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La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte II: le basi neurali della cognizione sociale nella depressione

Il disturbo depressivo maggiore è associato a una compromissione del funzinamento sociale, compromettendo la qualità di vita e il funzionamento globale

Di Filippo Turchi, Stefania Righini

Pubblicato il 31 Ott. 2019

Aggiornato il 10 Apr. 2020 10:41

Il funzionamento sociale dei pazienti con disturbo depressivo maggiore è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze hanno cercato di individuare i correlati neurobiologici coinvolti.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Le basi neurali della cognizione sociale nella depressione (Nr. 2)

 

Il disturbo depressivo maggiore (MDD) è caratterizzato da episodi di flessione significativa del tono dell’umore, della durata di almeno due settimane, con perdita di interesse o piacere, maggiore intensità e labilità affettiva, alterazioni a livello psicomotorio e neurovegetativo, nonché da un’importante compromissione del funzionamento a livello sociale ed interpersonale. E’ il disturbo mentale maggiormente diffuso (prevalenza lifetime di circa il 7%) e costituisce un’ ”emergenza globale” secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il funzionamento sociale dei pazienti con MDD è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze si sono concentrati su uno dei principali domini della social cognition (Couture et al, 2006), la comprensione emotiva, cercando di individuare i correlati neurobiologici coinvolti. Nei soggetti sani la ricerca ha già evidenziato come gli stimoli cognitivo-affettivi vengano processati da un complesso network neurale che sottenderebbe le competenze di social cognition (Adolphs, 2001; 2009; Altshuler, Ventura, Van Gorp et al. 2004; Olson, Plotzker & Ezzyat, 2007).

La letteratura evidenzia come la Depressione Maggiore sia associata a compromissioni nella dimensione della social cognition e di conseguenza ad un peggior funzionamento socio-cognitivo, in particolare nella comprensione ed elaborazione delle emozioni, soprattutto facciali.  Maggiormente in discussione è la questione che riguarda la persistenza e l’eventuale gravità di tali compromissioni socio-cognitive anche nelle fasi di remissione dalla sintomatologia depressiva.

Complessivamente infatti gli studi che hanno utilizzato la fMRI evidenziano nei pazienti depressi una compromissione nelle capacità di identificazione ed elaborare delle emozioni facciali, che correlerebbero con talune alterazioni strutturali e funzionali, tipiche della fase di umore deflesso, la quale tende però a mantenersi anche durante le fasi eutimiche (vds. review Turchi et al., 2017). Stesse evidenze scientifiche riguardano gli studi che hanno utilizzato altri paradigmi rispetto all’elaborazione delle emozioni facciali o che hanno analizzato dal punto di vista neurale pazienti con MDD in resting state, i quali mostrano anomalie fronto-limbiche persistenti anche nei periodi liberi da sintomi depressivi (vds. review Turchi et al., 2017).

Nello specifico gli studi evidenziano una serie di alterazioni sia a livello corticale che sottocorticale, che nella connettività funzionale fra queste regioni. Tali alterazioni rappresentano complessivamente una diminuita capacità regolatoria di tipo top down, ad opera delle strutture corticali su quelle limbiche deputate al riconoscimento ed alla rielaborazione delle emozioni, sia negative che positive, durante i task di elaborazione delle emozioni espresse dai volti. Su questa linea anche le sopra riportate alterazioni a livello di connettività funzionale, che mostrano una compromissione nel funzionamento della stessa in soggetti con vulnerabilità alla depressione. Anche gli studi che hanno utilizzato paradigmi diversi sottolineano la presenza, in pazienti con MDD in fase depressiva, di bias cognitivi negativi durante l’elaborazione emotiva anche in campioni di bambini e adolescenti.

La ricerca evidenzia inoltre una difficoltà di regolazione anche bottom up, la quale si manifesta in particolare nell’iperattivazione dell’amigdala durante il riconoscimento dell’emozione di tristezza (mood congruity effect) oppure, in pazienti con MDD grave o moderato, nel valutare l’espressione emotiva di volti neutri come tristi, ed in associazione ad un bias della funzione attentiva che riguarda un’estensione selettiva dell’attenzione nei confronti delle emozioni di tristezza e rabbia. Sembra inoltre che vi siano delle dificoltà di regolazione riguardo all’emozione della colpa, che unitamente all’autosvalutazione, tende a persistere anche in fase eutimica. In linea con questi risultati alcuni studi evidenziano un’ipoattività nell’amigdala durante l’elaborazione di emozioni facciali a valenza positiva, il che potrebbe indicare una difficoltà nel processare le emozioni positive piuttosto che quelle negative (vds. review Turchi et al., 2017).  Si pensa che tali meccanismi, mood congruity effect, svolgano un ruolo di amplificazione e mantenimento dell’episodio depressivo. Infatti, una persona depressa tenderà ad identificare l’emozione con maggiori capacità ed entrerà maggiormente in risonanza emotiva quando incontrerà nell’altro l’emozione della tristezza e questo potrebbe concorrere sia allo slatentizzarsi di episodi depressivi che all’aumentare della loro durata ed intensità amplificando di fatto il vissuto di tristezza, tanto che qualche autore l’ha proposta quale possibile “marcatore di tratto” per la vulnerabilità al MDD, in accordo con il modello cognitivo della depressione (Abramson, Seligman & Teasdale, 1978).

Questa particolare sensibilità responsiva nei confronti della tristezza non potrà inoltre essere opportunamente regolata dai controlli cognitivi discendenti a causa della diminuita attivazione corticale e di connettività funzionale di cui abbiamo già parlato (vds. review Turchi et al., 2017). E’ possibile che una lunga storia clinica, con conseguente compromissione interpersonale e sociale, possa sottendere una generale compromissione delle funzioni metacognitive, ma si è altresì ipotizzato che sia proprio questa compromissione a contribuire all’aumentato rischio di incorrere in episodi depressivi più gravi svolgendo in definitiva un ruolo di variabile inter-dipendente.

E’ interessante sottolineare come, nonostante in molti casi tali anomalie possano essere adeguatamente regolate da meccanismi corticali discendenti di ipercompenso, i quali diventano sempre più efficienti tanto più il soggetto si allontana dall’episodio depressivo, la letteratura più recente tende ad evidenziare, anche dopo la remissione sintomatologica, la persistenza di anomalie residuali a carico delle regioni neurali deputate al processamento degli stimoli carichi emotivamente in un’importante quota di soggetti (vds. review Cusi et al., 2012 e Turchi et al., 2017). Tale funzionamento regolatorio non pare infatti ugualmente efficace fra i soggetti affetti da MDD e ci potremmo ragionevolemente attendere che i soggetti con episodi depressivi ricorrenti non riescano a ripristinare in modo stabile livelli di efficacia buoni. Inoltre è probabile che la tendenza ad interpretare attraverso una lente negativa eventi ed emozioni esterne, fin dalla prima infanzia, possa rappresentare un ulteriore elemento di vulnerabilità in grado di concorrere negativamente al decorso della patologia, nonché di favorire nuovi episodi depressivi in età adulta, così come proposto da T. A. Beck (2008) a proposito del concetto di cognitive vulnerability.

E’ quindi ipotizzabile che possano esistere alterazioni neurofunzionali le quali potrebbero costituire una base di vulnerabilità piuttosto che rappresentare la conseguenza degli episodi depressivi, in linea con quanto evidenziato da Liu et al. (2013), i quali hanno mostrato iperattivazione del giro mediale frontale sinistro non solo nel campione clinico costituito da pazienti con MDD, ma anche nei loro fratelli sani, concludendo che questo possa essere considerato un tratto endofenotipico di vulnerabilità per la depressione maggiore.

In ottica futura riteniamo importante approfondire ulteriormente il collegamento fra alterazioni comportamentali ed il livello neurobiologico riguardanti la social cognition nel MDD, anche e soprattutto dal momento che non solo i trattamenti di farmacoterapia, ma anche la CBT, sono in grado di svolgere un’azione di normalizzazione e reversibilità dei substrati neurali deputati all’elaborazione emotiva. Sembra infatti che la CBT possa svolgere un’azione attivante delle regioni associate alla regolazione delle emozioni ed all’elaborazione cognitiva di livello superiore, mentre il trattamento farmacologico possa svolgere un’azione attivante delle regioni sottocorticali e prefrontali (Cusi et al., 2012; Turchi et al., 2017).

Altri interessanti aspetti da approfondire potrebbero riguardare lo studio del ruolo rappresentato da altre variabili che fanno parte della social cognition, tra cui l’empatia (Preston e de Waal; 2001; Gallese; 2003), la Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985) ed il sistema dei neuroni specchio (Gallese et al.; 1996; Rizzolatti et al.; 1996).

Ragionare tutti insieme su questi aspetti ed approfondirli in maniera scientifica risulterebbe molto utile anche per poter ipotizzare delle integrazioni, dal punto di vista della psicoterapia, che permettano o favoriscano l’abilitare o la riabilitazione del funzionamento sociale dei nostri pazienti con MDD, con relative rispercussioni sulla loro qualità di vita e sul loro livello di funzionamento globale nel real world, a loro volta fattori prognostici protettivi.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Abramson, L. Y., Seligman, M. E., & Teasdale, J. D. (1978). Learned helplessness in humans: Critique and reformula- tion. Journal of Abnormal Psychology, 87(1), 49–74
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