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La testimonianza del minore tra errori di memoria e suggestionabilità

 

 

La testimonianza del minore. - Immagine: © TAGSTOCK2 - Fotolia.comCon il termine deposizione o testimonianza non si designa la  semplice fotografia di un evento, piuttosto una ricostruzione mnestica in cui si intercalano ritagli di realtà mai esperite o mai esistite.

La memoria è la capacità di conservare tracce di una esperienza passata a livello neuronale; le nostre esperienze, infatti, trasfigurano le sinapsi (le connessioni fra neuroni) e producono delle modifiche sia a livello di immagazzinamento delle informazioni sia a livello del recupero dei ricordi. La memoria non è, dunque, da considerare la capacità di ricordare gli eventi pregressi in maniera inattiva, essa in certe circostanze può diventare una produzione romanzesca densa di significati emozionali e affettivi, convalidate dall’interpretazione soggettiva e dalla singolarità individuale.

MEMORIA E SUGGESTIONABILITA’

1.LA MEMORIA

La memoria è un complesso costituito da diversi sottosistemi. La prima distinzione che bisogna fare è quella tra memoria a breve termine (MBT) o memoria primaria  e memoria a lungo termine (MLT) memoria secondaria. La funzione in cui si esprime la memoria è il ricordo. Cosa abbiamo mangiato oppure dove abbiamo lasciato un oggetto sono diversi tra loro, rispetto alla conoscenza che ho di un libro. I primi contenuti si  inseriscono nella memoria episodica, i secondi nella memoria semantica. La memoria episodica e la memoria semantica si inseriscono nella M.L.T., memoria a  lungo termine e rientrano nella memoria dichiarativa o esplicita. Quella che invece ci consente di andare sui pattini è la memoria procedurale che è una memoria implicita e non dichiarativa. In linea generale, la memoria è la capacità di  immagazzinare informazioni a cui possiamo attingere quando è necessario.

La memoria comprende due processi: l’apprendimento e il ricordo o memoria vera e propria. Durante l’apprendimento e la successiva rievocazione possiamo distinguere due fasi: la codifica che è l’elaborazione iniziale dell’informazione che consente di operare sui segnali di arrivo scelte in ordine agli input rilevanti per il soggetto, da discriminare da quelli inutili. Il consolidamento consente di immagazzinare l’informazione conservandone traccia nel tempo. Queste informazioni immagazzinate e conservate sotto forma di traccia vengono richiamate attraverso il ricordo. Il ricordo non è mai la riproduzione fedele, completa e completamente accurata di un evento. La memoria di un evento, quindi, non è mai la sua copia fotostatica, ma piuttosto il risultato dell’influenza di diversi fattori, frequentemente interagenti, che intervengono nelle diverse fasi del processo mnestico.

I ricordi, poi, non solo si modificano con il passare del tempo, ma la loro riproduzione più o meno corretta è legata a molteplici fattori, tra cui, principalmente, fattori emozionali e/o meccanismi di difesa, fattori cognitivi che possono ostacolare, o facilitare, il recupero dei ricordi stessi. La memoria è dunque molto malleabile e le distorsioni di essa relativamente alla testimonianza sono molto frequenti. Le distorsioni mnestiche, le cancellazioni o le diminuzioni della memoria a causa dell’ interferenza di stimoli sono frequenti; ciò accade maggiormente se questi stimoli si interpongono  tra  la fase dell’ apprendimento e la fase dei ricordo.

E’ ciò che potrebbe accadere, ad esempio, quando un minore è sottoposto a colloqui prolungati nel tempo, durante il quale ha potuto ricevere alcune informazioni su cui non vi era certezza assoluta. Appunto per questo, uno o più ascolti, non sempre ben condotti  in qualunque fase dell’iter processuale, caratterizzati da domande in cui sono contenuti suggerimenti e/o  informazioni false e inducenti, possono generare il fenomeno misinformazione, ovvero, la tendenza a peggiorare ed alterare il ricordo, sulla base di informazioni contenute nelle domande. Dall’età di 8-9 anni i minori sono suggestionabili; non solo possono modificare ricordi, eliminando o  aggiungendo particolari rilevanti, ma addirittura possono costruire falsi ricordi di realtà mai vissute. Diventa  fondamentale per lo psicologo giuridico prendere in considerazione il fatto che eventuali alterazioni nel menzionare qualcosa possono essere dovuti ad un difetto intervenuto in uno qualsiasi degli stadi di seguito riportati:

  • a livello dell’acquisizione, ad esempio a causa di un basso grado di attenzione al momento della registrazione del segnale;
  • al momento della ritenzione, se attività o segnali contemporanei si sono sovrapposti a quello iniziale e ne hanno impedito una corretta registrazione;
  • al tentativo di recupero dell’informazione che può fallire a causa dell’impiego di strategie inadatte o inefficaci.

Il focus attentivo poi  è un fattore determinante per l’accuratezza di un ricordo: ciò che viene elaborato e memorizzato corrisponde infatti a ciò che è stato oggetto di attenzione. Ciò che è stato oggetto di attenzione, infatti permette il passaggio dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Se l’attenzione, però, da un lato incoraggia la memoria dall’altro lato la inibisce, come quando pensare a ciò che è  stato detto impedisce di fare attenzione a ciò che si sta dicendo. Si deduce chiaramente la non poca probabilità  di dire cose senza senso, non vere, proprio per il fatto stesso di non riflettere sui processi linguistici.

 1.2 LA SUGGESTIONABILITA’

Una possibile conseguenza dell’esposizione ad informazioni nuove ed ingannevoli, molto pericolosa per la validità della testimonianza, è la costruzione di falsi ricordi: i dettagli suggestivi a vario livello richiesti, suggeriti o imposti, se accettati ed integrati dal bambino nel proprio racconto, finiscono per trasformarsi in vere e proprie scene mnemoniche, al pari di un episodio realmente accaduto ed appartenente al passato. Il racconto rischia inoltre di essere breve, incompleto, incoerente e disorganizzato. E’ basilare che lo psicologo  durante l’intervista cognitiva segua i costrutti di seguito indicati:

1) non mostri preconcetti attraverso il linguaggio verbale e non nei confronti del presunto abusante;

2) non perdere il focus dell’intervista, spostando l’attenzione del minore da un argomento all’altro;

3) non anticipi il giudizio del minore, durante il colloquio.

Di solito i bambini molto piccoli riferiscono spontaneamente molto poco, soprattutto se è un evento traumatico da dimenticare. Si è costretti a chiedere per poter sapere, ma si può chiedere senza suggestionare. Per esempio, si possono proporre domande involontariamente tendenziose su un argomento irrilevante. Per esempio: Sei venuto in aereo? (sapendo che non è vero). L’aspetto della possibile suggestionabilità dei bambini è sicuramente uno dei nodi  più problematici. Si inserisce in tale quadro psicologico – giuridico la storia della psicologia della testimonianza che è ricca di studi relativi alla suggestionabilità rivolti all’età evolutiva. Si fa notare, poi, che quanto più l’adulto è rivestito di autorità (agli occhi di un bambino anche il solo potere di porre domande ne è un indice), tanto più il bambino risulterà influenzabile da domande suggestive, che talora egli può vivere anche come impositive.

Se poi vengono dati rinforzi positivi o negativi, l’intervistatore può influenzare e modificare grandemente il ricordo del minore testimone, tale da farlo spaziare tra ricordo e fantasia, tra gioco e realtà. E’ comunque necessario eludere:

invocazioni che  possono contenere informazioni utilizzabili per formulare la risposta. In questi casi, generalmente, le informazioni fornite nella domanda si ritrovano nella risposta. Così la domanda diventa specchio per la risposta.

Modi di dire tipici di un intercalare riconducibile ad un comportamento genitoriale come: stai attento! Ascolta bene quello che ti chiedo! Negli occhi! Puoi  giocare se rispondi alla domanda ecc.

Espressioni di assenso o dissenso altamente suggestive come per esempio: sei bravissimo!, Non dire bugie! Sei un ragazzo in gamba!

Espressioni dubitative: Ma cosa dici? Non mi dire?

Esclamazioni di sorpresa: Oh ,veramente!

E’ opportuno inoltre saggiare con il bambino il suo adeguamento alla realtà e verificare se riesce bene a distinguere quest’ultima dalla fantasia.

Abbiamo visto come l’ascolto del minore soprattutto se vittima di un trauma, sia tra le tecniche più complesse e delicate nell’ambito della psicologia giuridica. Bisogna fare in modo che il bambino si senta sicuro e rilassato e sia in grado di  rievocare liberamente, formulando solo  eventuali domande di approfondimento di quanto narrato, infine chiudere l’interrogatorio controllando con il bambino di aver compreso bene le parti essenziali del discorso. Le strategie d’ascolto devono garantire, dunque, una testimonianza spontanea, utilizzando  le tecniche di ascolto, la cui validità è condivisa dalla comunità scientifica.

Ciò naturalmente non deve prescindere da una predisposizione empatica da parte dell’intevistatore che deve mettersi nei panni dell’intervistato, accogliendo il suo racconto ed i violenti sentimenti ad esso associati, ponendosi in un ruolo di estrema neutralità e attualità scientifica.

 

 

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Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale

 Nicola Schirru

 

 

 

Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale. -Immagine: © ryanking999 - Fotolia.com

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing.

In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Dai curricula ai test di abilità cognitive, dai test di personalità, alle interviste, i selezionatori del personale dispongono di diversi test psico­metrici per valutare i candidati. Gli ultimi due test presentano potenzialità fino ad oggi quasi inutilizzate, prime fra tutte le informazioni rilevabili attraverso la comunicazione (verbale e non verbale), manifestata parallelamente al momento delle risposte, verso stimoli specifici, e basata sul comportamento emozionale del soggetto, in cui è possibile rilevare scientificamente non solo la personalità ma anche la credibilità delle affermazioni dell’intervistato (es., DePaulo e colleghi, 2003; Vrij e colleghi, 2000); parafrasando, eventuali menzogne.

Un’indagine del Paul Ekman International (PEI) sostiene che ogni inganno non rilevato causi all’azienda un danno economico che oscilla dalle 4000 alle 7000 sterline. Potenziare le pratiche di recruiting attraverso l’introduzione di programmi di analisi comportamentale potrebbe condurre non solo a ridurre questi costi ma anche ad aumentare le predittività della futura performance lavorativa del singolo candidato.

Leader italiano in questo settore è il laboratorio di ricerca NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park, sede Gorizia, in cui da anni vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione verbale e non verbale, sul comportamento emozionale, sull’analisi della personalità e sulla valutazione della credibilità.

Chung e Pennebaker (2007) affermano che le parole scelte per esprimere pensiero e stati d’animo possono indicare la nostra personalità, tuttavia il linguaggio è notevolmente dipendente e strettamente legato alla comunicazione non verbale, che ha come funzioni quelle di esprimere emozioni, accompagnare, sostenere il discorso, o realizzare la rappresentazione del sé, attraverso gestualità facciali, movimenti corporali, postura, distanza interpersonale, ecc.

Il viso è il canale possedente la più alta validità per il riconoscimento delle emozioni, in cui sono stati trovati indicatori di universalità in espressioni facciali di gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, paura, disgusto e disprezzo (Ekman, 1992; Matsumoto, 1992). Il Facial Action Coding System (FACS) sviluppato da Ekman e Friesen (1978) è lo strumento più utilizzato ed efficace per l’analisi delle contrazioni dei muscoli del viso che distinguono le espressioni facciali, evolutosi nella misurazione delle emozioni umane attraverso l’EMFACS (Emotion FACS) e l’ISFE (Interpretation System of Facial Expressions; Legiša, 2014b).

Secondo Hartland e Tosh (2001) il corpo umano è in grado di produrre circa 700.000 movimenti diversi. Diversi sono i sistemi di codifica e decodifica del motore gestuale presenti in letteratura. Ekman e Friesen (1969) descrivono diverse azioni che caratterizzano il comportamento non verbale gestuale: emblemi, (sostituti di parole e frasi, come il gesto del “ciao” quando salutiamo), illustratori (accompagnatori o rafforzanti dei messaggi verbali, come quando indichiamo l’oggetto di cui stiamo parlando), manipolatori (riflettenti nervosismo e allentanti la tensione fisica o emotiva, come quando ci mordiamo le labbra), regolatori (controllanti il flusso e il ritmo della comunicazione), “esibitori” affettivi (dimostrazioni di emozioni).

Jasna Legiša (2014a), direttrice di NeuroComScience, ha sviluppato il più completo sistema di codifica e decodifica del motore gestuale presente in letteratura chiamato Body Coding System (BCS), che scompone i movimenti corporei in unità d’azione classificandoli sulla base dell’osservazione dei cambiamenti momentanei d’aspetto che si presentano a seguito di un’attivazione muscolare.

Questo descrive diverse gestualità congruenti in culture molto diverse tra loro, come per esempio spalle innalzate in caso di rassegnazione o dubbio (SP 5), generale tendenza della gestualità verso il basso in caso di tristezza (es., SP 6), braccia e mani in contatto in caso di paura (AB/B 12), grattarsi una parte del corpo o mani in avanti in caso di disgusto o disprezzo (M 18).

La letteratura scientifica (es., Argyle, 1999; Christiansen e colleghi, 1994; Goffin & Boyd, 2009; Zickar & Drasgow, 1996) suggerisce che interviste e analisi della personalità possano risultare i test più efficaci nella combinazione analitica con il comportamento emozionale.

Ad esempio, la stabilità emotiva è associata al controllo delle emozioni e controllo degli impulsi, l’estroversione implica maggiori sguardi e sorrisi verso l’interlocutore, un tono più alto (soprattutto i maschi), con più intensità vocale, ritmo veloce e meno pause (maggiormente le femmine), sguardo fisso ed un’espressività spontanea (quindi meno asimmetrica), l’introversione può essere associata all’imbarazzo, manifestato principalmente nel volto attraverso rossore, da un’estremità rigidità di postura (pochissimi movimenti ma con variazioni di posizione continui), pochi sguardi generalmente verso il basso e tendenti a deviare gli sguardi dell’interlocutore verso punti non interessanti, frequenti manipolatori, voce stridula con tonalità irregolari, balbettii, insoliti errori di grammatica, esitazioni, false partenze e lunghe pausa tra una parola e l’altra.

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing. In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Codifica e decodifica dei canali verbali, para­verbali e non verbali vanno eseguite separatamente da due codificatori con un accordo minimo dell’80% (Legiša, 2014b). Reazioni e sensibilità dei candidati dovranno sempre essere prese in considerazione: cercando di far percepire l’intervista come equa e obiettiva, pertinente alle pratiche del lavoro e non invasiva della privacy (Anderson e colleghi, 2008). Lo sviluppo di tecnologie quali ad esempio Skype o Google Hangout, stanno venendo incontro a queste esigenze, abituando i candidati alla presenza di strumenti di videoregistrazione nelle interviste di recruiting, sempre più frequenti e sempre meno percepite come intrusive.

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Memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive

 

 

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memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive - Immagine: ©Coloures-Pic - Fotolia.com

Secondo un nuovo studio pubblicato dalla rivista Memory la memoria umana avrebbe un bias pervasivo, universale e di carattere positivo: persone di diverse culture esperiscono quello che i ricercatori hanno chiamato

‘fading affect bias’ (FAB) e cioè la tendenza secondo cui le emozioni negative nella nostra memoria diminuirebbero di intensità più velocemente rispetto alle emozioni negative.

Se il bias del FAB era già noto in letteratura lo studio dimostra che questo fenomeno sarebbe universale a livello cross-culturale.

I ricercatori hanno coinvolto nello studio circa 500 individui appartenenti a diversi gruppi culturali, da studenti Ghanesi a cittadini tedeschi. Ai soggetti è stato richiesto di richiamare alla memoria un certo numero di eventi accaduti nella loro vita e di riferire le emozioni che provarono allora e al momento presente in cui stavano riportando l’evento alla memoria.

I risultati evidenziano che in ciascun gruppo culturale analizzato è presente il fenomeno del FAB, e cioè le emozioni negative associate ad eventi di vita tendono ad affievolirsi in termini di intensità in misura maggiore rispetto alle emozioni positive; questo sarebbe un bias universalmente presente in diverse culture.

Il maggior mantenimento dell’intensità di emozioni positive a discapito di quelle negative ha chiaramente una funzione adattiva in termini di regolazione emotiva.

Ciò non toglie che a certe condizioni esistano processi molto potenti – dal rimuginio alla ruminazione- in grado di mantenere le emozioni negative in tutta la loro intensità.

 

 

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Matrimonio: la felicità della coppia dipende dal marito (dopo una certa età)

 

La felicità in coppia dipende dal marito (dopo una certa età). -Immagine: © drubig-photo - Fotolia.comI risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Qual è la ricetta per una vita di coppia soddisfacente?

Nell’epoca dell’usa e getta, cosa rende davvero stabili le coppie e quale è il fattore che le porta a cercare di aggiustarsi, anziché buttare il bambino con l’acqua sporca?

Una recente ricerca dell’Università di Chicago ha cercato di rispondere a queste domande, analizzando le ricadute che la salute e le caratteristiche di personalità dei coniugi hanno sui conflitti di coppia in età avanzata.

Iveniuk e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti nel 2010-2011 dal National Social Life Health and Aging Project (NSHAP, Waite et al., 2003), uno studio condotto su 953 coppie eterosessuali conviventi o coniugate, con un’età compresa tra 63 e 90 anni e una media di anni di relazione pari a 39.

Entrando nel merito dello studio, i ricercatori hanno indagato la conflittualità di coppia ponendo a ogni partecipante tre domande relative alla frequenza con cui (1) il partner pretendeva troppo da loro, (2) il partner li criticava e (3) il partner li irritava. A ogni domanda, ogni partecipante intervistato poteva rispondere con “mai”, “raramente”, “qualche volta” e “spesso”.

La personalità di ogni componente della diade è stata valutata secondo il modello dei Big Five, utilizzando un questionario che oltre alle dimensioni canoniche di Apertura mentale, Coscienziosità, Estroversione, Amicalità e Neuroticismo (instabilità emotiva), aggiungeva la dimensione della Positività.

La salute fisica è stata indagata chiedendo ai partecipanti stessi di valutarla come eccellente, molto buona, buona, mediocre o scarsa, e lo stesso procedimento è stato utilizato per quanto riguarda il benessere psicologico.

I risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Le mogli con mariti che avevano una salute scarsa riportavano un maggiore livello di conflitto nella coppia, ma la stessa cosa non succedeva se erano le mogli a avere problemi fisici: in questo caso, non c’era nessuna differenza rispetto alla conflittualità riportata dai mariti.

Per quanto riguarda i tratti di personalità, le mogli di mariti con alti livelli di nevroticismo riportavano maggiori conflitti, mentre le stesse caratteristiche di personalità nelle mogli non spingevano i mariti a riportare una vita coniugale conflittuale.

Inoltre, le mogli di uomini più estroversi riportavano un rapporto più conflittuale rispetto alle mogli di uomini più introversi. Anche se questo può sembrare un risultato contro-intuitivo, ricordiamoci che l’estroversione, come concettualizzata dalla teoria dei big five, comprende dimensioni come l’impulsività e la carenza di autocontrollo; risulta quindi comprensibile che mogli di uomini più impulsivi e meno controllati riportino maggiori conflitti e maggiore difficoltà nella soluzione delle problematiche di coppia.

Infine, le mogli di uomini con maggiori punteggi nella scala Positività risultavano più soddisfatte del loro matrimonio, mentre ancora una volta la personalità delle mogli non sembrava influenzare il giudizio dei mariti rispetto alla propria soddisfazione di coppia.

Sembra quindi che il ruolo più importante per la soddisfazione di coppia sia da attribuire alle caratteristiche dei mariti, almeno considerando diadi con un’età avanzata.

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Arancia Meccanica (1971) – Cinema & Psicoterapia nr.23

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #23

Arancia Meccanica (1971)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

Recensione Arancia Meccanica (1971) - Cinema & Psicoterapia Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Info:

Un film di Stanley Kubrick. Interpretato da Malcolm McDowell, Warren Clarke, James Marcus, Michael Tarn. Usa 1971. Satirico. Vincitore di quattro premi Oscar.

Trama:

Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Anthony Burgess nel 1962, è considerato un film di culto. Presenta una società violenta in cui il pensiero è condizionato. Alex (Alexander DeLarge) è un eccentrico, antisociale e intelligente capo banda. Insieme a Georgie, Dim e Pete si dedicano al sesso, ai furti e a compiere violenze gratuite di ogni tipo. La banda dei drughi fa uso di droghe, indispensabili per compiere gli atti violenti a cui sono dediti.

Ascoltando la Nona di Beethoven Alex immagina esecuzioni, esplo­sioni, test nucleari ed eruzioni vulcaniche.

I genitori di Alex si dimostrano completamente impotenti e anche quando Georgie e Dim cercano di mettere in discussione la sua lea­dership, lui li picchia selvaggiamente e ristabilisce le posizioni di rango.

Durante una delle tante scorribande viene arrestato e condannato a 14 anni per omicidio. In carcere, si sente una preda tra predatori. La pre­senza di uomini più violenti e perversi di lui lo spinge a rigare dritto.

Viene a conoscenza di un programma di rieducazione del Governo che promette la libertà a chi vi si sottopone. Accetta il Programma Ludovico e viene costretto da uno stuolo di medici a vedere scene di violenza su uno schermo sotto l’effetto di una sostanza che gli procura dolore e nausea. Il condizionamento apparentemente funziona e Alex viene liberato. Quando torna libero trova molti cambiamenti: i suoi ex amici sono diventati poliziotti, le sue vittime si vendicano, i suoi geni­tori hanno affittato la sua stanza. Privo di libero arbitrio Alex vaga, fin­ché alcuni cospiratori che vogliono far cadere il Governo non gli chie­dono informazioni sul Programma Ludovico. Dopo aver avuto le rispo­ste desiderate lo inducono al suicidio costringendolo a gettarsi da una finestra.

Alex non muore, si risveglia da un sonno profondo, in un ospedale dove una psicanalista gli somministra un test di personalità. Alex è tor­nato alla fase pre-cura. Riferisce alla psicanalista un suo sogno ricor­rente: vede medici lavorare con la sua scatola cranica. La dottoressa gli dice che si tratta di un sogno normalissimo per chi è in via di guari­gione.

Il film si chiude con la visita ad Alex del Ministro dell’Interno, preoc­cupato per le ripercussioni politiche della vicenda. DeLarge inizia a ricat­tarlo e ha una improvvisa visione: la musica della Nona Sinfonia sale in un’orgia di sesso e violenza con una società plaudente che approva.

Motivi di interesse:

Se si prendono in considerazione i fatti di cronaca attuali il film assu­me toni profetici. La violenza gratuita sembra dilagare nella nostra socie­tà. Nella narrazione tra l’altro si embrica una violenza individuale e una violenza delle organizzazioni istituzionali, in un sottile e perverso gioco che richiama in continuazione un agonismo esasperato. È proprio il siste­ma di rango, sistema motivazionale a base innata, che è più frequente­mente attivo negli antisociali. Nella popolazione carceraria i disturbi di personalità di cluster B, arrivano a percentuali pari al 70%. L’incapacità di conformarsi alle norme sociali, la disonestà, l’impulsività, l’irritabilità e l’aggressività, la mancanza di rimorso sono elementi che definiscono gli antisociali e che vengono rappresentati nel film in modo magistrale. Ma oltre alla violenza dei “drughi” viene rappresentata la violenza della cura, la violenza del potere, la violenza delle istituzioni in un confronto che ci porta a riflettere su come certe patologie vengono influenzate e condi­zionate dal “pensiero unico” e dai modelli culturali dominanti.

Non possiamo sottrarci a questa riflessione nel vedere Alex sotto­posto al Trattamento del Programma Ludovico e non possiamo evitare di considerare l’intervento del Ministro dell’Interno e dell’organizzazio­ne che si contrappone al Governo un’utilizzazione strumentale degli elementi che caratterizzano la personalità del protagonista. Appunto l’utilizzazione strumentale come principio dominante e come scopo dell’agire delle istituzioni e degli individui: i corpi delle donne trattati come oggetti, gli stupefacenti per compiere gli atti violenti, l’aggressivi­tà per ottenere il denaro, e il dominio sugli altri, il ricatto per ottenere ciò che si desidera tutto recitato davanti ad un pubblico composto da spettatori plaudenti, come nella visione finale di Alex. Anche il sistema curante, medici e psicanalisti, utilizzano strumenti di cura violenti: Alex costretto a vedere sequenze filmate sotto l’effetto di sostanze che gli procurano dolore e nausea, legato ad una poltrona con due divaricato­ri tra le palpebre degli occhi. Violenza che genera violenza, antisociali che si contrappongono e che si offrono come modelli da imitare, quasi come in un’epidemia.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Trailer:

 

 

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ACHESS: un app in aiuto dei Disturbi da Uso di Alcool – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Addiction-Comprehensive Health Enhancement Support System (ACHESS), una app per smartphone, potrebbe aiutare i pazienti con Disturbi da Uso di Alcool (Abuso di Alcool e Alcool Dipendenza) a rimanere lontani dall’alcol e a gestire meglio il rischio di ricadute.

Centrale nell’alcolismo, e in generale nelle dipendenze, infatti, è il problema delle ricadute, tanto che la dipendenza da alcol ha tassi di recidiva simili ad altre malattie psichiatriche croniche.

Le ricadute riducono la qualità della vita delle persone, peggiorano i rapporti familiari e sono spesso associati alla criminalità, questo inoltre ha costi sanitari e sociali molto alti.

Sappiamo anche che la continuità nella cura per i pazienti che lasciano il trattamento residenziale è fondamentale a garantire esiti migliori a breve e lungo termine.

È in quest’ottica che è stata pensata ACHESS, un app che i pazienti possono imparare a usare nelle due settimane che precedono la dimissione dal centro per il trattamento residenziale, e che è stata pensata per permettergli di:

  • comunicare con gruppi di sostegno tra pari ed esperti di dipendenza;
  • monitorare tempestivamente per valutare il rischio di recidiva;
  • avere a disposizione un promemoria e avvisi per incoraggiare l’aderenza agli obiettivi terapeutici (per esempio avvisi che segnalano la vicinanza pericolosa di bar o locali);
  • usufruire di materiale didattico e strumenti di misurazione personalizzati sulle esigenze individuali
  • avere accesso in rete a risorse selezionate
  • disporre della comunicazione one-touch con il curante

Durante lo studio 349 pazienti con dipendenza da alcol sono stati assegnati, per un anno, in modo casuale a un programma di trattamento residenziale standard ( n = 179) o a un trattamento standard a cui era aggiunto l’uso di ACHESS ( n = 170 ).

I risultati indicano che i pazienti che hanno utilizzato l’applicazione hanno riferito un minor numero di giorni a rischio di consumo alcolico (quando il paziente beve nell’arco di due ore più di 4 bevande alcoliche standard, tre per le donne) rispetto ai controlli, con una media di 1,37 giorni a rischio in meno nel gruppo ACHESS. Una bevanda standard è una birra piccola, un bicchiere di vino o un misurino di distillato. I pazienti che hanno utilizzato ACHESS hanno anche avuto maggiori probabilità di rimanere lontani dall’alcol.

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Si sono appena concluse le elezioni 2014 per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La tornata elettorale ha restituito una lieve maggioranza della lista Professione Psicologo con 8 consiglieri eletti, Altrapsicologia 7 consiglieri.

 

Professione Psicologo: Mazzucchelli, Parolin, Bettiga, Ratto, Bertani, Longo, Pasotti, Micalizzi.

AltraPsicologia: Grimoldi, La Via, Cacioppo, Bozzato, Campanini, Contini, Marabelli.

 

La lista completa:

OPL - Ordine Psicologi Lombardia - Elezioni Consiglio 2014 - RISULTATI ELEZIONI-

 

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Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Maurizio Brasini

Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica

Una prospettiva cognitivo-evoluzionista

a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli

Raffaello Cortina Editore (2014)

 

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Teoria e Clinica dell'Alleanza Terapeutica - A Cura di Liotti e Monticelli - 2014Scopo dichiarato (ed efficacemente perseguito) di questo libro è fornire al lettore una cornice teorica, una chiave di lettura clinica e un metodo di lavoro sull’alleanza terapeutica.

Il libro si apre con tre capitoli di introduzione al tema centrale: il primo è una mirabile sintesi dei fondamenti teorici della prospettiva cognitivo-evoluzionista e del modello gerarchico dei sistemi motivazionali, con rinnovata attenzione all’interscambio tra i sistemi motivazionali interpersonali, i sottostanti sistemi motivazionali “arcaici”, e il livello sovraordinato dell’intersoggettività.

Il secondo è una rassegna sul costrutto di alleanza terapeutica e sulle ricerche più recenti in merito, con una apprezzabile inscrizione dell’alleanza nella più ampia cornice della relazione terapeutica.

Il terzo capitolo è dedicato ad illustrare come, a partire dalle vicissitudini dell’attaccamento, i deficit di organizzazione dell’assetto motivazionale si riflettono infine nelle alterne vicende della relazione terapeutica.

 

 

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Una volta acquisiti questi strumenti di base, il lettore viene introdotto ad un metodo per la costruzione, il monitoraggio continuo ed il ripristino dell’alleanza terapeutica.

Di particolare interesse l’illustrazione di come trasformare il lavoro sulle rotture dell’alleanza nella pietra angolare dell’intervento con i pazienti più impegnativi. Il metodo si snoda lungo tutte le fasi del processo terapeutico, in modo sorprendentemente specifico e dettagliato. L’esposizione del metodo è corredata da numerose vignette cliniche esemplificative, e da un capitolo dedicato a un caso clinico presentato alla luce della prospettiva teorica e clinica illustrata.

 

 

C’è un aspetto in quest’opera che a mio avviso è di particolare pregio, e spero non sfugga al lettore attento.

Mi ha fatto riflettere l’insistenza con cui gli autori tornano su un principio di base: la necessità che il terapeuta si disciplini ad un’attitudine autenticamente collaborativa e paritetica.

Io non penso si tratti di una ridondanza o di un caso; secondo me è un modo di veicolare un insegnamento: bisogna ripetersi all’infinito di fare le cose facili per imparare a improvvisare e ad essere creativi. E un reiterato invito ad allenarsi alla collaborazione punta a creare le condizioni per riuscire a farlo in modo autentico quando le condizioni si presentano più avverse.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Disabilità e qualità della vita – Il tempo libero della persona disabile

 

 

 

 

Qualità della vita e disabilità. - Immagine: © Lifeinapixel - Fotolia.comAttualmente il concetto di salute si identifica in uno stato di benessere che coinvolge la dimensione fisica, psicologica e sociale dell’individuo.

Legata alla percezione di benessere è la qualità della vita: in pratica, un paradigma che rende la persona soddisfatta o insoddisfatta della propria quotidianità. La qualità della vita è data anche dall’impiego del tempo libero in attività gratificanti.

Nel disabile, spesso la qualità della vita appare scadente in virtù del fatto che il tempo libero è un tempo vuoto, abitato dalla solitudine e dalla noia.

 

La qualità della vita

Attualmente il concetto di salute è inteso non come assenza di malattia, ma in una accezione decisamente più ampia e completa. A questo riguardo gli organismi internazionali (Organizzazione Mondiale della Salute) hanno focalizzato la definizione di salute in una dimensione olistica, esplicitandola come una condizione di benessere che riguarda le tre dimensioni che caratterizzano la vita di ogni individuo, ovvero la dimensione fisica, psicologica e relazionale – sociale.

Laddove si vuol caratterizzare il costrutto di benessere, si deve ricorrere alla determinazione degli elementi che lo compongono. In pratica, potremmo definire un individuo in uno stato di benessere allorquando ha:

delle priorità che dirigono la sua vita;

la sensazione di guidare il corso degli eventi che compongono il suo ciclo vitale;

una buona relazionalità sociale, che lo fa interfacciare in termini positivi e gratificanti con l’alterità.

Sintonica e complementare con il concetto di benessere è la rappresentazione mentale individuale dell’idea di qualità della vita, che diviene il fondamento paradigmatico ed euristico della percezione del benessere personale. In altre parole, dalla qualità della vita le persone traggono le inferenze in grado di definire il proprio benessere in termini di presenza o assenza. I parametri che tipizzano la qualità della vita sono molteplici, ricoprendo tutti gli aspetti della vita quotidiana e fornendo gli archetipi per una prospettiva temporale positiva e ottimista. A questo riguardo si possono citare alcuni parametri, quali:

  • il possedere un’attività lavorativa appagante e gratificante;
  • l’avere la percezione della propria libertà personale;
  • il vivere in ambienti qualitativamente superiori;
  • il fruire di un tempo libero piacevole.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, investendo tutte le dimensioni che compongono la vita dell’individuo sia in un’ottica olistica che ecologica. Brown, citato in Soresi (2007), individua nel concetto di qualità della vita degli elementi oggettivi e soggettivi. Fra i primi sono da elencare:

  • le possibilità economiche;
  • le peculiarità dell’ambiente;
  • le condizioni di salute.

Fra i secondi sono da citare:

  • la sensazione di realizzazione;
  • la percezione della sintonia con la propria individualità e con l’alterità;
  • la conoscenza dei propri desideri;
  • l’impressione di essere sempre all’altezza del compito da svolgere in ogni situazione.

Il fatto che gli individui possano percepire in maniera differente le stesse situazioni di vita deriva dai costrutti personali che compongono la loro mappa cognitiva e che li fanno essere:

  • più o meno ottimisti,
  • più o meno fiduciosi in se stessi;
  • più o meno coscienti del proprio empowerment personale.

 

La disabilità

Attualmente, grazie alle rivoluzionarie concettualizzazioni sancite dall’ICF (2002), la disabilità è considerata uno stato di salute in un ambiente sfavorevole. In questo modo si pongono in evidenza le correlazioni che legano la percezione del proprio stato di salute e di benessere alle variabili ecologiche, che caratterizzato il contesto di vita dell’individuo, rimarcando ancora una volta come la sensazione di disabilità sia strettamente proporzionale alla qualità della vita vissuta. In altre parole, laddove il disabile ha l’impressione che la propria vita sia ricca di un vigore fisico, frutto anche di trattamenti abilitativi, riabilitativi e terapeutici idonei ed efficaci, di una serenità emotiva, di un contesto sociale, che favorisce l’evoluzione personale, che sostiene e incrementa i rapporti con gli altri individui, che non lede le prerogative personali e soprattutto che permette di esercitare il libero arbitrio, lì egli vivrà la sua disabilità come una diversa abilità.

La considerazione di tali costrutti ha permesso un salto di qualità nell’ambito dell’approccio e dell’intervento a carico della disabilità. In pratica, il paradigma fondante dei trattamenti biopsicosociali destinati alle persone affette da uno stato morboso invalidante è divenuto l’incremento della qualità della loro vita. Tale finalità si realizza, come la Donati (2003-2004) puntualizza, operando su due fronti:

da un lato ristrutturando il contesto esterno dell’individuo, ottimizzando la dimensione lavorativa e l’impiego del tempo libero;

dall’altro lato revisionando il suo contesto interiore, incrementando le chiavi di lettura positive che la persona adopera per leggere se stesso, gli altri e la realtà che lo circonda, ovvero attuando una riorganizzazione della cognitività e della percezione della realtà.

 

Il tempo libero della persona disabile

Frequentemente il tempo libero della persona disabile è un tempo vuoto, alimentato dalla noia e dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza, come messo in evidenza da Trisciuzzi, Fratini & Galanti (2010). Per lungo tempo si è provveduto ad ottimizzare il percorso scolastico e riabilitativo di chi è affetto da disabilità, trascurando questa importante dimensione che è rappresentata dal tempo non occupato, che, soprattutto, nell’adulto disabile, una volta terminata l’esperienza formativa, diviene il tempo prevalente.

I contesti educativi, nello specifico la scuola, sono chiamati ad intervenire in tal senso, insegnando al disabile tutte quelle abilità che gli possano permettere di vivere il tempo libero come un momento di gioia e non di tedio.

Wehman, citato in Donati (2003-2004), distingue nel tempo libero due parametri che lo contraddistinguono:

  • uno tangibile, legato alla porzione temporale impiegata;
  • l’altro personale, connesso alle emozioni positive e al senso di soddisfazione e di benessere che le attività svolte donano.

Nell’ambito del tempo libero della persona disabile un posto di rilievo lo deve occupare la pratica sportiva. Infatti, l’esercizio delle  attività motorie e sportive permette all’individuo diversamente abile di:

  • incrementare le risorse personali;
  • migliorare i comportamenti, le competenze, le capacità e le abilità;
  • implementare la relazione con l’alterità;
  • potenziare l’empowerment soggettivo;
  • ampliare l’autonomia personale.

Ci si riferisce, prevalentemente, all’attività fisica adattata, ovvero una pratica motoria e sportiva modificata per incontrare, accogliere e soddisfare i bisogni delle persone affette da disabilità.

A questo riguardo, già nel 1978, la Carta internazionale dell’Unesco, citata in Casalini (2008), dichiarava:

“Ogni essere umano ha il diritto fondamentale di accedere all’educazione fisica e allo sport, che sono indispensabili allo sviluppo della sua personalità. Condizioni particolari devono essere offerte ai giovani, compresi i bambini in età prescolare, alle persone anziane e ai disabili per permettere lo sviluppo integrale della loro personalità, grazie ai programmi di educazione fisica e di sport adattati ai loro bisogni”.

 

Le storie di vita: Saverio

Sono cieco dalla nascita e ho un grande desiderio che mi accompagna da sempre: vedere i colori. Ho ventitré anni: in tutti questi anni ho sempre sognato di poter assaporare per un attimo i colori. I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre descritto le cose, utilizzando i colori. So che ci sono oggetti neri, che la terra è marrone, che le foglie degli alberi sono verdi, che il mare è azzurro e che il cielo è turchese. D’estate quando sono in spiaggia cerco di gustare i colori: sento sul mio corpo i raggi del sole e immagino che esso diventi giallo come il colore del sole. La stessa sensazione la provo quando faccio il bagno in mare: penso che il mio corpo si dipinga d’azzurro.

Ho imparato nel corso della mia vita ad associare ai colori le sensazioni che provo nel corpo. Per esempio suppongo che il giallo corrisponda ad una percezione di calore. La stessa che mi regala il sole quando mi espongo ai suoi raggi. L’azzurro lo paragono a quel senso di fresco che assale il mio corpo quando faccio il bagno nel mare. Il marrone lo assoccio a quell’impressione di ruvido, di farinoso che provo quando tocco e sbriciolo una zolla di terra. Il verde lo equiparo a quel fresco che mi comunicano le foglie quando le metto fra le mani. Ad ogni colore ho imparato ad associare le sensazioni corporee. In certi momenti mi sembra di vedere attraverso il corpo. In altri momenti, in cui mi sento scoraggiato, ritengo che sia tutta un’illusione e che a me è stato negato il piacere di vedere i colori.

Quello che mi pesa in talune circostanze è la mancanza di autonomia: non posso aprire la porta e andarmene per strada così come fanno tutti. Altre volte penso di essere comunque avvantaggiato, perché ho un cane guida che mi fa compagnia e mi indica la strada quando per qualche ragione devo allontanarmi da casa. Mia madre sovente mi dice che io sono fortunato, perché ho una famiglia che mi vuole bene, degli amici che si ricordano ogni tanto di me. In alcuni giorni ci credo e penso di avere avuto dalla vita tutto quello che potevo desiderare. Altri giorni mi diventa faticoso credere a questa fortuna: mi sento in quei frangenti uno storpio che non può vedere e basta! Quando ero piccolo mio padre e mia madre mi raccontavano delle storie, delle favole. Quelle che mi piacevano di più erano tratte dalla mitologia greca. Mi intrigavano le vicende che si stabilivano fra gli dei e fra gli dei e gli esseri umani. Ogni sciagura umana era la conseguenza di qualcosa di negativo che gli uomini avevano fatto agli dei.

Da allora in poi si è annidata nella mia mente l’idea che le disgrazie di ogni uomo siano una specie di punizione inviata da forze superiori. Negli attimi di sconforto, che il mio lungo tempo libero mi regala, mi interrogo a questo riguardo, ma non mi sembra di aver fatto mai niente di male. Il mio caso è, forse, l’eccezione che conferma la regola.

 

Le storie di vita: Pasquale

Avere venti anni non è uno dei periodi migliori della vita. Ho letto questa frase in un libro e da allora mi risuona nella mente, come se fosse un’ossessione. Per una malattia neurologica le mie gambe non sono in grado di sostenere il mio corpo e né tanto meno di accompagnarmi in qualche luogo. La maggior parte della mia vita l’ho passata su di una sedia a rotelle e in questi venti anni ho avuto la sensazione di essere cresciuto, perché ho dovuto cambiare più volte le carrozzine, in base alle diverse dimensioni del corpo.

La mia mente non è stata colpita da alcun deficit e questo in certe circostanze mi dispiace, perché se le mie emozioni fossero ovattate da qualche accidente cerebrale, soffrirei di meno. In alcuni frangenti mi prende una tristezza, vedo gli altri, “i normali”, e provo quasi una forma di invidia, che mi porta ad essere scontroso e cattivo con i miei genitori, con le mie sorelle e con qualche amico che ho, perché essi camminano e io non lo posso fare. A dire la verità i miei genitori mi sostengono in ogni momento e mi aiutano a superare anche questi sbalzi d’umore. D’altra parte posso anche fare a meno delle gambe, visto che ho una carrozzina elettrica, guido l’auto e frequento l’Università. In tutti questi anni le mie sorelle e qualche amico hanno fatto a gara per spingere la mia carrozzina manuale e per accompagnarmi dove desideravo. Nei pomeriggi oziosi e vuoti penso che la mia famiglia, per via della mia disabilità, mi abbia molto viziato, dandomi tutto quello che potevo desiderare, decisamente più di quello che è stato dato alle mie sorelle.

Ho sentito spesso, di nascosto, mio padre e mia madre autoaccusarsi di avermi reso un infelice per sempre, considerato che la mia malattia dipende dal materiale genetico che entrambi mi hanno trasmesso. La loro più grande preoccupazione è per quando essi non ci saranno più. Per questo “torturano” le mie sorelle, dicendo loro che dovranno interessarsi per sempre di me. In questo modo mi fanno sentire un peso, un qualcosa di fastidioso che sarebbe bene non avere. Per rassicurarli, quando mi accorgo che sono più pensierosi del solito, dico che solitamente i genitori muoiono prima dei loro figli normali, ma questo non avviene per i figli disabili. Le statistiche affermano che i figli disabili muoiono presto, molto prima dei loro genitori. Essi mi guardano e non sanno in quel momento se ridere o piangere, rimangono molto scossi emotivamente e per questo cambiano discorso, dicono cose banali che in quel momento non hanno nessuna attinenza. Per fortuna che mi sono rimaste una dose di autoironia e una piccola vena di umorismo, che mi consentono di non prendermi troppo sul serio quando la catastrofe emotiva è in agguato.

 

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Il Matrimonio oggi, migliore o peggiore di una volta? – Psicologia

 

 

 

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?. - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.comSi è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?

Si tratta di una spinosa e insidiosa domanda, visti gli attuali alti tassi di divorzi che si registrano e i fallimenti relazionali che si collezionano. Spesso conversando tra amici al bar, si dice: “Non esistono più i legami come quelli di un tempo, come quelli dei nostri nonni, duraturi si intende!”. E allora, cosa ha portato a questo cambio di direzione all’interno della coppia?

Tendenzialmente, i più tendono a rispondere in un duplice modo:

1. Se si rimane nell’ambito di una visione di declino della sfera coniugale, allora si ottiene che il matrimonio, inteso come istituzione, si è indebolito. Infatti, i tanti divorzi rifletterebbero una diminuzione dell’impegno nella coppia coniugale con relativo calo della moralità che ha danneggiato i consorti in prima persona, i bambini e la società in generale.

2. Nell’ambito della resilienza coniugale, i cambiamenti culturali subiti da questa istituzione, avendo come riferimento i nostri nonni dobbiamo guardare come erano le cose almeno due generazioni fa,  sono il segno che qualcosa è cambiato nel rispetto della autonomia delle persone che ne fanno parte, e soprattutto in favore della donna, tutelandola in una serie di diritti. Da questo punto di vista il vero danno sarebbe stato se il matrimonio non si fosse adeguato ai tempi rimanendo a un secolo fa.

Lo psicologo Eli J. Finkel  ci offre una recente terza visione della questione. La risposta alla, ormai, famigerata domanda è: “Il matrimonio, quello medio, di oggi è più debole, rispetto al suo corrispettivo di un tempo, sia in termini di soddisfazione, intesa come qualità della relazione, sia in termini di tassi di divorzio. Ma i migliori matrimoni oggi, invece, sono molto più forti, sia in termini di piacevolezza coniugale sia di benessere personale rispetto agli stessi di un tempo”.

Cerchiamo di capire questa affermazione. Consideriamo per esempio i dati riportati da uno studio condotto all’Università del Missouri in cui si analizzavano 14 ricerche longitudinali eseguite tra il 1979 e il 2002 volte a valutare la qualità coniugale e il benessere personale.

Si è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

Come e perché si è verificata questa divergenza?

Per rispondere a questa domanda, Finkel, insieme ad altri colleghi quali Chin Ming Hui, Kathleen L. Carswell e Grazia M. Larson, hanno sviluppato una nuova teoria del matrimonio, in via di pubblicazione.

Secondo questa nuova prospettiva, le  aspettative di matrimonio sono attualmente molto più ambiziose, ma d’altra parte,  si possono in effetti raggiungere dei livelli di qualità matrimoniale senza precedenti, visto il benessere socio-econimico nel quale ci troviamo, anche se la condicio si ne qua non è data dall’investire una grande quantità di tempo ed energia in questa partnership. Se non si fosse in grado di mettersi in gioco in questo modo, il matrimonio sarà probabilmente deludente e quindi destinato a finire. Inoltre, il matrimonio risponde sempre più a una visione dicotomica delle cose, “tutto o niente”. Quindi, o si crea una relazione secondo principi condivisi e, per raggiungerli, si  lavora molto investendo enormi energie o … “ciccia!”.

Per capire il matrimonio di oggi, è importante verificare come si è arrivati ​​al punto in cui siamo. Nel corso della storia, il sociologo Andrew J. Cherlin e lo storico Stephanie Coontz, si sono susseguite almeno tre tipologie di matrimoni. Il matrimonio istituzionale, si aveva quando c’era una prevalenza di famiglie agricole dove tutto l’interesse ruotava intorno a cose come la produzione di cibo, il riparo e la protezione dalla violenza. Questi prerequisiti erano più importanti che lo scopo stesso del matrimonio, ovvero se fosse nato o meno un sentimento tra i due coniugi.

Nell’era del matrimonio paritetico, si cambia punto di vista. Non si è più concentrati sul fare ma, finalmente, entra in gioco il sentimento, l’amore, l’essere amati e l’avere una vita sessuale appagante. Questo periodo coincideva con il passaggio dalle aree rurali alla vita urbana. Gli uomini erano sempre più impegnati nel lavoro salariato, che amplificava la diversa realizzazione sociale dei due sessi.

Poi, si passa all’era del matrimonio auto- espressivo, inteso in termini di realizzazione personale, autostima. Il matrimonio era diventato il mezzo elettivo per raggiungere la propria realizzazione.

Beh a questo punto è d’uopo fare riferimento alla “gerarchia dei bisogni” descritta nel 1940 dallo psicologo Abraham Maslow. Secondo cui, i bisogni umani si possono inserire in una gerarchia a cinque livelli: Il bisogno più basso è quello del benessere fisiologico – tra cui la necessità di mangiare e bere – seguita dal bisogno di sicurezza, da quello di appartenenza e di amore, poi dalla stima e infine troviamo l’auto-realizzazione.

L’emergere di ogni bisogno, in sostanza, dipende dalla mera soddisfazione di un bisogno più profondo. Quindi, se si ha fame è chiaro che tutta la attività è volta alla soddisfazione di questa esigenza; solo quando viene soddisfatta è possibile concentrarsi sul bisogno successivo, e così via. Questa prospettiva è vera anche per il matrimonio, e per le aspettative che lo muovono. Tali aspettative erano basse durante l’era istituzionale, medie durante il periodo paritetico e alte durante l’era auto – espressiva. La seguente scalata storica ha importanti ripercussioni sul benessere coniugale perché soddisfare le esigenze di livello superiore produce maggiore felicità, serenità e profondità della vita

Ma attualmente le esigenze degli individui della coppia sono aumentate e quindi raggiungere le aspettative proprie e altrui diventa sempre più difficile, di conseguenza proprio in questa sfera si collezionano sia dei grandi successi sia le più grandi delusioni del matrimonio moderno.

Coloro che investono di più nella coppia, passando più tempo col partner, ottengono risultati migliori. Questo significa che non bisogna mai perdere di vista cosa fare per ottenere un matrimonio di successo, ovvero lavorarci su costantemente, in termini di energie e tempo impiegato con il coniuge per raggiungere la piacevolezza relazionale; bisogna impegnarsi a tutto tondo nella relazione. Se così non fosse queste cose potrebbero essere cercate altrove ed ecco che arriva la fine della relazione.

La chiave del successo matrimoniale potrebbe essere riassunta da una celebre frase del film ” Qualcosa è cambiato” del 1997:  “Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore”. Significa che la qualità del tempo è talmente tanto squisita che l’altro migliora la caratteristiche del partner.

Secondo il sociologo Robert N. Bellah , l’amore è, in buona parte , “l’esplorazione reciproca di sé e delle infinite e complesse emozioni che ne derivano”; questo costituisce il tesoro segreto e nascosto della relazione di coppia, che va quotidianamente rinvigorito per ottenere buoni risultati.

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BIBLIOGRAFIA: 

Dolore cronico, qualità del sonno e attività fisica – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio del Dipartimento di Psicologia della University of Warwick è possibile aiutare chi soffre di dolore cronico ad avere una vita più attiva, migliorando la qualità del suo sonno.

Un trattamento focalizzato sulla qualità del sonno non ha come obiettivo solo quello di ridurre l’insonnia legata al dolore ma anche, e sopratutto, quello di aiutare i pazienti a recuperare l’energia necessaria ad impegnarsi nell’attività fisica.

L’attività fisica infatti  è un elemento chiave nel trattamento della gestione del dolore. I medici dovrebbero prescrivere molto più spesso corsi di ginnastica, fisioterapia, passeggiate e gite in bicicletta come parte del trattamento, ma chi ha voglia di impegnarsi nell’attività fisica quando si sente uno zombie privo di forze?

I dottori Tang e Sanborn, coautori dello studio, hanno esaminato la relazione quotidiana tra sonno notturno e attività fisica diurna in pazienti con dolore cronico.

I pazienti hanno indossato un accelerometro (che misura l’attività motoria) per monitorare la loro attività fisica quotidiana, diurna e notturna, per una settimana. Grazie a un diario elettronico cellulare ogni mattina al risveglio i pazienti hanno anche valutato la qualità del loro sonno, l’intensità del dolore e lo stato dell’umore.

I risultati indicano che l’unico predittore affidabile di attività fisica è la qualità del sonno: cioè la qualità del sonno è stata in grado di predire l’attività fisica più delle valutazioni sull’umore e sull’intensità del dolore.

Questi risultati mettono in discussione l’obiettivo principale dei trattamenti classici del dolore cronico, che si focalizzano principalmente sulla differente gestione delle attività durante il giorno.

Il sonno infatti, come questo studio mette in luce, ha un potere naturale di recupero che viene spesso trascurato nella gestione del dolore . Una maggiore enfasi del trattamento sul sonno potrebbe aiutare i pazienti a migliorare il funzionamento diurno e quindi la loro qualità di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Rendimento scolastico e aspettative genitoriali

 

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Natalia Ginzburg riflette sulle preoccupazioni e le aspettative dei genitori, sull’ansia che li spinge a volere costantemente il loro successo, a non accontentarsi dei piccoli passi compiuti, causando l’allontanamento che oggi sempre sempre più presente nelle relazioni genitori-figli

Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né che siano oppressi dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intenti a preparare se stessi alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?

 

Le preoccupazioni dei genitori e il successo dei propri figli a scuola. Un brano di Natalia Ginzburg su cui riflettere | Didattica Orizzonte ScuolaConsigliato dalla Redazione

Di seguito viene proposto un brano della scrittrice Natalia Ginzburg (1916-1991) tratto dal suo libro “Le piccole virtù“. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


High place phenomenon: quell’impulso a buttarsi (Urge to Jump) – Psicologia

 

 

 

High place phenomenon- quell’impulso a buttarsi. -Immagine: © Chlorophylle - Fotolia.comQuando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

In una scena del  film “Pirati dei Carabi: Oltre i confini del mare“ il capitano Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, guardando il mare dal ciglio di uno strapiombo afferma: “Sai quella voce che ti parla nei posti molto alti, hai presente? E che ti dice ‘salta!’… Io non la sento!”

La versione originale, in lingua inglese, non parla di voce, ma di “urge to jump”, ovvero una sensazione di crescente impulso e spinta a tuffarsi.

A differenza del capitano, un buon numero di persone riferiscono di aver provato quel tipo di sensazione almeno una volta nella vita.  Alcune di esse riportano di avvertire tale tensione ogni volta in cui si trovano in prossimità di altezze particolarmente elevate.

Questo tipo di fenomeno, chiamato dai francesi anche “Appel du vide” (traducibile come “Richiamo del vuoto”) è stato spesso associato, in maniera speculativa, con le ideazioni suicidarie, tuttavia con scarsi dati a sostegno dell’ipotesi.

Un gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia della Florida State University, guidato dalla dott.ssa Jennifer L. James, ha condotto uno studio su tale fenomeno,  rinominato High Place Phenomenon (HPP), con l’obiettivo di evidenziare che esso è comune alla popolazione generale e al fine di esplorare il ruolo della sensibilità all’ansia (anxiety sensitivity) nell’esperienza dell’HPP.

L’ipotesi del gruppo di ricerca è che l’esperienza dell’HPP nasca da un’errata interpretazione di un segnale interno di sicurezza o di sopravvivenza.

Secondo i ricercatori, le persone particolarmente reattive riguardo a tali segnali  (es. “attento, arretra, potresti cadere!”), saranno quelle che più frequentemente riferiranno di provare la sensazione di impulso.

Un particolare tratto caratteristico di questa tipologia di individui sarebbe la sensibilità all’ansia, quella tendenza a temere i sintomi e le sensazioni corporee tipiche dell’arousal.

Per verificare tali assunti sono stati coinvolti 431 studenti di college ai quali sono stati somministrati questionari per indagare quanto frequentemente hanno provato l’HPP, per valutare la sensibilità all’ansia (Anxiety Sensitivity Index; ASI; Reiss et al., 1986), eventuali stati depressivi e ideazioni suicidarie (Depressive Symptoms Inventory-Suicide Subscale; DSI-SS; Metalsky and Joinet, 1997; Beck Depression Inventory, BDI, Beck et al., 1979).

I risultati della ricerca mostrano che l’HPP è piuttosto frequente nella popolazione.

Tra le persone del campione che non hanno mai avuto idee legate al suicidio, più del 50% hanno riferito di aver provato il fenomeno almeno una volta nella vita. Questo dato contribuisce a confutare l’esclusivo legame di connessione tra l’impulso e i pensieri di suicidio e a sfatare il vecchio pensiero di matrice psicanalitica che vuole che tali tipi di pensieri nascondano in realtà un inconscio desiderio di morte.

Un altro interessante aspetto che emerge dallo studio coinvolge il ruolo della sensibilità all’ansia, che potenzierebbe la frequenza del fenomeno tra le persone senza ideazioni suicidarie.

Tale ruolo è spiegato dai ricercatori prendendo in considerazione il circuito neurale della paura. L’HPP rappresenterebbe uno di quei casi in cui i sistemi percettivi che regolano tale emozione funzionano in maniera discordante.

In concreto, quando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

Nelle persone con sensibilità particolarmente elevata ai sintomi dell’ansia vi è in generale una maggior tendenza a percepire i segnali enterocettivi e talvolta ad attribuire ad essi una valenza opposta.

Il lavoro di J.L. James e colleghi rappresenta il primo studio empirico su tale fenomeno, piuttosto comune ma poco approfondito.

Future ricerche di approfondimento potrebbero prendere in considerazione possibili correlazioni tra HPP e particolari tratti di personalità, come il sensation seeking o disturbi tipici delle strutture ansioso-fobiche, come il disturbo ossessivo-compulsivo.

Alcuni strumenti per l’assessment dei sintomi del DOC, infatti, individuano tra i possibili pensieri ossessivi  la paura di agire sotto un impulso involontario, in particolare il Padua Inventory (Sanavio, 1988) sembra identificare bene l’HPP nell’item 46 “Quando guardo giù da un ponte o da una torre provo una specie d’impulso a gettarmi nel vuoto”.

È importante sottolineare, come già evidenziato nella ricerca e come confermato dal prof. J.S. Abramovitz, che tali pensieri intrusivi sono sperimentati occasionalmente da gran parte della popolazione, tuttavia in maniera meno resistente, ansiogena e ripetitiva rispetto alle persone con DOC.

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BIBILOGRAFIA:

Open – La mia vita, di Andre Agassi (2011) – Recensione

Alessia Incerti

«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. 

 Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. 

Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…». 

Andre Agassi

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Open Andre Agassi - Recensione
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina

Scoprire che vincere, che essere campione non risana tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

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Uno dei piú grandi campioni di tennis di tutti i tempi racconta la propria storia di vita, quella di bambino , di atleta adolescente , di professionista del tennis, di uomo con chiarezza e accettazione compassionevole.

Andre Kirk Agassi (Las Vegas, 29 aprile 1970) è un ex tennista statunitense.

Racconta la propria storia di atleta e di uomo partendo dalla fine: incuriosisce il lettore con la descrizione dei preparativi della sua ultima partita prima di congedarsi al pubblico sportivo. 

Una doccia indispensabile per riattivare un corpo stanco , che porta le ferite dei combattimenti e nel  sotto fondo le voci allegre dei figli che fanno colazione con la mamma, Stephi Graff.

Ma chi è Andre Agassi ?

Ha vinto 60 titoli ATP e 8 tornei dello Slam, Agassi è uno dei 7 giocatori che nella loro carriera sono riusciti a vincere tutti e 4 i titoli dello Slam,  ed il primo a realizzare il Career Grand Slam su tre diverse superfici. Ed inoltre medaglia d’oro del singolare olimpico e infine è stato introdotto nella International Tennis Hall of Fame. In una parola una leggenda nel suo sport, ma ciò che egli stesso racconta nella sua autobiografia è una storia di dolore, di sofferenza emotiva di doveri, di mancanza di affetto e riconoscimento e di fatica nel costruirsi un’ identità che sappia volersi bene, chiedersi cosa vorrebbe e di cosa ha bisogno.

Andre e i suoi fratelli crescono negli Stati Uniti, terra natale della madre, mentre il padre è iraniano di origini armene e assire, trasferitosi a Las Vegas dopo aver gareggiato come pugile nelle Olimpiadi del 1948 e del 1952 per  l’Iran. Soltanto dopo aver acquisito la cittadinanza americana il padre decide di cambiare il suo cognome in Agassi.

Mike Agassi era un grande appassionato di tennis e sognava per i suoi quattro figli un futuro da campioni. Provò a trasformare ognuno di loro in un professionista di successo, ma l’impresa riuscì soltanto col figlio più piccolo, Andre, al quale già all’età di due anni mise in mano una racchetta e da allora tutte le sue conversazioni con il padre riguardavano il tennis e l’obiettivo era di diventarne il numero uno.

Tuttavia, quello che sarebbe diventato uno dei più grandi campioni di sempre, non ha un ricordo positivo della sua infanzia. Il suo incubo inizia con “il drago”, ma non quello delle favole che viene sconfitto dal principe, quello delle favole che i genitori leggono ai piccoli per favorire il sonno, ma il drago- macchina che il padre stesso aveva progettato per lanciare palle velocissime. Nel libro con estrema passione ed al tempo stesso lucidità, l’autore racconta delle eccessive pressioni del padre: “Da ragazzino avevo odiato il tennis, vivevo nella paura di mio padre, che mi voleva campione a tutti i costi”.

Racconta di un’infanzia senza divertimento , con poca o nulla  libertà di fare amicizie e semplicemente giocare , imparare e crescere. Un infanzia che permette di esplorare solo ciò che il padre include nel suo scopo: “un figlio campione di tennis”.

Agassi descrive bene come questo lo ha condotto a soffrire di una sofferenza emotiva che lo conduce a creare un altro obbiettivo per la propria vita : potersi dire io vado bene così , io sono importante per me e per qualcun altro. Scoprire che vincere , che essere campione non risane tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

Agassi descrive i fatti, i luoghi, le persone che lo hanno odiato e lo hanno amato, i propri pensieri che diventano tormenti e le emozioni dolorose che diventano da fuggire.

Racconta della solitudine e di come la vicinanza affettuosa di persone, amici, mentori, fidanzate e mogli lo abbia sostenuto nel suo percorso di crescita umana, portandolo a divenire l’uomo che si descrive ora : un marito e un padre amorevole; uno che ha sofferto ma che ha potuto imparare che ha un valore come persona a prescindere dal risultato.

Consigliato ai genitori  ai  figli; agli atleti e ai terapeuti.

Consigliato a chi fatica a essere onesto e compassionevole nei propri riguardi.

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca le caratteristiche del viso di un uomo contengono alcuni indizi sulla sua intelligenza. Lo stesso però non si può dire per i tratti del viso delle donne. 

I ricercatori della Charles University di Praga hanno reclutato 80 studenti , che hanno completato un test di QI e sono stati fotografati con un’espressione neutra . Altri 160 studenti hanno valutato le 80 fotografie per intelligenza o per attraenza.

I risultati indicano che le persone che sono state percepite come più attraenti avevano anche la tendenza a essere percepite come più intelligenti, sia dai partecipanti maschili che da quelli femminili. Questo legame tra bellezza e intelligenza percepita era più forte per i volti femminili che per i volti maschili.

Inoltre i partecipanti hanno valutato come più intelligenti proprio gli uomini con un più alto QI, basandosi unicamente sulla loro fotografia. Per le donne, invece, i ricercatori non hanno trovato alcun legame statisticamente significativo tra l’intelligenza percepita e il QI reale.

Naturalmente , i risultati hanno sollevato la questione del perché la gente poteva prevedere l’intelligenza degli uomini, ma non quella delle donne, basandosi unicamente sul loro volto. I ricercatori hanno proposto una serie di spiegazioni che verranno testate in future ricerche: una possibile spiegazione è che indizi di intelligenza superiore siano legati al dimorfismo sessuale e siano pertanto evidenti solo nei volti degli uomini. Un’altra possibilità è che le donne siano per lo più giudicate sulla base della loro attraenza. L’effetto alone della bellezza può quindi impedire una corretta valutazione dell’intelligenza delle donne.

Esaminando le caratteristiche geometriche dei volti , i ricercatori sono stati in grado di determinare un legame tra certe caratteristiche facciali e l’intelligenza percepita, sia per gli uomini che per le donne .

In entrambi i sessi, un volto più stretto con un mento più sottile e un grande naso prolungato caratterizza lo stereotipo previsto di alta intelligenza, mentre un viso piuttosto ovale e ampio con un mento enorme e un naso piccolo caratterizza la previsione di scarsa intelligenza“, hanno detto i ricercatori.

Ma queste caratteristiche facciali sono state associate solo con l’intelligenza percepita; i ricercatori infatti non hanno trovato alcun legame tra questi tratti facciali e i punteggi QI reali.

Questi volti di presunta alta e bassa intelligenza probabilmente non rappresentano niente di più che uno stereotipo culturale, perché questi caratteri morfologici non correlano con la vera intelligenza dei soggetti “, sottolineano i ricercatori.

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GAP – Gioco d’Azzardo Patologico: personalità & alcool – Psicologia

Maddalena D’Urzo

 

GAP - Gioco d’Azzardo Patologico: personalità & alcool - Psicologia. - Immagine: © Kenishirotie - Fotolia.comQuesto studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra Gioco d’Azzardo Patologico e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento.

Numerosi studi evidenziano che le persone affette da Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) tipicamente hanno anche altri disturbi in comorbilità come: Disturbi d’Ansia, Disturbi dell’Umore (Depressione), Suicidalità, Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità (Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2011). Anche l’Abuso di Sostanze (in particolare di alcool) spesso viene riscontrato nei giocatori patologici (Maccallum et al. 2002;  Grant et al. 2002; Toneatto et al. 2002; Brunelle et al., 2003; Grant et al. 2004).

La relazione che intercorre tra GAP e uso di alcool è molto complessa e ancora poco chiara; come evidenziano Stewart e Kushner attualmente in letteratura sono state formulate tre ipotesi per spiegarla (Stewart & Kushner, 2005).

1) L’assunzione di alcool può contribuire al GAP. Le evidenze che supportano questa prima ipotesi sono emerse sia da studi condotti sui giocatori mentre erano sotto l’effetto dell’alcool che mediante self-report. Dai risultati è emerso che i giocatori, quando assumono bevande alcoliche, sono  generalmente meno inibiti, e hanno sia una maggiore tendenza a correre dei rischi che una maggiore persistenza.

2) Il GAP causa l’assunzione di alcool. Siccome nei luoghi in cui si gioca d’azzardo l’alcool è sempre disponibile, i giocatori potrebbero utilizzarlo, come meccanismo di coping, per alleviare lo stress associato alle ingenti perdite di denaro.

3) Per concludere, una terza ipotesi, potrebbe implicare dei fattori sottostanti, ancora sconosciuti, che renderebbero le persone particolarmente vulnerabili a entrambi i disturbi.

Un recente studio australiano (Abdollahnejad, Delfabbro & Denson, 2014) pubblicato su Addictive Behaviors, ha indagato se l’alta prevalenza di comorbilità psichiatrica, spesso osservata nei giocatori patologici, sia influenzata dalla co-occorrenza di abuso di alcool.

La ricerca è stata effettuata su un campione di 140 giocatori (59 uomini e 81 donne, con un’età media di 47 anni) a cui sono stati somministrati dei test per valutare la gravità del GAP, l’uso di alcool e la presenza di diagnosi in asse I o II. I soggetti che sono stati inclusi nel campione hanno riferito di giocare almeno ogni quindici giorni a video poker, corse, scommesse sportive, casinò.

Lo studio ha evidenziato che la maggior parte dei Disturbi Psichiatrici, e in particolare i Disturbi di Personalità, si riscontrano nel gruppo di soggetti con una doppia diagnosi (Gioco d’Azzardo Patologico e Disturbi da Uso di Alcool); in questo gruppo, si riscontra la prevalenza più alta di Disturbi di Personalità, in particolare quelli del cluster B (Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità).

Mentre nel secondo gruppo, giocatori che non abusano di alcool, sono state riscontrate caratteristiche di personalità di tipo depressivo, evitante o ossessivo.

Questo studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra GAP e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento. È infatti possibile che riuscendo a ridurre il Disturbo di Personalità sottostante almeno una parte dei problemi legati alle dipendenze patologiche si riduca.

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Eros e Cioccolato – Gli effetti del cioccolato sul tono dell’umore

Antonio Scarinci, Sofia Piccioni

 

Il piacere della cioccolata può generare benessere e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Amore e odio già in Empedocle rappresentavano forze contrapposte che con Freud si trasformano in pulsioni di piacere e di morte, Eros e Thanathos.

Eros nella mitologia greca è il Dio dell’amore e del desiderio e per i greci l’amore è ciò che fa muovere verso qualcosa. Cupido scaglia le sue frecce e fa innamorare gli dei.

Il cioccolato o cioccolata, è un alimento derivato dai semi del cacao, per le antiche civiltà dell’America centrale era il cibo degli dei. La bevanda amara ed energetica che veniva ricavata dai semi del cacao era afrodisiaca, eccitava e alleviava la sensazione di fatica.

Molti personaggi famosi nel corso della storia hanno avuto una forte passione per il cioccolato, Casanova, per esempio, ne faceva abbondantemente uso per gli effetti afrodisiaci.

Oggi il cioccolato è consumato in tutto il mondo e soprattutto per interessi commerciali sono stati effettuati diversi studi su di esso.

I risultati sono controversi, alcuni (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) attestano gli effetti antiossidanti e di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro, altri sconsigliano (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica) il consumo di cacao perché può dare dipendenza, può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima.

Il cacao contiene monoammine tra cui la feniletilammina, la teobromina e stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre una serie di effetti sull’umore e su alcune funzioni biologiche (inibizione dell’appetito, riduzione della sensazione della fatica, innalzamento del tono dell’umore, mantenimento della veglia e attivazione delle funzioni mentali).

La feniletilammina è stata definita “love-drug” e, modulando la trasmissione dopaminergica, è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Alcuni studi arrivano ad indicarla come una sostanza migliore dei farmaci antidepressivi.

La serotonina è un neurotrasmettitore e l’inibizione della sua ricaptazione è il meccanismo con cui alcuni psicofarmaci agiscono sul tono dell’umore.

Il cioccolato è anche uno stimolante naturale, alcuni risultati di ricerca ottenuti dall’Università di Wheeling in West Virginia dimostrano che il consumo di cioccolato provoca un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e un incremento del rendimento mentale.

Altri studi condotti con metodiche di neuroimmaging hanno rilevato che la contemplazione, l’odore ed il sapore del cioccolato attiva il metabolismo nell’insula anteriore della circonvoluzione temporale superiore e della corteccia orbito frontale, le stesse zone che si attivano nelle dipendenze da droga quando i soggetti pensano al consumo.

Il consumo di cioccolato offre sensazioni di rilassamento e felicità e consente di attenuare l’ansia. L’Università di Helsinki ha condotto uno studio su 300 donne in gravidanza, i figli di quelle che avevano consumato regolarmente cioccolato risultavano più attivi e reattivi.

Naturalmente, i risultati di questi studi possono essere influenzati dal committente (spesso sono i produttori a commissionarli) tant’è che altre ricerche attestano risultati esattamente contrari.

Una ricerca pubblicata su Archives of Internal Medicine, sostiene che il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione.

Un’altra ricerca australiana pubblicata su Journal of Affective Disorders esclude un effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.

Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e forse per questo se ne consuma in grandi quantità.

Il tono edonico positivo migliora il benessere (Heller et al. 2009; Schacter et al. 2007).

I sistemi edonici del cervello che abbracciano i livelli corticali e sottocorticali filogeneticamente sono comparsi precocemente e hanno una grande importanza nel fitness, svolgono una funzione adattiva e si sono evoluti per mediare comportamenti legati al sesso al cibo e al sonno e ad altri piaceri sensoriali (Koob, Volkow 2010; Panksepp 1998; Tindell et al. 2006).

I sistemi neurali dei piaceri edonici sensoriali più semplici vengono riciclati per la generazione dei piaceri derivanti dai comportamenti sociali e intellettuali (Frijda 2010; Harris et al. 2009; Salimpoor et al. 2011; Skov 2010; Frith, Frith 2010; Kringelbach et al. 2008; Leknes, Tracey 2008).

Il nucleo accumbens, il pallidum ventrale e le regioni profonde del tronco encefalico codificano le reazioni di gradimento e le connettono a varie regioni della corteccia orbitofrontale (Pecina 2008; Pecina, Smith 2010; Smith et al. 2011).

Il piacere della cioccolata può, quindi, generare benessere (Lorenzini, Scarinci, 2013) e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Inoltre, la codifica del piacere che agisce sul tono edonico tende a diffondersi nel cervello e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche (Beckmann et al. 2009), può raggiungere l’apice nella localizzazione di alcune regioni della corteccia orbitofrontale e la sua attivazione determina le valutazioni soggettive di piacevolezza legate al gusto ma anche ad aspetti affettivi e astratti (Georgiadis, Kortekaas 2010; Veldhuizen et al. 2010; Vuust, Kringelbach 2010; Kringelbach 2010).

Del resto, la corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nei disturbi emotivi e nelle dipendenze (Kringelbach 2005).

Occorre tener presente, però, che l’eccesso di desiderio sembra svincolato dal piacere e dall’eudemonia (Wiers, Stacy 2006; Camerer 2006).

Il cioccolato non è solo, quindi, un piacere effimero, può predisporci alla relazione, crea le condizioni per l’esternazione, per vivere un profondo contatto.

D’altra parte può essere un nutrimento che appaga il vuoto affettivo, la noia, può esaudire compulsivamente il desiderio in modo rapido e in quantità e quindi generare dipendenza. Questi aspetti contrapposti, dolce/amaro; liquido/solido; chiaro/scuro sono propri dell’alimento e ne costituiscono il carattere ambivalente. Il cioccolato può essere dolce, dare calore, appagare e può anche essere qualcosa che fa ingrassare che rende dipendenti, che fa ammalare.

Ippocrate sosteneva “è la quantità che fa il veleno”. Il male non è nella sostanza ma nell’appetizione dei piaceri che contraddistingue il nostro tempo. Può dare sollievo alla fatica di esistere, fornire un po’ di piacere e “i piaceri semplici e naturali sono l’ultimo rifugio degli uomini complessi” (Oscar Wilde) . Senza, però, esagerare!

A proposito di esagerazioni, David Lewis neuropsicologo, a seguito di una ricerca condotta con alcune coppie giovani, sostiene che mangiare un pezzo di cioccolato fondente sia più eccitante che baciare il proprio partner. L’aumento del ritmo cardiaco è stato il parametro preso in considerazione che per durata e intensità, dopo il consumo di cioccolato ha avuto picchi sorprendenti, inoltre tutte le aree del cervello ricevevano uno stimolo più intenso e duraturo rispetto a quello registrato durante il bacio. Lo studio ha chiari limiti metodologici: un conto è baciare appassionatamente la propria amante in un posto riservato e al riparo da occhi indiscreti, altro è baciare la propria compagna in un laboratorio dove ti senti addosso il ruolo della cavia. Pasini (1994) evidenzia che mentre per gli uomini il cioccolato predispone alla sessualità, la maggior parte delle donne lo preferisce al sesso, mentre Murray (2001) associa addirittura i tratti di personalità del soggetto e il rapporto con l’alimento, proponendo una serie di interpretazioni psicologiche prive di basi empiriche.

Mettendo da parte le iperboli, sta ad ognuno restituire al cioccolato – lo stesso discorso si potrebbe fare per altri alimenti – il peso che gli spetta. Ci può far sorridere, renderci allegri, predisporci ad andare oltre il peccato di gola, trasportati dal piacere e dall’attivazione affettiva quando leggiamo il cartiglio che contiene una frase d’amore mentre gustiamo un bacio di cioccolato offertoci dalla donna che amiamo, ma non dobbiamo farci influenzare e trascinare dalle attese suscitate da informazioni e comunicazioni che spesso non sono affatto disinteressate.

Non possiamo essere certi che il cioccolato sia un afrodisiaco, ma può diventarlo quando si crea una certa atmosfera intorno al suo consumo e si attivano tutti i sensi. Simbolicamente può essere considerato di natura ermafrodita, copre tutte le forme della sessualità, è maschile ma anche femminile. Alimento indiscutibilmente tra i più amati e diffusi del nostro pianeta ha sicuramente valore gratificante, ma il significato che gli si attribuisce coinvolge naturalmente la scala di valori e lo stile di vita di ogni singolo consumatore.

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