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Lesioni cerebrali: quali conseguenze sulle relazioni sociali?

Valentina Goduto

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una nuova ricerca ha scoperto che bambini che hanno avuto un trauma cranico possono avere delle conseguenze sulla vita sociale per gli anni a venire.

Maggiori difficoltà sono state riscontrate nella capacità di concentrazione e nel ricordare le cose con ovvie conseguenze sul modo di interagire.

Per il loro studio, i neuroscienziati presso la Brigham Young University (BYU) hanno esaminato un gruppo di bambini dopo tre anni da una lesione cerebrale traumatica, più comunemente causata da incidenti stradali. Hanno scoperto che una lesione persistente in una regione specifica del cervello poteva predire la salute della vita sociale dei bambini.

Per lo studio, pubblicato sul Journal of Head Trauma Rehabilitation, Gale e Ashley Levan hanno confrontato la vita sociale dei bambini e la capacità di pensiero con lo spessore dello strato esterno del cervello nel lobo frontale.

Le misurazioni cerebrali sono state effettuate con risonanza magnetica (MRI), mentre le informazioni sociali sono state raccolte dai genitori su una varietà di temi, come la partecipazione dei loro figli in gruppi, il numero di amici, e la quantità di tempo trascorso con gli amici.

Gli scienziati BYU hanno anche scoperto che lesioni fisiche e il ritiro sociale sono correlati con la competenza cognitiva”, definita come la combinazione di memoria a breve termine e velocità di elaborazione del cervello.

Nella interazioni sociali abbiamo bisogno di elaborare il contenuto di ciò che una persona sta dicendo oltre a quello dei segnali non verbali. Dobbiamo quindi possedere le informazioni nella nostra memoria di lavoro per essere in grado di rispondere in modo appropriato. Se si interrompe la memoria di lavoro o la velocità di elaborazione possono verificarsi difficoltà nelle interazioni sociali, afferma Levan.

Altri studi su bambini con ADHD, disturbo in cui sono interessati i lobi frontali, mostrano che la terapia può migliorare la memoria di lavoro.

I ricercatori sperano che gli studi futuri con MRI di BYU potranno valutare se i miglioramenti nella memoria di lavoro possono “curare” le difficoltà sociali causate da lesioni alla testa.

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BIBLIOGRAFIA:

Corpo Celeste (2011) di Alice Rohrwacher- Psicologia Film Festival

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

11° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Mercoledì 7 Maggio ore 21,00

presso il Cecchi Point, via Antonio Cecchi 17

con la proiezione del film

CORPO CELESTE

di Alice Rohrwacher (2011)

presenta il dott. Dario Consoli

Ingresso libero

SCARICA LA LOCANDINA

 PFF - corpo celeste - Locandina

 PFF PROGRAMMA 2013-2014

 

Il Film

Al centro della storia c’è Marta ed i corsi di catechismo che la stessa frequenta per accostarsi alla cresima. Con lei una famiglia in difficoltà e la comunità religiosa di una città meridionale. Persone disposte all’accoglienza a patto che ci si adegui ai rituali di una civiltà conservatrice e chiusa. L’ingenuità di Marta e il suo non riconoscersi nei comportamenti che le verranno imposti la faranno progressivamente distaccare da quel mondo.

Se l’alienazione in senso lato è il segno principale che percorre tutto il film, non solo nel girovagare e nello spaesamento di Marta m anche per la presenza di un umanità con cui è impossibile comunicare – il prete del paese dedicato agli affari della politica più che a quelli evangelici, ma anche l’insegnante di catechismo chiusa all’interno delle formule imparate a memoria ed impartite senza alcun spirito critico, e ancora il Vescovo e la sua curia intenti a soddisfare i propri bisogni nella scena che li vede attendere i preparativi della cerimonia chiusi in una stanza a mangiare ed incuranti dell’esistenza dei fedeli – il film della Rohrwacher è tutto giocato nella dialettica tra la rarefazione del suo personaggio principale, Marta, e la sovraesposizione delle persone che la circondano. Tanto lei è introspettiva e quasi stupita nella scoperta delle cose, quanto gli altri sono invadenti e rumorosi nell’occupazione dello spazio. Al corpo minuto della bambina si oppone l’opulenza sgangherata del corpo ecclesiastico in un alternanza di rumori fraudolenti e di vuoti siderali.
Girato con stile scarnificato e oggettivo, “Corpo celeste” è organizzato come un racconto di formazione, in cui l’apprendistato del personaggio procede di pari passo con la scoperta delle sovrastrutture che regolano la società dove egli si muove. Intimo ed allo stesso tempo sociale, il film costringe lo spettatore a sintonizzarsi sulle onde emotive della storia grazie ad una scrittura che preferisce suggerire più che esplicitare. I rumori di fondo e quelli sparati a tutto schermo, il contrasto tra la modernità del centro urbano e l’arcaicità del paesaggio naturale rendono la narrazione per lunghi tratti ipnotica e paradossalmente sospesa in un limbo di tragica attesa.

La regista

Alice si laurea a Torino in Lettere e Filosofia. Successivamente, ottiene un Master in sceneggiatura e linguaggio documentario presso la videoteca Municipal di Lisbona e un Master in tecniche narrative, sceneggiatura e drammaturgia presso la Scuola Holden di Torino.

La sua prima esperienza di lavoro cinematografico è nella direzione e nel montaggio del documentario Un piccolo spettacolo (2005), dove si occupa pure del soggetto, della sceneggiatura e della fotografia. La pellicola ottiene il primo premio alla Festa Internazionale del Cinema Documentario di Roma. A seguire, sempre all’interno dello stesso genere, c’è Vila Morena, diretto con Alexandra Loureiro e prodotto dalla Videoteca Minucipal di Lisbona.

Nel 2006 partecipa al film collettivo Checosamanca, presentato alla I edizione di Cinema – Festa Internazionale di Roma, nella sezione Extra. Fra il 2008 e il 2009 si occupa prevalentemente di montaggio di documentari altrui.

Il primo film a soggetto arriva nel 2011 con Corpo Celeste, presentato alla Quinzaine di Cannes, che le vale anche il Nastro d’argento al miglior regista esordiente. Nel 2014 sarà in concorso al Festival di Cannes con il suo terzo lungometraggio, Le meraviglie.

 

Dario Consoli

Dario Consoli (1985) è dottorando in Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Torino e insegna presso la NABA di Milano. Dal 2009 è docente nelle scuole superiori per il progetto Questioni di bioetica. Nel 2013 è stato research fellow presso l’Institut für Kulturwissenschaft della Humboldt-Universität di Berlino. Ha pubblicato contributi in diversi volumi collettanei, su riviste italiane – tra cui Aut aut – ed è in uscita la sua prima monografia su Peter Sloterdijk per l’editore il Melangolo. I suoi temi di ricerca si collocano all’interno della filosofia sociale, concentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di soggettivazione nella società contemporanea. Si occupa inoltre di progettazione culturale e fa parte del direttivo dell’Associazione Laboratorio Corsaro e dell’Associazione Culturale Franco Antonicelli.

Vi aspettiamo numerosi

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Programma 2013-2014 del PFF

ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

Someone Beside You e l’approccio Windhorse alla malattia mentale

Matteo Bessone, Paola Parini

 

 

Someone beside youI racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi sintomi, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Someone Beside You – Qualcuno accanto a te è un roadmovie di Hedgar Hagen del 2006. Illustra il viaggio di alcuni psichiatri e dei “loro” pazienti attraverso Svizzera, Francia, USA e Italia. Lungo il viaggio i protagonisti evocheranno nuovi approcci alla malattia mentale e nuove rappresentazioni di questa, utilizzando alcuni concetti mutuati da approcci orientali, soprattutto in seno al buddismo.

Durante tutto il film i protagonisti sono in viaggio, in movimento, lo stesso movimento incessante la cui consapevolezza emerge tramite pratiche meditative e in cui è inevitabilmente immerso lo stesso percorso di continua conoscenza della psicologia. Lo scenario di tale movimento è il mondo esterno e non il setting clinico. Gli autori suggeriscono che la guarigione dalla psicosi, possibile, possa avvenire più facilmente nel naturale contesto ecologico.

Non ne emerge una critica diretta, rancorosa, agli approcci psichiatrici o psicologici dominanti, ma i protagonisti, seppur esperti (talvolta anche per esperienza vissuta in prima persona), si fanno portatori di un atteggiamento peculiare, tanto relazionalmente, con i pazienti, quanto di fronte al disagio di questi: traspare un’apertura amorevole, un’umanità compassionevole dei dottori nei confronti di quelli che una certa psichiatria preferisce identificare come propri oggetti (di studio), e che tende a catturare tramite una presunta conoscenza oggettiva e reificante.

Emerge in questi professionisti la consapevolezza dell’impermanenza dell’essere: di sè, come dei “propri pazienti; della “propria scienza”, come della sofferenza altrui: una capacità di dimorare nell’incertezza, del movimento incessante, tutte consapevolezze spesso misconosciute da un certo modo di intendere le scienze “ psi” che invece tendono comprensibilmente, e come qualsiasi altro sistema di significato, ad identificarsi in maniera irremovibile e ad ancorarsi alle proprie teorie e ai propri costrutti, che diventano in questo modo gli unici legittimi.

Durante il film si percorrono le fila della follia, tentando di seguirne le trame concettuali che vengono intessute dall’incontro di psicologia occidentale con le pratiche orientali. La follia viene evocata come un “Secondo Stato Umano”, uno stato in cui emerge il lato opposto della persona per come questa viene conosciuta da sé e definita dal mondo attorno a lei.

A tutti è possibile aver accesso a tale stato dal momento che avere una mente equivale già alla possibilità di perderla. La possibilità di far emergere tale lato opposto permette alla persona di lottare ostinatamente per il diritto di non essere capiti, mantenendo uno spazio di individualità che le permetta di andare oltre se stessa, trascendendosi, fino a fondersi con il mondo.

All’interno dell’approccio Windhorse un ruolo fondamentale è giocato dall’espressione “Isola di chiarezza” che sta ad indicare come anche nei momenti di maggior difficoltà, quando la mente corre via, alla folle velocità della psicosi, può accadere che in tutto quel folle impazzare di pensieri, improvvisamente, per un istante sospeso, tutto si fermi. Come nell’occhio di un ciclone, si crea una sorta di isola di calma dove la consapevolezza è possibile.

Accade allora che la persona si renda conto della “differenza di stato” rispetto all’impazzare di prima. E’ questo il processo che ha forse portato Podvoll, padre del “Progetto Windhorse”, a definire la psicosi come secondo stato.

Ed è proprio la possiblità di condivisione di tali illuminanti momenti di chiarezza (la psicologia occidentale li chiamerebbe insight, da cui “insight meditation”, uno dei sinonimi di mindfulness) che è alla base del progetto Windhorse:

Avere accanto qualcuno” che faccia da testimone, con la sua semplice presenza, con la qualità del suo essere, per ricordare quello che è successo poc’anzi, e insieme aiuti a ricostruire il processo, a capire come accade che la mente si perda… e poi ritorni.

“Riconoscere le isole di chiarezza” è uno dei dieci punti che illustrano le caratteristiche della “Basic Attendance”, il “modo”, l’Attitudine tipica dell’approccio Windhorse.

E’ difficile, quando non fuorviante, esplicitare un approccio basato sullo “stare con”, altamente esperienziale. Certamente vengono in aiuto alcuni suggerimenti di Kabat Zinn che concernono la Mindfulness:

[…]‘non è una tecnica, è una ‘modalità’, è un Modo di Essere, un Modo di Vivere, un Modo di Ascoltare, un Modo di Percorrere il cammino della vita, in armonia con le cose così come sono.

Le radici orientali dell’approccio Windhorse, lo rendono molto meno interventista di qualsiasi approccio occidentale. L’importanza del clima emotivo che viene a crearsi con l’intera équipe, contribuisce a far emergere un movimento trasformativo del paziente e della sua energia. Un movimento che va verso un equilibrio più armonico, maggiormante integrato rispetto a tutte le istanze presenti, interne ed esterne.

Si potrebbe forse provare ad utilizzare l’omeopatia come metafora, sia per la somiglianza dell’effetto del farmaco al sintomo che si vuol curare: il terapeuta/farmaco e il paziente/sintomo sono simili (omeo), entrambi umani, entrambi, direbbe Podvoll, con una mente che si può perdere. La funzione stimolante del farmaco omeopatico, simile a quella dei vaccini, sul sistema immunitario e sull’attivazione del corpo volta ad attivare tutti i meccanismi omeostatici nella direzione della guarigione, può ricordare la tendenza Windhorse a non risolvere i problemi al posto del paziente, ma a stargli accanto, il più possibile, a volte con un semplice rispecchiamento, più spesso con la propria semplice presenza, mentre egli cerca di trovare, autonomamente ma con un accompagnamento, le proprie soluzioni.

I racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi “sintomi”, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Karin, la prima paziente intorno alla quale è nato il primo progetto Windhorse, narra con stupore del rapporto con Podvoll: “Egli mi credette, di solito gli psichiatri non credono ai pazienti.”

La psichiatria sicuramente ha aperto le proprie porte negli ultimi decenni, sempre più tentata, anche solo per motivi di convenienza, da approcci basati sulla domiciliarietà più che non sul ricovero in strutture (esemplare è l’aumento del tasso di dimissioni del 1965 in USA quando la normativa relativa a Medicare e Medicaid, i due programmi di assistenza sanitaria pubblica, ha iniziato a prevedere fondi federali per l’assistenza in comunità alloggio mentre sussidi analoghi non erano previsti per le strutture ospedaliere).

Qual è allora la peculiarità di Windhorse? Cosa lo differenzia da un qualunque altro intervento integrato?

In primis, la pratica della meditazione, che accomuna i membri dell’équipe e che viene svolta sia singolarmente, che in gruppo. Questa crea un terreno comune, la “coltivazione”, appunto, di quell’atmosfera e quelle modalità di ascolto non giudicanti, fondamentali per un reale incontro con l’altro a partire da una profonda conoscenza di sè. La particolarità della meditazione windhorse si evince anche durante le riunioni d’equipe: il modo di discutere i problemi non può prescindere dalla posizione interna di “ascolto non giudicante”. Questo non significa però che non esista il conflitto, anzi, se è importante “stare con quello che c’è” (o che “non c’è”) nulla può essere lasciato fuori.

“L’attenzione all’ambiente” viene a configurarsi quindi come attenzione allo spazio interpersonale, dove può nascere, se coltivata da curiosità e benevolenza, un’autentica relazione. In questo spazio è fondamentale la real ” presenza” di tutti i presenti.

Da un punto di vista pratico, quello che avviene in un progetto Windhorse è la costituzione di un’équipe terapeutica formata da almeno due Basic Attenders, uno psicoterapeuta, in alcuni casi uno psichiatra e un medico di base. Tale équipe sarà tenuta a muoversi nella rete che è stata costruita attorno al paziente per integrare l’approccio Windhorse, che necessita di incontri regolari, con gli altri approcci in essere. Dopo una prima fase di indagine dei bisogni della persona e degli altri abitanti della casa (nel caso di un progetto domiciliare) si stabilisce quanti turni di Basic Attendance e quante sedute di psicoterapia possano essere ottimali per il paziente. Le riunioni d’équipe si tengono con cadenza quindicinale o settimanale, mentre a cadenza mensile è previsto un incontro con il paziente e gli abitanti della casa o altri familiari o persone coinvolte nel progetto e tutta l’equipe.

Questo significa prendere in carico anche altri eventuali componenti del nucleo familiare, occuparsi anche della sofferenza della famiglia. La sofferenza del paziente non è esclusivamente sua, ma trova spazio anche in quella famiglia stessa che è possibile abbia contribuito a generarla. Ancora una volta, nessuno può essere lasciato fuori.

Come scrive E. Podvoll in “Recovery Sanity”: “La Basic Attendance agisce oltre che sul paziente anche sull’ambiente che la persona abita e frequenta […]”. Si tratta di organizzare momenti di presenza al fianco del paziente presso la propria abitazione o presso i luoghi che via via si ritengono coerenti con i bisogni espressi dal percorso terapeutico. Ogni “turno” ha qui una durata di tre ore. Svolgere un “turno” di Basic Attendance non significa semplicemente “stare accanto” a qualcuno, ma prendersi carico di qualsiasi cosa abbia una diretta attinenza con lo stare vicini ad una persona che decide di intraprendere un percorso fragile, incerto e a volte drammatico verso la propria guarigione.

I principi sono detti “di base” (basic) in quanto sono riconducibili alla condizione basilare e fondamentale del sincronizzare corpo, mente e ambiente nelle normali attività della vita mantenendo l’attenzione al presente, momento per momento, e affinando le percezioni.

Questo tipo di servizio prende di volta in volta connotazioni pratiche diverse: fare l’accompagnatore, il tutore, la guida …”

Negli ultimi anni Windhorse si sta aprendo anche, per quanto riguarda i momenti di incontro allargato alle famiglie, alle esperienze di “Open Dialogue” portati avanti da Seikkula.

Quello che più stupisce del film è la posizione degli esperti. I protagonisti suggeriscono una conoscenza del folle e della sua follia, non tanto attraverso categorie psicologiche consolidate, ma tramite un gentile ed autentico incontro di diverse umanità.

Un incontro in cui si fa cruciale l’abbandono dell’arroccamento difensivo (identificazione) dietro i rispettivi ruoli di paziente-terapeuta. Guardando Someone Beside You, in certi momenti, soprattutto durante le prime scene, l’identificazione di chi sia paziente e chi terapeuta non è così facile. Il setting classico viene completamente scardinato in favore di quello che potrebbe essere chiamato un “controtransfert globale” che si avvicina molto ai concetti di “posizione terapeutica” della psicologia e psicoterapia di strada.  o alla necesssità di “interiorizzare il setting” espressa da Sergio Erba a proposito del setting psicoanalitico. (N.B. in questo testo, Sergio Erba utilizza i termini psicoanalisi e psicoterapia spesso come sinonimi).

“Senza setting, l’analisi non poteva aver luogo (…) si finiva con l’utilizzarlo solo nella sua forma nei suoi aspetti esteriori, fisici. E nel ruolo di custode dell’ortodossia che il setting si era ritrovato a ricoprire,esso si comportava come un ringhioso mastino che, non essendo stato addestrato a distinguere tra amici e nemici, finiva per abbaiare indistintamente contro tutti.

Per molto tempo infatti, coloro che si sono avventurati nel trattamento delle psicosi si sono visti squalificare la loro esperienza come non psicoanalitica solo perchè avevano dovuto apportare modifiche al setting tradizionale. Oggi che l’esigenza di allargare gli ambiti dell’applicazione psicoanalitica è particolarmente sentita e diffusa, il problema di questa rigidità si ripropone con forza. MI è capitato sovente di sentire affermare, da parte di colleghi, su questo argomento, che “bisognerebbe interiorizzare il setting” (…) in altri termini, l’esigenza di possedere una sostanza per essere liberi rispetto alla forma. Se so che il setting è essenziale, ma non dispongo di un convincente perchè, sono costretto ad attenermi a quella che è la forma in uso. Se invece posseggo un perchè, sono la sostanza, la funzionalità a diventare il mio punto di riferimento.”

E’ solo l’abbandono delle difese del ruolo da parte del terapeuta che può permettergli di recuperare l’abisso che lo separa dal paziente impededogli un autentico incontro.

Lo psicoterapeuta così facendo, per mezzo della curiosità e della fiducia che il paziente possa assumersi la piena responsabilità del proprio spirito, lo può aiutare a riprendere consapevolezza delle rappresentazioni di sé e del mondo trovando la giusta distanza dai propri pensieri.

Perchè questo possa realizzarsi occorre un luogo dove questo sia possibile: un luogo dove incontrarsi, uno spazio-tempo, un setting che si crei volta per volta, dove niente e nessuno venga lasciato fuori: il paziente, il terapeuta, i familiari, un luogo dove incontrare sè e l’altro. Come una tenda da nomadi, L’Ambiente Windhorse si “monta” là dove necessario, insieme a chi la abiterà e diventa luogo dell’incontro.

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Binge Drinking: le abbuffate di Alcool – Psicologia

 Teresita Forlano

 

 

Binge Drinking - Psicologia - Immagine: © creative soul - Fotolia.comIl binge drinking modalità di bere di origine nordeuropea che implica il consumo di numerose unità di alcol in un breve arco di tempo, si è ormai diffuso stabilmente in Italia, registrando dal 2013 un costante aumento in entrambi i sessi, soprattutto tra i giovani, ma sempre più tra gli adolescenti e in particolare tra i maschi.

La grande diffusione del fenomeno binge drinking, è una problematica psico-sociale emergente, questo è quanto si evince dalla ‘Relazione al Parlamento su alcol e problemi alcol correlati 2013′ pubblicata sul sito del Ministero della Salute.

Nel 2012 i binge drinkers rappresentano complessivamente il 6,9% della popolazione di 11 anni e più (l’11,1% tra i maschi e il 3,1% tra le femmine) ma tra i giovani maschi di 18-24 anni il fenomeno interessa ben il 20,1%; inoltre, il 14,8% ha ammesso comportamenti di binge drinking e, da quanto si legge nella Relazione, appare anche, nei giovani di entrambi i sessi, la correlazione, evidenziata dall’Istat, tra binge drinking e assidua frequentazione di discoteche, soprattutto nella fascia di età 18-24 anni”.

Tale correlazione, secondo il Ministero della Salute, può aggravare i pericoli derivanti dal bere e richiede pertanto un monitoraggio particolarmente attento, anche in considerazione del fatto che i giovani fra i 20 e i 24 anni continuano ad essere la classe di età più colpita dai danni per incidente stradale, uno dei più importanti indicatori di danno indirettamente causato dall’alcol. Nel 2012 sono stati 309 i morti e 31.305 i feriti in questa classe di età.

Che cos’è il Binge Drinking

Il binge drinking letteralmente significa abbuffata alcolica, e consiste nell’assunzione di 5 o più bevande alcoliche al di fuori dei pasti in un breve arco di tempo, con gravi rischi per la salute e la sicurezza. Nel binge drinking la persona ingerisce volutamente quantità ripetute di alcol in misura maggiore rispetto alle sue capacità psicologiche e fisiologiche e al contesto nel quale si trova; lo scopo patologico di queste abbuffate alcoliche è quello di provare ebbrezza fino ad arrivare alla ubriacatura completa con perdita di controllo e intossicazione. Il punto critico può essere raggiunto dopo molte ore o anche diversi giorni di assunzione. Gli episodi di Binge drinking sono contraddistinti da:

  • eccessivo consumo di alcol;
  • assunzione di alcol rapidamente in un breve arco di tempo;
  • bere fino ad ubriacarsi e a sentirsi male;
  • bere in compagnia in particolari eventi.

Si arguisce che esso è più probabile in situazioni sociali, piuttosto che, quando l’individuo è solo. I binge drinker bevono maggiormente cocktail, birra e vino mentre in misura minore i liquori. Sono attenti alla moda dell'”happy hour” proposta dai locali.

Disagi e rischi per la salute e il benessere dell’individuo

Nelle abbuffate alcoliche esiste sia la pericolosità indotta dalla quantità eccessiva di alcool, sia quella dovuta alla modalità di ingestione, la quale, amplifica l’impatto negativo sulle capacità e sulla salute psicologica, cognitiva e organica. Va sottolineato che le ripetute bevute possono avere carattere occasionale, ma purtroppo, alcune volte, si trasformano in atteggiamento frequente e poi in vera e propria patologia sia fisica che psichica, ovvero in dipendenza da alcool, con il possibile verificarsi di concomitanti sintomi di astinenza quali: depressione, disturbi del sonno, disturbi sessuali, irritabilità, problemi di performance cognitive, come problemi di concentrazione, apprendimento e memoria (sia a lungo, che a breve termine), con pericolosi sbandamenti dell’attenzione e vuoti mnemonici non solo nelle attività scolastiche o lavorative, ma anche nelle attività semplici e normali di tutti i giorni.

Fare esperienza del Binge drinking comporta problemi nelle attività quotidiane, nelle amicizie, nei rapporti affettivi, nelle dinamiche familiari, nelle aree sociali, personali, sessuali, l’individuo ha quasi sempre difficoltà a gestirsi dato lo stato di alterazione in cui si trova dopo un abbuffata alcolica.

Oltre la sfera interpersonale, lavorativa, familiare, affettiva, viene messa in serio pericolo la propria vita e salute con gravissimi rischi: incidenti, violenza, atti di vandalismo, rapporti sessuali non protetti con predisposizione al contagio di malattie virali e gravidanze indesiderate. A causa degli effetti a lungo termine sulla salute fisica con problemi e danni al sistema cardiaco, ormonale, neurologico, gastrointestinale, ematico, immunitario, muscolo- scheletrico, a livello fetale nelle donne in gravidanza, nell’attività circadiana, e sulla salute mentale con la riduzione della capacità di attenzione, concentrazione, e possibile stato confusionale, il binge drinking è considerato uno dei più grandi problemi di salute al giorno d’oggi.

Studi sul fenomeno

Recenti studi americani, dimostrano che l’alcol bevuto velocemente ha effetti maggiormente deleteri rispetto alla stessa quantità assunta con più dilazione temporale. Ulteriori studi hanno posto in evidenza il fatto che bere grosse quantità di alcol in tempi rapidi, in particolare durante il fine settimana o comunque in concomitanza di feste o ritrovi, e poi mantenere durante il resto dei giorni sobrietà dagli alcolici, è molto pericoloso in quanto, può aumentare gli effetti negativi dei momenti di Binge drinking.

Motivi che possono spingere alle abbuffate alcoliche

Le motivazioni che spingono i giovani ad avvicinarsi all’alcol possono essere: uniformarsi al gruppo , provare sensazioni piacevoli; la solitudine, evadere dai problemi, dal senso di vuoto, curarsi dalla depressione; alcuni giovani lo fanno per disinibirsi prima di un rapporto sessuale.

Prevenzione

Il binge drinking è nocivo, indipendentemente dall’età di una persona, gli operatori sanitari possono contribuire prestando maggiore attenzione alle proprie abitudini di consumo dei pazienti, soprattutto ex bevitori. Nel caso di adolescenti, interventi di tipo preventivo possono essere ad esempio: controlli periodici, riabilitazione psico-sociale e tutor coetanei che possono ridurre il livello di consumo critico. In alcuni casi si ricorre a sedute coinvolgendo i familiari del paziente.

In Italia i bevitori giovani sono aumentati, come evidenziato dal rapporto del Ministero della Salute, anche se, rispetto agli altri paesi la percentuale è minore (ma questo non deve tranquillizzare, il problema esiste comunque). I giovani sono prematuramente iniziati al consumo di alcolici, anche sotto forma di dolci con dirette ricadute sulla salute, sull’economia e sul lavoro. Efficaci strategie per ridurre il binge drinking potrebbero essere: oltre a leggi adeguate per il consumo di alcool, aumentare l’attenzione pubblica e diffondere informazioni sui rischi derivanti dal fenomeno, magari conducendo inchieste dai dipartimenti di emergenza sul comportamento pericoloso; investire nella ricerca, formare operatori sanitari e comunicare con il pubblico.

 

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Odori e memorie sono una sinfonia di onde cerebrali

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una fragranza, un profumo, scatenano ricordi. Ma come? Secondo il Kavli Institute for Systems Neuroscience la connessione è data da una sincronia di onde cerebrali.

Gli odori, dal nostro naso si traducono in e collegano ai ricordi in un’orchestra sinfonica di onde cerebrali. Ogni ricordo ha un suo luogo e una localizzazione ben precisa nella mappa interna di ognuno di noi.

 

Il legame tra odori e memoria è noto da tempo, uno studio ha recentemente scoperto il processo tramite il quale avviene questa associazione.

Sembrerebbe che le reti neurali siano collegate tramite onde cerebrali sincronizzate di 20-40Hz.

Questo processo associativo tra ricordi e profumi è stato indagato grazie allo studio di come un gruppo di ratti ai quali erano stati inseriti 16 elettrodi nell’ippocampo e in diverse aree della corteccia entorinale, sceglieva la strada in un labirinto avendo come unico indizio un odore e grazie all’associazione tra odore e luogo, i ricercatori hanno potuto ipotizzare un pattern di attività di onde cerebrali sincronizzate.

L’uso di onde cerebrali sincronizzate è presente anche nei processi di codifica e recupero dei ricordi, ma questo studio mostra per la prima volta la relazione tra lo sviluppo di uno specifico gruppo di oscillazioni nell’ippocampo alle prestazioni di memoria.

Le oscillazioni corticali potrebbero dunque essere un meccanismo generale che media le interazioni tra neuroni funzionali specializzati nei circuiti cerebrali.

 

 

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Psicoterapia Metacognitiva: efficace per ansia e depressione – Meta-analisi

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy, MCT) è un recente approccio psicoterapeutico che considera i disturbi psicologici come il risultato di uno stile di pensiero rigido che può ostacolare la naturale regolazione emotiva e rendere ansia e depressioni pervasive, intense e durature. Questo stile di pensiero consiste in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e comportamenti di gestione della sofferenza controproducenti.

La MCT ha sviluppato tecniche e protocolli di intervento per i Disturbi d’Ansia e la Depressione. La teoria e la terapia hanno avuto nel corso degli anni numerosi supporti scientifici di validità ed efficacia. Solo recentemente è stata pubblicata la prima meta-analisi che raccoglie tutti gli studi di efficacia della MCT anche confrontata con altre terapie come quella cognitivo-comportamentale.

Pur essendo solo all’inizio di questo lungo confronto è la prima volta che viene mostrata su un ampio insieme di studi la superiorità di una terapia su interventi cognitivo-comportamentali per disturbi d’ansia e depressione.

I punti forti di questo articolo sono: (1) gli autori sono indipendenti (l’analisi non è stata effettuata dagli autori della terapia), (2) le analisi sono state fatte sui dati originali, (3) sono stati inseriti tutti gli studi registrati anche quelli mai pubblicati.

On primary outcome measures the aggregate within-group pre- to posttreatment and pretreatment to follow-up effect sizes for MCT were large (Hedges’ g = 2.00 and 1.65, respectively). Within-group pre- to posttreatment changes in metacognitions were also large (Hedges’ g = 1.18) and maintained at follow-up (Hedges’ g = 1.31). Across the controlled trials, MCT was significantly more effective than both waitlist control groups (between-group Hedges’ g = 1.81) as well as cognitive behavior therapy (CBT; between-group Hedges’ g = 0.97).

 

THE EFFICACY OF METACOGNITIVE THERAPY FOR ANXIETY AND DEPRESSION: A META-ANALYTIC REVIEWConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Article first published online: 22 APR 2014 (…)

 

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Lo studio di Spada e colleghi (2021) ha approfondito il tema delle credenze metacognitive e del Repetitive Negative Thinking nei disturbi di personalità
Detached Mindfulness e Temi Dolorosi - Partecipa alla ricerca
Affrontare i temi dolorosi con la Detached Mindfulness (DM) – PARTECIPA ALLA RICERCA
Studi Cognitivi sta conducendo una ricerca per valutare l’impatto di due esercizi dell'MCT nel promuovere la detached mindfulness dai temi dolorosi LIBET
Terapia Metacognitiva: l'efficacia del trattamento per ansia e depressione
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Psiconcologia: ACT e MCT per trattare il distress psicologico - Psicoterapia
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Metacognizioni: ruolo nei disturbi psicologici e nelle dipendenze
Il ruolo delle metacognizioni nelle dipendenze
Le metacognizioni determinano l’attivazione di pensieri e stili di coping disfunzionali che generano e mantengono i disturbi psicologici come le dipendenze
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L’applicazione della MCT nel disturbo da uso di alcol – Il sesto episodio di The Journal Club
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Otto Kernberg: Amore e Aggressività tra Psicoanalisi e Ricerca empirica

Emanuele Preti

 

 

Amore e aggressività - Otto KernbergIn quest’ultimo volume, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui.

Amore e aggressività: Prospettive cliniche e teoriche, edito da Fioriti nel 2013, raccoglie alcuni dei contributi prodotti da O. Kernberg negli ultimi dieci anni.

Presentare O. Kernberg al pubblico italiano è un compito superfluo. Da diversi decenni, infatti, le sue opere sono un elemento imprescindibile in qualsiasi biblioteca di psicologi, psichiatri e psicoterapeuti.

In quest’ultimo volume, tuttavia, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui:

Questo volume raccoglie il mio lavoro degli ultimi anni con pazienti affetti da gravi disturbi di personalità, coppie in situazioni di conflitto e nell’ambito della ricerca e della formazione psicoanalitica. Tale contributo è stato sensibilmente influenzato dall’attività di ricerca e dal lavoro clinico del Personality Disorders Insitute presso il Weill Cornell Medical College (Westchester Division) del New York Presbyterian Hospital e riflette lo strenuo sforzo di abbattere i confini tra l’approccio psicoanalitico, la clinica psichiatrica e la neurobiologia.

(Kernberg, 2013, p VII)

“Abbattere i confini” richiede una visione laica degli accadimenti psichici normali e patologici. Appare evidente, via via che ci si addentra nei tanti e diversi temi trattati dai lavori raccolti nel volume, come tale visione sia il frutto di due caratteristiche che, a mio avviso, costituiscono l’unicità e la forza dell’approccio di Otto Kernberg. La prima, ovvia, è costituita dalla serietà e dallo spessore con cui l’autore si è sempre mosso all’interno della Teoria psicoanalitica, contribuendo in modo sostanziale alla sua sistematizzazione e aprendo, con la sua declinazione della teoria delle relazioni oggettuali, alla possibilità di navigare in acque nuove.

Il secondo aspetto caratterizzante è quello dell’apertura sincera e sistematica al confronto con la ricerca empirica. Visitando il Personality Disorders Institute della Cornell University e il Personality Studies Institute di Madison Avenue (New York) il livello di confronto tra gli aspetti teorico-clinici e quelli legati alla continua messa alla prova empirica dei modelli e dei presupposti teorici e tecnici appare evidente nei continui scambi tra i diversi componenti del gruppo (tra gli altri, John Clarkin, Frank Yeomans, Michael Stone).

E’ a partire da questi fili conduttori che si dipana la trattazione di temi di scottante interesse.

Il nucleo clinico del volume ruota attorno alla patologia dell’identità. A partire da questa pietra miliare, Kernberg approfondisce la clinica del paziente narcisista e, più in generale, riprende e approfondisce alcuni aspetti teorici e tecnici della Transference-Focused Psychotherapy.

Particolarmente interessante è, ad esempio, il tentativo di tracciare delle linee di demarcazione e dei confini chiari tra i concetti di mentalizzazione, mindfulness, insight, empatia e interpretazione. Kernberg dedica poi uno spazio particolare alla sessualità e alle “limitazioni alla capacità di amare” caratteristiche dell’area borderline.

Il capitolo che meglio rappresenta la tendenza all’apertura della teoria psicoanalitica ad altri campi e metodi di indagine è quello che affronta, passando in rassegna le più recenti linee di ricerca, il rapporto tra affetti intesi dal punto di vista psicoanalitico e aspetti neurobiologici.

Chiudono il volume alcuni contributi legati ad aspetti che potrebbero essere considerati marginali, ma che rappresentano probabilmente alcune tra le sfide più rilevanti nella società contemporanea: il tema della formazione in psicoanalisi e quello della religione.

Kernberg, past president dell’International Psychoanalytical Association dal 1997 al 2001, propone un’analisi attenta e critica delle difficoltà relative alla formazione psicoanalitica e alle dinamiche istituzionali degli istituti di formazione. La religione è infine trattata dall’autore sia nei suoi aspetti di costruzione socio-culturale che in relazione alla capacità di trascendere dal dominio interno delle relazioni oggettuali nella formazione di un’esperienza spirituale.

 

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I pensieri ingarbugliati

 

Pensieri ingarbugliati - Vignetta - Immagine: © Costanza Prinetti 2014 - 624
I pensieri ingarbugliati – Immagine: © Costanza Prinetti 2014

 

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Silenzio e dialogo ai tempi di WhatsApp – Tecnologie e Psicologia

 

 

 

internet & whatsapp -  Immagine: © fotomek - Fotolia.comIl presente supera in velocità la nostra capacità di comprenderlo e questo è evidente per chi cerca di ragionare sulle modalità dell’ agire e dell’interagire nell’epoca post moderna,  soprattutto sul nostro divenire rispetto a spazi che si chiudono o si aprono nelle nuove tecnologie.

Da sempre, lo studio e la cura dei disturbi psicopatologici si sono occupati a fondo dell’incontro dialogico e del modo di entrare o di non entrare, in relazione con l’ altro. La crisi della comunicazione si evidenzia ormai ovunque, dentro e fuori lo spazio clinico e secondo Eugenio Borgna per approfondirla occorre affrontare “temi come quelli del silenzio e del dialogo, intesi come modalità di comunicazione, non solo linguistiche ma esistenziali”. Continua scrivendo: “Nel franare della comunicazione cambiano fatalmente l’immagine e la fisionomia del silenzio e del dialogo”.

Riporto questa citazione al tema della comunicazione, linguistica ed esistenziale, per porre un interrogativo su come sono cambiate le nostre vite da quando computer e telefonini sono diventati oggetti centrali e irrinunciabili.

Il fenomeno di questa diffusione è ambivalente, perchè si è integrato nelle abitudini socialmente predominanti, estendendosi a tutte le fasce della popolazione in un modo così rapido che risulta complesso già fin da ora prevederne gli effetti futuri.

In un breve lasso di tempo, infatti, l’avvento degli smartphone ha incrementato l’ uso d’ innumerevoli dispositivi con relative funzioni, fino a travalicare il confine netto che separa il passatempo dalla dipendenza: basta pensare al tempo che ciascuno di noi impiega su piccole e grandi piattaforme di social network.

Le ultime ricerche affermano che, indipendentemente dai vantaggi prodotti, trascorrere troppo tempo a contatto con il proprio telefono può portare ansia e paura, piccole e grandi alterazioni dell’umore che vengono indicate con il termine di nomophobia  (abbreviazione della frase non-mobile-phone fobia).

Sebbene apparentemente inappropriato, la denominazione “fobia” descrive al meglio la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo. Solo riconoscendo il vissuto relativo alla separazione da un oggetto che custodisce un mondo emozionale di desideri e sentimenti è possibile intravedere le forme ansiose tipiche di ogni separazione. Allenandoci a riconoscere quando la tendenza al controllo della comunicazione diventa controllo della relazione, possiamo aiutare le persone a vedere la pericolosità  dell’ imperativo che le costringe  a raggiungere in ogni momento e in ogni momento  ad essere raggiunte.

Una delle caratteristiche della nomofobia, ad esempio, è proprio quella sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili. Si accompagna a questo la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo, anche quelli più intimi come il bagno, la camera da letto o lo spazio di una seduta in terapia.

Senza entrare nell’area dei disturbi del comportamento presenti nelle dipendenze, il controllo eccessivo sull’oggetto telefono porterebbe così ad instabilità dell’ umore, aggressività e, non ultima,  difficoltà nella concentrazione, con maggiore vulnerabilità per i giovani.  Nella quinta e ultima edizione del DSM, le diagnosi di abuso da sostanze e dipendenza hanno ceduto il posto alla nuova categoria dipendenze e disturbi correlati; fra le dipendenze comportamentali è stato richiesto l’inserimento dell’Internet Addiction Disorder (IAD), condizione caratterizzata da un forte desiderio di connettersi al Web, con un tempo trascorso on line tale da compromettere la propria vita reale. Pur non avendo dati sufficienti per rendere ufficiale tale inserimento, questa diagnosi è stata inserita in appendice, con lo scopo di promuovere studi sull’argomento; è auspicabile raccogliere dati interessanti su nuovi e importanti fenomeni, sia normali che patologici.

Noi, dal canto nostro, possiamo osservare il fenomeno ed essere pronti a riconoscere da un lato la pericolosità di una dipendenza, dall’ altro il valore di un dialogo anche virtuale, se questo consente di uscire dal silenzio di una solitudine altrimenti incolmabile.

 

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In che modo l’autoritarismo dei genitori influenza la personalità dei figli?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il termine “autoritarismo” è usato nelle scienze sociali in rapporto a tre tipi di fenomeni: personalità, ideologie e regimi.

Per quanto riguarda la personalità autoritaria, il punto di riferimento fondamentale per ogni ulteriore riflessione è costituito dalla ricerca curata da Th.W. Adorno per la Scuola di Francoforte (1950).  Secondo i risultati i tratti della personalità autoritaria sono essenzialmente la sottomissione e l’aggressione, la ricerca esasperata dell’ordine e il rifiuto dell’ambiguità.

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il ricercatore di scienze sociali Michal Reifen Tagar dell’Università del Minnesota ha ipotizzato che tali differenze interindividuali nei livelli di autoritarismo emergano già nella prima infanzia. Tagar e colleghi hanno condotto 40 bambini di 3 e 4 anni di età all’interno del loro laboratorio e hanno mostrato loro dei video in cui degli adulti erano ripresi durante un compito di denominazione di oggetti. Un video mostrava un adulto intento ad utilizzare il nome convenzionalmente associato all’oggetto (“shoe” quando veniva presentata una scarpa, ad esempio); un altro video, invece, mostrava un altro adulto che utilizzava un’etichetta verbale insolita (“ball”). Un’ulteriore tipologia di video, poi, mostrava un soggetto intento a dare un’alternanza di risposte convenzionali e non convenzionali. Ai bambini venne successivamente mostrata un’altra serie di video in cui i soggetti introducevano e denominavano degli oggetti completamente nuovi.

Lo scopo degli autori era quello di valutare il livello di fiducia dei bambini in queste nuove denominazioni, sulla base dei video visti in precedenza.

I risultati hanno mostrato come essi riponessero maggiore fiducia verso l’adulto che nella prima serie di video aveva fornito una risposta convenzionale. Tale risultato sembrerebbe prevedibile, ma ad un’attenta analisi emerse un ulteriore fattore: il soggetto che aveva fornito risposte usuali aveva maggiore presa proprio sui bambini con genitori molto autoritari o socialmente conformisti, i quali, inoltre, riponevano maggiore fiducia nell’adulto che dava risposte ambigue rispetto ai compagni.

Come spiegare tale osservazione, apparentemente in contrasto con gli altri risultati? Gli autori suggeriscono che la scelta di tale sottogruppo di bambini potesse essere dettata dal fatto che il soggetto osservato nei video era un adulto e, come tale, degno di fiducia, indipendentemente dalla coerenza delle sue risposte.

In accordo con Tagar e collaboratori, tali risultati rivelerebbero un’emergente manifestazione di autoritarismo già in tenera età e tale tendenza sarebbe predetta dalle caratteristiche psicologiche dei genitori.

Non sarebbe ancora completamente chiaro, però, se in tale influenza giochino un ruolo maggiore i fattori genetici, la socializzazione o entrambi.

 

 

 

 

 

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BIBLIOGRAFIA

The Fascinating World of Executive Functions

Elena Lo Sterzo

 

 

The Fascinating World of Executive Functions Executive function is an umbrella term, referring to those high-level processes that control and organise other mental processes, that facilitate new ways of behaving and optimise one’s approach to unfamiliar circumstances.

Years of observation at behavioural performances of patients with different type of lesions at frontal lobe, along with investigations with neuroimaging techniques, have led to confidently hypothesize that these processes are supported by structures within the frontal lobes on the brain.

Most theories of executive function are based on a distinction between automatic and controlled processing. Routine processing refers to mental operations that are overlearned, such as reading out a word. On the other hand, non-routine processing most commonly refers to mental operations that are used in situations when there is not a well-established stimulus-response association, or where a behavioural impasse occurred.

Flexible representations of goals and intentions are at an abstract level of processing. Such higher-level representations are often contrasted with lower-level cognitive processes involved in analysing specific perceptual inputs and generating specific motor outputs.

According to most theories, executive function involves the modulation of lower-level processes by those at a higher level, allowing us to behave flexibly, rather than being slaves to our environment. The executive system has been traditionally quite hard to define, since there is no single behaviour that can in itself be tied to executive function (or indeed executive dysfunction).

One of the most influential framework for understanding executive functions has been offered by Norman and Shallice (1986): they proposed that behaviour is governed by sets of thought or action schemas (a set of actions or cognitions that became very closely associated through practice.)

These schemas can be triggered by events in one’s environment and can be sufficient to behave appropriately in routine situations involving well-learned links between particular events in our environment and particular ways of behaving. However, in situations involving novelty or where well-learned responses need to be inhibited, environmental triggering is insufficient and a second system is required to modulate the activity level of schemas. Norman and Shallice called this the supervisory system and suggested that it is supported by the frontal lobes of the brain.

Another theoretical model for understanding executive functions has been put forward by Duncan (2001): according to its adaptive coding model, the prefrontal cortex (PFC) has a remarkable ability to adapt its function to the current task, thus PFC is viewed as “global workspace” that, rather than multiple executive processes, can adapt to many different cognitive operations.

Determining the relative contributions of different frontal subregions to different executive functions is a highly complex matter, but on current evidences, some suggestions can be put forward. Ventrolateral PFC (VLPFC) is thought to be involved in comparatively simple tasks, such as short-term maintenance of information that cannot currently be perceived in working memory. By contrast, dorsolateral PFC (DLPFC) has been most commonly implicated in manipulating that information. DLPFC has also been suggested to be involved in complex functions such as making plans for the future.

The largest and most mysterious, sub-region of prefrontal cortex is the rostral PFC (RPFC): patients with damage restricted to the RPFC often perform well on standard neuropsychological tests, including classical tests of executive function such as the Wisconsin card sorting test (Grant & Berg, 1948). Instead, patients with damage to this region seem to have particular difficulties in real-world multitasking situations (e.g. Multiple errands test, Shallice & Burgess, 1991), such as organizing a shopping trip when there are few strict constraints but also multiple instructions to be remembered, and potential distractions in the environment.

Recent accounts have focused on the role of RPFC in the most high-level human abilities, such as combining two distinct cognitive operations in order to perform a single task, trying to work out what other people are thinking (mentalizing), and reflecting on information we retrieve from long-term memory (source memory).

Interestingly, the gateway hypothesis proposed by Burgess et al. (2005) claims that RPFC is involved in modulating the attentional balance between stimulus-oriented and stimulus-independent information (i.e. information that we perceive in our environment and information that we represent internally).

Finally, although we now have a much greater understanding of the ways in which executive functions can be split into various discrete processes, and the ways in which PFC can be split into functionally discrete subregions, further researches are needed in order to deepen the functions of prefrontal cortex in explicit computational terms: not just knowing that a particular region of PFC supports a particular ability, but also clarifying how it happens.

 

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Genitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

 

Genitori in pratica.

Manuale di primo soccorso psicologico

per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

di Roberta Mariotti e Laura Pettenò

Edizione Erickson

 

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Genitori in praticaGenitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani: la relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino.

Care mamme e cari papà,

dopo aver trascorso l’ennesima notte insonne dico che fare il genitore è faticoso, impegnativo e a tratti demoralizzante, ma è una delle esperienze più belle della vita! Sono certa che molti di voi condividono questo punto di vista, malgrado gli stenti giornalieri fiaccano l’animo e il fisico.

Allora, ecco il libro che fa per noi: “Genitori in pratica” di Roberta Mariotti, Laura Pettenò, Edizione Erickson. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

La relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino. A volte si è complici dei propri pargoli, altre volte guide, altre ancora fermi sui propri principi. Quanto è difficile tutto questo! Come è complicato metterlo in pratica e soprattutto come è faticoso capire quando è il caso di comportarsi in un modo piuttosto che nell’altro! Il cambiamento di rotta, l’aggiustamento richiesto dai diversi eventi che si presentano durante la vita, richiedono sistemazioni in itinere nel modo di rapportarsi ai figli, poiché rimanere fermi sulle proprie convinzioni, spesso, porta a effetti negativi. Fondamentale e indispensabile, in questo caso, è la capacità di adattamento che vira dal prendersi cura dei figli, nei primi anni di vita, al renderli autonomi durante l’adolescenza. Ma tutto questo iter è una corsa a ostacoli, caratterizzata da molti intoppi e problemi da arginare e risolvere.

Per riuscire a trovare una soluzione alle difficoltà presentate dalla prole il presupposto, o meglio, la prerogativa richiesta ai genitori è di essere flessibili, che non significa assecondare tutti i comportamenti del bambino, ma nel sapersi modificare in relazione alle difficoltà presentate, cogliere prospettive diverse dalle proprie e adattarsi alle circostanze. 

E’ necessario, dunque, conoscere come “funziona il problema“, dove, come e quando nasce,  per poterlo spiegare al proprio figlio e trovare una soluzione allo stesso. Ed ecco presentate le quattro trappole mentali, comunicative, relazionale e comportamentali, nelle quali i genitori possono cadere quando i figli si trovano ad affrontare una situazione complicata:

 

1. difficoltà di messa a fuoco del problema e della situazione in cui si manifesta. Mettere a fuoco la soluzione al problema e non solo la sua causa porta il genitore a identificare una spiegazione all’evento sia in termini di pensieri sia di comportamenti.

2. reciproca influenza; la dinamica relazione che si presenta tra genitore figlio influenza il modo di comportarsi. Quindi, in alcuni casi è necessario entrare nel merito della relazione e modificarla.

3. convinzione che il nostro pensiero sia l’esatta rappresentazione della realtà; spesso non ci rendiamo conto che il pensiero si basa su convinzioni personali derivanti da esperienze precedenti, ma non sempre sovrapponibili alla realtà e che, tante volte, portano ad amplificare i comportamenti disadattivi del bambino. Quindi un cambio di rotta, con messa in discussione delle proprie credenze/convinzioni giova alla relazione.

4. abitudine a ripetere ciò che conosciamo, perché è più economico per la nostra mente, ma non sempre funziona. In questo caso si rinuncia a costruire una soluzione nuova e più efficacie alla situazione adducendo anche, in alcuni casi, a un peggioramento della stessa.

In aggiunta, sono largamente enucleate le trappole derivante da una cattiva gestione delle emozioni sia positive sia negative.

Con un linguaggio semplice e diretto e con il racconto di numerose testimonianze tratte dalla pratica clinica delle autrici, questo manuale suggerisce strategie e soluzioni per rendere i genitori inclini a risolvere i problemi presentati dai propri figli. Si tratta di facile strategie ed euristiche di pensiero utili per dialogare, sostenere e supportare i propri figli nel raggiungimento degli obiettivi quotidiani, grandi o piccoli che siano, insegnando il senso della vittoria e della sconfitta.

Per concludere, quello che spesso noi genitori facciamo è di farci influenzare dai nostri stessi pensieri senza metterli in discussione e senza pensare minimamente che possono essere modificati in relazione alla situazione attuale. La soluzione a tutto questo consiste nell’individuazione e contestualizzazione del problema, nello stabilire un obiettivo da raggiungere in relazione al problema, nell’ eliminazione della soluzione che non sortisce l’effetto voluto e nella creazione di nuove strategie funzionali alla situazione verificatasi.

Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto (Vincent  van Gogh).

 

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Giovani padri a rischio depressione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

Anche i giovani padri sarebbero a rischio di un significativo aumento di sintomi depressivi in co-occorrenza del cambiamento del loro ruolo familiare.

Uno studio longitudinale recentemente pubblicato sulla rivista Pediatrics lo riporta e sottolinea la necessità di guardare criticamente all’emergenza di tale fenomeno con adeguati e tempestivi interventi di screening e monitoraggio per poi rispondere al bisogno dei giovani padri.

Secondo i dati dello studio (che ha coinvolto un campione di padri americani diventati genitori per la prima volta nella fascia di età dai 24 ai 32 anni e che vivevano in casa con i figli), i sintomi depressivi aumentavano mediamente del 68% durante i primi cinque anni di paternità (da sottolineare che ciò non significa che si debba poi necessariamente sviluppare un conclamato episodio depressivo maggiore o disturbo dell’umore – aspetto non considerato dallo studio che utilizzando questionari self-report e non colloqui clinici/SCID-I).

La ricerca ha utilizzato dati raccolti da 10.623 giovani uomini coninvolti nello studio National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health) monitorati e valutati durante l’adolescenza fino alla transizione nell’età adulta; in particolare sono state utilizzate come misure di outcome una batteria di scale per la valutazione della depressione con riferimento al Center for Epidemiologic Studies Depression Scale.

E’ interessante notare che lo studio mette in evidenza che sono proprio i giovani padri che vivono in casa insieme ai figli a sviluppare un aumento dei sintomi depressivi nei primi cinque anni di paternità; va sottolineato che coloro che invece non vivevano quotidianamente nella stessa casa con i figli presentavano maggiori sintomi depressivi prima della nascita del figlio che invece iniziano a diminuire durante gli anni della paternità ( da riconoscere che tale sottocampione è però minore in termini di numerosità rispetto al campione di padri che convivono con i loro figli).

La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui piccoli figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

 

 

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– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #09

Non vorrei rapporti con me stesso

 

 

– Leggi l’introduzione –

Non voglio rapporti con me stesso. - Immagine: ©-rolffimages-Fotolia.comAl CIM su ogni paziente grave si concentrano gli sforzi di molti operatori, anche se fatalmente è uno ad essere il principale care giver, colui che tiene in mente il paziente e le fila dei vari interventi per scongiurare la confusione.

Pur non essendo la prima ad averlo visto, la curatrice di Paolo era indubbiamente la dottoressa Maria Filata, la psicologa che più amava addentrarsi nei rompicapi dei casi più gravi, quella che veniva chiamata quando gli altri sentenziavano che non c’era nulla da fare se non i farmaci.

Lei non ci voleva stare che i suoi quindici anni di studi psicologici dovessero solo servire ad aumentare la compliance del paziente alla terapia farmacologica.

Paolo è un ragazzo (a lungo si chiederà perché lo percepisce come ragazzo,  considerato che a quell’età lei aveva due figli, ma tanto basterà a farle attivare l’accudimento) di trent’anni, con almeno 15 kg di troppo, vestito da prima comunione, capelli neri lisci ordinati con una riga a sinistra che Maria credeva estinta da almeno due generazioni, occhi sorpresi a scrutare un mondo che lo confonde, sorriso cordiale, simpatico.

Gli è stato inviato dal Dr. Irati che gli ha prescritto neurolettici a basso dosaggio.

Sa cosa sia una psicoterapia ed è molto motivato a capire cosa gli stia capitando.

Dice di sentirsi perfettamente rappresentato da una canzone di Battiato che parla di “un alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera”.

Se non si fosse trovato di fronte la dottoressa Filata, che diffida delle categorie diagnostiche, sarebbe bastata questa citazione per ritrovarsi rinchiuso nel recinto degli evitanti. Dice di essere confuso e disorientato, la mente è avvolta da ovatta che la protegge dagli urti, ma la ottunde. Tra lui e gli altri un velo, un vetro, insomma una insuperabile separazione. Estraneo agli altri, anche da solo non sta in buona compagnia, ha l’angosciante sensazione di un andirivieni della consapevolezza, ripetuti black out dell’attenzione rendono frammentato il colloquio e spesso gli altri si spazientiscono per il suo esserci e andarsene.

Non certo Maria Filata che, anzi, è già conquistata dal ragazzo trentenne smarritosi nel mondo.

Nelle assenze è tormentato da tic complessi. Il principio aristotelico di non contraddizione non lo riguarda, a distanza di pochi minuti ribalta precedenti affermazioni e non mostra di avvedersene.

Personalità multipla? Deficit cognitivo? A distanza di poco, però, è capace di insight meritori della psicoanalisi viennese di inizio novecento.

In uno di questi momenti di lucidità introspettiva propone la sua spiegazione patogenetica, riferendosi a due episodi all’origine di tutto verificatisi sette anni prima.

Il primo episodio lo vede tradire il suo migliore amico mettendosi di nascosto con la sua ragazza. Sussiste anche l’aggravante dei futili motivi perché non era tanto interessato a lei ma, soprattutto voleva liberarsi di un’ ingombrante vergognosa verginità (a Maria non sembra un motivo futile ma tiene per sé il commento).

Nel secondo episodio abbandona il suo cane, che aveva fortemente voluto, in campagna da parenti della madre.

Di nuovo il demonietto diagnostico si fa avanti, il  tema ridondante è quello del tradimento e della colpa, potrebbe trattarsi di ossessioni e le discontinuità dovute ad un intenso rimuginio compulsivo. 

Paolo conferma che due anni prima trascorreva giornata intere a letto in preda all’ansia, a rimuginare su questi tradimenti e non vedeva più nessuno sentendosi indegno: esce solo per andare a giocare al bingo ed in una di queste occasioni si blocca per strada, è immobile e assente. 

Catatonico e dunque senza dubbio schizofrenico, conclude soddisfatto il demonietto semplificatorio.

Lo ricoverano a Villa della Quiete ed iniziano i tentativi farmacologici per fare diagnosi “ex adiuvantibus”, come è scritto sulla cartella.

Maria sa di cosa si tratti: di fatto si provano vari farmaci senza avere una diagnosi poi, se uno fa un po’ di effetto, si stabilisce che il paziente ha proprio la malattia per cui quel farmaco è efficace.

A far attenzione si possono udire i colpi delle testate di Popper sul coperchio della bara.

Maria ha deciso che, quando Irati le farà le sue tirate sul maggior rigore scientifico della medicina rispetto alla psicologia, gli darà una testata sul naso aquilino.

Rassicurata dalla raffazzonaggine della medicina decide di dare ascolto alle sue sensazioni.

L’impressione generale che ha è di trovarsi di fronte ad una persona che ha subito un trauma e che, per recuperare un minimo controllo emotivo, si autoinduce brevi dissociazioni, trance, per anestetizzare il possibile dolore del ricordo emergente. 

L’ipotesi nascente di un disturbo dello spettro dissociativo, che placa le ansie del signore infernale delle classificazioni, è sostenuta dalla presenza di sintomi psicosomatici, cefalee e coliche intestinali “sine causa”, abbondante uso di sostanze prima dei 18 anni ed esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione,  causa dei blocchi motori che lo hanno condotto al ricovero. 

La ricostruzione della storia di vita diventa ancora più importante e con il consenso di Paolo si decide di coinvolgere in alcuni incontri anche la madre.

L’impressione è di scoperchiare un termitaio pullulante di segreti dove è facile perdersi e protettivo confondersi.

Non c’è bisogno di prolungata ricerca per scoprire il trauma motivo della dissociazione, forse il più grave è seduto lì proprio a fianco a Paolo.

La madre è una donna spigolosa nell’aspetto, il viso sovrastato da un caschetto nero mostra solo angoli acuti.

Nei confronti del  figlio è critica e disprezzante. Pur impegnata nella conversazione con la dottoressa trova il tempo per ricordare al figlio che “puzza”, “è un assoluto cretino”, “con quella faccia non andrà da nessuna parte”, insomma supportiva e incoraggiante. La Filata esercita tutta la disciplina interiore di cui è capace, si dice che anche lei è certamente una persona sofferente, da capire e aiutare e che quello  è certamente il modo di fare migliore che ha trovato per sopravvivere. Il solito demonietto nosografico le propone sottovoce narci…, border…. ma lei lo mette a tacere definitivamente, sentenziando “stronza e cattiva” in comorbilità.

I genitori di Paolo erano entrambi divorziati quando si sono conosciuti già molto adulti.

Lei aveva già un figlio, ora sposato e padre a sua volta.

Il padre ha avuto 4 figli di cui uno morto per droga, forse sparato per questioni di spaccio ma tutto è avvolto dal segreto. Della esistenza di tutti questi fratelli molto più grandi di lui Paolo viene a conoscenza solo a 17 anni, invece  non ha mai saputo che lavoro facesse il padre che sembra gestire traffici loschi.

I segreti si infittiscono ulteriormente: presenza quotidiana nella loro casa di uno zio che zio però non è.

Mario è un vecchio collega di lavoro della madre, di lei innamorato sin dal liceo. Si è sempre occupato di questi “nipoti”, il primo figlio della donna e Paolo con soldi, regali di ogni genere, viaggi.

Le ipotesi che si susseguono in testa di Maria sono due: Mario è il vero padre dei ragazzi e lo proverebbe la sua dedizione a loro, oppure  Mario è un pedofilo che si è insinuato nella loro famiglia.

A sostegno della seconda ipotesi Paolo dice testualmente: “quando ero ricoverato lo cacciavo, avevo la sensazione che mi avesse fatto del male, mi ha rovinato con dei suoi comportamenti che non capivo o se ho capito ho dimenticato”.

(le parole di Paolo sembrano un protocollo programmatico della dissociazione da trauma).

La madre descrive Mario come un uomo depresso e cattivo, tossicodipendente e grosso spacciatore che si è sempre insinuato nelle sue due famiglie grazie al potere dei suoi soldi. 

La confusione contagia anche Maria che inizia a sperimentare gli stessi vissuti di Paolo.

Per non perdersi cerca di far chiarezza chiedendo perché abbia affidato i figli ad un uomo di cui parla così male e la madre, prima risponde che non può dirglielo (ciò resuscita la primigenia ipotesi che sia il padre vero), poi che i figli avevano bisogno di una figura maschile forte perché entrambi i padri sono dei falliti senza palle infine, cimentandosi anche lei in una dissociazione da manuale, cambia discorso e riferisce che uno psicoanalista cui chiese perché non le piacevano i luna park e il circo sentenziò che lei negava la maternità… e conclude con un gesto d’intesa dicendo a Maria “ci siamo capite vero dottoressa?”.

Paolo presente alla conversazioni è travolto dai tic e completamente assente, se ne è mentalmente andato come avrebbe fatto volentieri la stessa dottoressa Filata, ora però davvero convinta di quanto la madre stia male.

Il padre attualmente 82enne ha un’idea primitiva del maschile e della virilità. Regole di vita trasmesse a Paolo sono sintetizzabili in “le donne sono tutte mignotte”, “ogni lasciata è persa” “il valore di un uomo si misura dal suo pisello”, “meglio un figlio morto che un figlio frocio”.

Maria si era accorta da tempo che il tema della sessualità era per Paolo scivoloso, da un lato intrattiene idee grandiose quasi deliranti in linea con le attese paterne per cui pensa che tutte le donne lo desiderino sessualmente e lui se le farebbe tutte, cui seguono comportamenti goffamente seduttivi, dall’altro ammette a mezza bocca di non avere forti spinte erotiche verso le donne mentre ne prova di intense e inconfessabili verso i maschi.

Lo sforzo che Maria Filata chiede a tutti alla riunione clinica generale è di mettersi nei panni di Paolo per cercare insieme di capirlo meglio prima di risolvere il problema diagnostico e farmacologico.

Come poteva sentirsi un bambino allegro ed estroverso che, diventato  ragazzino adolescente in cerca della sua identità magari pure con dei dubbi, si trova in una famiglia in cui regna il non detto, l’inganno ed  è esaltata la forza e una virilità da spogliatoio e da caserma e dove ogni insicurezza è squalificata, negata o derisa?

Maria riporta testualmente una frase “la verità è che io non voglio più avere rapporti con me stesso” che riassume il vissuto di Paolo.

Irati sostiene che in ciò trova spiegazione la dissociazione come modo per non stare con se stesso.

Certamente è dissociata la parte omosessuale che sarebbe compito della psicoterapia esplorare e portare alla luce.

Silvia e Giovanni da assistenti sociali rivendicano una visione più complessa e meno intrapsichica del caso e sottolineano come si sappia poco del percorso scolastico e lavorativo di Paolo.

Sulla stessa linea intervengono Luisa e Maria lamentando la mancanza, almeno nel resoconto della dottoressa Filata, di un bilancio delle risorse di Paolo, strumento indispensabile per elaborare un progetto.

Come sempre decisa e priva di qualsiasi dubbio, la dottoressa Mattiacci propende per un immediato allontanamento di Paolo da casa con  un ricovero in una comunità terapeutica. Sostiene la necessità di un netto viraggio farmacologico verso i neurolettici, ma gli altri medici presenti storcono la bocca (il che avviene regolarmente quando uno dei tre si esprime su qualsiasi cosa).

La Filata integra il suo resoconto riferendo che, dopo scuole secondarie a carattere tecnico, Paolo ha svolto vari lavori sempre interrotti per mancanza di continuità nell’impegno, anche per l’abuso continuo di sostanze che faceva all’epoca e che oggi è contenuto.

Biagioli invita tutti per la settimana successiva ad un brainstorming su possibili interventi terapeutici che possibilmente utilizzino come punti di forza le naturali tendenze di Paolo, con lo spirito di assecondare l’onda sfruttandone la forza piuttosto che contrastarla.

Raccolte tutte le proposte, la dottoressa Filata le organizzerà in un progetto unitario che negozierà con Paolo e insieme presenteranno ai genitori che hanno da due mesi lasciato il gruppo di sostegno per familiari.

All’inizio della riunione successiva Biagioli esorta ad evitare il cosiddetto “tiro al piccione,” consistente nel mettere in atto tutta la propria intelligenza per evidenziare i difetti di qualsiasi proposta con il risultato di abbatterle tutte perché nessuna è perfetta e rimanere con un cielo privo di volatili. Non si tratta di un concorso a premi non ci sarà un’ idea vincente, ma un collage di idee che si supporteranno a vicenda. Con tono stentoreo, che scatena scomposta ilarità, afferma che o si vince insieme o si perde insieme e soprattutto che a vincere deve essere Paolo. Su questo proclama garibaldino tipo “o Roma o morte” si consumano gli ultimi caffè della colazione e si parte con le idee più bizzarre.

Irati ribadisce che, asse portante dell’intervento deve essere la psicoterapia individuale, con l’obiettivo di emanciparsi dalla famiglia esplorandone i numerosi segreti e  l’accettazione della propria omosessualità negata.

Silvia e Giovanni concordano con Lina sull’opportunità di un allontanamento dal patogeno nucleo familiare, ma sono nettamente contrari ad un ricovero in Comunità, ritenendo anzi che una caratteristica generale dell’intervento debba essere proprio la riduzione della psichiatrizzazione del caso con lo stigma che comporta, contribuendo a farlo sentire “un alieno che non vola”.

A loro avviso bisogna pensare ad un alloggio diverso anche chiedendo esplicitamente risorse ai genitori che si erano detti disponibili per una terapia privata.

Gli assistenti sociali ribadiscono poi che non c’è vera autonomia senza indipendenza economica (i soliti marxisti) e dunque la ricerca di formazione e di un lavoro è al primo posto della loro agenda.

Considerata l’abitudine di Paolo a vivere nella menzogna e a dissociarsi hanno pensato alla cooperativa “La maschera” che fa teatro a livello amatoriale e fornisce anche servizi a compagnie professionistiche.

Dal canto suo Biagioli propone un progressivo wash out da tutti i farmaci.

La Mattiacci lo incenerisce con uno sguardo di traverso e lui  si corregge dicendo che avrebbe lo scopo di vedere il quadro clinico allo stato puro per poter meglio fare diagnosi.

Gilda si offre di inserire Paolo in un corso di yoga che lei frequenta in modo da insegnargli tecniche di rilassamento che possano supplire all’eliminazione delle benzodiazepine.

La formazione sistemica della dottoressa Ficca emerge nel proporre un intervento terapeutico vero e proprio per la coppia dei genitori che sono anch’essi estremamente sofferenti e non pronti ad affrontare il distacco di Paolo.

L’incontro della dottoressa Filata con Paolo, che era previsto per il martedì successivo fu disdetto da Paolo per la prima volta: telefonò per chiedere di spostarlo di una settimana.

Lei si consultò con Biagioli e ipotizzarono che fosse un drop out motivato dall’intuizione di Paolo che  lo si volesse allontanare dalla famiglia.

Invece era solo il funerale di Mario, che un’auto aveva travolto proprio sotto casa (casusalmente o intenzionalmente sarà compito del magistrato stabilire).

Maria e Paolo al di là delle condoglianze di rito si scambiarono uno sguardo che intendeva “finalmente si inizia a far ordine”. La realizzazione dei vari progetti immaginati per Paolo fu facilitata da un lascito testamentario di Mario per Paolo di parecchi soldi.

Paolo andò a vivere per proprio conto in affitto e due anni dopo ereditò alcuni immobili per la morte del padre. Progressivamente, l’unico legame che restò con il CIM fu la psicoterapia con la dottoressa Filata, gli altri interventi furono progressivamente abbandonati tranne la cooperativa teatrale che divenne il suo hobby preferito.

Non ebbe mai  un lavoro stabile, viveva di numerose rendite immobiliari, si limitava all’uso moderato di canne e aveva saltuari compagni con i quali si sentiva meno alieno.

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

 

 

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Psicoterapia: Intervista a Franco Del Corno – I Grandi Clinici Italiani

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Franco Del Corno

Psicologo Psicoterapeuta, Presidente di SPR Italia

 

State of Mind intervista Franco Del Corno, Psicologo e Psicoterapeuta. Co-Fondatore dell’Associazione e la Ricerca in Psicologia ARP, Presidente di SPR, Society for Psychotherapy Research Italy Area group. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

VEDI IL PROFILO DI: Franco Del Corno 

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Alle radici della malattia di Parkinson

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio condotto dai ricercatori della Johns Hopkins su neuroni umani coltivati in laboratorio e sulle drosophilae ha portato all’identificazione di un processo che concorre ad una particolare condizione della malattia di Parkinson, riscontrata in un gran numero di pazienti.

La possibilità inoltre di intervenire su tale processo sembrerebbe aprire le porte ad una nuova speranza di trattamento.

Infatti, sebbene alcuni farmaci, come la L-dopa, consentano ai pazienti una più facile gestione dei sintomi, il disturbo non può essere arrestato e il peggioramento della malattia porta ad un aumento dei tremori fino all’immobilità e, in alcuni casi, alla demenza.

Il progetto di ricerca coordinato da Ted Dawson, professore di neurologia e direttore del dipartimento di ingegneria cellulare del Johns Hopkins, ha preso avvio dalle scoperte in merito all’origine della malattia di Parkinson, i cui sintomi sono legati alla degenerazione delle cellule nervose responsabili della produzione di dopamina.

Le evidenze circa l’implicazione di fattori genetici nell’origine del disturbo sono apparse una decina di anni fa, quando è stata identificata una mutazione chiave in un enzima conosciuto come leucine-rich-repeat-kinase 2 (LRRK2). È stato Dawson a riconoscere che si trattasse di una chinasi, cioè un tipo di enzima in grado di trasportare gruppi fosfato alle proteine, modulandone la loro attivazione o disattivazione.

Nonostante nel corso degli anni diversi studi abbiano mostrato che il blocco dell’attività dell’enzima mutato arrestasse la degenerazione neurale mentre un suo aumento ne provocasse un peggioramento, per circa un decennio gli scienziati non sono riusciti a capire quale fosse il legame tra la mutazione di LRRK2 e la malattia di Parkinson.

Lo studio di Dawson mostra un chiaro collegamento tra LRRK2 e i meccanismi patogenetici di questa patologia.

È stato grazie a lui che sono state identificate le proteine coinvolte nel disturbo sulle quali sembrava agire LRRK2. Al tempo, nessuno sospettava che LRRK2 fosse coinvolto in attività fondamentali come la produzione delle proteine.

Le proteine identificate sono poi state sottoposte ad una serie di test per capire quali di queste potessero essere fosforilate da LRRK2.

Studiando inizialmente i risultati della mutazione di tre proteine ribosomiali (s11, s15, s27), il team di Dawson è giunto alla conclusione che una mutazione della proteina s15 bloccasse la fosforilazione di LRRK2 in modo tale da proteggere le cellule nervose dalla morte.

Con la proteina ora identificata, il team di Dawson sta affrontando ulteriori esperimenti per verificare come un eccesso nella produzione della proteina possa causare la degenerazione neuronale. Vogliono inoltre vedere cosa succede bloccando l’azione dell’enzima LRRK2 su s15 nei topi.

 

 

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Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

Se per una famiglia prendere un cane è una decisione stimolante e allo stesso tempo di responsabilità, nel caso di famiglie con bambini autistici la stessa decisione risulta essere ancora più importante e impegnativa.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Missouri ha indagato se avere un cane all’interno di una famiglia con un bambino autistico comporta dei benefici. Indipendentemente dal possesso di un cane o meno, dalle risposte dei genitori sembrerebbe di si.

Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

I bambini con disturbi dello spettro autistico spesso hanno difficoltà nell’interagire con gli altri e di conseguenza nel formare amicizie. Avere ed interagire con un cane significa offrire a loro compagnia ed amore incondizionato senza pregiudizio alcuno, sostiene  Gretchen Carlisle, un ricercatore presso il Centro di Ricerca Interazione Uomo-Animale (ReCHAI) dell’Università di Medicina Veterinaria di Missouri.

Nello studio sono stati intervistati 70 genitori di bambini con autismo. Dei quasi due terzi in possesso di un cane, il 94% ha affermato che i loro figli sono inseparabili dai loro cani. Anche nelle famiglie senza cani, il 70% dei genitori ha affermato che ai loro figli piacciono i cani. I genitori che all’interno della famiglia avevano un cane hanno argomentato la loro scelta alla luce dei benefici percepiti per i loro figli.

Sempre Gretchen Carlisle sostiene che i cani possono aiutare i bambini con autismo, agendo come fattore facilitante all’interno del processo di interazione sociale.

Per esempio, i bambini con autismo possono avere difficoltà ad interagire con gli altri bambini del quartiere. Se i bambini con autismo invitano i loro coetanei a giocare con i loro cani, questi ultimi diventano un ponte comunicativo che consolida le interazioni fra i bambini.

Gli autori raccomandano ai genitori di coinvolgere attivamente i loro figli nella scelta del cane. Tanti bambini con autismo sanno già come preferirebbero il loro cane e se vengono coinvolti attivamente nella decisione si aumenta la probabilità di creare un’esperienza piacevole già dal momento dell’inserimento del nuovo membro della famiglia nella casa.

Sebbene questo studio indaghi esclusivamente i benefici che i cani portano nelle famiglie dei bambini con autismo, gli autori non escludono che gli stessi benefici si abbiano anche nel caso di animali di compagnia diversi dai cani.

I bambini sono unici e ognuno di essi sogna il suo animale di compagnia che può essere un gatto, un coniglio o come nel mio caso da bambina…un cavallo.

Quindi nella scelta dell’animale di compagnia un ruolo fondamentale deve essere attribuito ai propri interessi e alle proprie caratteristiche di personalità.

Se da un lato questa ricerca aggiunge credibilità scientifica ai benefici dati dall’interazione uomo-animale e ci aiuta a capire l’importanza e il ruolo dell’animale di compagnia nel migliorare la vita dei bambini con autismo, dall’altro lato aiuta i professionisti del settore sanitario ad insegnare come e perché indirizzare le famiglie con dei bambini autistici nella scelta dell’animale di compagnia più adatto.

 

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Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi – Report da Firenze 2014

Federico Calemme

 

 

Omogenitorialità & Scuola

Il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi affronta il tema della famiglia del 2014, in una scuola ancora non pronta a due papà o due mamme.

Mai spot con una famiglia gay, sono per la famiglia tradizionale. È il Settembre del 2013 quando Guido Barilla dichiara apertamente di essere contro le famiglie omogenitoriali, promuovendo un assetto familiare eterosessuale composto da padre, madre e uno o due figli.

Una famiglia, quella promossa da Barilla, che si rispecchia nelle rappresentazioni culturali, nelle immagini veicolate dai mass media, e nelle istituzioni di un Paese che ignora la realtà: nel 2014 siamo dinanzi ad una galassia di forme familiari in continuo movimento, in cui compaiono a pieno diritto anche le famiglie omogenitoriali.

Ma l’Italia del 2014 per quanto tempo ancora rimarrà ancorata ad una tradizione ormai tramontata? Per quanto tempo ancora il Bel Paese e le sue istituzioni potranno dire MAI ad una famiglia omogenitoriale?

È attorno a questi quesiti che lo scorso 5 Aprile, nella cornice di una Firenze uggiosa, si è svolto il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi, promosso dall’Istituto degli Innocenti e da Famiglie Arcobaleno, Associazione Genitori Omosessuali.

Tema centrale è stato il pregiudizio insito nel nostro contesto culturale che, a detta del Dott. Federico Ferrari, uno dei relatori del seminario, ha influenzato per troppo tempo anche le ipotesi di ricerca, ancorandole alle stesse premesse radicate.

Due padri o due madri potrebbero essere bravi genitori? I figli di famiglie omogenitoriali avranno problemi di identificazione sessuale? I figli di coppie gay o lesbiche saranno oggetto di stigma culturale? 40 anni di ricerca hanno dato risposte favorevoli alle famiglie omogenitoriali ma nonostante ciò le domande tornano, come se questa cultura eterocentrica non volesse e non potesse accettare la realtà.

I nuovi quesiti che dovrebbero affacciarsi sullo scenario della ricerca non fanno capo al se ma al COME: Come possono funzionare al meglio i nuclei omogenitoriali? A quali condizioni? Uno dei fattori di rischio più importanti si è rivelato essere l’Omofobia nel contesto scolastico, per cui assistiamo a situazioni di discriminazione nei confronti di figli di coppie LGBT (con una frequenza, secondo alcune ricerche, del 50%), nonostante i dati dicano anche che i figli di famiglie omogenitoriali non soffrano effettivamente più degli altri. Come spiegare questi dati contraddittori? L’elemento chiave, continua Ferrari, sembra essere il dialogo con la scuola, ossia il rapporto tra genitori LGBT, più attenti e competenti rispetto alle situazioni di discriminazione, e istituzione educativa. Un rapporto più trasparente e in cui l’obiettivo primario sembra proprio essere normalizzare le realtà omogenitoriali. La scuola ha gli strumenti per poter compiere questo processo di normalizzazione?

Irene Biemmi, assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Firenze, ha sottolineato come il cambiamento possa e debba partire proprio dal materiale didattico che viene fornito ai bambini all’interno della scuola. Ad oggi infatti nei libri di testo vengono ancora forniti modelli familiari di tradizione eterocentrica, in cui non solo viene meno la realtà omogenitoriale, ma vi è ancora una discriminazione di genere: il padre è il genitore che lavora e che si assenta da casa tutto il giorno, mentre la madre provvede alla casa e ai figli e, quando lavora, al massimo fa la segretaria o la maestra.

È ancora questo il messaggio che vogliamo veicolare ai nostri figli? Come possiamo pretendere che la scuola tenga il passo con la realtà se il modello fornito non corrisponde nemmeno alla generazione di genitori, quanto più a quella dei nonni? Inoltre, continua Giuseppina La Delfa, presidente di Famiglie Arcobaleno, sarebbe importante andare a modificare anche tutti gli aspetti burocratici che sono legati alla scuola in quanto non solo luogo educativo ma vera e propria istituzione, a partire ad esempio dai moduli di iscrizione in cui al posto delle voci padre e madre, sarebbe più corretto un documento con genitore 1, genitore 2.

Piccoli accorgimenti, assieme all’inserimento di tematiche omosessuali nelle attività curriculari, che si muovono verso una missione di integrazione che se in passato ha toccato altri tipi di realtà non tradizionali, come le famiglie extracomunitarie, ora deve dedicarsi alle famiglie composte da due papà o due mamme.

La scuola in quanto specchio e scultrice dell’Italia che sarà, deve essere pronta ad una realtà che sta abbandonando le fila dell’eccezionalità, a favore di una famiglia sganciata dagli orientamenti sessuali e dal genere, in cui la parola tradizionale possa corrispondere semplicemente ad un nucleo familiare armonico e funzionale.

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