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Mindful Interbeing Mirror Therapy. Un metodo innovativo per un nuovo approccio terapeutico integrativo sulla personalità

La Mindful Interbeing Mirror Therapy fa parte delle psicoterapie di ultima generazione e lavora sull'asse integrazione/dissociazione della personalità.

Di Guest

Pubblicato il 04 Feb. 2019

Aggiornato il 06 Feb. 2019 09:39

Da cinque anni è stata creata e sviluppata la Mindful Interbeing Mirror Therapy da Alessandro Carmelita e Marina Cirio. Questa Terapia in questi anni è stata utilizzata con tantissimi pazienti dando risultati molto promettenti.

 

La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.

Alessandro Carmelita e Marina Cirio

 

Negli ultimi anni diversi approcci psicoterapeutici si sono interessati allo studio dello sviluppo della personalità, sottolineando il ruolo delle relazioni d’attaccamento, delle esperienze traumatiche precoci e della dissociazione nella costruzione del Sé. Molto risalto è stato dato alla definizione delle parti della personalità nei pazienti che hanno subito traumi e che presentano sintomatologie gravi, come i disturbi di personalità o il PTSD.

In linea con questi contributi, molti interventi terapeutici si focalizzano oggi sull’integrazione delle parti dissociate in un Sé coeso, e la relazione terapeutica assume un ruolo centrale nella riparazione degli stati dissociati conseguenti a traumi relazionali più o meno gravi e precoci.

La Mindful Interbeing Mirror Therapy (MIMT) può rappresentare un approccio innovativo nel panorama delle psicoterapie di ultima generazione, accomunate dalla focalizzazione sull’asse integrazione/dissociazione della personalità. Presentata per la prima volta al congresso internazionale di Schema Therapy ad Amsterdam nel maggio 2018, la Mindful Interbeing Mirror Therapy si caratterizza per il particolare metodo di intervento: paziente e terapeuta sono posti entrambi davanti allo specchio, e interagiscono attraverso la loro immagine riflessa. Ma oltre a questo, è definita da un modello teorico di riferimento specifico. Possiamo così sintetizzare i principi cardine di questo modello:

  • lo specchio come veicolo di ricostruzione del sé individuale e relazionale
  • la terapia come occasione di riparazione e ricostruzione del sé integrato
  • la compassione come ingrediente fondamentale nell’integrazione intrapsichica e relazionale
  • la dissociazione controllata come catalizzatore nell’attivazione delle parti

Costruzione del sé: il riconoscimento allo specchio nello sviluppo

Il riconoscimento della propria immagine allo specchio è associato al processo di costruzione dell’identità (per una rassegna, v. Moro, Pernigo, 2006). La capacità del bambino di riconoscere la propria immagine allo specchio, intorno ai due/tre anni, si sviluppa di pari passo con un senso di coerenza interna e con la costruzione di un senso di sé unitario e distinto dagli altri, favorito anche dallo sviluppo graduale della memoria autobiografica (Fivush e Graci 2017, Markowitsch e Staniloiu, 2011).

Il riconoscimento del proprio volto riflesso nello specchio, inoltre, attiva zone specifiche dell’emisfero destro, deputato al riconoscimento di sé, così come è implicato nel riconoscimento dei volti umani e nell’elaborazione del flusso di informazioni emotive presenti in una comunicazione interattiva (Schore, 2016). Se nello sviluppo individuale il processo di costruzione di sé parte dal riconoscimento allo specchio, possiamo pensare che lo specchio sia un ottimo campo da gioco per lavorare sull’integrazione delle parti di Sé, un modo efficace per ricostruire un sé completo, integrato e coeso al suo interno. Una psicoterapia indirizzata alla ri-costruzione del sé e al rafforzamento delle funzioni integrative di coscienza può migliorare la propria efficacia utilizzando lo specchio in modo consapevole, riattivando le aree coinvolte nel riconoscimento di sé e nel processo di costruzione della propria identità.

La dimensione relazionale nello specchio

Oltre a partecipare al processo di costruzione del sé, il riconoscimento allo specchio attiva nell’individuo una dimensione relazionale, in cui l’individuo è contemporaneamente oggetto e soggetto. Di fronte allo specchio realizziamo di esistere in uno spazio intersoggettivo, vedendoci come gli altri possono vederci, poiché si attivano le aree dell’emisfero destro coinvolte nel riconoscimento delle emozioni altrui (Schore, 2016 ).

L’osservazione del proprio volto, e delle proprie emozioni veicolate dalle espressioni facciali, sembra produrre una reazione inconscia e immediata di risposta empatica all’espressione facciale riflessa nello specchio. Come spiega l’ipotesi del “contagio emotivo” (Sonnby- Borgstrom, 2002; Caputo, 2010; Hsee, Hatfield, Carlsson e Chetomb, 1990), gli esseri umani tendono a mimare gli aspetti verbali, fisiologici e comportamentali dell’esperienza emotiva di un’altra persona, sperimentando così la stessa emozione. La mimica facciale rappresenta un aspetto fondamentale di questo fenomeno. Di fronte allo specchio, il fenomeno di contagio emotivo risulta amplificato, grazie ad un feedback continuo tra l’espressione del viso e l’immagine riflessa. La risposta connessa all’osservazione del proprio volto porta automaticamente e inconsapevolmente a modificazioni nella mimica che vengono riflesse nello specchio e producono una sorta di contagio emotivo in cui il soggetto si trova in un circuito chiuso di connessione empatica con la propria immagine riflessa (Caputo, 2010).

Lo specchio rappresenta quindi un contesto privilegiato in cui si attivano contemporaneamente, in modo amplificato, aspetti emotivi, neurofisiologici e cognitivi legati allo sviluppo del sé e alla dimensione relazionale, intersoggettiva dell’individuo. Una relazione terapeutica condivisa entro questa cornice può usufruire delle enormi potenzialità comprese nell’utilizzo di questi aspetti.

La relazione terapeutica: sintonizzazione momento per momento

A partire dagli studi di Porges (2014) sull’attivazione del sistema di ingaggio sociale nelle relazioni significative, e quindi anche nella relazione terapeutica, troviamo diversi dati a sostegno dell’importanza della connessione momento per momento tra gli stati emotivi del paziente e del terapeuta nel determinare l’esito di un processo terapeutico (Schore, 2016).

La capacità di esprimere le proprie emozioni, presente poche ore dopo la nascita (Meltzoff, Moore, 1977), unita alla scoperta dei neuroni specchio, danno sostegno all’ipotesi dell’intersoggettività come condizione intrinseca, incarnata dell’essere umano (Ammaniti, Gallese, 2014). Analogamente, Schore (2005) definisce la relazione terapeutica come una relazione tra emisferi destri, in cui il terapeuta svolge la funzione regolativa emotiva propria della madre nella relazione madre – bambino, vale a dire la sintonizzazione del proprio stato emotivo con quello dell’altro, e la riparazione interattiva per la regolazione degli stati emotivi negativi. I segnali relazionali non verbali sono veicolati dall’emisfero destro e si strutturano quindi ad uno stadio precoce di sviluppo, pre-linguistico e pre-cognitivo, definendo i contenuti della memoria procedurale implicita, vale a dire il nucleo del senso di un sé coerente, prerequisito per lo sviluppo dell’identità.

La relazione terapeutica è quindi una relazione emotivamente significativa, in cui la maggior parte degli scambi interpersonali avviene ad un livello implicito, emotivo, parallelamente alla comunicazione verbale, consapevole e narrativa. In quest’ottica, la comunicazione emotiva del terapeuta assume una rilevanza innegabile. Segnali come lo sguardo, l’espressione facciale, la mimica, le variazioni nella postura arrivano velocemente e non intenzionalmente al paziente, contribuendo alla creazione di una relazione più o meno sicura (Schore, 2016).

La capacità di comprendere lo stato emotivo di una persona attraverso l’imitazione delle espressioni facciali rappresenta la prima fase dell’attivazione dei neuroni specchio. La fase successiva è quella in cui la persona, avendo “acceso” in sé le stesse zone corticali e sperimentando un’attivazione emotiva e fisiologica simile, si pone in posizione di cura nei confronti dell’altro (Gallese, 2003).

La capacità di rispecchiare lo stato emotivo dell’altro viene sperimentata nella relazione d’attaccamento e condiziona il processo di costruzione del sé. Quando il caregiver non è in grado di rispecchiare efficacemente gli stati interni del bambino, il senso di sé che il bambino svilupperà sarà meno coeso e meno integrato. Per questo un intervento terapeutico efficace deve prevedere la riparazione al mancato rispecchiamento, a partire proprio dal contatto visivo. E il contatto visivo è uno degli elementi cardine della Mindful Interbeing Mirror Therapy.

La compassione nella relazione terapeutica e la self-compassion

La Mindful Interbeing Mirror Therapy permette al paziente di essere costantemente in una relazione consapevole e focalizzata con se stesso, e nello stesso tempo con il terapeuta, che svolge la funzione di contenimento, guida e ancoraggio emotivo nell’esplorazione delle diverse parti di sé e in relazione tra loro.

Lo stato emotivo che il paziente sperimenta nei confronti della propria immagine rappresenta la relazione che ha in quel momento con la propria idea di sé e la possibilità di sviluppare un sentimento di compassione rappresenta uno degli obiettivi del percorso terapeutico della Mindful Interbeing Mirror Therapy. Il terapeuta può essere lo strumento per favorire lo sviluppo della self-compassion, sempre attraverso la condivisione dello sguardo attraverso lo specchio. Il terapeuta, esprimendo autentica connessione con lo stato del paziente, lo aiuta ad entrare in una relazione compassionevole con la propria immagine riflessa, diventando veicolo e facilitatore del processo di integrazione tra una parte sana, compassionevole, e una parte emotiva, sofferente. Il paziente può sperimentare il passaggio emotivo fondamentale dal disgusto per la propria immagine alla tenerezza e amore per sé.

La maggior parte delle informazioni veicolate dall’emisfero destro nella comunicazione intersoggettiva passa attraverso le espressioni del viso e il contatto oculare, così come gli elementi preverbali del linguaggio sembrano attivare la memoria procedurale implicita connessa alla relazione d’attaccamento, rendendo sia il paziente che il terapeuta aperti e ricettivi rispetto a contenuti emotivi significativi. Utilizzare in terapia gli aspetti non verbali, soprattutto il contatto visivo, in modo molto più consapevole all’interno del percorso di cura rende più potenti e più veloci quei momenti di incontro tra paziente e terapeuta che rappresentano il fulcro della relazione terapeutica. E sono questi momenti di incontro a determinare i cambiamenti più profondi e duraturi nella regolazione emotiva del paziente.

La dissociazione controllata come strumento terapeutico

Un altro aspetto importante utilizzato nella procedura MIMT è il raggiungimento di uno stato di dissociazione controllata, in cui il soggetto osserva un punto specifico nello specchio per un certo periodo di tempo. Questo fenomeno è differente dai processi inconsci coinvolti nei disturbi dissociativi dell’identità. Come dimostra la pratica clinica, l’utilizzo di questa tecnica permette di accedere ad un livello di dissociazione controllata e consapevole in cui emergono contenuti relativi al sé che normalmente rimangono ad un livello sottocorticale, inconsapevole.

Lo specchio può produrre un senso di alienazione e favorire un certo grado di dissociazione, quindi, in cui l’individuo è soggetto e oggetto contemporaneamente, e questo stato di coscienza lievemente alterato può risultare molto produttivo in terapia (Caputo, 2014). Quando il paziente rimane entro la finestra di tolleranza, integra in modo più efficace stimolazioni interne ed esterne (Ogden, 2012; Siegel, 2013). Diventa più facile lavorare con le parti distinte della personalità del paziente, definendole e differenziandole, per poi integrarle in un sé più armonico e coeso, anche in virtù del fatto che il riconoscimento di sé allo specchio è collegato, a livello neuronale, al processo di costruzione del Sé.

La Mindful Interbeing Mirror Therapy rappresenta un approccio integrativo delle parti di personalità, allo scopo di rafforzare una parte compassionevole, in relazione con la parte emotiva, sofferente, portatrice di esperienze traumatiche.

La possibilità di visualizzare contemporaneamente paziente e terapeuta nello specchio può avere un effetto molto incisivo, poiché il paziente ha la possibilità di legare l’immagine di sé e del terapeuta all’esperienza emotivamente significativa rappresentata dalla seduta e dal percorso psicoterapeutico.

La procedura

Muovendosi lungo i binari degli aspetti menzionati prima, abbiamo costruito un protocollo di intervento strutturato e preciso, in cui il paziente viene guidato dal terapeuta nel percorso di fronte allo specchio, allenandosi ad entrare in uno stato di dissociazione controllata che favorisce l’emergere di contenuti inconsci, e focalizzandosi sulla relazione con la propria immagine nel qui ed ora. L’intervento terapeutico si struttura anche sullo sviluppo del sé, e quindi sul senso di appartenenza e di coerenza interna tra gli eventi di vita del passato, su cui il paziente ha costruito la propria identità, e il momento attuale, rappresentato dall’ immagine riflessa nello specchio.

Il protocollo MIMT prevede un intervento specifico e differenziato nei confronti delle diverse parti della personalità. È l’immagine riflessa del paziente che rappresenta l’attivazione e il passaggio da uno stato dell’io all’altro nel corso della seduta. Il terapeuta, insieme al paziente, osserva il cambiamento e registra l’attivazione delle diverse parti, favorendo l’accesso alla parte emotiva.
Ogni parte della personalità trova spazio all’interno della cornice dello specchio e il terapeuta, anch’egli all’interno della stessa dimensione, interviene in modo differenziato. Si lavora sull’attivazione momento per momento, ma si lavora anche sulla ricostruzione della propria storia, a partire dalle prime fasi di vita, sia ad occhi aperti che in immaginazione.

Obiettivo della terapia è la costruzione di una relazione compassionevole tra la parte sana del paziente e la parte sofferente, emotiva. Allo stesso modo, la capacità di provare compassione viene estesa alla dimensione relazionale, lavorando momento per momento sulla relazione terapeutica e, gradualmente, sulla generalizzazione alla vita del paziente.

Riteniamo che questo utilizzo dello specchio in terapia possa rappresentare un punto di svolta importante nel metodo di intervento terapeutico, proprio per le peculiarità sopra descritte. Ciò che ci rende forti e sicuri in questa convinzione non è tanto un’aprioristica adesione a modelli teorici, peraltro importanti e fondati, ma una pratica clinica sviluppata negli ultimi cinque anni, che ha portato a risultati per noi altamente promettenti.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ammaniti, M., Gallese, V. (2014). La nascita dell'intersoggettività. Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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  • Ogden, P., Minton, K., Pain, C. (2012). Il trauma e il corpo. Manuale di psicoterapia sensomotoria. Istituto di Scienze Cognitive Editore.
  • Pernigo, S., Moro, V. (2006). Il contributo della neuropsicologia. Disturbi nello schema corporeo in seguito a lesioni cerebrali. DiPAV quaderni. Milano: Franco Angeli Editore.
  • Porges, S.W. (2014). La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell'attaccamento, della comunicazione e dell'autoregolazione. Roma: Giovanni Fioriti editore.
  • Schore, A.N. (2005). Attaccamento, regolazione degli affetti ed emisfero destro in via di sviluppo: collegamenti tra le neuroscienze dello sviluppo e la pediatria. Pediatrics in Review, vol 26, pp. 204-212.
  • Schore, A.N. (2016). La scienza e l'arte della psicoterapia. Istituto di Scienze Cognitive Editore.
  • Siegel, D. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell'esperienza interpersonale. Seconda edizione. Milano: Raffaello Cortina editore.
  • Sonnby-Borgstrom (2002). Automatic mimicry reactions as related to differences in emotional empathy. Scandinavian Journal of Psychology vol 43 pp. 433 - 443.
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