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L’ansia sociale può compromettere le relazioni sentimentali?

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Come funziona l’ansia sociale nelle relazioni romantiche e sentimentali? In che modo può impattare sulla soddisfazione e sul livello di intimità di una relazione?

L’ansia sociale è da considerarsi un continuum nella popolazione, al cui estremo ritroviamo il disturbo vero e proprio (fobia sociale o in inglese social anxiety disorder (SAD)(Ruscio, 2010). Sia il disturbo vero e proprio che elevati livelli di ansia sociale sono chiaramente associati con difficoltà di funzionamento nelle relazioni interpersonali: gli ansiosi sociali hanno reti sociali più ristrette (Torgrud et al., 2004) ed è meno probabile che si sposino o convivano (Schneier, Johnson, Hornig, Liebowitz, & Weissman, 1992). Anche se è chiaro che l’ansia sociale non facilita le relazioni, poco si sa rispetto alla qualità delle relazioni sentimentali che si instaurano nel momento in cui si instaurano. L’obiettivo di un nuovo studio pubblicato sul Journal of Clinical Psychology è quello di indagare se l’ansia sociale possa variare con la soddisfazione di coppia, il supporto  e l’intimità nelle relazioni sentimentali. Circa 80 coppie eterosessuali di studenti sono state coinvolte nello studio completando, da parte di entrambi i partner , dei questionari self-report. Tra le misure utilizzate vi sono la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS) (Mattick & Clarke, 1998), la Relationship Assessment Scale (RAS) (Hendrick, 1988)e altre scale che misurano l’intimità e a percezione di supporto ricevuto e dato all’interno della coppia.

I risultati dimostrano che elevati livelli di ansia sociale nelle donne, ma non negli uomini, sarebbero associati alla percezione di minore supporto, e cioè la percezione del supporto ricevuto dal partner e la percezione di dare al partner supporto sarebbero inferiori in relazione a punteggi elevati di ansia sociale, ma solo nel genere femminile. Inoltre sempre solo le donne con maggiore ansia sociale riportavano una minore soddisfazione nelle relazioni romantiche con una minore quota di self-disclosure nei confronti del partner. Mentre in entrambi i generi, sia per gli uomini che per le donne, un’elevata ansia sociale è correlata a una percezione di intimità come maggiormente rischiosa, cioè si crede che avvicinarsi emotivamente e intimamente agli altri può essere pericoloso e avere conseguenze negative (Pilkington & Richardson, 1988).

Dunque lo studio supporta empiricamente l’idea che l’ansia sociale sia una difficoltà interpersonale  così rilevante da entrare in gioco in qualche misura anche  nella qualità delle relazioni sentimentali.

 

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Bluffare a poker contro Paul Ekman: missione impossibile?

Giochereste mai a poker contro Paul Ekman, il più grande esperto mondiale nel riconoscere le menzogne?

Nel gioco del poker si può vincere senza bluffare, ma non si può vincere se non si è in grado di riconoscere un bluff, ecco perché essere in grado di capire se un giocatore sta mentendo o meno è un fattore determinante per l’esito della partita, nonché dote indispensabile per diventare un campione di poker.

Quindi i grandi pokeristi sono degli abili lie detector? Niente affatto! Se non sono seduti al tavolo verde, se la cavano né più né meno della stragrande maggioranza delle persone: la loro performance nell’identificare una menzogna non è migliore che se tirassero ad indovinare!

Come Paul Ekman insegna, per poter capire se una persona sta mentendo è necessario saper riconoscere le micro e le mini espressioni facciali, i gesti fuori posto, i cambiamenti nel tono della voce, ecc. Sono questi i segni rivelatori su cui ci si basa per poter identificare una bugia.

Ma questi segni non emergono in una partita di poker, dove i giocatori non proferiscono parola, hanno il volto impassibile, parzialmente coperto da grandi occhiali scuri, indossano felpe con il cappuccio, e gli unici gesti concessi riguardano il movimento delle carte. I pokeristi per riconoscere un bluff non si basano sui classici segni rivelatori, ma in questo gioco silenzioso che è il poker sono abilissimi nell’interpretare un particolare limitato ventaglio di movimenti per scoprire un bluff.

Come facciano resta ancora un mistero, anche per Paul Ekman.

 

Spotting Poker BluffsConsigliato dalla Redazione

Two winners of the International Poker Tournament, in different years, sought my advice on calling bluffs, knowing that I am an expert in spotting liars. I told them I had not played poker since junior high and had never watched poker being played. T… (…)

 

Se volete approfondire le riflessioni di Paul Ekman sull’arte del bluff a poker, ecco il suo articolo pubblicato recentemente sull’Huffington Post: … Continua  >>

 


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Psicoterapia Sistemico – Relazionale: Intervista con Valeria Ugazio

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Valeria Ugazio

Professoressa Ordinaria all’Università di Bergamo

 

State of Mind intervista Valeria Ugazio, Psicologa Psicoterapeuta, Professoressa Ordinaria di Psicologia Clinica presso l’Università di Bergamo, Direttrice e Fondatrice della Scuola di Specializzazione EIST. 

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

VEDI IL PROFILO DI VALERIA UGAZIO

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Il Delirio di Ivan: Psicopatologia dei fratelli Karamazov – Psicologia & Letteratura

 Anna Angelillo  

 

 

Psicopatologia dei fratelli Karamazov - RecensioneÈ un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Proviamo ad immaginare, in un gioco di finzione, uno dei maggiori romanzieri di tutti i tempi che accompagna dallo psicoterapeuta tre dei suoi figli di penna. Quello che ci verrà consegnato alla fine di questo incontro sarà un libricino candido e minuto, firmato da uno dei maggiori psicoterapeuti italiani, Antonio Semerari, che racchiude un’analisi accurata e illuminante della psicologia (o meglio, della psicopatologia) dei tre pazienti dostoevskijani che si sono succeduti sulla sua poltrona: Dmitrij, Aleksej e Ivan, più famosi e noti come i fratelli Karamazòv.

Il delirio di Ivan è un invito a nozze per gli psicologi che amano la letteratura e uno stimolo intellettuale per i profani che hanno però da sempre amato il talento di Fëdor Dostoevskij nel dare vita a personaggi perfetti e coerenti dal punto di vista psichico, a tal punto da sembrare reali.

L’autore si propone di trattare le creazioni dello scrittore come se fossero realmente esistite, e quindi di analizzare le anime in scena, presentandone la psiche che, come avviene nella realtà, ha preso forma dalle vicende drammatiche e non che hanno visto susseguirsi nel corso della loro vita.

Alla luce dell’approccio clinico dello psicoterapeuta in gioco, gli strumenti utilizzati nella descrizione della loro personalità e dei disturbi saranno tratti dall’attuale psicologia dello sviluppo e dagli studi recenti sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione, come precisato dall’autore nell’introduzione.

E il tentativo sarà quello di proiettare sulla famiglia Karamazòv le conoscenze attuali sugli sviluppi traumatici della personalità (concetto introdotto da altri due noti psichiatri italiani, Giovanni Liotti e Benedetto Farina, e preso in prestito dall’autore), provando a dare un ordine al caos (che alla fine del trattato si dimostrerà essere solo apparente), in cui lo scrittore russo pone i suoi personaggi.

L’intento è quello di mostrare come, in fase di sviluppo, un contatto prolungato con condizioni traumatiche, abbandoni o continui cambiamenti di figure di attaccamento ed estesi momenti di neglect possano avere un effetto disgregante sul senso di identità che si strutturerà, anche in base ai tratti temperamentali e alle disposizioni innate che ciascuno sfodererà nel reagire a tali vicissitudini traumatiche.

Dopo una breve e chiara presentazione della teoria in pillole dei disturbi della coscienza e del loro rapporto coi traumi psicologici, il clinico-autore va quindi ad esporre il contesto familiare in cui si muovono i Karamazòv, collocando sullo sfondo un padre disinteressato e trascurante e poi, pennellata dopo pennellata, dà forma all’animo dei tre fratelli: ne ricostruisce, ripercorrendo i capitoli del romanzo, la storia, ci consegna informazioni sugli aspetti temperamentali e le modalità di reazione a quello che la vita romanzesca ha offerto loro e poi ci mostra come si delinea un itinerario di sviluppo – differente per ognuno – che trova appoggio (e quasi conferma – a sottolineare la bravura dello scrittore russo) nelle vicende tracciate da Dostoevskij.

Nelle conclusioni, infatti, si può leggere:

Posti di fronte ad un male che sovrasta la loro capacità di reazione, accade a questi personaggi quello che accade alla maggioranza degli esseri umani: la loro capacità di discriminare con chiarezza tra gli eventi del mondo interiore e la realtà esterna si indebolisce e la loro identità perde di coesione. A tutto questo reagiscono in modi molto diversi l’uno dall’altro, modi coerenti con l’indole e il temperamento di ciascuno, ognuno dei quali, però, rientra così tanto nell’infinità varietà delle reazioni umane da essere oggetto di indagine da parte degli studiosi della psiche.

(pag. 119).

Richiudendo il libro di Semerari, si avrà la sensazione che ogni cosa sia andata al suo posto e che ciascuna anima girovagante tra quelle pagine abbia trovato un suo senso e una sua coerenza.

È un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Il contributo dello psichiatra romano restituisce, senza dubbio, ancor più spessore ad un estremo esempio di grandezza letteraria, quale è l’opera dostoevskijana.

 

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Combattere la perdita di memoria con una risata

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione.

Troppo stress con l’avanzare dell’età può portare a una serie di problemi di salute, tra cui l’ipertensione, il diabete e le malattie cardiache. Recenti ricerche hanno dimostrato che il cortisolo, l’ormone dello stress, è in grado di danneggiare i neuroni nell’ippocampo e influenzare negativamente la memoria e l’apprendimento negli anziani . I ricercatori della Loma Linda University hanno scoperto che umorismo e sorrisi aiutano a ridurre i danni creati dal cortisolo.

 Due gruppi di anziani, sani e con il diabete, hanno guardato per 20 minuti un video divertente e poi hanno eseguito dei compiti per valutare capacità di apprendimento, rievocazione e riconoscimento visivo. La loro performance è stata confrontata con un gruppo di controllo che è stato testato nelle abilità cognitive ma che non ha visto il video umoristico.
I risultati, presentati recentemente all’Experimental Biology Meeting di San Diego, indicano nei due gruppi sperimentali una significativa diminuzione delle concentrazioni di cortisolo e un incremento nei punteggi di memoria rispetto al gruppo di controllo; in particolare nei diabetici si è osservata una drastica variazione del livello di cortisolo, mentre per gli anziani sani i cambiamenti più significativi sono stati nei punteggi dei test di memoria.

Lee Berk, da lungo tempo ricercatore in psiconeuroimmunologia dell’umorismo, dice:

“Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo; ridere aumenta il rilascio di endorfine e dopamina nel cervello, che forniscono un senso di piacere e di ricompensa. Questi cambiamenti neurochimici positivi a loro volta migliorano la funzione del sistema immunitario. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione. La risata, insomma, non è solo un buona medicina, ma anche un potenziatore della memoria che migliora la qualità della vita”.

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The Wrestler (2009) – Tra grandiosità narcisistica e rifiuto del fallimento

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  Nr.24

The Wrestler (2009)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

The Wrestler (2009) - PosterUn film di Darren Aronofsky, con Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry. Drammatico. Francia-USA 2009.

 

Trama

The Ram, Randy Robinson, è un eroe del wrestling degli anni ottan­ta che venti anni più tardi, non balla più sul ring e deve confrontarsi con il fallimento. I fasti e i successi della sua carriera sono solo ricordi per­manenti nei segni della lotta che porta sul corpo. Lavora in un grande magazzino dove il proprietario lo tratta come uno schiavo, cerca di rico­struirsi una relazione affettiva partendo da un rapporto mercenario con una spogliarellista che per molti aspetti gli somiglia, anche lei in disfaci­mento, ha una figlia con la quale non riesce a riallacciare un filo che si è spezzato da troppo tempo.

Le luci si spostano dal ring all’animo di Randy, triste e terrificato dalla sconfitta che gli sbatte in faccia la vita. Lui, abituato a vincere ad essere il numero uno, si ritrova a fare i conti con un declino irreversibi­le e a riflettere sulla sua esistenza vuota.

 

Motivi di interesse

In Randy Robinson sono presenti alcuni tratti tipici di una persona­lità narcisista: ha un senso grandioso di importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore), è assorbi­to da fantasie di illimitati successo, potere e fascino, crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone speciali e richiede eccessiva ammirazione.

La sua storia mostra il passaggio da uno stato mentale grandioso che manifesta con atteggiamento di superiorità, dominio e diversità orgogliosa allo stato depresso-terrifico, con senso di fallimento, di sconfitta e di rifiuto e conseguente autosvalutazione.

Le emozioni di vergogna, tristezza e nostalgia segnano l’umore del protagonista fino a portarlo a uno stato di vuoto devitalizzato con esperienza emotiva spenta, che si legge nei suoi occhi dall’inizio alla fine.

L’anziano wrest­ler cerca di sopravvivere nel suo mito, imbottendosi di farmaci, ma ormai il fisico non lo sorregge e le luci intorno a lui si spengono, i fans si dimenticano di “The Ram”. Non ha altre risorse, se non quelle dei muscoli, non ha altre competenze se non quelle sportive e le vecchiet­te al banco sono avversari più difficili di quelli che incontrava sul ring. Questo colosso invincibile si mostra fragile, incapace, rifiutato, solo e disperato. Negli occhi di Randy è visibile la disperazione di chi sa di essere diventato un perdente.

 

Indicazioni per l’utilizzo

I contenuti del film possono essere utilizzati per il trattamento di pazienti con disturbo narcisistico di personalità. In particolare per:

  • connettere stati interni in relazione all’ambiente;
  • favorire l’accesso ai desideri che non riguardano la grandiosità;
  • incrementare la comprensione degli stati mentali propri e degli altri;
  • Individuare ed interrompere i circoli viziosi che si instaurano tra pensieri, emozioni e comportamenti;
  • identificare gli stati problematici (grandiosità, distacco, vuoto, depres­sione, vergogna, invidia, rabbia) e valutare strategie più funzionali per la gestione di essi;
  • regolare l’autostima mediante la promozione di modalità più funzio­nali.

 

TRAILER: 

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Genitori omosessuali: penalizzati nonostante le ricerche a favore

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità.

Secondo una review della Drexel University le decisioni prese dalla Corte sulla custodia di figli a genitori omosessuali spesso non tengono in debita considerazione la ricerca scientifica sull’adeguatezza della genitorialità di gay e lesbiche.

Precedenti ricerche dimostrano, infatti, che gay e lesbiche sono genitori tanto efficaci quanto quelli eterosessuali e che i bambini allevati da genitori gay o lesbiche sono ben adattati, come i loro coetanei allevati da genitori etero.

 Nonostante questi dati l’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità. Inoltre, per le coppie omosessuali con figli, la fine della relazione può significare difficoltà a stabilire diritti parentali per entrambi i genitori, quando uno dei partner non viene riconosciuto come un genitore legale da parte dello Stato e dal giudice, e pertanto non gli viene concessa la custodia o il diritto di visita.
I ricercatori della Drexel raccomandano che psicologi, giudici e legislatori tengono conto della ricerca sulla genitorialità gay. Essi ritengono che questa ricerca abbia il potenziale giusto per aiutarli nelle decisioni complesse in materia di affidamento e di diritto dei genitori e potrebbe contribuire a garantire che tali decisioni giuridiche riflettano effettivamente il migliore interesse del bambino .

 

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Dalla psicopatologia cantata alla Psicantria della vita quotidiana

 

 

In sintonia con la moda holliwoodiana dei sequel delle opere prime, anche noi “psicantrici” abbiamo sentito l’esigenza di dare un seguito a “La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata”, uscito nel 2011 per questo stesso editore, con un nuovo libro-CD intitolato “La Psicantria della vita quotidiana”.


Il titolo ha un chiaro riferimento alla celeberrima opera di Freud (1901), in quanto questa volta la nostra attenzione si è concentrata sugli scenari psicopatologici che si possono incontrare nel nostro vivere quotidiano, anche al di fuori dei luoghi di cura. L’aggressività all’interno dei gruppi, l’influenza delle tecnologie sul nostro modo di relazionarci all’altro, la difficoltà a costruirsi un’identità stabile sono alcuni dei temi che trattiamo in queste canzoni, nate dalle nostre osservazioni effettuate in contesti clinici e, più largamente, sociali.

Ma facciamo un passo indietro.

La Psicantria è andata oltre i confini della pubblicazione, diventando un progetto educativo e culturale, che ci ha dato la possibilità, attraverso le canzoni e i concerti di presentazione, di entrare in contatto con tantissime persone vicine e lontane dallo psicomondo. I contesti nei quali abbiamo presentato lo spettacolo di psicopatologia cantata sono stati molteplici: biblioteche, scuole superiori, teatri, università, congressi scientifici, festival legati salute mentale, eventi organizzati da associazioni di volontariato e cooperative sociali, centri di salute mentale.

Al nostro psicotour è stato riconosciuto nel 2012, con grandissima soddisfazione, il premio “Nessuno mi può giudicare” contro lo stigma in psichiatria, promosso dall’ASL di Lucca. Questo riconoscimento ci ha riempito di orgoglio in quanto crediamo fermamente che lo stigma nei confronti delle persone affette da disturbi psichiatrici sia ancora molto presente nella nostra società, con grandi ripercussioni sull’accesso alle cure e sulla riabilitazione. Più che le scoperte di nuovi recettori neuronali da parte dei neuroscienziati o di innovative tecniche psicoterapiche, siamo convinti che un atteggiamento più accogliente e meno giudicante nei confronti di coloro che vivono le difficoltà quotidiane della malattia mentale, sia il primo passo da fare per migliorare concretamente la loro qualità di vita, con ripercussioni positive sul disturbo stesso.

Ci sono tanti aneddoti di questi tre anni che ricordiamo con piacere e un po’ di incredulità. Non ci saremmo mai aspettati, ad esempio, di ascoltare una versione punk di Jessica l’anoressica, eseguita da una band di liceali di Belluno, di intervenire con la chitarra a congressi nazionali di psicoterapia e musicoterapia, di cantare un grande successo di Caterina Caselli con una psychiatric band a Capannori (LU), di esibirci al premio Lunezia 2012 insieme a Bobo Rondelli e Paolo Jannacci, di essere recensiti positivamente dall’ostico critico musicale Mario Luzzatto Fegiz, o di ritrovarci autori di una canzone nell’ultimo disco di Francesco Guccini.

Abbiamo avuto l’onore di suonare in diverse università italiane per il Segretariato Italiano Studenti in Medicina e uno studente di Ferrara, fino a quel momento avviato verso un futuro da anestesista, dopo aver assistito al concerto ha deciso di scegliere psichiatria. Che responsabilità! La cosa divertente è stata che a un successiva presentazione a Venezia si è presentato il padre dello studente che evidentemente voleva capire meglio il cambio di rotta del figlio. Per fortuna non sembrava arrabbiato!

L’aggettivo psicantrico è ormai entrato nello slang dei nostri social network, identificando un’attitudine alla sdrammatizzazione e all’uso dell’ autoironia come registro comunicativo per entrare in sintonia con l’altro.

L’obiettivo divulgativo e psicoeducativo di Psicantria è stato raggiunto pienamente, grazie soprattutto al potere dello strumento canzone, in grado di stimolare l’identificazione e la condivisione emotiva dei vissuti dei protagonisti dei brani.

In molti ci hanno chiesto se le canzoni psicantriche possano essere utilizzate come terapia. Fino ad oggi non le abbiamo mai sperimentate in prima persona perché non ci sembra opportuno presentarci ai pazienti nella doppia veste di cantautori e terapeuti, con il rischio di creare confusione. Abbiamo invece diverse testimonianze di colleghi che hanno utilizzato le nostre canzoni sia in percorsi terapeutici individuali, sia in gruppi di psicoeducazione con buoni risultati.

I feedback che abbiamo ricevuto sono positivi e le canzoni vengono generalmente apprezzate dalla gran parte dei pazienti che, riuscendo a riconoscersi nelle storie che  cantiamo, possono trovare l’occasione di distanziarsi dalla propria esperienza dolorosa, rileggendola da un’altra prospettiva. Ci sono stati pure riportati casi di pazienti con profili caratteriali di tipo paranoide per cui può essere sconsigliato l’uso dei brani, soprattutto quelli che trattano i temi in modo ironico. Riteniamo comunque che le potenzialità dell’utilizzo dei nostri brani in ambito clinico debbano essere ancora approfondite e meritino ulteriori sperimentazioni in diversi contesti terapeutici. A questo riguardo abbiamo iniziato a raccogliere materiale sull’uso della canzone come strumento di cura e speriamo in futuro di produrre una pubblicazione su questo argomento.

Crediamo sia importante segnalare che le canzoni della psicantria sono state molto apprezzate anche dagli operatori dello psicomondo (medici, psicologi, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione psichiatrica…), che forse si sono identificati con il messaggio di sdrammatizzazione contenuto in alcuni nostri brani. Un operatore di Cremona ci ha confidato che ogni mattina, recandosi al lavoro,  si “caricava” ascoltando il nostro CD in auto. Che soddisfazione!

Lavorare quotidianamente con la sofferenza psichica può essere davvero usurante, ma rappresentare il disagio in una prospettiva diversa e che stimoli la nostra curiosità ci salva dalla cosiddetta “cronificazione”, cioè il pensare che le malattie psichiatriche siano entità statiche e inguaribili. D’altra parte come scrive Saraceno (1995)

“la Salute Mentale è l’insieme delle azioni di promozione, prevenzione e cura riferite al miglioramento o al mantenimento o alla restituzione della Salute Mentale”.

Le canzoni, come altre forme artistiche, possono giocare un ruolo importante nella promozione e nella prevenzione, come potente veicolo di psicoeducazione. In certi contesti come la scuola, la canzone può avere più effetto di tanti discorsi e ce ne siamo resi conto di persona durante l’attività di prevenzione al disagio psichico negli istituti modenesi. Quando imbracciavamo la chitarra calava il silenzio sulla sala, quando iniziavamo a parlare ripartiva il brusio. Del resto per tanti ragazzi la canzone è ancora il principale mezzo di trasmissione culturale (Greenfield et al., 1987), molto più dei libri e dei film. Si pensi ad esempio alla diffusione tra gli adolescenti della musica rap, che in qualche modo rappresenta, per i contenuti di impegno e critica sociale, una forma attualizzata di musica cantautorale.

Nelle nuove canzoni, come accennato in precedenza, il nostro telescopio psicantrico è stato puntato sulle nuove famiglie, sul mondo della scuola, sul disagio giovanile. I temi sono un po’ cambiati rispetto al primo CD, ma l’uso dell’ironia e la modalità di comporre le canzoni a quattro mani sono rimaste le stesse. Per i contributi del libro ci siamo rivolti a bravissimi colleghi psicologi e psichiatri, opinion leaders a livello nazionale negli argomenti trattati, molti dei quali conosciuti proprio attraverso i concerti psicantrici, a cui abbiamo chiesto di produrre riflessioni partendo dai testi delle nostre canzoni. Per rendere il libro ancora più polifonico, per il brano La felicità abbiamo avuto l’onore di includere il commento di un monaco buddista, che visto l’argomento della canzone, ci sembrava il più esperto a riguardo. Buon ascolto e buona lettura!

 

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Palmieri G., Grassilli C. (2014). Psicantria della vita quotidiana. Edizioni La Meridiana. Libro più CD audio.  SFOGLIA l’ANTEPRIMAACQUISTA ADESSO – ACQUISTA ALBUM MP3

 

Viaggio attraverso il Posto delle Fragole di Ingmar Bergman (1957) – Recensione

 

 

Viaggio attraverso il posto delle fragole_Bergman

Bergman ci lascia un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso, per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

In un frammento tratto dalla sua autobiografia “Lanterna magica” (1987) il regista svedese Ingmar Bergman scriveva: “Da piccolo per punizione ero spesso rinchiuso nell’armadio e qui, rannicchiato nel buio, grazie a una torcia, una sorta di lanterna magica che un giorno riuscii a portarmi dentro di nascosto, cominciai a immaginare, a sognare, a creare storie, altri mondi, personaggi, buffoni e marionette che finivano con il sostituirsi alla realtà e alleviavano il dolore della mia solitudine”.

Bergman, figlio di un pastore protestante, aveva ricevuto una rigida educazione improntata ai principi della religione luterana di “peccato, confessione, punizione, perdono e grazia”. Il dono, ricevuto a 12 anni, di un proiettore cinematografico fece sì che Bergman trovasse nel cinema la prosecuzione di quel gioco infantile di illusioni che riusciva a farlo evadere dall’oppressivo clima familiare. A 18 anni se ne andò di casa, si sottrasse alla volontà paterna che lo voleva sacerdote ed intraprese quel percorso che lo portò a diventare uno dei registi più talentuosi e in grado di scavare nell’animo umano.

Nella sua intera opera Bergman riporta i suoi temi di vita dolenti, i rapporti conflittuali con i suoi genitori, con le donne che gli sono state accanto, con i suoi figli e la sua continua interrogazione sulla fede e l’esistenza di Dio, come se cercasse di trovare nei suoi film una risoluzione ai nodi problematici che lo affliggevano.

Non si sottrae a ciò uno dei film più belli di Bergman “Il posto delle fragole” (1957).

Il film si apre con un monologo dell’anziano protagonista, Isak Borg, noto medico e professore prossimo a ritirare un prestigioso premio a coronamento di una illustre carriera:

I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda, deferente passione per la scienza. Ho un figlio anche lui medico che vive a Lund, è sposato da anni, ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva, molto vivace malgrado la sua tarda età. Mia moglie Karim è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me che alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale.

Si delinea quindi fin da subito il personaggio di Isak Borg (che in svedese letteralmente significa “fortezza di ghiaccio”). Borg è un professionista stimato da molta gente ma, per chi vive accanto a lui, dietro questa facciata di bonarietà e modi gentili si cela un uomo egoista, gelido e sordo al sentire degli altri (come emerge da uno dei dialoghi iniziali con la nuora Marianne). La mattina del giorno della cerimonia, Borg viene svegliato e scosso da un sogno angoscioso in cui da una bara vede il cadavere di se stesso afferrargli un braccio e trascinarlo a sé (il sogno in realtà è più esteso e ricco nel suo simbolismo ma per motivi di sintesi non lo tratterò). L’incubo rimanda a Isak una sensazione di morte imminente (interpretabile sia come morte interiore sia come effettivo fine percorso della vita). Al risveglio il professore decide di non prendere l’aereo ma di viaggiare in macchina verso Lund. In questo viaggio lo accompagna sua nuora Marianne che vuole incontrare il marito dopo essersi allontanata dal lui (in quanto, come si scoprirà poi, è incinta ma il marito non vuole che tenga il bambino).

Durante il tragitto, Borg fa una deviazione e si dirige verso la casa in cui da giovane passava le vacanze estive insieme ai sui famigliari, tra cui la cugina Sara, suo primo amore. La ragazza tuttavia preferì sposarsi con l’audace ed impetuoso fratello maggiore di Isak, molto diverso da quest’ultimo. Il giovane Isak infatti viene descritto da Sara in questo modo: “così buono, così nobile e premuroso, è pieno di attenzioni, sempre tanto sensibile, quando siamo insieme leggiamo le poesie e vuole che parliamo della vita e della morte, ci divertiamo a suonare il piano a quattro mani, e mi bacia solamente quando siamo allo scuro, e poi mi parla del peccato, ha un animo così elevato, a suo confronto io mi sento così tanto piccola e meschina…”. Da allora Isak sembra aver portato all’estremo la sua tendenza alla razionalizzazione, negando l’importanza ed il valore degli affetti e dedicando la sua vita al freddo lume della scienza e della ragione.

Rivisitando i posti della sua giovinezza (il posto delle fragole del titolo) e da vari incontri fatti lungo il tragitto, tra cui quello con degli autostoppisti, una ragazza e due ragazzi che se la contendono riproducendo la stessa dinamica che Isak ha avuto con la cugina (non a caso la stessa attrice interpreta la Sara-cugina e la Sara del viaggio) – in un’alternanza tra realtà, sogni e fantasie para-oniriche – l’anziano medico passa attraverso un processo di riflessione sulla sua vita e di presa di consapevolezza di quanto il suo atteggiamento di negazione della dimensione affettiva lo abbia portato a quella che è la sua paura-condanna maggiore, la solitudine.

Ciò lo condurrà ad una riacquisizione delle proprie potenzialità emotive. Il tempo ormai è agli sgoccioli (l’orologio senza lancette del sogno iniziale del film) ma qualcosa si può ancora fare per farsi voler bene da chi gli sta accanto e, soprattutto, per cercare di rompere la catena di trasmissione transgenerazionale della freddezza che da sua madre, è passata a lui ed al figlio Evald. Evald non vuole avere figli e pone la moglie incinta nel dilemma di scegliere tra il bambino e lui. In un flashback del film (quando Marianne racconta a Isak il motivo della conflittualità con il marito) Evald afferma: “…la vita è una cosa assurda ed è bestiale mettere al mondo dei figli con la sciocca speranza che potranno vivere meglio di noi (…). Io stesso fui un figlio non desiderato di un matrimonio che era la copia dell’inferno…un figlio di chissà quale padre”.

Evald è simile al padre, anche lui si sente morto pur essendo vivo ed è rigido nelle sue posizioni, mentre la dolce Marianne vorrebbe tenere questo bambino proprio per spezzare questa catena di freddezza, morte e solitudine. Non resta per Isak che tentare di facilitare la riconciliazione tra figlio e nuora e fare in modo che il cambiamento avvenuto in lui possa investire anche il figlio (in cui tuttavia già si nota un accenno di cambiamento quando rivede la moglie ed esprime al padre la sua paura di perderla).

Prove del mutamento avvenuto nel prof. Borg sono sia il modo con cui affrontra la cerimonia del suo giubileo cogliendone la formalità del apparato e dando più peso alla presenza dei sui affetti in platea e il dialogo con la governante alla fine del film a cui Isak riserva parole di autentico affetto. A questo punto il professore può riaddormentarsi tornando agli episodi della sua infanzia e sognando i suoi genitori ai tempi della sua govinezza che lo salutano sorridendo.

Riguardo questo film, Bergman scrive di aver proiettato la figura del padre distante nel personaggio dell’anziano professore ed anche il rapporto padre-figlio tratteggiato risulta autobiografico. Ma il film è autobiografico anche nella misura in cui le iniziali stesse di Isak Borg sono le stesse del regista (cosa di cui Bergman si accorse solo tempo dopo la stesura) e il film rappresenta quindi anche il bilancio della stessa vita di Bergman, quarantenne al momento della scrittura della sceneggiatura, che guarda alla sua esistenza con gli occhi del vecchio medico.

Lo stesso Bergman ha scritto: “Mi trovavo in lotta con i miei genitori. Non riuscivo a parlare a mio padre, e neppure ne avevo l’intenzione. Io e mia madre cercammo di riconciliarci almeno temporaneamente, ma c’erano troppi scheletri nei nostri armadi, troppe incomprensioni piene di veleno. Credo che i motivi più forti che stanno alla base de Il posto delle fragole si possano trovare in quelle situazioni. Cercavo di mettermi nei panni di mio padre, e cercavo spiegazioni per le amare discussioni con mia madre…Nel film cerco di supplicare i miei genitori; guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi.”

Seppure sia permeato dalla nostalgia per la giovinezza e per il tempo perduto, il film si chiude con una visione che può essere considerata positiva: presa consapevolezza, seppur molto tardi, dei suoi temi dolorosi, per il dottor Borg si è aperta la possibilità di uscire dalla ripetitività della sua condotta, a partire da una riconciliazione con il suo passato e con le figure genitoriali e da una comprensione della trasmissione intergenerazionale degli schemi (anche grazie alla nuora Marianne, capace di restituirgli in maniera chiara la dinamica che lei stessa aveva osservato nell’incontro tra Isak e la sua anziana madre).

Emergono quindi per Isak l’opportunità di vivere il tempo che gli resta proseguendo il recupero della dimensione affettiva dei suoi rapporti con gli altri, ma anche la possibilità di nuovo inizio per la famiglia Borg con la nascita di una nuova vita. E riguardo la possibile interpretazione del sogno finale come anticamera della morte, resta comunque la sensazione di serenità acquisita da Isak, che può chiudere gli occhi in uno stato emotivo completamente differente da quello dell’incubo con cui si è aperto il film.

Bergman ci lascia quindi un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso (per citare una delle scene madri del film) per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

 

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Stress coniugale cronico e depressione: esiste una relazione?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

 

Secondo diversi studi le persone sposate sono, in generale, più felici e più sane rispetto ai single. Ma il matrimonio, ahinoi, può anche essere una delle più significative fonte di stress sociale cronico, tanto da aumentare la vulnerabilità alla depressione.

È quanto emerge da un recente studio a lungo termine condotto alla University of Wisconsin, secondo il quale le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

Lo studio longitudinale – parte del National Institute on Aging-funded Midlife in the United States (MIDUS) study – ha utilizzato un ampio campione di adulti sposati che sono stati sottoposti alla somministrazione di test per valutare sia il loro livello di stress coniugale che di depressione. Le valutazioni sono state ripetute nove anni dopo.

I partecipanti hanno  poi eseguito, a distanza di undici anni, un test risposta emotiva, allo scopo di misurare la loro resilienza, cioè la capacità di recupero dopo un’esperienza negativa. Il test prevedeva la misurazione dell’attività elettrica nel muscolo corrugatore sopraciliare (il muscolo “accigliato”) in risposta a immagini negative, positive e neutre.

Come suggerisce il soprannome, il muscolo accigliato, aggrottando le sopracciglia, si attiva con più forza nel corso di una risposta negativa. A riposo, tale muscolo ha un livello di tensione basale, ma durante una risposta emotiva positiva si rilassa.

Misurare quanto questo muscolo si attiva o si rilassa e quanto tempo impiega a raggiungere nuovamente il livello basale, è un modo affidabile per misurare la risposta emotiva e questo strumento si è rivelato utile nell’assesment della depressione. Precedenti studi hanno dimostrato che gli individui depressi hanno una risposta fugace a stimoli emotivi positivi. Davidson, ricercatore a capo dello studio, era interessato non solo a quanto un muscolo si rilassa o si irrigidisce quando una persona guarda un’immagine, ma anche quanto tempo ci vuole perchè la risposta si plachi: il suo team ha scoperto una finestra di 5-8 secondi dopo l’esposizione alle immagini positive più significative.

I partecipanti allo studio che hanno riferito maggiore stress coniugale hanno avuto risposte più brevi alle immagini positive rispetto a quelli che si consideravano più soddisfatti. Non vi era invece alcuna differenza significativa nella tempistica delle risposte negative .

 Lo stress coniugale cronico potrebbe fornire un buon modello di come altri fattori di stress quotidiano possono portare alla depressione. I risultati sono importanti, dice Davidson, perché potrebbero aiutare i ricercatori a capire che cosa rende alcune persone più vulnerabili a problemi di salute mentale ed emotiva e come sviluppare strumenti per prevenirli.

Davidson è ora interessato a trovare gli strumenti per aiutare le persone ad essere più resilienti di fronte allo stress, che nella vita non può essere del tutto eliminato, ma che possiamo allenarci a gestire imparando a coltivare uno stile emotivo più resistente.

 

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Motivare con la Gamification – Tecnologia & Psicologia

 

 

Motivare con la Gamification © alphaspirit - Fotolia.comL’obiettivo della Gamification è quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

La capacità dei giochi di coinvolgere e motivare le persone è alla base del concetto di “gamification”, sempre più diffuso in vari ambiti della nostra società.

L’obiettivo della gamification è infatti quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

Questa idea è sorta e si è diffusa nel mondo del marketing, ma è arrivata a coinvolgere poi molti altri contesti, come quello aziendale, quello della formazione e dell’istruzione.

Più nello specifico, attività di gamification sono utilizzate per cercare di motivare il cambiamento comportamentale, a prescindere dall’ambito di riferimento: possono quindi riguardare la promozione di comportamenti eco-sostenibili, di attività fisiche contro la sedentarietà, di sensibilizzazione alla guida sicura, etc.

Nonostante la diffusione crescente di questi meccanismi, lo studio psicologico della spinta motivazionale derivante dalla gamification è piuttosto acerbo.

Sailer e colleghi hanno recentemente provato a mettere in relazione alcuni elementi tipici dei giochi con i meccanismi motivazionali su cui agiscono. Questo tipo di analisi oltre a rappresentare una base per ricerche future che vogliano approfondire queste tematiche, costituisce anche una guida per la progettazione di attività che, sfruttando le caratteristiche della gamification, mirino a motivare i propri utenti al cambiamento.

L’idea di applicare elementi tipici del gioco ad altri contesti e utilizzarli per altre finalità non è poi così nuova: basti pensare ai sistemi di fidelizzazione come i programmi frequent flyer per farsi un’idea di che cosa sia la gamification. Alcuni elementi tipici del gioco sono essenziali per comprendere questo concetto e capire come possa essere applicato.

Nello specifico, il gioco è caratterizzato da almeno un obiettivo da raggiungere; una serie di regole, che determinano come l’obiettivo si possa raggiungere; un sistema di feedback che restituisca al giocatore informazioni sui propri progressi; la partecipazione volontaria da parte dell’utente.

La motivazione è stata studiata in psicologia da varie prospettive (ad esempio le teorie del contenuto e quelle del processo) che hanno cercato di spiegare quali siano i motori in grado di dare avvio ad un comportamento e di orientarlo al raggiungimento di specifici obiettivi. Non solo: la motivazione regola anche la persistenza e l’intensità dei comportamenti.

Le diverse teorie psicologiche sulla motivazione non sono in contraddizione tra di loro, ma si concentrano su diverse componenti, che diventano più o meno rilevanti, a seconda del punto di vista.

Alcuni dei meccanismi motivazionali possono essere strettamente connessi ad alcuni elementi di gioco, in grado di innescare e mantenere alcuni specifici comportamenti. In particolare, alcune caratteristiche peculiari dei giochi riguardano:

Il punteggio. Anche se a prima vista i punti possono sembrare un ingrediente semplice, questi possono indirizzare i meccanismi motivazionali, specialmente in merito alla prospettiva comportamentista sull’apprendimento. Il punteggio, infatti, rappresenta un rinforzo positivo immediato e può essere visto come un premio virtuale dovuto a specifiche azioni eseguite.

I badge. Si tratta di rappresentazioni visive dei propri successi. I badge sono in grado di soddisfare il bisogno di successo dei giocatori. In un certo senso, i badge possono essere intesi come status symbol virtuali e funzionano inoltre come strumento di identificazione nel gruppo, al quale comunicare le proprie esperienze. Come strumento motivante, i badge svolgono anche la funzione di definizione degli obiettivi e possono favorire nel giocatore la sensazione di competenza.

Le classifiche. Esplicitando il successo dei diversi giocatori, le classifiche rappresentano un elemento critico rispetto alla funzione motivazionale dei giochi. Infatti, sono solo pochi i giocatori che riescono a raggiungere le posizioni più elevate della classifica.

Le altre persone, saranno per lo più nelle zone basse o intermedie, con frequente demotivazione. Tuttavia, le classifiche individuali favoriscono la competizione. I giocatori nella parte alta della classifica svilupperanno anche un certo senso di competenza. Infine, le classifiche a squadre possono sviluppare meccanismi di cooperazione e la condivisione di obiettivi e opportunità.

Le barre di avanzamento. I grafici che rispecchiano i progressi del giocatore rappresentano, anche simbolicamente, la distanza dal raggiungimento di un obiettivo o che permettono di confrontare la propria prestazione con quelle precedenti, sono in grado di fornire dei feedback importanti per la motivazione. Visualizzare il proprio percorso permette inoltre di rendere gli obiettivi, e i meccanismi per raggiungerli, chiari.

L’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco.

Concludendo, è possibile osservare come specifici elementi di gioco siano strettamente collegati ai meccanismi motivazionali che si ritrovano nelle principali teorie motivazionali.

Sono tre le componenti principali della gamification che sono messe in luce da questo tipo di analisi, che andrebbero prese in considerazione ogni volta che si progetta un’attività di gamification o che si desidera approfondire la ricerca in questo ambito.

Innanzitutto la persona: è importante indagare le caratteristiche del target per meglio tarare gli elementi di gioco. In secondo luogo occorre valutare l’ambiente di gioco, affinchè sia progettato seguendo le linee guida rappresentate dalle teorie motivazionali. Infine, la terza componente è il contesto, inteso come il contenuto o l’argomento principale di ogni singola attività di gioco.

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L’elaborazione del trauma infantile in Saving Mr. Banks (2013) – Recensione

 

Saving Mr BanksLa storia di una tata fantastica, ideale, che mette ordine, salva genitori non adeguati e salva anche i bambini dai vissuti dolorosi. Una tata a servizio di un piano di vita controllante, una tata a servizio della propria creatrice che vuole così allontanarsi dal proprio tema di vita doloroso.

“Vento dall’est. La nebbia è là, qualcosa di strano fra poco accadrà. Troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me…”

Chi l’avrebbe detto che dietro ad uno dei produttori più celebri della storia del cinema, nonché fondatore dei più divertenti e spensierati cartoni animati del mondo, si nascondesse un’infanzia difficile e tutt’altro che felice? E chi avrebbe pensato che all’ombra di una dolce e incantevole tata si nascondesse una donna astiosa, sprezzante e diffidente? Ecco cosa ci svela “Saving Mr. Banks”, la recente produzione di Walt Disney, che narra di come il suo fondatore, dopo ventuno anni di tentativi ed attese, riesce a convincere Mrs. Pamela Lyndon Travers, creatrice di Mary Poppins, a cederne i diritti cinematografici.

Nei momenti cruciali della decisione della scrittrice di affidare a Disney la propria storia, personale e letteraria, si susseguono nel film flashback sugli eventi significativi della sua infanzia; in questo modo il regista svela al pubblico la chiave di lettura della personalità di Pamela, così egocentrica, inflessibile, paranoica, ma anche evidentemente fragile e vulnerabile.

John Lee Hancock ci rende partecipi del processo di elaborazione dei traumi dell’infanzia che l’autrice ha dovuto affrontare per superare la ritrosia verso la trasposizione cinematografica della sua opera (“Mary Poppins e i Banks sono la mia famiglia, signor Disney…”).

Inizialmente, si rimane affascinati, esattamente come la dolce bambina protagonista, dalla figura di un padre, all’apparenza fantasioso, affettuoso e attento. Presto tuttavia appare chiaro che quello stesso uomo, così appassionato e sognatore, cerca di nascondere alle figlie un animo fragile e immaturo, incapace di adattarsi a un mondo in cui non si rispecchia, che richiede di essere più responsabile e pragmatico.

Per superare il senso d’inadeguatezza e le emozioni negative che lo attanagliano, utilizza l’alcol e ne diviene ben presto dipendente. La figlia grande, Pamela, assiste alla trasformazione del padre, prima così vicino, ora così lontano, autocentrato e trascurante. Tuttavia una bambina così piccola non può perdere improvvisamente l’idealizzazione del padre, amato e ammirato, soprattutto quando non può affidarsi all’altra figura di riferimento, la madre, depressa e troppo assorta dalla sua sofferenza per accorgersi di quella della figlia. Quella di Pamela è davvero una ”tana distrutta”, dove anche il bisogno innato di sicurezza e protezione non viene più risolto dai genitori.

E quindi cosa rimane da fare per assicurarsi la vicinanza dei genitori e sopravvivere? Mettere in atto un accudimento invertito, sembra risponderci il regista. Quel tipo di accudimento che Bowlby aveva già descritto negli anni 50, in cui il bambino si “genitorializza”, comprende quali sono i bisogni del genitore, e realizza che andare incontro ad essi, prendendosi cura dell’altro, è l’unico modo per essere pensato dalla figura di attaccamento. Tuttavia il costo di tale strategia si presenta sempre, nel presente o nel futuro, poiché la rabbia, la paura, la tristezza, vengono dissociate o negate in nome di uno scopo più alto, la salvezza del legame di attaccamento. Questa forma di auto contenimento difensivo (Winnicot, 1988), fa affrontare ai bambini che l’hanno sperimentato tutte le emozioni più dolorose o difficili da soli e conferma che è bene non fidarsi degli altri.

Da piccola Pamela può aver pensato che raccontare le proprie emozioni avrebbe potuto ferire in qualche modo i genitori, in quanto era chiaro quanto essi non fossero in grado contenerle, e si è quindi sentita costretta all’autosufficienza, all’autonomia forzata, illudendosi o costringendosi a pensare di non avere bisogno degli altri.

A questo senso di onnipotenza ha contrapposto un modello operativo interno dell’altro non necessariamente malvagio, ma freddo e assente, poco affidabile e, soprattutto, immodificabile.

Ciò che all’inizio è stata soltanto una difesa, funzionale solo in quel periodo della sua vita, ben presto diviene un piano di vita: il piano di vita controllante, caratterizzato da ipermonitoraggio degli stati interni, rimuginio, perfezionismo, rigidità su regole di comportamento, controllo relazionale e diffidenza.

Questo ci spiega la modalità relazionale sospettosa e svalutante di Pamela nei confronti di Walt Disney e del suo staff.

Reprimere le emozioni è tuttavia un modo veramente inefficace di affrontarle, perché esse, come sosteneva Freud (1915), “proliferano nel buio”; inoltre non mostrando mai agli altri la confusione emotiva che si ha dentro, come afferma Segal, “non si riceve mai la rassicurazione di essere conosciuti o compresi e amati malgrado tutto”.

E’ su queste corde che sembra aver agito Walt Disney per aiutare l’adulta Pamela ad affrontare il suo passato: empatizza con lei, valida le sue paure e condivide con lei la sua storia, segnata dal rapporto difficile con un padre duro, severo e intransigente. Walt Disney comprende l’importanza di mantenere “un ricordo meraviglioso” del padre, appunto “Saving Mr. Banks”, ma la esorta a lasciare il passato (“La vita intera è una condanna troppo lunga per chiunque, Pamela!”) e la sprona a costruirsi una vita incentrata sulla consapevolezza delle emozioni negative e sull’accettazione del fatto che qualcuno di importante per noi ci ha in qualche modo ferito, seppure involontariamente.

Difendendo Mr. Banks Pamela difende se stessa dagli incubi della sua infanzia, dal vortice dei ricordi, dai modelli operativi interni che le sussurravano di salvare i suoi legami di attaccamento, minacciati dall’alcolismo del padre e dalla depressione della madre.

Ma non salviamo le persone imprigionandole in una rappresentazione idealizzata che non ci permette di arrabbiarci con loro o in un’immagine completamente svalutante che non ci permette di placare la nostra rabbia nei loro confronti; le salviamo solo quando riusciamo ad introiettare una visione unitaria e integrata della persona, resa possibile solo dalla comprensione dell’altro nei suoi aspetti positivi e negativi.

Durante la realizzazione del film di Mary Poppins si riattivano in Pamela i frammenti di vita più dolorosi e immergendosi nuovamente in essi, è costretta a cercare di comprendere le ragioni dei modi di agire dei suoi genitori, facendo suo anche parte del loro dolore. Occorre infatti passare del tempo a piangere il tema doloroso di vita per riprogettare piani di vita più funzionali. Solo in questo modo le è possibile perdonare in modo autentico il padre e la madre per la loro incompetenza genitoriale.

L’accettazione dei genitori e la formazione di rappresentazioni integrate di essi, è il solo passo che potrà permetterle di crearsi anche un’immagine di se stessa scevra dal senso di onnipotenza e piena della consapevolezza che tutti noi siamo umani imperfetti, ed in quanto tali, abbiamo bisogno degli altri.

C’è un momento nel film in cui ci accorgiamo che il processo di elaborazione degli eventi traumatici dell’infanzia di Pamela si sta ormai compiendo: le sue lacrime iniziano a scendere sentendo Mary Poppins affermare: “A volte una persona che amiamo, anche se non per colpa sua, non vede più in là del suo naso”. E’ in quell’istante che la scrittrice comprende completamente suo padre e lo salva, ma non da Walt Disney, dalla rigidità della sua idealizzazione, iniziando ad integrare una visione realistica del papà.

Saving Mr. Banks è in realtà un Saving Mrs. Travers: solo costruendosi nuove rappresentazioni dei genitori, e di loro stessi nel rapporto con lei, Pamela può salvare se stessa da una vita costellata di solitudine, freddezza emotiva, scoprendo il calore della condivisione e dell’accettazione autentica tra esseri umani.

Consigliato ai nostalgici, ai sognatori, ai figli, ai genitori e soprattutto a chi fatica a fare i conti con le sofferenze del passato.

 

 

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Se vuoi una promozione sul lavoro… Trovati un hobby! – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro: dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

Secondo un team di psicologi della San Francisco State University avere uno sbocco creativo fuori dall’ufficio può aiutarci a svolgere meglio il nostro lavoro: indipendentemente dal tipo di hobby, chi ne ha uno ha anche maggiori probabilità di trovare soluzioni creative a problemi di lavoro e di cambiare le proprie abitudini per dare una mano ai colleghi.

I ricercatori hanno esaminato circa 350 persone (con una varietà di posti di lavoro e una varietà di hobby) indagando su quello che facevano nel loro tempo libero e su come si comportavano al lavoro.

I risultati dell’indagine indicano che chi aveva un hobby aveva punteggi di performance tra il 15 e il 30 % più alti rispetto a chi si impegnava in attività creative solo occasionalmente.

I ricercatori hanno anche esaminato un secondo gruppo di 90 americani, capitani dell’Air Force.

Il loro obiettivo era verificare se un hobby avrebbe potuto fare la differenza anche in persone già bene addestrate a risolvere problemi difficili e ad aiutare gli altri. Anche in questo caso avere uno sbocco creativo ha potenziato le performance lavorative.

I risultati dello studio indicano che c’è una correlazione tra l’avere uno sbocco creativo, un hobby, e l’essere creativi al lavoro, ma non ci dice cosa influenzi cosa. Probabilmente i comportamenti si rinforzano a vicenda, concludono i ricercatori, in un circolo virtuoso di soddisfazione e voglia di fare che fa sentire più carichi di energia e di impegno, sia al lavoro che a casa.

Insomma d’ora in poi ricordiamoci che non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro, ma che dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

 

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Fidati, sei intelligente! – Psicologia e relazioni interpersonali

 

 

Fidati, sei intelligente SQUARE - © bluedesign - Fotolia.comFidati, sei intelligente: una recente ricerca dell’Università di Oxford ha valutato la relazione che intercorre tra fiducia, intelligenza, felicità e salute. Nello specifico, Carl e Billari (2014) hanno utilizzato i dati del General Social Survey (GSS), una grande intervista che è stata somministrata a un campione di adulti americani ogni 1-2 anni a partire dal 1972, e si sono concentrati su quattro variabili.

L’intelligenza è stata valutata con due test di vocabolario.

La fiducia generale negli altri e nel genere umano è stata valutata con una semplice domanda, che chiedeva ai partecipanti “In generale, diresti che ti puoi fidare della maggior parte delle persone o che non si è mai troppo attenti quando si ha a che fare con gli altri?”; la domanda prevedeva tre possibili risposte: “mi posso fidare”, “non mi posso fidare” e “dipende”.

La salute generale è stata valutata con la risposta alla domanda “Diresti che la tua salute fisica in generale è eccellente, buona, discreta o scarsa?”, e anche in questo caso i partecipanti avevano le 4 opzioni di risposta proposte.

Anche la felicità, infine, è stata valutata con una domanda diretta al campione, che chiedeva “Nel complesso, come diresti che ti vanno le cose in questo periodo? Diresti che sei molto felice, abbastanza felice o infelice?”.

A questo punto, i ricercatori hanno indagato la relazione tra intelligenza, felicità, salute e fiducia negli altri, controllando anche per diverse variabili demografiche (come genere, età, etnia, lingua, istruzione, stato civile e introito economico).

Le analisi dei dati hanno evidenziato due risultati importanti.

Innanzitutto, sembra ci sia una forte correlazione tra intelligenza e fiducia, anche considerando nel modello i fattori sociodemografici. In altre parole, gli autori ci dicono che persone più intelligenti tendono a fidarsi più delle persone, considerate come un insieme; si affacciano al mondo, insomma, più fiduciosi e convinti che gli altri possano essere un elemento positivo anziché un pericolo da cui guardarsi. Carl e Billari si spiegano questo risultato alla luce della teoria Darwiniana, e sostengono che la capacità di valutare gli altri come persone degne di fiducia sia una sfaccettatura particolare dell’intelligenza umana che si è evoluta con la selezione naturale.

In secondo luogo, sembra che alti livelli di fiducia siano correlati a alti livelli di felicità e salute riportati, anche controllando per il livello di intelligenza. In sostanza, secondo Carl e Billari persone che si fidano del mondo, a prescindere da quanto sono intelligenti, sono anche più felici e più sane. In realtà questo dato in particolare è da valutare con cura, perché, vista la natura del tutto soggettiva dei dati (riportati dai soggetti con una sola domanda) e vista la contemporaneità della raccolta delle risposte, è possibile che in realtà la situazione sia rovesciata, cioè che persone in un periodo che valutano come particolarmente felice e buono da un punto di vista fisico, siano anche meglio predisposte verso le altre persone, risultando come più fiduciose nel confronti degli altri.

Il dato relativo al rapporto tra fiducia e intelligenza, invece, sembra essere corroborato anche da precedenti ricerche, che hanno sottolineato come l’intelligenza all’età di 10-11 anni predica la fiducia a 34 anni (anche controllando per numerosi fattori socio-economici) (Sturgis et al., 2010) e hanno spiegato la correlazione tra fiducia e livello di istruzione è alla luce delle abilità cognitive (Hooghe et al., 2012).

 

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Corporate Psychopath - Immagine: © bilderstoeckchen - Fotolia.com - SQUAREPsicopatia: lo psicopatico nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Un interessante articolo dell’Fbi suggerisce quali linee guida occorre tenere nel lavoro investigativo con soggetti psicopatici. La psicopatia è una struttura di personalità in cui prevalgono l’incapacità di provare senso di colpa, la tendenza sistematica a prevaricare e a manipolare gli altri, nonché la costruzione di un’immagine di Sé falsa e irrealistica che viene utilizzata nei contesti interpersonali.

Il soggetto psicopatico riesce spesso a farsi ammirare negli ambienti sociali che frequenta poiché nel primo impatto con le nuove conoscenze assume una maschera brillante, ricca di abilità e risorse.

Il suo obiettivo è in generale essere riconosciuto come individuo carismatico; più nello specifico, esercitare su alcune persone da lui designate un’influenza manipolatoria che gli permetta di ottenere vantaggi concreti, denaro, successo, potere. L’assenza di un sentimento di colpa lo rende freddo e strategico nel perseguire i propri scopi a danno del prossimo, mentre le doti che spesso effettivamente possiede – eloquio fluente, capacità di persuasione, slancio prorompente nel portare avanti le proprie posizioni – gli consentono di conquistare la suggestione e l’obbedienza dell’altro.

Il soggetto psicopatico ha una maschera diversa per ogni contesto in cui agisce, talvolta per ogni singola relazione di lavoro o di amicizia, penetra negli stati mentali dell’interlocutore riuscendo a individuarne le vulnerabilità per sfruttarle a proprio vantaggio.

Nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Analogamente, la sua impulsività e la ricerca del rischio sono spesso intesi come dimostrazione di energia, capacità di azione, abilità nell’esecuzione di compiti complessi, mentre la natura irrealistica degli obiettivi che si pone viene facilmente confusa con un talento visionario; da ultimo, la mancanza di empatia finisce per essere valorizzata come segno inequivocabile di una predisposizione a guidare le operazioni con sangue freddo e pianificazione strategica. Quando un soggetto psicopatico si imbatte nella Polizia i rischi per gli investigatori sono molteplici; in primo luogo, la fascinazione con cui lo psicopatico è riuscito a manipolare i suoi collaboratori potrebbe riprodursi nella relazione con gli inquirenti, sui quali egli cerca di instaurare lo stesso dominio psicologico che l’ha sostenuto nei misfatti precedenti.

Diventa perciò indispensabile riconoscere queste dinamiche e possedere un’elevata consapevolezza delle proprie modalità di funzionamento relazionale, dei propri stati emotivi, così da identificare le interferenze che si producono nell’interazione con lo psicopatico. Quest’ultimo è solito isolare le vittime esattamente come un predatore e ciò richiede che il lavoro investigativo si sviluppi come un gioco di squadra, in modo che ogni soggetto impegnato nel rapporto con lo psicopatico si avvalga di un confronto e di un monitoraggio costante resi possibili dalla collaborazione coi colleghi.

Lo psicopatico, pur non riuscendo a creare un’intimità affettiva con nessuno – del resto non ne ha bisogno per realizzare i suoi scopi – è in grado di generare vincoli emotivi, relazionali, persino fisici con le sue vittime, osservando questi effetti dall’esterno, nella corazza della propria anaffettività ma facendoli percepire all’altro come conseguenze inevitabili di un’empatia reale, di un rapporto autentico.

L’investigatore deve quindi gestire i tentativi dello psicopatico di suscitare una complicità sottile; lo psicopatico può cercare di instaurare un legame fondato sulla possibilità esclusiva di comprendersi reciprocamente in virtù di un’intelligenza speciale condivisa, e se questa manipolazione ha successo le ripercussioni sono gravi.

Generalmente gli indicatori linguistici ed espressivi – l’enfasi con cui lo psicopatico racconta di sé – possono permettere all’inquirente di orientarsi in maniera corretta; la personalità psicopatica è riconoscibile per l’autocompiacimento che rivolge alle proprie gesta, per la sicurezza che ostenta anche quando viene messa con le spalle al muro, elementi che non sfuggono ad un poliziotto esperto.

Le vittime dello psicopatico temono le ritorsioni che potrebbero subire esponendosi, per questa ragione è fondamentale che gli investigatori sappiano costruire con loro una relazione di fiducia, così da ricavare informazioni preziose sulle azioni del colpevole.

Che dire, quindi? La realtà delle manipolazioni criminali supera l’immaginazione delle serie televisive, e la figura dello psicopatico rimane misteriosa, diabolica. Da studiare.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio recentemente pubblicato su The Journals of Gerontology i pensionati che utilizzano Internet hanno un terzo in meno di probabilità di andare incontro alla depressione dei loro coetanei non internauti.

Un dato rilevante, se si pensa che la depressione colpisce quasi l’8% degli americani di età superiore ai 50 anni, cioè tra i 5 e i 10 milioni di persone. Gli anziani, in altre parole, sono molto più vulnerabili alla depressione, alla solitudine e all’isolamento sociale rispetto alle persone più giovani.

E infatti l’uso di internet ha avuto un forte impatto nel ridurre la depressione sopratutto sulle persone che vivevano da sole; questo dato suggerisce che l’uso della rete sia davvero un mezzo di collegamento con gli altri, capace di ridurre il senso di isolamento e la solitudine.

Un team di ricercatori della Michigan State University ha analizzato le risposte di 3.075 uomini e donne che non vivevano in case di cura; i dati sono stati raccolti nell’arco di sei anni dalla U.S. Health and Retirement Survey, un ampio studio di popolazione che si è concentrato su come le persone affrontano la transizione al pensionamento.

I ricercatori hanno identificato la depressione attraverso le risposte ad un questionario di 8 items, inoltre ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto se facessero uso di Internet per la posta elettronica o per altri scopi.

Circa il 30% dei partecipanti alla ricerca usavano Internet: quando i ricercatori hanno confrontato i punteggi sulla depressione, hanno scoperto che chi aveva l’abitudine di andare on-line aveva un 33% in meno di probabilità di essere depresso rispetto a chi non usava internet.

Lo studio non ha esaminato quanto e come Internet venisse usato dagli utenti, ma sappiamo da studi precedenti che gli anziani sono per lo più interessati a comunicare con la famiglia e gli amici, di solito tramite e-mail.

Molti anziani hanno anche problemi di mobilità e di salute che gli impediscono di viaggiare e di fare visita alla famiglia, per questo motivo essere in grado di utilizzare l’e-mail per vedere le foto di figli e nipoti li aiuta a mantenere i contatti.

Cotten, il ricercatore a capo dello studio, sottolinea che imparare a usare internet per un anziano è sicuramente più difficile che per un bambino, ma i dati della sua ricerca mostrano che 80enni, 90enni e addirittura i centenari possono ancora imparare a usare il computer e Internet; inoltre gli anziani sembrano preferire i tablets ai computer tradizionali o ai portatili, più facili da usare e anche da trasportare.

 

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Laura D’Aniello

 

 

Trasmissione intergenerazionale violenza - Immagine:  ©drubig-photo - Fotolia.com Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con l’altro” appresa dai modelli genitoriali.

La trasmissione della violenza familiare di generazione in generazione è attualmente oggetto di studio, con particolare attenzione alla connessione con la regolazione emotiva e gli aspetti di relazionalità familiare che svolgono un ruolo fondamentale nello stabilire il benessere emotivo e lo sviluppo relazionale dei bambini.

Siegel (2013) sottolinea come i bambini che assistono a violenza all’interno della coppia genitoriale correrebbero un rischio maggiore di riviverla nelle relazioni intime da adulti.

Esplorando il contesto d’apprendimento delle famiglie d’origine, emerge quanto possano essere diversificate le situazioni in cui i bambini si trovano ad essere testimoni di violenza: essa può essere perpetrata sia dal padre che dalla madre e, nelle rispettive famiglie, uno o entrambi i genitori possono essere stati vittime di abuso (Barner & Carney, 2011). E spesso il maltrattamento fisico è accompagnato da quello emotivo, sebbene non tutte le relazioni emotivamente abusanti culminino poi in violenza fisica.

I bambini, crescendo in un ambiente familiare di questo tipo, sarebbero esposti a conflittualità e ostilità tra partner, che è stato dimostrato danneggiarli anche in assenza di abuso vero e proprio (Amato, Loomis & Booth, 1995; Gottman & Katz, 1989; McNeal & Amato, 1998). Inoltre, un clima di violenza familiare può causare triangolazione dei figli e loro coinvolgimento nella relazione di coppia, creazione di alleanze insane (ad esempio, madre-figlia e padre-figlio) e tendenza all’auto-colpevolizzazione da parte dei bambini che possono pensare di essere, in qualche modo, la causa del marasma familiare (Grych, Raynor, & Fosco, 2004; Kerig & Swanson, 2010); non è insolito, infine, che essi possano vivere rifiuto o aggressioni conseguenti al conflitto genitoriale da parte di uno dei genitori o da entrambi.

In questa cornice, una prospettiva sistemica che indaghi una possibile ereditarietà della violenza riconosce come tali dinamiche di coppia possano riverberarsi sui figli e come le riorganizzazioni e le ristrutturazioni dei ruoli familiari che ad esse fanno seguito possano innescare reazioni o collocazioni dei bambini in ruoli familiari che vanno contro uno sviluppo emotivo e cognitivo “ideale” e che potrebbero dare origine all’apprendimento della violenza (Gagne, Drapeau, Saint-Jacques, & Lepine, 2007; Struge-Apple, Skibo, & Davis, 2012).

Ciò accade, ad esempio, quando adulti che non sono capaci di consolarsi da soli (forse in virtù di un apprendimento a sua volta derivato dalla famiglia d’origine) si rivolgono inappropriatamente ai loro figli per avere conforto: possono crearsi così modalità relazionali in cui i bambini vengono collocati in ruoli con responsabilità non adeguate all’età e che, di conseguenza, precludono una risposta adeguata ai loro bisogni oppure vengono disillusi nell’aspettativa che le loro necessità d’affetto siano notate o soddisfatte dai genitori (Hooper, 2007).

In questi casi, i figli possono anche mettere in atto tentativi di protezione del genitore maltrattato o vittimizzato (Amato et al., 1995; Cummings & Davies, 2010) “perdendo di vista” se stessi: i bambini, traendo la conclusione che un genitore sia incapace di proteggersi, non crederanno facilmente che sia in grado di fornire loro protezione, per cui non solo “prenderebbero il suo posto”, amandolo e cercando di meritare il suo amore, ma apprenderebbero anche che la violenza perpetrata dall’altro genitore sia un modo per esprimere e dimostrare l’amore.

Alla luce di questa prospettiva, le donne si sentirebbero amate nella cornice di una relazione violenta perché questa, in qualche modo, ripropone le antiche modalità relazionali vissute nella famiglia d’origine dove l’amore ricevuto era in funzione di quello dato “nonostante tutto”, della sopportazione e dell’idea che una buona partner debba rimanere al suo posto anche “nella cattiva sorte”. È così che si instaurerebbe il circolo vizioso di desiderare intensamente di essere amata proprio da chi convalida quest’idea.

Siegel (2013) approfondisce, inoltre, l’apprendimento dei bambini che assistono alle aggressioni incontrollate di uno dei genitori (di solito il padre), sottolineando come possano sperimentare un’identificazione vicaria che cambi il loro livello di fiducia e sicurezza nei confronti del genitore aggressivo. Ciò significa che per poter tollerare e controllare la paura, diventerebbero a loro volta violenti.

La violenza, in questi termini, potrebbe essere intesa come un apprendimento del tipo “È così che papà controlla la paura, è così che ama, è così che si fa”, per cui, parallelamente all’apprendimento ipotizzato per la donna, questo potrebbe essere il versante maschile, dove l’uomo reitererebbe comportamenti violenti perché appresi dai modelli genitoriali.

Introducendo i contributi della ricerca neurobiologica (Briere, 2002; Gunnar & Fisher, 2006; Perry, 2009; Yates, 2007), Siegel collega, inoltre, la violenza perpetrata ad un danneggiamento nella funzione della regolazione emotiva: i maltrattanti sarebbero carenti nella capacità di osservare, comprendere e gestire l’escalation delle emozioni, così come nelle competenze necessarie per risolvere le divergenze ed i problemi in modi costruttivi e non violenti.

Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con” appresa dai modelli genitoriali.

 

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Tutto bene signora. (2013) di Francesco Bricolo - Immagine: © Pragmata EdizioniDiciamolo subito, questo non è un libro per tutti, anche se i due protagonisti, Tiberio e Sabrina, sono invece una coppia come tante: lui ingegnere edile, lei insegnante, sposati da anni e con due figli: il ventenne  Tommaso e la diciassettenne Chiara. Vite comuni nella Milano dei nostri giorni; persino il cognome, Brambilla, è una garanzia di normalità.

Tiberio deve ritagliarsi del tempo dal lavoro per fare qualche accertamento: negli ultimi tempi è dimagrito, si sente stanco; Sabrina lo accompagna in ospedale per un controllo, il medico di famiglia ha prescritto una gastroscopia. Nell’attesa dei risultati un po’ di timore, certo, ma il quotidiano ha le sue scadenze, impossibile crogiolarsi nella preoccupazione. Il risultato arriva ed è quanto mai impietoso: un cancro all’esofago, in stadio già molto avanzato. Ma questo Sabrina non viene a saperlo; non lo sa perché Tiberio, semplicemente, non glielo dice. Anzi, dice che va tutto bene. La vita scorre come sempre, Sabrina è contenta e non ci pensa più: l’ansia dei giorni precedenti si volatilizza. Sta arrivando il Natale e Tiberio, che sa che quelle feste saranno le ultime, decide di regalare alla moglie un Capodanno in Norvegia, il viaggio sognato da anni, programmato nei minimi dettagli, e mai fatto.

Decide anche un’altra cosa: vuole ricorrere alla morte assistita, in Svizzera, la dolce morte per non soffrire, e anche questo lo decide da solo: non vuole essere un peso per chi gli sta intorno, essere trattato da “caso umano”, così dice a se stesso.

Con qualcuno, però, Tiberio parla: con la dottoressa che gli ha diagnosticato il tumore; con una suora, laureata in psicologia e che ha esperienza nell’accompagnamento dei malati terminali; con un religioso, padre Ernesto, dal quale vorrebbe avere dei perché.

Tiberio confida alla dottoressa le sue preoccupazioni e riversa sui religiosi tutta la sua incontenibile rabbia: perché Dio gli ha fatto questo? Dio deve dargli una giustificazione, lui è credente e si aspetta delle risposte.

E ancora perché Dio, come se ciò non fosse abbastanza, è contrario all’eutanasia? Si deve anche morire con dolore, non basta forse già dover morire? Perdere la dignità in un letto di ospedale è cosa necessaria per onorare la vita?

Sabrina, intanto, continua a non sapere nulla e pregusta tranquilla il suo Capodanno; proprio a Capodanno ci saranno nuovi, imprevedibili, eventi, che renderanno a Tiberio sempre più complicato condividere con gli altri la sua realtà di persona che si prepara alla morte.

Perché, in modo asciutto, senza mai cadere nel melodrammatico e nel patetico, proprio di questo il libro parla: della morte, sviscerando uno dopo l’altro, con precisione chirurgica, tanti temi difficilissimi che a giorno d’oggi sono tabù. Si parla apertamente, con un linguaggio quotidiano, di quello di cui nessuno vuole mai parlare: di malattia inguaribile, di paura della morte, di paura della sofferenza, di suicidio assistito, di diritto di scelta e, anche, di vergogna. La vergogna nello scoprirsi vulnerabili ed indifesi di fronte agli altri e di fronte ad una realtà che non possiamo assolutamente controllare.

Non si parla mai di queste cose; scrive in un blog, sul Corriere della Sera, Caterina Croce:

“Siamo impegnati a schivarla, a tacerla, a negarla, la morte. Ne parliamo se solletica il nostro senso del macabro: se c’è uno zio orco o una sorellastra invidiosa, se c’è una mamma Medea o un vicino squilibrato. Ne parliamo quando il suo avvento è così ingiusto, inatteso e incalcolabile che possiamo ascriverla alla dimensione remota e indistinta dell’eccezione: un terremoto, uno tsunami, un naufragio al largo delle coste di Lampedusa. Ne parliamo se segna una dismisura, un accidente che riguarda altri. Viceversa, parliamo poco – o quasi per nulla – della morte nella sua banalità: nel suo accadere ordinario e comunissimo”.

Tiberio è arrabbiato e anche lui non parla; scopre nel tenere il suo terribile segreto tutto per sé una dimensione di potere, l’unica possibile in una realtà che lo condanna ad essere, progressivamente, sempre più impotente. Si sente coraggioso  e contrasta con testardaggine, immerso in un delirio di autodeterminazione, i suoi interlocutori – la dottoressa, la suora psicologa e il frate- che su una cosa concordano tutti: deve parlare con moglie e figli  mettendo fine alla sua recita di normalità, smettendo di far finta che, come dichiara il titolo, vada “tutto bene”.

Perché leggere questo libro? Per deprimerci, per imparare la rassegnazione? No. Per imparare a trovare le parole. Tiberio lo capisce un po’ alla volta: non si può fare tutto da soli, condividere è un atto di enorme coraggio. Ed è, soprattutto, un atto vitale.

Sì, vitale, anche in situazioni che sembrano essere l’antitesi della vita. Vitale è questo libro, fino alla sua ultima pagina, con una conclusione che è come un inizio. E anche qui mi tornano in aiuto le parole di Caterina Croce:

 “Esercitarsi a pensare il limite è un’occasione per cambiare la propria vita, per guardare a come stiamo vivendo, per correggere il tiro, se ci pare di aver perso di vista il senso, e ritrovare la mira, per azzardare un bilancio che insieme sia un rilancio[…] E allora forse sì, se serve a cambiare e a riscoprire il gusto tondo della felicità, parlare di morte può essere una buona notizia”.

 

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