L’essere stati vittime di un trauma o di maltrattamenti in età infantile può determinare una tendenza a interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno non caratterizza solo l’età infantile ma si protrae sino all’età adulta
La capacità di riconoscere e differenziare le espressioni facciali neutre da quelle emotive si sviluppa durante l’infanzia (Durand, Gallay, Seigneuric, Robichon & Baudouin, 2007).
Dunque non sorprende come, talvolta, l’essere stati vittima di maltrattamenti in età infantile ostruisca lo sviluppo di tale capacità, determinando una tendenza ad interpretare negativamente le espressioni facciali neutre. Questo fenomeno, inoltre, non caratterizza solo l’età infantile (Pollak, Cicchetti, Hornung & Reed, 2000) ma si protrae sino all’età adulta (Wagner & Linehan, 1999).
Ciò detto, risulta necessario approfondire quanto riscontrato anche in alcune popolazioni cliniche. Difatti, in presenza di traumi o maltrattamenti subiti in età infantile, gli individui affetti da disturbo borderline di personalità, mostrano una tendenza ad interpretare le espressioni facciali neutre come espressioni di rabbia (Mitchell, Dickens & Picchioni, 2014) o di tristezza (Meehan et al., 2017), mentre coloro i quali presentano un disturbo dissociativo dell’identità, quando vivono uno stato emotivo connesso al trauma, tendono ad interpretare le espressioni neutrali come maggiormente minacciose (Schlumpf et al., 2013) .
In contesti di vita quotidiana, è stato osservato come anche gli individui affetti da un disturbo da stress post-traumatico (PTSD; American Psychiatric Association, 2013), non riescano a differenziare le espressioni di rabbia da quelle neutre ma, nonostante ciò, in letteratura esiste un solo studio che si sia proposto di analizzare parzialmente tale fenomeno, senza riscontrare differenze significative rispetto a controlli sani (Nazarov et al., 2014).
È a partire da queste considerazioni, e dai suddetti limiti, che un gruppo di ricercatori (Pfaltz et al., 2019) ha sviluppato l’ipotesi che individui affetti da un disturbo da stress post traumatico presentino un deficit nel riconoscimento delle espressioni neutre, tendendo a classificarle come espressioni negative. Inoltre, gli autori si sono proposti di verificare se tale fenomeno fosse più strettamente connesso al maltrattamento subito durante l’infanzia che alla diagnosi di PTSD. Supponendo che i bias osservati nel disturbo borderline di personalità o nel disturbo dissociativo dell’identità potessero essere collegati all’esperienza di maltrattamento nell’infanzia, gli autori hanno ipotizzato che gli individui con esperienze infantili più traumatiche avrebbero interpretato più frequentemente le espressioni facciali come negative rispetto ai controlli.
Dato che precedenti studi hanno dimostrato come il numero di eventi traumatici subiti, l’alessitimia e la dissociazione possono influenzare il riconoscimento delle emozioni in individui affetti da PTSD (Passardi, Peyk, Rufer, Wingenbach & Pfaltz, 2019), gli autori hanno deciso di includere nell’analisi anche le suddette variabili.
Allo studio hanno preso parte individui affetti da PTSD (n =39), un gruppo di controllo composto da individui sani ma vittime di traumi (n=44) e un gruppo di controllo, costituito da individui sani esenti esperienze traumatiche rilevanti (n= 35).
Ai partecipanti sono stati presentati 300 filmati, di cui 270 raffiguranti espressioni facciali emotive (positive e negative) e 30 espressioni neutre. È stato dunque chiesto loro di classificare nel più breve tempo possibile le emozioni mostrate, in modo che essi potessero rispondere in maniera spontanea, così come avviene durante la vita quotidiana.
I risultati non hanno mostrato differenze significative tra i risultati ottenuti dai soggetti affetti da PTSD e i soggetti di controllo, nel riconoscimento delle espressioni neutre. Di contro, gli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale infantile più invasive hanno ottenuto risultati peggiori nel riconoscimento delle espressioni facciali neutre rispetto agli individui che hanno subito esperienze di abuso sessuale meno invasive. Inoltre, coloro i quali sono stati vittime di abusi sessuali infantili e di abbandono fisico, tendono ad interpretare le espressioni facciali neutre come maggiormente colleriche. Più incisiva sarà stata l’esperienza di abuso sessuale, più i soggetti tenderanno ad interpretare le espressioni facciali neutre come disprezzo, rispetto a coloro i quali abbiano subito esperienze meno incisive, o esperienze di abbandono fisico o di abuso emotivo.
Sulla base dei risultati emersi, si è dunque concluso che, il maltrattamento sui minori, in particolare l’abuso sessuale infantile, possa influire più significativamente sulla difficoltà relativa al riconoscimento delle espressioni neutre e alla conseguente interpretazione negativa delle suddette, rispetto alla presenza di disturbi mentali come il disturbo da stress post-traumatico o al disturbo borderline di personalità, o ancora rispetto a variabili come l’alessitimia e la dissociazione.
A tal proposito, è stato ipotizzato che ciò sia in parte dovuto al fatto che tali eventi siano spesso accompagnati o seguiti da una neutralità espressiva da parte dei carnefici. Le vittime possono quindi aver imparato a non fidarsi dell’apparente calma delle espressioni neutre, a causa delle aspettative che esse siano seguite da esperienze avverse (Schlumpf et al., 2013).
Gli autori hanno dunque concluso che l’abuso sessuale infantile possa esercitare un danno non solo sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei soggetti, ma anche sulle abilità sociali, ulteriormente inficiate dall’incapacità di identificare correttamente le espressioni facciali.
Naturalmente, qualora le ricerche successive dovessero confermare quanto appena esposto anche in condizioni di vita reale, ciò comporterebbe rilevanti conseguenze in ambito clinico. Nello specifico, in prima battuta sarebbe necessario riconoscere gli individui portatori di tali difficoltà, in quanto potrebbero mostrare risposte comportamentali disadattive ad espressioni neutre mostrate dal proprio interlocutore, generando problematiche di tipo relazionale (Cloitre, Scarvalone & Difede, 1997), anche all’interno del setting psicoterapico.
Di conseguenza, al fine di migliorare la relazione terapeutica, bisognerebbe sensibilizzare maggiormente i clinici circa il suddetto fenomeno, in modo che essi possano prestare una maggiore attenzione alla propria comunicazione non-verbale e, al contempo, circoscrivere in una cornice di significato più puntuale le risposte dei propri pazienti.