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Psicotraumatologia

La psicotraumatologia studia il trauma psicologico e le situazioni in cui le reazioni a eventi traumatici si cristallizzano e strutturano in sintomi

La psicotraumatologia è una branca della psicologia dell’emergenza che indaga le situazioni traumatiche e le reazioni delle persone ad esse e si realizza a livello operativo nel trattamento del trauma psicologico e nella sua prevenzione.

Psicotraumatologia: il trauma psicologico e le possibilità di trattamento

Psicotraumatologia e psicologia dell’emergenza

La psicologia dell’emergenza studia il comportamento degli esseri umani come singoli e come comunità in situazioni estreme. Raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria e la sociologia, tale disciplina cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico. Tra gli obiettivi della psicologia dell’emergenza c’è il fornire metodologie di intervento che ridimensionino l’impatto dello stress sugli operatori dell’emergenza. Uno dei paradigmi di intervento più noti e diffusi della psicologia dell’emergenza è il Critical Incident Stress Management, CISM, un protocollo clinico di prevenzione e trattamento delle reazioni psicologiche potenzialmente traumatiche, a fronte di eventi critici.

La psicotraumatologia è solo una branca della psicologia dell’emergenza e si concentra sullo studio del trauma psicologico, cioè sulle situazioni in cui le reazioni ad un evento acuto e potenzialmente traumatico si cristallizzino e strutturano in sintomi psicologici clinicamente significativi identificabili come un Disturbo correlato a trauma e stress (DSM 5). La psicotraumatologia quindi indaga le situazioni traumatiche e le reazioni delle persone ad esse e si realizza a livello operativo nel trattamento del trauma psicologico e nella sua prevenzione. È importante sottolineare che la maggior parte delle persone, anche se esposta a eventi potenzialmente traumatici, ha reazioni emotive transitorie che solo raramente si trasformano in un vero e proprio disturbo strutturato.

Psicotraumatologia e trauma psicologico

Il trauma psichico può essere sinteticamente definito come una lacerazione improvvisa, violenta ed imprevedibile dell’integrità psichica, capace di provocare un’alterazione permanente delle capacità di adattamento del soggetto.

La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante in alcune persone c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Questo avviene perché l’impatto stressante dell’evento è soverchiante rispetto alle possibilità che ha l’individuo in quel momento di elaborarlo ed integrare l’esperienza in un sistema di significato coerente. Emozioni di intensità estrema, perdita di controllo, impotenza, infatti, sono importanti aspetti della definizione di trauma psicologico.

Le risposte che gli individui danno durante l’evento stressante, come la dissociazione peritraumatica, hanno un beneficio immediato perché permettono di sopportare o evitare il carico cognitivo o emotivo della situazione, tuttavia nel momento in cui questi comportamenti dissociativi o di evitamento permangono diventano disfunzionali.

La sintomatologia del PTSD, infatti, può essere collegata a quella prima risposta, che viene poi reiterata in modo da evitare di ricordare o rivivere il trauma, attivando una serie di meccanismi di mantenimento del disturbo che non permettono di elaborare quel dolore che mai è stato elaborato e integrato nell’esperienza dell’individuo.

L’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello determina quindi il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, in quanto tutti gli aspetti di memoria, pensiero, sensazioni fisiche ed emotive sperimentate durante l’evento traumatico non riescono ad essere integrati con altre esperienze. La patologia in questi casi emerge a causa dell’immagazzinamento disfunzionale delle informazioni correlate all’evento traumatico, con il conseguente disturbo dell’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione. Questo provoca il ‘congelamento’ dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, cioè nello stesso modo in cui è stato vissuto l’evento; l’informazione congelata e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi psicologici. Infatti le informazioni che non sono state integrate correttamente persistono in una rete separata, e in ogni momento possono venire impropriamente attivate da elementi dell’ambiente esterno o interno all’individuo provocando reazioni ed emozioni di intensità sproporzionata rispetto alla natura dell’evento attuale.

Psicotraumatologia e risposta dissociativa al trauma

È noto che il trauma attivi arcaici meccanismi di difesa dalle minacce ambientali (in un primo momento immobilità tonica o freezing e successivamente immobilità cataplettica dopo le reazioni di attacco-fuga) provocando il distacco dall’usuale esperienza di sé e del mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi. Tale distacco sembra implicare una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive; si verifica quindi una dis-integrazione della memoria dell’evento traumatico rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione di significati. Da questa esperienza deriva la molteplicità non integrata degli stati dell’io che caratterizza la dissociazione patologica.

Molto interessanti sono tre contributi della letteratura scientifica contemporanea allo studio della fenomenologia dissociativa. Primo fra questi è quello di Holmes e collaboratori (2005) che distinguono due differenti tipi di sintomi dissociativi: i fenomeni di detachment e quelli di compartmentalization.

I primi corrispondono alle esperienze di distacco da sé e dalla realtà (alienazione) e consistono nei sintomi come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria (emotional numbing), déjà vu, esperienze di autoscopia (out of body experiences); tipicamente attivate da emozioni dirompenti provocate da esperienze minacciose ed estreme.

I secondi emergono invece dalla compartimentazione di funzioni normalmente integrate come la memoria, l’identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari e corrispondono a sintomi come le amnesie dissociative, l’emersione delle memorie traumatiche, la dissociazione somatoforme, l’alterazione del controllo delle emozioni e dell’unità dell’identità (personalità multiple alternanti).

I sintomi da compartimentazione, diversamente da quelli di distacco, che possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, sono tipicamente conseguenze dello sviluppo traumatico e sembrano alterare la struttura stessa della personalità dell’individuo.

Il secondo contributo teorico-clinico dimostra come la dis-integrazione delle funzioni psichiche correlata al trauma, provochi con frequenza disturbi somatoformi quali dismorfismi, somatizzazioni, sintomi pseudo-neurologici, sindromi dolorose in assenza di lesioni organiche, disfunzioni sessuali. A tal proposito colpisce il profondo concetto espresso nella frase ‘the body keeps the score’ di van der Kolk (1994) come a dire che il nostro corpo è testimone e contenitore delle esperienze traumatiche.

Il terzo contributo mette in rilievo gli elementi comuni tra dissociazione e deficit di mentalizzazione. Le capacità metacognitive sarebbero estremamente sensibili sia all’effetto dirompente delle emozioni che ne alterano la normale operatività, che alle esperienze traumatiche infantili che ne compromettono lo sviluppo.

Psicotraumatologia e diagnosi di trauma psicologico

Il disturbo acuto da stress (ASD) è stato introdotto nel DMS IV per dare visibilità alla situazione di forte sofferenza provata durante un’esperienza traumatica, che può successivamente dar vita al Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD).

Nel DSM 5 è definito secondo alcuni criteri peculiari, tra i quali ricordiamo:

  • L’esposizione a una situazione di forte minaccia, alla vita o all’integrità fisica (questo comprende anche la dimensione sessuale), per se stessi o altri.
  • La possibile comparsa di pensieri intrusivi o dissociazioni.
  • Impossibilità a provare emozioni positive.
  • Sintomi di evitamento, sia a livello cognitivo che comportamentale.
  • Irritabilità, difficoltà di concentrazione o ipervigilanza.

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) si sviluppa in seguito all’esposizione del soggetto ad un evento traumatico nel quale la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Come riportato dal DSM 5 l’evento traumatico viene rivissuto ripetutamente in diversi modi, ed il soggetto mette in atto un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. Si verificano inoltre alterazioni negative dell’umore o delle cognizioni, ed un’attenuazione della reattività generale, oltre che sintomi di aumentato arousal.

Shalev (2001) ha proposto che la complessità del disturbo possa essere meglio compresa come compresenza di diversi meccanismi, quali l’alterazione di processi neurobiologici, l’acquisizione di risposte condizionate di paura a stimoli correlati al trauma, e schemi cognitivi e di apprendimento sociale alterati.

Con il concetto di trauma complesso si fa rifermento invece ad esperienze traumatiche cumulative di cui è prevedibile il ripetersi per lunghi archi di tempo ma a cui è impossibile sottrarsi. Esempi evidenti sono i traumi intrafamiliari a cui è esposto il bambino che vive in famiglie maltrattanti o neglecting. La diagnosi ‘Disturbo Post-Traumatico Complesso’ (PTSD-C), proposta da Herman nel 1992, ha cercato di colmare la lacuna tra la diagnosi di Disturbo da Stress Post Traumatico, che descrive adeguatamente le conseguenze dei singoli eventi traumatici, e la sintomatologia dei traumi interpersonali ripetuti e di lunga durata, che comportano, specie se precoci, disregolazione emotiva, somatizzazione, disintegrazione e dissociazione.

La diagnosi di PTSD Complesso non è attualmente riconosciuta dal DSM 5, ma è al centro di un dibattito scientifico e culturale che rende la sua definizione ancora oggi controversa. La letteratura scientifica da anni si sta occupando di approfondire gli effetti a lungo termine dell’abuso, del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia, sulla salute mentale e sull’organizzazione di personalità dell’adulto (Adverse Childhood Experiences – ACE Studies). Il tentativo è anche di differenziarlo, attraverso i sintomi, dal Disturbo da Stress Post-Traumatico, che è legato all’esposizione ad un singolo evento di minaccia alla vita. La traumatizzazione cronica invece ha i sintomi più pervasivi e invalidanti, legati all’essere stati esposti a molti eventi traumatici nell’infanzia o nell’arco della vita adulta; in questo secondo caso si parla in clinica di ‘trauma cumulativo‘.

Questo tipo di esperienze traumatiche, che possono dare origine al Disturbo da Trauma Cumulativo, riguarda prevalentemente traumi interpersonali come l’abuso fisico e/o sessuale, l’abuso emotivo e il neglect, la violenza assistita e la separazione precoce, l’abbandono o il deterioramento della relazione primaria (a causa di malattie, droghe o detenzione) del caregiver.

Sono causa di traumatizzazione cronica anche esperienze di tortura, guerra, prigionia o migrazione forzata e in generale tutte le condizioni in cui lo stato di minaccia alla vita per se stessi o per i propri familiari resta attivo per un tempo prolungato, impedendo all’individuo ogni forma di protezione o difesa. Gli esiti psicopatologici di questo tipo di esperienze avverse, sono più complessi e pervasivi ed includono solo in parte i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico, ad oggi unica diagnosi riconosciuta ufficialmente.

Psicotraumatologia e trattamento del trauma psicologico

La CBT si rivela molto efficace subito dopo il trauma, sia per gestire i sintomi dell’ASD, sia per prevenire i PTSD.

Nello specifico il trattamento può avvenire tramite la psicoeducazione, per aumentare la consapevolezza nell’individuo dei suoi schemi e delle sue risposte disfunzionali e la gestione dell’ansia e la ristrutturazione cognitiva, per lavorare invece sulle core beliefs. Pare che proprio il focus sui meccanismi di mantenimento aiuti l’individuo a integrare il trauma ed evitare l’insorgere di PTSD.

Gli effetti sono visibili non solo nel qui ed ora, ma anche dopo 6 mesi, il che fa intendere un cambiamento che non si ferma solo al sintomo, ma va già almeno a livello di credenze intermedie; oltre ad una più bassa insorgenza di PTSD c’è anche una comparsa minore di sintomi di evitamento, un miglioramento quindi funzionale che ben contrasta l’ASD e una sua successiva evoluzione patologica in PTSD.

Anche un successivo studio longitudinale (Bryant et al., 2005) ha indicato come l’emergere di PTSD sia inferiore con un trattamento di CBT; inoltre, unendo la CBT all’ipnoterapia, si è notato un effetto benefico, anche se inferiore alla CBT usata singolarmente.

L’esposizione può essere fatta a livello cognitivo o in vivo per contrastare i meccanismi di evitamento sia a livello cognitivo che comportamentale.

La ristrutturazione cognitiva, con o senza l’ausilio dell’esposizione (fino a 20 incontri), sembra dare i risultati migliori in termini di permanenza nel tempo; questo può dipendere dal fatto che lavorare sulle credenze e gli schemi disfunzionali provoca un cambiamento a livello più profondo che lavorare sulla singola strategia di evitamento, fornendo anche schemi più flessibili e quindi maggiore coping.

Focalizzando le tecniche descritte all’insorgere dell’ASD e non riferendosi anche ai sintomi PTSD, l’esposizione sembra avere invece un ruolo fondamentale nel bloccare l’insorgere di altra sintomatologia; questo rinforza l’idea che un trattamento tempestivo sul sintomo possa permettere un lavoro successivo a livello più profondo senza permettere una degenerazione del quadro clinico.

Negli ultimi anni, la letteratura internazionale ha enfatizzato l’efficacia dell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) nel trattamento del Disturbo post-traumatico da stress. L’EMDR è stata presentata per la prima volta nel 1989 e sviluppata nel 1990 da Francine Shapiro e a oggi può essere definito a tutti gli effetti, un approccio empiricamente supportato per il trattamento di esperienze traumatiche che hanno contribuito allo sviluppo della psicopatologia o del disagio psichico nel paziente. Il cambiamento cognitivo che la terapia EMDR evoca, mostra che il soggetto può avere accesso a informazioni correttive e collegarle alla memoria traumatica e ad altre reti di memorie associate. L’integrazione del materiale positivo e negativo che avviene spontaneamente durante il processo di desensibilizzazione dell’EMDR somiglia all’assimilazione in strutture cognitive (in linea con la teoria del processamento adattivo dell’informazione), così come accade per le visioni del mondo, i valori, le credenze e l’autostima.

Psicotraumatologia e linee guida per il trattamento del trauma complesso

Pierre Janet (1989/1911), padre della moderna psicotraumatologia, fu il primo a suggerire la necessità di un trattamento suddiviso in fasi per costruire gradualmente la capacità integrativa del paziente. Da allora questo modello, detto Modello Trifasico, è rimasto lo standard di cura per il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso e per i Disturbi Dissociativi (Janet, 1898) e poi sviluppato dalla recente psicotraumatologia, all’interno della cornice teorica della Dissociazione Strutturale di Onno Van der Hart.

Modello trifasico

Fase 1 del Modello Trifasico: stabilizzazione

Gli obiettivi terapeutici di questa fase riguardano la riduzione dei sintomi, la stabilizzazione del funzionamento nella vita quotidiana, l’iniziale lavoro di creazione di un’alleanza terapeutica, l’iniziale lavoro di riconoscimento della parti dissociative e il contenimento delle emozioni soverchianti legate ai ricordi traumatici. La cura di sé, delle relazioni e delle principali attività quotidiane sono centrali in questa fase per aumentare senso di controllo e di autoefficacia nella gestione quotidiana.

La fase della stabilizzazione, in particolare, è di cruciale importanza nel lavoro con persone traumatizzate e può richiedere un lavoro anche molto lungo prima di poter accedere alla rielaborazione dei ricordi traumatici.

Per poter affrontare un ricordo traumatico il paziente deve collocarsi all’interno della ‘finestra di tolleranza’ dell’attivazione fisiologica e delle emozioni ed essere in grado di modulare tale attivazione; l’alleanza terapeutica deve essere sufficientemente solida e l’umore e le condizioni generali del paziente devono essere adeguate.

Durante la fase di stabilizzazione il paziente deve essere accompagnato a riconoscere l’importanza che le sue difese hanno rivestito nel corso dell’esperienza traumatica, compito della terapia è aiutare il paziente a riconoscere come alcuni aspetti di queste difese siano ormai anacronistici e ad utilizzare in maniera flessibile tutte le risposte del sistema di difesa (quelle di mobilizzazione e di immobilizzazione). Non solo: il paziente va accompagnato e sostenuto promuovendo il funzionamento nelle situazioni non minacciose della quotidianità, dando spazio alla libera espressività di ogni sistema motivazionale.

Fase 2 del Modello Trifasico: elaborazione delle memorie traumatiche

In questa fase il lavoro terapeutico è centrato sull’elaborazione dei ricordi traumatici, attraverso episodi specifici, immagini, aspetti sensoriali e cognitivi delle esperienze passate. L’integrazione dei ricordi traumatici che di volta in volta la persona riesce a tollerare, verso la soluzione dei legami di attaccamento disfunzionali con gli aggressori e verso la risoluzione delle fobie tra le parti dissociative, al fine di aiutarle ad essere più orientate al presente, riconoscendo i legami ma anche la distanza del passato traumatico rispetto alla vita quotidiana. l lavoro con i Disturbi Dissociativi e il PTSD complesso porta con sé delle sfide davvero impegnative e per procedere con l’elaborazione dei ricordi traumatici occorre avere un’idea abbastanza chiara del sistema interno del paziente, delle sue risorse, delle sua capacità integrative, di quanto siano intense la fobia per l’esperienza interna, la fobia per i ricordi traumatici, la fobia per l’attaccamento e la perdita dell’attaccamento, di quale sia e quanto sia forte il conflitto fra le parti. Il lavoro sulle memorie traumatiche pone il clinico di fronte a resistenze e blocchi. Come sottolinea Kathy Steele, il lavoro con la resistenza è IL lavoro con il trauma, non qualcosa che intralcia il lavoro. La resistenza è, infatti, una protezione contro un’integrazione che il sistema del paziente, o una parte di esso, vive come pericolosa. Questi pazienti hanno sperimentato l’impotenza, temono la perdita di controllo e la violazione dei loro confini: per questo quanto più la resistenza è severa ed egosintonica, tanto più occorre dar loro controllo e potere nel processo terapeutico, procedendo sempre per piccoli passi, con estremo rispetto.

Quindi nel lavoro di elaborazione delle memorie traumatiche i punti fondamentali sono:

  • Il mantenimento costante dell’attenzione duale tra presente e passato
  • Far muovere il paziente sempre dentro una ‘finestra di tolleranza emotiva’ per lui/lei tollerabile
  • La focalizzazione attenta sui segnali emotivi e somatici di attivazione delle difese (fight, flight, freeze, faint) come linea di confine per il lavoro di elaborazione
  • Il mantenimento della co-consapevolezza tra tutte le parti del paziente sul lavoro terapeutico
  • La promozione del dialogo tra le parti dissociative sempre attraverso la mediazione dell’Adulto sano, che via via riesce a guadagnare competenza e capacità di coping per gestire il dolore all’interno del suo sistema emotivo
  • La trasparenza, la chiarezza e la condivisione degli obiettivi terapeutici con il paziente
  • Il rispetto della volontà, della motivazione e del livello di energia del paziente in ogni fase
  • La focalizzazione molto precisa sul tema di lavoro scelto in ogni seduta, per non correre il rischio di elaborare troppi aspetti dello stesso evento, che il paziente non riesce a sopportare
  • Restare curiosi di fronte ai blocchi e alle resistenze, sono solo nuovi elementi da esplorare insieme al paziente e non comportamenti da interpretare
  • La flessibilità sugli obiettivi terapeutici e la disponibilità a fermarsi o tornare indietro quando emergono blocchi, fobie, nuovi conflitti o nuove parti nel corso del trattamento.

Fase 3 del Modello Trifasico: intergrazione della personalità e riabilitazione
Gli obiettivi terapeutici di questa fase sono: rafforzare le risorse, accettare il cambiamento e il lutto per le perdite del passato, costruire relazioni più funzionali e nutritive, sviluppare un senso di sé unificato e costruire le capacità di vivere pienamente la vita quotidiana.

I trattamenti riconosciuti come più efficaci nel trattamento del trauma complesso necessitano di una conoscenza approfondita e flessibilità di applicazione nell’integrazione di diversi approcci psico-corporei come EMDR, Psicoterapia Sensomotoria, Ipnosi e Focusing.

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