vita: Saverio

Sono cieco dalla nascita e ho un grande desiderio che mi accompagna da sempre: vedere i colori. Ho ventitré anni: in tutti questi anni ho sempre sognato di poter assaporare per un attimo i colori. I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre descritto le cose, utilizzando i colori. So che ci sono oggetti neri, che la terra è marrone, che le foglie degli alberi sono verdi, che il mare è azzurro e che il cielo è turchese. D’estate quando sono in spiaggia cerco di gustare i colori: sento sul mio corpo i raggi del sole e immagino che esso diventi giallo come il colore del sole. La stessa sensazione la provo quando faccio il bagno in mare: penso che il mio corpo si dipinga d’azzurro.

Ho imparato nel corso della mia vita ad associare ai colori le sensazioni che provo nel corpo. Per esempio suppongo che il giallo corrisponda ad una percezione di calore. La stessa che mi regala il sole quando mi espongo ai suoi raggi. L’azzurro lo paragono a quel senso di fresco che assale il mio corpo quando faccio il bagno nel mare. Il marrone lo assoccio a quell’impressione di ruvido, di farinoso che provo quando tocco e sbriciolo una zolla di terra. Il verde lo equiparo a quel fresco che mi comunicano le foglie quando le metto fra le mani. Ad ogni colore ho imparato ad associare le sensazioni corporee. In certi momenti mi sembra di vedere attraverso il corpo. In altri momenti, in cui mi sento scoraggiato, ritengo che sia tutta un’illusione e che a me è stato negato il piacere di vedere i colori.

Quello che mi pesa in talune circostanze è la mancanza di autonomia: non posso aprire la porta e andarmene per strada così come fanno tutti. Altre volte penso di essere comunque avvantaggiato, perché ho un cane guida che mi fa compagnia e mi indica la strada quando per qualche ragione devo allontanarmi da casa. Mia madre sovente mi dice che io sono fortunato, perché ho una famiglia che mi vuole bene, degli amici che si ricordano ogni tanto di me. In alcuni giorni ci credo e penso di avere avuto dalla vita tutto quello che potevo desiderare. Altri giorni mi diventa faticoso credere a questa fortuna: mi sento in quei frangenti uno storpio che non può vedere e basta! Quando ero piccolo mio padre e mia madre mi raccontavano delle storie, delle favole. Quelle che mi piacevano di più erano tratte dalla mitologia greca. Mi intrigavano le vicende che si stabilivano fra gli dei e fra gli dei e gli esseri umani. Ogni sciagura umana era la conseguenza di qualcosa di negativo che gli uomini avevano fatto agli dei.

Da allora in poi si è annidata nella mia mente l’idea che le disgrazie di ogni uomo siano una specie di punizione inviata da forze superiori. Negli attimi di sconforto, che il mio lungo tempo libero mi regala, mi interrogo a questo riguardo, ma non mi sembra di aver fatto mai niente di male. Il mio caso è, forse, l’eccezione che conferma la regola.

 

Le storie di vita: Pasquale

Avere venti anni non è uno dei periodi migliori della vita. Ho letto questa frase in un libro e da allora mi risuona nella mente, come se fosse un’ossessione. Per una malattia neurologica le mie gambe non sono in grado di sostenere il mio corpo e né tanto meno di accompagnarmi in qualche luogo. La maggior parte della mia vita l’ho passata su di una sedia a rotelle e in questi venti anni ho avuto la sensazione di essere cresciuto, perché ho dovuto cambiare più volte le carrozzine, in base alle diverse dimensioni del corpo.

La mia mente non è stata colpita da alcun deficit e questo in certe circostanze mi dispiace, perché se le mie emozioni fossero ovattate da qualche accidente cerebrale, soffrirei di meno. In alcuni frangenti mi prende una tristezza, vedo gli altri, “i normali”, e provo quasi una forma di invidia, che mi porta ad essere scontroso e cattivo con i miei genitori, con le mie sorelle e con qualche amico che ho, perché essi camminano e io non lo posso fare. A dire la verità i miei genitori mi sostengono in ogni momento e mi aiutano a superare anche questi sbalzi d’umore. D’altra parte posso anche fare a meno delle gambe, visto che ho una carrozzina elettrica, guido l’auto e frequento l’Università. In tutti questi anni le mie sorelle e qualche amico hanno fatto a gara per spingere la mia carrozzina manuale e per accompagnarmi dove desideravo. Nei pomeriggi oziosi e vuoti penso che la mia famiglia, per via della mia disabilità, mi abbia molto viziato, dandomi tutto quello che potevo desiderare, decisamente più di quello che è stato dato alle mie sorelle.

Ho sentito spesso, di nascosto, mio padre e mia madre autoaccusarsi di avermi reso un infelice per sempre, considerato che la mia malattia dipende dal materiale genetico che entrambi mi hanno trasmesso. La loro più grande preoccupazione è per quando essi non ci saranno più. Per questo “torturano” le mie sorelle, dicendo loro che dovranno interessarsi per sempre di me. In questo modo mi fanno sentire un peso, un qualcosa di fastidioso che sarebbe bene non avere. Per rassicurarli, quando mi accorgo che sono più pensierosi del solito, dico che solitamente i genitori muoiono prima dei loro figli normali, ma questo non avviene per i figli disabili. Le statistiche affermano che i figli disabili muoiono presto, molto prima dei loro genitori. Essi mi guardano e non sanno in quel momento se ridere o piangere, rimangono molto scossi emotivamente e per questo cambiano discorso, dicono cose banali che in quel momento non hanno nessuna attinenza. Per fortuna che mi sono rimaste una dose di autoironia e una piccola vena di umorismo, che mi consentono di non prendermi troppo sul serio quando la catastrofe emotiva è in agguato.

 

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Il Matrimonio oggi, migliore o peggiore di una volta? – Psicologia

 

 

 

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?. - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.comSi è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?

Si tratta di una spinosa e insidiosa domanda, visti gli attuali alti tassi di divorzi che si registrano e i fallimenti relazionali che si collezionano. Spesso conversando tra amici al bar, si dice: “Non esistono più i legami come quelli di un tempo, come quelli dei nostri nonni, duraturi si intende!”. E allora, cosa ha portato a questo cambio di direzione all’interno della coppia?

Tendenzialmente, i più tendono a rispondere in un duplice modo:

1. Se si rimane nell’ambito di una visione di declino della sfera coniugale, allora si ottiene che il matrimonio, inteso come istituzione, si è indebolito. Infatti, i tanti divorzi rifletterebbero una diminuzione dell’impegno nella coppia coniugale con relativo calo della moralità che ha danneggiato i consorti in prima persona, i bambini e la società in generale.

2. Nell’ambito della resilienza coniugale, i cambiamenti culturali subiti da questa istituzione, avendo come riferimento i nostri nonni dobbiamo guardare come erano le cose almeno due generazioni fa,  sono il segno che qualcosa è cambiato nel rispetto della autonomia delle persone che ne fanno parte, e soprattutto in favore della donna, tutelandola in una serie di diritti. Da questo punto di vista il vero danno sarebbe stato se il matrimonio non si fosse adeguato ai tempi rimanendo a un secolo fa.

Lo psicologo Eli J. Finkel  ci offre una recente terza visione della questione. La risposta alla, ormai, famigerata domanda è: “Il matrimonio, quello medio, di oggi è più debole, rispetto al suo corrispettivo di un tempo, sia in termini di soddisfazione, intesa come qualità della relazione, sia in termini di tassi di divorzio. Ma i migliori matrimoni oggi, invece, sono molto più forti, sia in termini di piacevolezza coniugale sia di benessere personale rispetto agli stessi di un tempo”.

Cerchiamo di capire questa affermazione. Consideriamo per esempio i dati riportati da uno studio condotto all’Università del Missouri in cui si analizzavano 14 ricerche longitudinali eseguite tra il 1979 e il 2002 volte a valutare la qualità coniugale e il benessere personale.

Si è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

Come e perché si è verificata questa divergenza?

Per rispondere a questa domanda, Finkel, insieme ad altri colleghi quali Chin Ming Hui, Kathleen L. Carswell e Grazia M. Larson, hanno sviluppato una nuova teoria del matrimonio, in via di pubblicazione.

Secondo questa nuova prospettiva, le  aspettative di matrimonio sono attualmente molto più ambiziose, ma d’altra parte,  si possono in effetti raggiungere dei livelli di qualità matrimoniale senza precedenti, visto il benessere socio-econimico nel quale ci troviamo, anche se la condicio si ne qua non è data dall’investire una grande quantità di tempo ed energia in questa partnership. Se non si fosse in grado di mettersi in gioco in questo modo, il matrimonio sarà probabilmente deludente e quindi destinato a finire. Inoltre, il matrimonio risponde sempre più a una visione dicotomica delle cose, “tutto o niente”. Quindi, o si crea una relazione secondo principi condivisi e, per raggiungerli, si  lavora molto investendo enormi energie o … “ciccia!”.

Per capire il matrimonio di oggi, è importante verificare come si è arrivati ​​al punto in cui siamo. Nel corso della storia, il sociologo Andrew J. Cherlin e lo storico Stephanie Coontz, si sono susseguite almeno tre tipologie di matrimoni. Il matrimonio istituzionale, si aveva quando c’era una prevalenza di famiglie agricole dove tutto l’interesse ruotava intorno a cose come la produzione di cibo, il riparo e la protezione dalla violenza. Questi prerequisiti erano più importanti che lo scopo stesso del matrimonio, ovvero se fosse nato o meno un sentimento tra i due coniugi.

Nell’era del matrimonio paritetico, si cambia punto di vista. Non si è più concentrati sul fare ma, finalmente, entra in gioco il sentimento, l’amore, l’essere amati e l’avere una vita sessuale appagante. Questo periodo coincideva con il passaggio dalle aree rurali alla vita urbana. Gli uomini erano sempre più impegnati nel lavoro salariato, che amplificava la diversa realizzazione sociale dei due sessi.

Poi, si passa all’era del matrimonio auto- espressivo, inteso in termini di realizzazione personale, autostima. Il matrimonio era diventato il mezzo elettivo per raggiungere la propria realizzazione.

Beh a questo punto è d’uopo fare riferimento alla “gerarchia dei bisogni” descritta nel 1940 dallo psicologo Abraham Maslow. Secondo cui, i bisogni umani si possono inserire in una gerarchia a cinque livelli: Il bisogno più basso è quello del benessere fisiologico – tra cui la necessità di mangiare e bere – seguita dal bisogno di sicurezza, da quello di appartenenza e di amore, poi dalla stima e infine troviamo l’auto-realizzazione.

L’emergere di ogni bisogno, in sostanza, dipende dalla mera soddisfazione di un bisogno più profondo. Quindi, se si ha fame è chiaro che tutta la attività è volta alla soddisfazione di questa esigenza; solo quando viene soddisfatta è possibile concentrarsi sul bisogno successivo, e così via. Questa prospettiva è vera anche per il matrimonio, e per le aspettative che lo muovono. Tali aspettative erano basse durante l’era istituzionale, medie durante il periodo paritetico e alte durante l’era auto – espressiva. La seguente scalata storica ha importanti ripercussioni sul benessere coniugale perché soddisfare le esigenze di livello superiore produce maggiore felicità, serenità e profondità della vita

Ma attualmente le esigenze degli individui della coppia sono aumentate e quindi raggiungere le aspettative proprie e altrui diventa sempre più difficile, di conseguenza proprio in questa sfera si collezionano sia dei grandi successi sia le più grandi delusioni del matrimonio moderno.

Coloro che investono di più nella coppia, passando più tempo col partner, ottengono risultati migliori. Questo significa che non bisogna mai perdere di vista cosa fare per ottenere un matrimonio di successo, ovvero lavorarci su costantemente, in termini di energie e tempo impiegato con il coniuge per raggiungere la piacevolezza relazionale; bisogna impegnarsi a tutto tondo nella relazione. Se così non fosse queste cose potrebbero essere cercate altrove ed ecco che arriva la fine della relazione.

La chiave del successo matrimoniale potrebbe essere riassunta da una celebre frase del film ” Qualcosa è cambiato” del 1997:  “Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore”. Significa che la qualità del tempo è talmente tanto squisita che l’altro migliora la caratteristiche del partner.

Secondo il sociologo Robert N. Bellah , l’amore è, in buona parte , “l’esplorazione reciproca di sé e delle infinite e complesse emozioni che ne derivano”; questo costituisce il tesoro segreto e nascosto della relazione di coppia, che va quotidianamente rinvigorito per ottenere buoni risultati.

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BIBLIOGRAFIA: 

Dolore cronico, qualità del sonno e attività fisica – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio del Dipartimento di Psicologia della University of Warwick è possibile aiutare chi soffre di dolore cronico ad avere una vita più attiva, migliorando la qualità del suo sonno.

Un trattamento focalizzato sulla qualità del sonno non ha come obiettivo solo quello di ridurre l’insonnia legata al dolore ma anche, e sopratutto, quello di aiutare i pazienti a recuperare l’energia necessaria ad impegnarsi nell’attività fisica.

L’attività fisica infatti  è un elemento chiave nel trattamento della gestione del dolore. I medici dovrebbero prescrivere molto più spesso corsi di ginnastica, fisioterapia, passeggiate e gite in bicicletta come parte del trattamento, ma chi ha voglia di impegnarsi nell’attività fisica quando si sente uno zombie privo di forze?

I dottori Tang e Sanborn, coautori dello studio, hanno esaminato la relazione quotidiana tra sonno notturno e attività fisica diurna in pazienti con dolore cronico.

I pazienti hanno indossato un accelerometro (che misura l’attività motoria) per monitorare la loro attività fisica quotidiana, diurna e notturna, per una settimana. Grazie a un diario elettronico cellulare ogni mattina al risveglio i pazienti hanno anche valutato la qualità del loro sonno, l’intensità del dolore e lo stato dell’umore.

I risultati indicano che l’unico predittore affidabile di attività fisica è la qualità del sonno: cioè la qualità del sonno è stata in grado di predire l’attività fisica più delle valutazioni sull’umore e sull’intensità del dolore.

Questi risultati mettono in discussione l’obiettivo principale dei trattamenti classici del dolore cronico, che si focalizzano principalmente sulla differente gestione delle attività durante il giorno.

Il sonno infatti, come questo studio mette in luce, ha un potere naturale di recupero che viene spesso trascurato nella gestione del dolore . Una maggiore enfasi del trattamento sul sonno potrebbe aiutare i pazienti a migliorare il funzionamento diurno e quindi la loro qualità di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Rendimento scolastico e aspettative genitoriali

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Natalia Ginzburg riflette sulle preoccupazioni e le aspettative dei genitori, sull’ansia che li spinge a volere costantemente il loro successo, a non accontentarsi dei piccoli passi compiuti, causando l’allontanamento che oggi sempre sempre più presente nelle relazioni genitori-figli

Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né che siano oppressi dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intenti a preparare se stessi alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?

 

Le preoccupazioni dei genitori e il successo dei propri figli a scuola. Un brano di Natalia Ginzburg su cui riflettere | Didattica Orizzonte ScuolaConsigliato dalla Redazione

Di seguito viene proposto un brano della scrittrice Natalia Ginzburg (1916-1991) tratto dal suo libro “Le piccole virtù“. (…)

 

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