expand_lessAPRI WIDGET

La migliore offerta di Giuseppe Tornatore – Recensione – Cinema e psicologia

Recensione

“La migliore offerta”

di Giuseppe Tornatore

 

La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione

Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore – Ritratto di un Escluso

La migliore offerta La migliore offerta: non avrebbe guastato un bis di Oscar a Tornatore per questo film internazionale nella tematica e nel cast, intrigante come Shutter Island (altro film sulla perfezione del delirio) che disorienta e affascina. Va visto solo perché è bello ma se si ha bisogno di un alibi  per concedersi lo svago ci si può dire che è denso di spunti per chi si occupa di psicopatologia.

Può considerarsi un master di specializzazione per paranoici. Mi ha ricordato un ammonimento di mia nonna che diceva che le ragazze cresciute in convento dalle monache erano le prime a rimanere incinte alla prima uscita (non a caso il protagonista,  un bravissimo Geoffrey Rush, si chiama “Virgin”). Non accennerò alla trama che  riserva continue inaspettate sorprese e si presta a molte possibili interpretazioni su diversi piani. Mi limito ad alcune suggestioni:

Quanto il disturbo evitante di personalità e il disturbo paranoideo di personalità hanno territori di sovrapposizione?

Il film visto da un paranoico potrebbe fare un doppio effetto: convincerlo ad aumentare ancora di più sospettosità e diffidenza o accettare che qualsiasi precauzione non sia sufficiente e dunque sia inutile stare costantemente in guardia. C’è dunque modo di utilizzarlo in terapia, eventualmente anche per promuovere l’evoluzione di un evitante in paranoico.

Le donne dipinte ed in genere le cose al contrario delle donne vere non invecchiano ma si possono perdere come e di più degli amori reali che, perlomeno, restano nel ricordo.

Fuggire elicita nell’interlocutore il comportamento complementare dell’inseguire (“in amor vince chi fugge” di nuovo op. cit. nonna,… ma attenti al rinculo come insegnano, invece, gli  Orazi e i Curazi)

Quando si è presi dal “furor curandi” si perde il lume della ragione. Se poi il partner ha meno della metà dei propri anni non si torna più indietro.

Prima di gettarsi a capofitto a sconfiggere la patologia una accurata anamnesi ed una ricostruzione della situazione reale è opportuna.

Il narcisista disprezzando gli altri (l’amico Billy, Donald Suterland) intreccia la frusta che gli percuoterà le terga.

Ma alla fine Virgin ha davvero perso tutto o almeno si è goduto una botta di vita?

LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO FILM:

La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione

Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore – Ritratto di un Escluso

ARGOMENTI CORRELATI:

CINEMADISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITA’

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Disturbo paranoide di personalità – Sospettando ad veritatem pervenit!

 

 

I nuovi media e il rischio del cyberbullismo: quali segnali?

 

 

 

I nuovi media e il rischio del cyberbullismo- quali segnali?. -Immagine:© rnl - Fotolia.com Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi. Esso ha però delle caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

In tutti i paesi europei, un terzo dei bambini tra i 9 e i 10 anni e più dei due terzi (l’80%) dei quindici-sedicenni usano internet quotidianamente. In Italia il 60% usa internet tutti i giorni o quasi. Inoltre, l’età di chi utilizza tale strumento è diminuita, infatti i bambini cominciano a usare internet sempre prima. L’età media in cui si inizia ad andare online è 7 anni in Danimarca e Svezia, 8 anni negli altri paesi nordici e 10 anni in Grecia, Italia, Turchia, Cipro, Germania, Austria e Portogallo.

Molti bambini e ragazzi hanno dei profili in dei social network e l’accesso a internet da un dispositivo mobile è una pratica diffusa in oltre il 20% dei ragazzi e delle ragazze in Svezia, Regno Unito e Irlanda. In Italia il 59% dei ragazzi e delle ragazze accede a internet dalla propria camera e solo il 9% da un dispositivo mobile (Livingstone, S., Haddon, L., Görzig, A., & Ólafsson, K., 2010)).

Questi dati mettono in allarme poiché stiamo assistendo sempre più a dei fenomeni che in passato abbiamo conosciuto, come il bullismo, ma tuttavia, adesso hanno uno scenario diverso e pongono delle  questioni di classificazione e di prevenzione adeguata.

Andiamo ad esaminare il fenomeno del bullismo che può essere descritto come un comportamento, intenzionale e ripetitivo, da parte di un individuo o un gruppo, che hanno lo scopo di danneggiare un’altra persona e tra la vittima e l’aggressore c’è uno squilibrio di potere (Olweus, D., 2003).

Il bullismo è un fenomeno complesso che comprende sia fattori legati alla personalità di coloro che sono coinvolti (bulli, vittime e spettatori), sia fattori sociali, come ad esempio il clima scolastico, che è stato descritto come un fattore di rischio o di protezione.

Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi (Smith, P. K., del Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013). Esso ha però delle caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

La vittima invece, può avere delle difficoltà a scollegarsi dall’ambiente informatico, non sempre ha la possibilità di vedere il volto del suo aggressore, e può avere una scarsa conoscenza circa i rischi insiti nella condivisione delle informazioni personali su Internet (Casas, Del Rey,  Ortega-Ruiz, 2013).

Sono molti gli studi che si sono occupati dell’effetto della vittimizzazione da parte dei cyberbulli. Infatti, queste esperienze si associano a bassi livelli di rendimento scolastico, ad una inferiore qualità dei rapporti familiari e problemi legati inoltre a bassa autostima e problemi affettivi (Machmutow, K., Perren, S., Sticca, F., & Alsaker, F. D., 2012). Tuttavia, questi i risultati sono molto simili a quelli riportati dalle vittime di bullismo tradizionale. In entrambi i fenomeni l’intervento di prevenzione si basa sulla capacità di offrire consapevolezza ai giovani  della gravità e delle conseguenze che le diverse forme di bullismo può creare (Salmivalli, C., 2010).

Ecco sinteticamente alcune strategie di prevenzione per i minori:

1. Non fornire mai informazioni personali, le password, numeri PIN, ecc .

2. Non credere a tutto quello che si vede o si legge, non è detto che sia la verità.

3. Usare la gentilezza con gli altri che sono on-line, proprio come si farebbe off-line. Se qualcuno usa toni sgarbati o minacciosi è meglio non rispondere. I Bulli online sono proprio come off-line.

4. Non inviare un messaggio quando si è arrabbiati. Attendere fino a quando si ha avuto il tempo di pensare.

5. Non aprire un messaggio da qualcuno che non si conosce. In caso di dubbio è bene rivolgersi ai genitori, tutori o un altro adulto.

6. Durante la navigazione in Internet, se si trova qualcosa che non piace, che fa sentire a disagio o  spaventa, spegnere il computer e raccontare l’accaduto un adulto.

7. Concedetevi una pausa da Internet, mettendo la modalità off-line per trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici.

8. Se si è stati vittima di un cyberbullo è importante parlare con un adulto che si conosce e di cui si ha fiducia.

9. Non cancellare o eliminare i messaggi dei cyberbulli. Non c’è bisogno di rileggerlo, ma tenerlo è la prova.

10. Non organizzare un incontro con qualcuno conosciuto online a meno che i genitori non vengano con te.

Molti sono gli interrogativi che si pongono i genitori, ad esempio come fare a capire se il proprio figlio o figlia è vittima di Cyberbullismo.

I  segnali di vittimizzazione possono essere così sintetizzati:

• Utilizzo eccessivo di internet.

• Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.

• Rifiuto ad utilizzare Internet.

• Comportamenti diversi dal solito.

• Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.

• Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.

• Immagini insolite trovate nel computer.

• Disturbi del sonno.

• Disturbi dell’alimentazione.

• Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).

• Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri studenti.

• Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.

• Bassa autostima.

• Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.

Ma una cosa molto importante è insegnare ai vostri figli a comunicare con voi, a raccontare ciò che è accaduto per non rimanere nel dolore del silenzio.

ARGOMENTI CORRELATI:

ADOLESCENTI CYBERPSICOLOGIA PSICOLOGIA DEI NEW MEDIABULLISMO

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Cyber Bullismo…L’umiliazione è Totale!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Autismo: la genesi già nel periodo prenatale – Neuroscienze

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati ottenuti dal presente lavoro supporterebbero l’idea che nei bambini con autismo il cervello possa, a volte, ricostruire alcuni connessioni, compensando in questo modo i deficit focali precoci, e  sollevare, quindi, la speranza che comprendere questi meccanismi possa aprire nuovi orizzonti per la comprensione di tali processi di plasticità cerebrale.

Sul “The NEW ENGLAND JOURNAL of MEDICINE” è stato recentemente pubblicato uno studio che sembrerebbe dimostrare come l’autismo possa trovare una sua genesi già nel periodo prenatale, a causa di un difetto nella formazione della struttura della neocorteccia cerebrale.

Gli autori – Eric Courchesne, professore di Neuroscienze e direttore dell’ “Autism Center of Excellence” presso l’Università della California di San Diego; ED S. Lein, PhD presso l’ “Allen Institute for Brain Science” di Seattle e Rich Stoner, PhD presso l’Università della California – hanno analizzato 25 geni estratti dal tessuto cerebrale post-mortem di bambini con o senza autismo.

Come affermato dal Professor Courchesne, la corteccia cerebrale umana è costituita da sei strati cellulari e nel tessuto cerebrale della maggior parte dei bambini con autismo sarebbero state individuate delle aree focali in cui i normali processi di sviluppo avevano subito un’interruzione.

Durante lo sviluppo precoce del cervello, ogni strato corticale si sviluppa in uno specifico tipo di cellule cerebrali, ognuno con schemi di connettività differenti che assolveranno un ruolo unico e importante nella futura elaborazione delle informazioni. Tali caratteristiche peculiari sono codificate da specifici marker genetici.

Dal presente studio è emerso come nel cervello dei bambini con autismo, alcuni marker genetici chiave fossero assenti nelle cellule cerebrali in strati multipli della corteccia. Courchesne afferma che tale assenza possa indicare che le fasi precoci cruciali per la creazione dei sei strati corticali, ciascuno con specifici tipi di cellule cerebrali, che avviene tipicamente durante il periodo prenatale, siano difettose nei bambini con autismo. Inoltre, tale difetto sarebbe presente in aree focali della corteccia e non in maniera uniforme. In particolare, le regioni maggiormente colpite da tale assenza dei marker genetici sarebbero la corteccia frontale e quella temporale.

Tale tropismo è chiaramente associato ai deficit riscontrati nei disturbi dello spettro autistico: la corteccia frontale, infatti, è associata a funzioni cerebrali di alto livello, come la comunicazione complessa e la comprensione degli stimoli sociali, mentre la corteccia temporale è associata alle competenze linguistiche. Al contrario, la corteccia visiva – un’area del cervello deputata alla percezione, la quale risulta risparmiata nell’autismo – non presenterebbe anormalità.

Ricercare le origini dell’autismo è sicuramente una sfida stimolante, in quanto tipicamente relata allo studio di cervelli adulti e, quindi, ad una procedura a ritroso. “In questo caso”, sottolinea Lein, “siamo in grado di studiare soggetti autistici e di controllo in giovane età, permettendoci uno sguardo su come l’autismo si presenta nel cervello in via di sviluppo”.

Come affermato da Courchesne, la scoperta che tali difetti avvengano in zone precise della corteccia e non nella sua intera superficie, ci offre speranza circa la comprensione della natura dell’autismo. Tale diffusione delle aree compromesse, in opposizione ad una patologia corticale uniforme, potrebbe spiegare il fatto che molti bambini con autismo mostrino miglioramenti clinicamente significanti con trattamenti precoci e prolungati nel tempo.

Infine, i risultati ottenuti dal presente lavoro supporterebbero l’idea che nei bambini con autismo il cervello possa, a volte, ricostruire alcuni connessioni, compensando in questo modo i deficit focali precoci, e  sollevare, quindi, la speranza che comprendere questi meccanismi possa aprire nuovi orizzonti per la comprensione di tali processi di plasticità cerebrale.

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMONEUROPSICOLOGIABAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La doppia diagnosi nelle attività di consulenza psichiatrica – SOPSI 2014

 

 

 

SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

La doppia diagnosi nelle attività di consulenza psichiatrica

*N. VERDOLINI, **F. FRATERNALE, *P.M. BALDUCCI, ***S. ELISEI, ****R. QUARTESAN

*Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan **Università degli Studi di Perugia

***Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan ****Direttore Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia, Dir. Prof. R. Quartesan 

ARGOMENTI CORRELATI: 

DISTURBI DELL’UMORE DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ALCOOL

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

 

La responsabilità della prescrizione: aspetti medico legali – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014 – Incontro con l’esperto

La responsabilità della prescrizione o la prescrizione responsabile: aspetti medico legali

 

SOPSI 2014 - CASTELNUOVOL’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti. 

Durante “L’incontro con l’esperto” tenutosi durante il Congresso SOPSI 2014 l’Avvocato cassazionista Andrea Castelnuovo ha illustrato in maniera rigorosa quali sono i rischi in cui si incorre in caso di malpractice nella prescrizione farmacologica. L’intervento, che solleva importanti quesiti medico-legali, si è aperto con la descrizione di quanto accade in tribunale, sia nel processo civile che penale, in caso di malpractice, concentrandosi sul tema del risarcimento e della copertura assicurativa. Nella seconda parte dell’intervento Castelnuovo ha affrontato l’argomento della prescrizione farmacologica e dei suoi potenziali rischi, in particolare per quanto riguarda le prescrizioni on label e off label, i farmaci generici e gli integratori.

Alcune definizioni prima di cominciare

Danno = lesione di un interesse altrui

Risarcimento = modo attraverso il quale si rimborsano coloro che hanno subito un danno ingiusto.

Dolo = l’evento è preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (Mi sono rappresentato che l’evento si sarebbe verificato e l’ho voluto)

Colpa = violazione di norme di comportamento (violazione di norme tecniche, di protocolli…)

Cause di colpa generica:

● Imprudenza = inosservanza di un divieto assoluto di agire o di un divieto di agire secondo determinate modalità

● Negligenza = omesso compimento di un’azione doverosa

● Imperizia = negligenza o imprudenza in attività che richiedono l’impiego di particolari abilità o cognizioni (Ti sei astenuto da un intervento che non eri in grado di fare?)

La malpractice in tribunale: i criteri di responsabilità

Qualsiasi caso di malpractice, qualunque atto medico che sfoci in un danno per il paziente (dove per danno non si intende solo l’aver arrecato positivamente un danno, ma anche il mancato ottenimento del risultato) ha sempre una doppia valenza punitiva: penale e civile. Questo perché il bene su cui si va ad incidere con qualsiasi intervento, trattamento, prescrizione farmacologica è un bene tutelato dall’Art. 32 della Costituzione, ovvero la salute. La lesione del diritto alla salute è colpito penalmente dai reati (lesioni colpose, omicidio colposo, dolo…) e comporta il risarcimento del danno. Quindi in caso di malpractice si va incontro sia a processo civile che a processo penale.

Quali sono gli elementi dei quali si va a dibattere in caso di responsabilità penale o civile?

Si risponde per un danno qualora quel danno sia posto in connessione causale scientificamente accertata con una condotta che può essere commissiva o omissiva (es. è stato dato il farmaco sbagliato o non non è stato dato il farmaco giusto). Il dibattito in tribunale tendenzialmente non riguarda tanto il danno o la condotta tenuta, quanto il nesso di causa su cui si appostano tutte le azioni di responsabilità: il giudice vorrà sapere con quale percentuale di probabilità l’operazione sbagliata che avete fatto (o l’operazione non fatta che avreste dovuto fare) ha causato il danno. Ma quanto è difficile dare al giudice una risposta di questo tipo? Proprio su questo elemento dal 2008 si apposta la prima differenza tra processo civile e processo penale.

Nel processo civile la regola è quella della probability causation: ciò significa che il giudice può condannarvi a risarcire tutto il danno (100%) anche se accerta il nesso di causa con un grado di probabilità del 30-40%; per di più l’onere della prova negativa spetta all’imputato.

Fino al 2008 valeva lo stesso discorso anche per il processo penale, ma dal 2008, per effetto della sentenza “Franzese” della Corte di Cassazione, nel processo penale il nesso di causa deve essere accertato con un grado di probabilità prossimo al 100% (il che è scientificamente impossibile!). Il risultato è che ad oggi la maggior parte delle denunce penali finiscono con l’archiviazione o con un’assoluzione (anche se, magari, l’assoluzione avviene in terzo grado).

Quindi per una stessa causa ci sono ottime probabilità di vincere in sede penale e di perdere in sede civile. In conclusione, è buona prassi assicurarsi un buon difensore in sede penale (magari con una clausola di tutela legale dell’assicurazione) e aver stipulato una buona assicurazione di responsabilità civile.

Il Decreto Balduzzi

Nel settembre 2012 il legislatore tecnico scrive:

Art. 3

Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie

1. L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.

Il Decreto Balduzzi afferma che non si risponde più penalmente laddove vi sia colpa lieve e si dimostri di essersi attenuti alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma si risponde solamente per una colpa significativa e se non si sono seguiti i protocolli. Tale decreto, però, presenta delle criticità di cui già si dibatte nelle aule di giustizia. Infatti il Tribunale di Milano ha rimandato la norma del Decreto Balduzzi alla Corte Costituzionale evidenziando come critico il passaggio “si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”. A quali linee guida si fa riferimento? E a quante? Con quale autorevolezza? Non c’è, in pratica, una predeterminazione delle soglie di rilevanza! In altre parole, qual è il protocollo che posto davanti al giudice determina la mia assoluzione?!

Il risarcimento del danno

Dal punto di vista giuridico il danno può essere definito come la lesione di un interesse altrui e “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” (Cod. Pen. 185).

Esistono due categorie di danno che vengono risarcite:

● Danno patrimoniale: danno che si cagiona al proprio paziente sotto il profilo del denaro  (danno emergente e danno per mancato guadagno / lucro cessante)

● Danno non patrimoniale: tutto ciò che attiene alla sfera fisica, psicofisica, psichica, ma anche morale ed esistenziale del soggetto. È una rivalutazione in termini costituzionali del diritto e del valore di una persona rispetto al valore delle cose. Si distinguono:

○ Danno biologico temporaneo o permanente (funzione crescente rispetto all’entità del danno e funzione decrescente rispetto all’età)

○ Danno morale (shock da reato)

○ Danno esistenziale

○ Danno da lutto – Il nostro ordinamento non risarcisce il soggetto morto, bensì i familiari che hanno subito un danno da lutto, danno tabellato con una somma che varia dai 100000 ai 300000 euro per ciascun membro della famiglia nucleare.

Cosa accade nei processi penale e civile in caso di danno?

Il processo penale è un processo a parti contrapposte: il PM, che rappresenta la pubblica accusa, e l’imputato, che si difende illustrando la bontà della scienza che ha applicato e portando la quantità di prove prodotte quali il consenso informato, la cartella clinica ben tenuta, non falsificata e comprensibile, la potenza della propria perizia e il non essere stato negligente o imperito.

Il processo civile invece si gioca tutto sulla CTU e sulla credibilità, l’autorevolezza, la scientificità degli argomenti delle CTP. In tutto ciò si inserisce il Decreto Balduzzi che ha dato ancora più importanza ai protocolli e alle linee guida. Il giudice vuole infatti sapere dal CTU e dal CTP qual è il protocollo giusto, quali sono le linee guida, quali sono le condotte che il medico avrebbe dovuto tenere e non ha tenuto: ma se le avesse tenute, in ragione di quel protocollo, avrebbe ottenuto un risultato oppure no? Si è distaccato dal protocollo? Lo ha fatto per imperizia? Per negligenza? In base alle risposte ottenute verrà infatti eventualmente commissionata una pena e riconosciuto un risarcimento.

La copertura assicurativa

Se si è liberi professionisti si ha l’obbligo deontologico e legale di avere un’assicurazione per la responsabilità civile che copra in maniera totale e con dei massimali importanti (2-3-4 milioni) proprio per rendere conto del fatto che ci sono dei risarcimenti imprevedibili tali per cui non si può sapere che tipo di danno si andrà a causare e se anche si sapesse non sarebbe prevedibile il tipo di riflesso che potrebbe avere.

Il consiglio quindi è quello di avere una polizza di tutela legale: “Nell’ambito della garanzia di responsabilità civile con qualche euro in più si ha l’avvocato pagato ed il consulente di parte pagato – afferma Castelnuovo – Chiedete, verificate che siano il vostro consulente, il vostro avvocato. Non c’è niente di peggio che vedersi assegnato d’ufficio l’avvocato o il perito dell’assicurazione poiché non è detto che il suo interesse sia il vostro: l’avvocato d’ufficio dell’assicurazione ha interesse a pagare il meno possibile e il più tardi possibile, mentre voi avete l’interesse a definire il prima possibile il penale anziché temporeggiare”.

La questione è più complicata se si lavora in ambito ospedaliero perché l’ospedale dovrebbe essere assicurato e dovrebbe coprirvi, ma se si dimostra in sede di causa che la vostra condotta è stata posta in essere con colpa grave, l’ospedale può chiedere l’azione di rivalsa a carico vostro. Assicuratevi pertanto a prescindere, soprattutto per la colpa grave in rivalsa.

Copritevi con una polizza moderna con poca franchigia e grosso massimale.

La prescrizione farmacologica responsabile

La prescrizione dei farmaci è regolamentata da specifiche norme, sia scientifiche che di matrice legale. Nei seguenti paragrafi verranno sollevate alcune problematiche di cui bisogna essere a conoscenza per operare delle scelte quando si prescrivono dei farmaci.

PRESCRIZIONE ON LABEL

Si prescrive secondo scheda tecnica (prescrizione on label). Questa non è solo una regola deontologica; da una decina d’anni infatti è anche una regola di diritto.

Nel rispettare tale norma può sorgere un problema quando si deve tenere conto degli aspetti economici (farmaci di fascia A, C, H) e delle note di un farmaco. Si dice che da una parte si devono rispettare – in favore del paziente e a tutela del diritto e dovere di dargli la miglior cura – soltanto i criteri di appropriatezza prescrittiva clinica (il miglior farmaco al paziente giusto), ma dall’altra parte si devono rispettare dei criteri di appropriatezza prescrittiva finanziaria che non sempre sono collimanti: le note  AIFA (http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/note-aifa).

Il tema è molto complesso in quanto le linee guida e i protocolli che interessano gli psichiatri, i pazienti, il giudice e la responsabilità del Decreto Balduzzi sono quelle di natura clinica. E attenzione, quelle “giuste” (giuste secondo il Decreto Balduzzi) potrebbero essere quelle di matrice internazionale che nulla hanno a che fare con gli aspetti di natura finanziaria tipici del nostro ordinamento (ma potrebbe valere anche il contrario nel caso in cui le linee guida internazionali fossero inquinate da aspetti di natura finanziaria o di rimborso magari statunitensi, inglesi, etc.).

PRESCRIZIONE OFF LABEL

La prescrizione off label è sempre stata pratica diffusa, ma solo nel 1998 venne regolamentata grazie ad un caso eclatante di grande attenzione mediatica, il caso Di Bella, da cui la legge prese il nome. La legge 94/98, o Legge Di Bella, (http://www.camera.it/parlam/leggi/98094l.htm#decreto) prevede nel comma 1 dell’Art. 3 un dovere che prima era solo deontologico: si prescrive secondo indicazione terapeutica.

“Fatto salvo il disposto dei commi 2 e 3, il medico, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità.”

Il comma 2 invece stabilisce gli aspetti scientifici per fare un off label regolare:

“In singoli casi il medico può, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.”

In singoli casi si può sotto la propria diretta responsabilità e con il consenso informato del paziente fare offlabel. Si può fare tutto l’off che si vuole (usare un medicinale per un’indicazione diversa, altre vie di somministrazione, modalità e posologia, off combinato…) se si ritiene in base ad atti documentabili che il paziente non possa essere trattato con un farmaco on. L’off label è legittimo nella misura in cui non esiste un’alternativa on label e l’impiego sia conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.

A tal proposito il decreto Balduzzi è tecnicamente peggiore rispetto alla Legge Dibella perché, come già sottolineato in precedenza, non dà una soglia di rilevanza, di autorevolezza, a differenza della Legge Dibella in cui il legislatore indica le pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale come punto di riferimento.

Il caso Veronica (Tribunale di Pistoia – Sezione penale – sentenza 24 novembre 2005-20 gennaio 2006)

Il caso Veronica viene ricordato per la famosa sentenza su una prescrizione farmacologica off label andata male. Per far dimagrire una bambina di 12 anni una psichiatra prescisse alla paziente del Topamax (antiepilettico) per sfruttarne off label l’effetto collaterale anoressizzante; il farmaco venne inoltre prescritto in dosi massicce (20 volte il dosaggio previsto). La bambina dimagrì, ma riportò i normali effetti collaterali del farmaco quali sonnolenza, emicrania, allucinazioni, depressione. Notare che non si risponde mai per gli effetti collaterali di un farmaco prescritto, a meno che non vi sia uno sbilanciamento. Il giudice in questo caso stabilì che gli effetti collaterali furono lesioni personali dolose e comminò una pena pari a 6 mesi; se la bambina fosse morta la pena sarebbe stata l’ergastolo. Nel 2008 la Corte di cassazione confermò la responsabilità professionale della psichiatra, ma l’ha ricondusse a colpa e non più a dolo.

Quindi la violazione di una norma di legge che stabilisce un percorso scientifico, ma anche legale e burocratico nella prescrizione del farmaco comporta, laddove cagioni un danno, responsabilità per colpa. 

GLI INTEGRATORI

Quando si raccoglie l’anamnesi spesso i pazienti alla domanda “Lei prende qualcosa?” rispondono di non prendere niente, omettendo di assumere sostanze naturali perché, appunto, naturali. Ma in realtà nella prescrizione di farmaci bisogna tenere conto dell’assunzione di sostanze naturali, omeopatiche, etc. poiché queste possono avere effetti collaterali o di interazione con i farmaci prescritti.

Dal punto di vista normativo c’è una grossa differenza tra la messa in commercio di un farmaco e di un integratore. Da una parte abbiamo studi clinici, l’approvazione dell’AIFA e di altri organi di controllo, la farmacovigilanza e la letteratura scientifica, dall’altra abbiamo la compilazione di un modulo di notifica di integratore alimentare che deve essere inviato al Ministero della Salute il quale ha 90 gg di tempo per dire che l’etichetta (NB. non il contenuto) va bene. L’integratore entra in commercio così, senza farmacovigilanza né studi scientifici a supporto. Il tema dell’assunzione da parte dei pazienti di integratori è pertanto da tenere a mente ed essendo materia completamente nuova potrebbe  tra non molto entrare nelle aule di tribunale.

FARMACO GENERICO

Il farmaco generico dal 2005 viene chiamato farmaco equivalente. Già la definizione di legge presenta delle tematiche medico-legali da risolvere: il decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 definisce il medicinale generico come “un medicinale che ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la stessa forma farmaceutica del medicinale di riferimento nonché una bioequivalenza con il medicinale di riferimento dimostrata da studi appropriati di biodisponibilità”. (Art. 10, comma 5 D.lvo n. 219/06; art. 10, comma 2 Direttiva europea 2001/83/CEE successive modificazioni.)

Per ottenere l’autorizzazione all’emissione in commercio (AIC) di un farmaco innovatore è necessario presentare un dossier completissimo riportante risultati di diversi studi condotti, mentre per ottenere l’AIC di un farmaco generico è necessario presentare uno studio di bioequivalenza in base al quale si va a dimostrare se vi sia o meno la biodisponibilità del principio attivo. Il limite degli studi di bioequivalenza, di cui è bene essere consapevoli, è la pretesa che pur essendo condotti in tempi brevi su un campione ridottissimo di soggetti abbia dei risultati tali da poter essere estesi alla popolazione generale fruitrice del farmaco in questione.

La stessa normativa, inoltre, riporta che:

● I vari sali, esteri, eteri, isomeri, miscele di isomeri, complessi o derivati di una sostanza attiva sono considerati la stessa sostanza attiva se non presentano differenze significative delle proprietà relative alla sicurezza e/o efficacia.

● Le varie forme farmaceutiche orali a rilascio immediato sono considerate una stessa forma farmaceutica.

● Gli eccipienti possono essere differenti.

Negli studi di bioequivalenza si studia che vi sia nella biodisponibilità un delta che non superi il +/- 20%. Ciò implica lo studio di tre elementi (in realtà due) della farmacodinamica: Tmax (tempo richiesto per il raggiungimento della massima concentrazione plasmatica), Cmax (massima concentrazione plasmatica) e l’AUC (area sotto la curva della concentrazione plasmatica rispetto al tempo). In pratica si va a verificare se l’AUC di un farmaco sia corrispondente, uguale, in altre parole bioequivalente, all’AUC dell’altro farmaco; si controlla che non vi sia una differenza significativa tra le curve dei farmaci (che si misura nel range +/- 20%, che corrisponde alla variabilità interindividuale).

Ora immaginiamo un grafico che riporta due curve che hanno AUC uguale, ma Tmax differenti: le due curve rappresentano due farmaci bioequivalenti in quanto le due aree che sottendono la curva sono equivalenti nonostante la Tmax sia differente. Questo perché negli studi di equivalenza tendenzialmente la Tmax non viene considerata! Ma se la Tmax è diversa, può essere un problema: ci sono psicofarmaci in cui l’emivita (il tempo in cui il farmaco entra in circolo) ha una rilevanza non da poco ed è un parametro da tenere in considerazione nella prescrizione farmacologica.

Problemi medicolegali dei farmaci generici

1. Se è vero che rispetto ad un farmaco Originator (Or) ciascun farmaco generico (Gn) è bioequivalente, non esiste però una proprietà commutativa tra i farmaci generici: G1 = Or e G2 = Or ma G1 e G2 non sono bioequivalenti tra loro.

Problema: siete convinti che il vostro paziente prenda una molecola G1. Se per qualsiasi motivo in farmacia gli danno G2 e successivamente in un’altra farmacia gli danno G3 c’è una continua modifica dello stato stazionario.

2. Indicazioni terapeutiche 

Problema: I farmaci generici hanno sempre meno indicazioni terapeutiche rispetto al rispettivo farmaco Originator pur essendo bioequivalenti. Essendo farmaci vecchi si portano dietro la loro indicazione terapeutica originaria oppure per questioni economiche l’azienda ne ha approvate di meno. Se il paziente prende un farmaco generico che non prevede l’indicazione terapeutica per un determinato disturbo (ma un altro generico invece la prevede) ci troviamo di fronte ad un caso di Off label non gestito!

L’AIFA, interpellata in merito, non ha fatto un’estensione delle indicazioni terapeutiche per quanto riguarda l’utilizzo dei farmaci generici, ma ha solo espresso un parere (autorevole, certo) che però è contrario a quanto disposto dalla Legge Dibella che non consente di estendere l’indicazione terapeutica tra farmaci.

3. Gli eccipienti possono essere diversi (e lo sono). 

Problema: In un caso verificatosi nel New England (2009), una paziente che assumeva da sempre Omeprazolo sviluppò improvvisamente una grave reazione allergica. Si scoprì che aveva assunto farmaci generici con eccipienti a cui era allergica (proteine della soia). Il medico, che era a conoscenza dell’allergia, non aveva gestito il fatto che in farmacia fosse stato dato alla paziente un farmaco generico contenente eccipienti a cui era allergica.

E se avete un paziente celiaco? Oppure diabetico? L’avete gestito correttamente?

4. Non sostituibilità del farmaco e prescrizione per principio attivo

Dal 2011 quando si prescrive un farmaco con brevetto scaduto si può apporre sulla ricetta la clausola di NON SOSTITUIBILITA’. In assenza di tale clausola il farmacista consegna al paziente il farmaco che costa di meno. La regola finanziaria, nata nel 2011, afferma che il fatto che abbiate dato al paziente un farmaco originator piuttosto che generico non cambia niente dal punto di vista del rimborso poiché il SSN rimborsa il costo più basso, dopodiché la quota a parte è a carico del paziente. Nell’agosto 2012 un decreto legge stabilisce una novità epocale: nasce la prescrizione per principio attivo.

Il medico che curi un paziente, per la prima volta, per  una patologia cronica, ovvero per un nuovo episodio di patologia non cronica, per il cui trattamento sono disponibil i più medicinali equivalenti, è tenuto ad indicare nella ricetta del Servizio sanitario nazionale la sola denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco.  Il medico ha facoltà di indicare altresì la denominazione di uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo; tale indicazione è vincolante per il farmacista ove in essa sia inserita, corredata obbligatoriamente di una sintetica motivazione, la clausola di non sostituibilità di cui all’articolo 11, comma 12, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Il farmacista comunque si attiene a quanto previsto dal menzionato articolo 11, comma 12.

Per i farmaci a brevetto ormai scaduto è necessario prescrivere per i nuovi pazienti cronici indicando sulla ricetta solamente il principio attivo (per i vecchi pazienti cronici vale la vecchia regola del “non sostituibile”). Si ha la facoltà di indicare anche la denominazione di uno specifico medicinale che diventa vincolante per il farmacista indicando con la clausola di non sostituibilità una succinta motivazione. Si può così gestire la problematica legata agli eccipienti.

CONCLUSIONI

L’intervento tenuto dall’Avv. Castelnuovo è stato interessantissimo, condotto con lo stile brillante e accattivante che da sempre lo contraddistingue, ed ha affrontato problematiche medico-legali sempre più attuali nonché argomenti che un operatore del settore dovrebbe conoscere in maniera approfondita per non incorrere in errori durante lo svolgimento del proprio lavoro ed evitare così pericolose denunce da parte dei pazienti. 

 

 

ARGOMENTI CORRELATI:

FARMACI-FARMACOLOGIA  – PSICOFARMACOLOGIA –  SOPSI 2014CONGRESSI

 

Fare la Scuola di Psicoterapia conviene? Psicoterapia e formazione

Esito della ricerca di Studi Cognitivi sulla qualità della formazione in psicoterapia

Fare la Scuola di Psicoterapia conviene?

 

 Scuola psicoterapia. - Immagine: ©-Robert-Kneschke-Fotolia.com

A quanto pare sì, migliora la qualità della vita, la soddisfazione personale e l’inserimento professionale. Questo è quanto emerso da una ricerca svolta con gli allevi e ex-allievi delle scuole italiane di Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca e Scuola Cognitiva di Firenze.

In questo articolo, vengono descritti i risultati principali.

Il campione è composto da 225 soggetti, 87% femmine e 12% maschi. Quest’ultimo dato è in linea con gli iscritti alle Facoltà di Psicologia, con una grande prevalenza di donne nella scelta del percorso per diventare psicoterapeuti.

Oltre il 35% dei colleghi che hanno risposto al questionario hanno già concluso il corso di formazione. Avere informazioni da chi la specializzazione l’ha conclusa ed è già inserito da diversi anni nel mondo della professione aiuta i giovani psicologi neo-laureati a farsi un’idea di cosa può ottenere nel diventare psicoterapeuta.

I colleghi psicoterapeuti si dividono in quote pressoché pari tra attività pubblica e privata. Circa il 34% svolge attività privata e il 33% svolge attività nel pubblico.

Altro dato interessante riguarda le attività collaterali e satellitari alla professione di psicoterapeuta. Meno del 25%, infatti, svolge anche attività differenti, come lavoro di comunità (non come psicoterapeuta), professioni da educatore professionale e impiego nelle risorse umane.

Un aspetto importante che è emerso dalla ricerca, riporta che le ore dedicate alle attività diverse da quelle strettamente legate all’essere psicoterapeuta diminuiscono drasticamente con il passare degli anni. Se al primo anno di scuola, molti allievi svolgono anche altre attività di lavoro (presumibilmente per motivi di sostentamento e di formazione), nel corso degli anni le ore svolte in attività clinica come psicologi psicoterapeuti aumentano.

Un dato a nostro parere molto interessante riguarda la terapia personale degli allievi e ex-allievi. Questa è una questione annosa e discussa per anni da tutti i didatti cognitivisti. Quello che emerge dalla ricerca è che solo il 21,5% dei colleghi non ha svolto una terapia personale e non crede la svolgerà in futuro. Il 93,4% delle persone che hanno svolto una terapia personale la ritengono utile e importante per la loro vita personale e professionale.

Veniamo ai dati relativi al corso di formazione in psicoterapia offerto dalle scuole di Studi Cognitivi.

Gli allievi (in modo più netto gli ex-allievi) hanno riferito di aver notato miglioramenti nel proprio funzionamento personale. In particolare, in tutti gli ambiti indagati dall’intervista (consapevolezza di sé, riduzione dei sintomi, senso di auto-efficacia e benessere personale) è stato riferito un miglioramento soggettivamente percepito durante i quattro anni di formazione.

Scuole Psicoterapia - tabella 1

Tale miglioramento, ha senza dubbio un impatto sul proprio “saper essere” persona e psicoterapeuta.

A rafforzare quest’ultimo dato, il 1,3% dei partecipanti ha sostenuto che la specializzazione in psicoterapia abbia peggiorato la propria condizione professionale e circa il 20% ritiene che la formazione non abbia avuto alcuna influenza sulla propria condizione personale e professionale.

Scuole Psicoterapia - tabella 2

Nella valutazione del corso di formazione di Studi Cognitivi, inoltre, una notevole percentuale di allievi e ex-allievi ha dichiarato alti gradi di soddisfazione (oltre l’85% dei responders) nei seguenti ambiti: Soddisfazione Personale, Competenze Tecniche, Competenze Emotive e Esistenziali.

Scuole Psicoterapia - tabella 3

Ai partecipanti è stato anche chiesto il reddito lordo medio mensile. I dati mostrano un trend di miglioramento mano a mano che l’esperienza professionale aumenta.

 Scuole Psicoterapia - tabella 4

Si conclude questa breve rassegna dei risultati della ricerca svolta nel 2013 con una tabella riassuntiva dei giudizi dati da allievi e ex-allievi alle varie anime delle scuola di psicoterapia Studi Cognitivi.

Scuole Psicoterapia - tabella 5

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA E FORMAZIONE

ARTICOLO CONSIGLIATO:

SCUOLE DI PSICOTERAPIA – LA SELEZIONE DEGLI ALLIEVI

 

 

Effetti dello stress cronico precoce sul comportamento in età adulta

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’esposizione ad un ambiente ostile durante l’adolescenza ha profonde conseguenze sullo stato psico-emotivo e sui comportamenti sociali in età adulta.

Negli ultimi anni, nelle neuroscienze si è molto discusso circa il significato ed il valore scientifico degli studi che indagano l’impatto di fattori di stress precoci e cronici sul comportamento.

Questi esperimenti, condotti tipicamente su roditori, hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione tra particolari tipi di stress precoce e alcune disfunzioni del sistema endocrino, in particolare sull’asse HPA (ipotalamico-pituitario-adrenalinico), implicato nella regolazione del funzionamento delle ghiandole endocrine e degli ormoni dello stress (tra i quali corticotropina e glucocorticoidi).

È inoltre emerso che alcuni soggetti avrebbero più di altri una capacità innata di resilienza agli eventi stressanti.

In alcuni topi, infatti,è stato osservato che l’esposizione a stress precoci e cronici, apparentemente, non porterebbe a conseguenze sul comportamento in età adulta.

Grigori Enikolopov, professore associato presso il laboratorio Cold Spring Harbor, ha ideato un importante disegno di ricerca al fine di  valutare proprio gli effetti di episodi di stress sociale in adolescenza.

L’impatto dello stress sul comportamento veniva valutato attraverso test che indagavano i livelli di ansia, di depressione e la capacità di socializzare e comunicare con un partner non familiare, sia nel momento in cui i soggettivivevano tali esperienzestressanti sia in età adulta.

In una prima fase, ciascun topo maschio di un mese (equivalente umano di un adolescente) veniva esposto quotidianamente a brevi attacchi da parte di un maschio adulto aggressivo, posto nella stessa gabbia.

Un evento cronico di questo tipo induceva nei topi giovani un atteggiamento che i neurobiologi hanno definitodi “sconfitta sociale”, che correlava con alti livelli di ansia ed una diminuzione dell’interazione sociale e dell’abilità di comunicare con altri animali giovani.

Inoltre si osservava anche una minore crescita di cellule nervose (neurogenesi) in una porzione dell’ippocampo conosciuta per il suo coinvolgimento nella depressione: la zona subgranulare del giro dentato.

Un altro gruppo di giovani topi, invece, dopo essere stato esposto anch’esso a stress sociali precoci veniva però inserito per molte settimane in un ambiente non stressante.

Testati nella stessa maniera dei topi dell’altro gruppo, dopo questo periodo di “riposo”, i topi (ora vecchi abbastanza da poter essere considerati adulti) non mostravano più molti dei comportamenti associati all’atteggiamento di “sconfitta sociale” ed anche la neurogenesi tornava a livelli riscontrati in controlli sani.

Le minori conseguenze a livello comportamentale mostravano quindi una maggiore capacità di resilienza di questo gruppo a fattori di stress precoci e cronici.

Tuttavia, in questi topi resilienti, è stata comunque riscontrata la presenza di due effetti latenti sul comportamento: livelli anormali di ansia emaggiore aggressività nelle interazioni sociali.

Si può quindi affermare che l’esposizione ad un ambiente ostile durante l’adolescenza ha profonde conseguenze sullo stato psico-emotivo e sui comportamenti sociali in età adulta.

ARGOMENTI CORRELATI:

ADOLESCENTIANSIASTRESSNEUROPSICOLOGIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Adolescenti e Stress: il report 2013 della American Psychological Association

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Her di Spike Jonze – L’amore ai tempi di una solitudine affollata

Anna Angelillo.

 

Her

L’amore ai tempi di una solitudine affollata

di Spike Jonze (2013)

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

HERMigliore sceneggiatura originale: è il premio che la comunità cinematografica internazionale riconosce al film “Her” di Spike Jonze – che forse qualcuno ricorderà per la regia di un altro film fantastico e a tratti bizzarro, Being John Malkovich (1999).

Il film è una finestra su di un futuro non troppo lontano in cui ormai la tecnologia ha un ruolo di primissimo piano nella vita delle persone e in cui la comunicazione è completamente bypassata dai computer, da auricolari comandati vocalmente e da dispositivi video tascabili.

Il protagonista è Theodore, un uomo solo, sposato, oramai solo in teoria (perché non ha ancora trovato il coraggio di sottoscriverne la fine), che per lavoro mette nero su (uno schermo) bianco i sentimenti altrui. Colpito da una pubblicità, acquista un nuovo sistema operativo, “OS 1”, basato su un intelligenza artificiale, che si plasma ad hoc, adattandosi alle esigenze dell’utente ed in grado anche di evolversi.

Samantha, il nome che la voce scelta da Theodore si dà, diventa così per lui la confidente perfetta, l’unica in grado di accogliere e comprendere le sue emozioni; ed essa stessa finisce per condividere a sua volta con lui le nuove esperienze che sperimenta, imparando cose nuove e provando sensazioni sempre più profonde e complesse. Il rapporto tra i due diventa così sempre più profondo e intimo, fino a sfociare in una vera e propria relazione d’amore dall’epilogo che lascia ben poco spazio all’immaginazione, ma che comunque catapulta in un’amara considerazione sulla qualità delle relazioni attuali.

L’ironia (a tratti sarcastica) che scivola sulla scena affina un po’ l’amarezza che fa da sfondo alla pellicola: è lo specchio delle relazioni di oggi, o almeno le relazioni verso cui la tecnologia e le paure ci stanno spingendo. Theodore, scottato da un matrimonio con una donna con cui è cresciuto e che non ha saputo integrare i cambiamenti di entrambi, si rifugia in un mondo chiuso e popolato solo da avatar; un mondo in cui può esserci anche spazio per le emozioni che vengono cercate attivamente (in un computer) dal protagonista (lui e Samantha alla fine “vivranno” una relazione piena di condivisione, di ascolto, di sesso e di sensazioni), ma che rimarranno emozioni intangibili, perché sperimentate in un rapporto declinato al singolare, che di per sé fa crollare il senso stesso della parola relazione.

È una società evitante quella che è messa in scena nel film (molto vicina a quella verso cui di muoviamo), una società in cui i sentimenti sono desiderati, ma ben tenuti a distanza perché ci si sente non in grado di sostenere emozioni reali. Siamo ormai più bravi a nasconderci elegantemente dietro schermi, perché non riusciamo a sostenere lo sguardo di chi potrà starci di fronte, sicuramente per la paura dell’altro e del coinvolgimento che ci rende vulnerabili, ma molto più probabilmente per non concederci di vedere riflessa una parte di noi, forse la più vera, che magari abbiamo intravisto ma non siamo stati, da soli, in grado di comprendere e che per questo ci spaventa di più.

Sul finale, lo spettatore, illuminato da quello che la scritta “software not found” scuoterà nel protagonista, potrà ridestarsi (qualora si fosse perso) insieme a lui da questo sogno dolceamaro d’amore e prendere atto della perdita di confini tra ciò che è reale e ciò che rimane solo un software a cui il protagonista è giunto, in un momento storico in cui vengono spese più risorse per far evolvere una macchina, piuttosto che per nutrire un’evoluzione più profonda, che consenta di renderci protagonisti consapevoli della e nella esperienza (realmente sperimentata) con l’altro.

Il film non sembra e non vuole essere una condanna al web 2.0, bensì un mezzo attraverso il quale gettare uno sguardo all’uomo contemporaneo. L’esperienza con il sistema operativo smuove, infatti, comunque qualcosa in Theodore: gli consentirà di guardare alla sua storia matrimoniale con occhio critico e costruttivo.  Può essere, questo, l’ennesimo punto a favore del potere che la relazione, seppur in questo caso fittizia, ha nell’esperienza del sè.

La scena finale – che vede il protagonista raggiungere la sua amica, anch’essa abbandonata dal suo sistema operativo, sul tetto del grattacielo in cui vivono e insieme guardare la città – diffonde in platea un senso di serenità, che fa sperare in un futuro all’avanguardia sì, ma pur sempre ancorato alla semplice complessità delle relazioni umane.

Fuori dalla sala troveremo di sicuro chi l’avrà trovato geniale, chi a tratti sarà stato infastidito; qualcuno avrà riso commosso e sicuramente qualcun’altro non avrà gradito il genere; probabilmente, ci sarà almeno uno che avrà pensato a come potrebbe essere (più semplice?) avere una Samantha a sua volta. Indubbiamente farà fermare tutti a riflettere.

TRAILER:

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

ARGOMENTI CORRELATI:

CINEMAAMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI TECNOLOGIA & PSICOLOGIA – SOCIETA’ E ANTROPOLOGIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Amore e tradimento di Robin Dunbar (2013) – Recensione – Letteratura

 

 

European Society for Trauma and Dissociation – Report dal Congresso 2014

Maria Paola Boldrini

 

ESTD 2014

Report dal Congresso della

European Society for Trauma and Dissociation

Trauma, Dissociation and Attachment

in the
 21st century: where are we heading?

27-29 Marzo – Copenhagen

ESTD 2014 - European Society for Trauma and Dissociation

Tornare da un congresso  e… aver voglia di raccontarlo!

Tra il 27 e 29 Marzo si è tenuto a Copenaghen il quarto congresso dell’ESTD (European Society for Trauma and Dissociation). Un evento di grande impatto per chi si interessa di questo ambito e un’esperienza di apprendimento e condivisione utile da socializzare.

La Società Europea per il Trauma e Dissociazione è stata fondata nell’aprile 2006, grazie alla collaborazione tra i membri europei della ISSTD (International Society for the Study of Trauma and Dissociation) e soprattutto con il supporto del  Consiglio Direttivo di questa.  Gli scopi dell’ESTD sono:  promuovere un aumento della conoscenza del Trauma, Dissociazione e tutti i disturbi legati al trauma cronico; fornire  formazione professionale circa dissociazione, trauma e disturbi traumatici legati; supportare la comunicazione e la collaborazione tra tutti i professionisti nel campo della dissociazione e traumi;  stimolare progetti di ricerca nazionali ed internazionali; fornire conoscenza e istruzione in particolare a quei paesi europei che non hanno facile accesso a questo campo.

Proprio nell’ottica di questi scopi il congresso appena concluso si è svolto con la partecipazione dei massimi esperti internazionali del settore, con grande risposta da parte degli iscritti e non solo, infatti hanno partecipato anche delegazioni di altri paesi come il Giappone, la Nuova Zelanda e la Russia. Il ricco programma (www.estd2014.org) è stato ben suddiviso tra  workshop precongressuali, plenarie, mini-workshop, simposi e presentazione di poster. L’iniziativa più apprezzata secondo organizzatori e partecipanti è stata quella dei mini – workshop, ritenuti davvero efficaci e di buon impatto per la condivisione dello stato dell’arte della ricerca e della pratica clinica con pazienti post traumatici, con disturbi dissociativi , ma soprattutto con disturbi di personalità.

Di grande impatto sono stati anche i workshop precongressuali, vere e proprie occasioni di formazione e confronto sulle nuove direttrici dell’intervento psicoterapeutico su disturbi complessi, ma non rari. In particolare hanno raccolto i maggiori consensi:  il workshop di P. Ogden ( tra i Fondatori e attuale Direttrice del Sensorimotor Psychotherapy® Institute), su: Conversazione implicita: il ruolo essenziale della Comunicazione non verbale nel trattamento del trauma e dissociazione”, dove si è parlato approfonditamente dello studio e delle strategie di intervento adottate nell’applicazione della Sensorimotor Psychotherapy al campo della comunicazione non verbale.

Il workshop di S. Boon (NDR: presto sarà in Italia per il workshop: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma) e K. Steele (entrambe terapeute e ricercatrici note, membri di diverse organizzazioni scientifiche del settore) su: “Trattamento dei disturbi dissociativi complessi: imparare abilità e superare impasse”, dove sono stati esposti dalle conduttrici gli ultimi esiti dei loro studi e mostrando anche come questi possano essere implementati nella pratica clinica.

Gli oratori delle plenarie più apprezzati, a detta di partecipanti e organizzatori, sono stati: E. Nijenhuis, sicuramente molto atteso e protagonista anche di un seguitissimo workshop “pre-pre” congressuale, in plenaria ha parlato sul tema :”Dove c’è una volontà, c’è un modo: strategie di sopravvivenza comuni in pazienti con DID e PTSD, destando nella platea un grande interesse e dando notevoli spunti per il futuro, avendo chiuso l’intervento con le sue ipotesi sulla formulazione delle diagnosi dei disturbi post traumatici per il DSM VI;

S. Hart, anche lei molto attesa, ha parlato dello Sviluppo della Toria Neuroaffettiva: Da attaccamento disorganizzato e dissociazione di nuovi approcci alla psicoterapia”, coinvolgendo abilmente l’uditorio nella presentazione dello stato dell’arte degli studi di cui si occupa; G. Liotti, con il suo intervento su Attaccamento disorganizzazione e di dissociazione: Approfondimenti da recenti studi di ricerca Psicopatologia dello Sviluppo e neuroscienze”, ha messo in luce gli studi di B. Farina, A. Speranza e colleghi (2013) che hanno destato molto interesse tra i partecipanti; A. Moskowitz, ha parlato di  Trauma, dissociazione, attaccamento e psicosi: Verso un nuovo paradigma della psicopatologia”, proponendo un excursus avvincente su un tema che porta ampie riflessioni per il futuro.

Tra i mini-workshop quelli che hanno visto maggiore affluenza sono quelli riguardanti le applicazioni dell’EMDR, in particolare quello di A. Gonzalez su “EMDR e l’approccio progressivo in Somatoforme Dissociazione” e quell odi D. Mosquera su “Narcisismo e Trauma”, entrambe sono pscioterapeute EMDR esperte e conosciute ricercatrici. Altro mini-workshop che ha riscosso ampi consensi è stato quello di G. Tagliavini e G. Giovannozzi su “Dr. Porges e Mr. Hyde: opportunità e insidie ​​per lavorare con autonomica (dis) regolamentazione nella terapia del trauma complesso”, una vivace presentazione di due esperti del settore (NDR: sono inoltre i curatori dell’edizione italiana dell’ultimo di libro di S. Boon, K. Steele e O.Van der Hart) che, a detta di partecipanti, ha dato spunti per la pratica clinica.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire, ma rimando i lettori più curiosi e interessati a un approfondimento che è possibile sul sito del congresso, dove si trovano anche gli abstract di molti degli interventi che ho citato.

In chiusura, mi preme condividere che l’atmosfera, emersa dalle mie brevi interviste a partecipanti e organizzatori, è stata di genuino entusiasmo per aver condiviso questa esperienza informativa e formativa. Molti dei presenti hanno manifestato nei momenti assembleari, l’approvazione per questo tipo di organizzazione che ha riservato spazi equilibrati sia ai momenti di aggiornamento, sia a momenti di riflessione e confronto, un valore aggiunto reale per un congresso.

Il fatto che sia una società in crescita forse ha reso così vivace e memorabile questa situazione? Se è così allora speriamo che continui a crescere e speriamo che altre organizzazioni prendano spunto!

Hej! (Ciao in danese!)

 

 ARGOMENTI CORRELATI: 

TRAUMADISSOCIAZIONEATTACCAMENTOEMDR

VEDI TUTTI I REPORTAGES DAI CONGRESSI

 

 

AUTORE:

Maria Paola Boldrini – Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

Didatta nei corsi di Specializzazione presso Studi Cognitivi

Coder per l’AAI di M. Main
Presidente dell’Associazione Cognitivismo Clinico di Modena
Socio Ordinario SITCC e SPR – Europe

Riconoscimento dei volti: meccanismo cerebrale specializzato?

Loana Marchis 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dai risultati emerge una chiara dissociazione tra la capacità dei partecipanti di riconoscere oggetti e la capacità di riconoscere i volti ai quali sono stati precedentemente addestrati.

I risultati di questo studio sembrano andare a sostegno dell’esistenza di un meccanismo specializzato nel riconoscimento dei volti.

Gli esseri umani sono straordinariamente abili a riconoscere i volti. Sin dalla nascita mostrano una particolare attrazione per essi e durante il corso della loro vita vi verranno a contatto centinaia di migliaia di volte.

Due diversi modelli teorici sono stati proposti per spiegare come emerge questa straordinaria capacità.

Il primo ipotizza che esista un meccanismo comune sottostante alla percezione di tutte le categorie di stimoli visivi (volti, macchine, animali etc.) mentre il secondo postula l’esistenza di un meccanismo specializzato solo nel riconoscimento dei volti.

Un gruppo di ricercatori di Harvard e Dartmouth ha tentato di verificare queste due ipotesi utilizzando come campione sperimentale un gruppo di pazienti affetti da prosopoagnosia (incapacità di riconoscere i volti).

Questi autori hanno somministrato a un gruppo di prosopoagnosici e a un gruppo di controllo due test: uno che valuta la capacità di riconoscere categorie di oggetti creati ex-novo dallo sperimentatore (greebles) appartenenti alla stessa famiglia e un altro che valuta il riconoscimento dei volti. La somministrazione dei test era preceduta da una fase in cui i due gruppi sperimentali venivano addestrati a distinguere tra le categorie di greeblese tra i diversi volti.

Questi ricercatori hanno avanzato la seguente ipotesi: se i prosopoagnosici fossero riusciti, grazie all’expertise acquisita, a svolgere correttamente il compito di riconoscimento dei greebles ma non quello dei volti, allora questo sarebbe andato a sostegno dell’ipotesi che il riconoscimento dei volti dipende da un meccanismo specializzato per essi.

Dai risultati emerge una chiara dissociazione tra la capacità dei partecipanti di riconoscere oggetti e la capacità di riconoscere i volti ai quali sono stati precedentemente addestrati. Infatti, mentre nel compito dei greebles entrambi i gruppi hanno mostrato dei risultati simili, nel compito di riconoscimento dei volti la performance è stata peggiore nel gruppo di prosopagnostici rispetto a quelli di controllo.

In conclusione, i risultati di questo studio sembrano andare a sostegno dell’esistenza di un meccanismo specializzato nel riconoscimento dei volti.  

Tuttavia, secondo Rezlescu e colleghi sono necessarie delle ulteriori ricerche a sostegno di questa ipotesi. Inoltre, questo gruppo di ricerca si propone in futuro di comprendere i meccanismi cerebrali alla base sia del riconoscimento dell’identità dei volti che dell’integrazione di diverse fonti d’informazione che aiutano il riconoscimento (come ad esempio la voce).

Quello che sembra chiaro, secondo questo gruppo di ricercatori, è che l’elaborazione dei volti e dei segnali sociali da essi veicolati ha un ruolo fondamentale nelle nostre quotidiane interazioni sociali.

ARGOMENTI CORRELATI:

 NEUROPSICOLOGIA ESPRESSIONI FACCIALI

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Un ricordo di Michele Giannantonio

 

E’ di questi giorni la morte del collega Michele Giannantonio, che molti psicologi in formazione hanno conosciuto come terapeuta, come insegnante, e molti di noi hanno apprezzato per le pubblicazioni su numerosi argomenti, in particolare il trauma.

Ironia della vita l’ha colpito un male che più di tutti rappresenta un trauma inaffrontabile.

E’ difficile, in un ambiente professionale che si può eufemisticamente definire competitivo, ascoltare racconti unanimi sul valore di un uomo; ancora più difficile, quando un uomo termina il percorso del suo corpo, che i racconti sul suo valore non siano inquinati dalla necessità di ricorrere alle consuete formule di maniera.

Che il caso di Michele Giannantonio fosse diverso l’ho capito nei pochi secondi in cui l’ho conosciuto, alla prima giornata del training di Psicoterapia Sensomotoria: poche parole coi segni evidenti della malattia e della dignità, la promessa sorridente di provare a ricordarsi i nomi degli allievi che aveva appena accolto, il messaggio felice di quanto quel corso fosse bello e non per i ricavi economici di chi l’organizzava.

Insomma, qualcosa di molto raro. Se ne va lasciandoci una grande domanda, un senso che non riusciamo a cogliere.

ll sogno di Nesbø sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)

Di Giancarlo Dimaggio. Pubblicato sul Corriere della Sera di domenica 6 aprile 2014

 

 

Il sogno di Nesbo sembra benevolo (ma forse mente e pensa al padre)Il sogno di Jo Nesbø: il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

In questi giorni ho in mano L’uomo di neve. Mi toglie ore di sonno, mi fa paura. La primavera mi conforta, vedessi un pupazzo di neve avrei incubi. Già per superare le prime pagine de Il leopardo ci avevo impiegato un anno. Volevo evitare cattivi sonni.

Leggo l’intervista a Jo Nesbø. Lo invidio. Ha giocato a calcio, suona in una band rock, scrive romanzi dal successo pazzesco. Nesbø racconta un sogno ricorrente, l’unico che fa mai, suggerisce. Penso che mente spudoratamente. Ricordo i sogni di Harry Hole, il suo protagonista. Harry beve, dorme male, si sveglia sudato e urlando da incubi atroci. Sono sicuro che uno che mette quei sogni nella mente del suo alter ego li fa davvero. Non te li puoi inventare. Magari li cambi, li colorisci, ma non emergono dal nulla.

Scettico, cerco di interpretare il sogno. Apparentemente è buono. La sua squadra ha fiducia in lui. Noi psicoterapeuti diremmo che il suo Altro interiorizzato ha qualità benevole. Nesbø desidera essere apprezzato, realizzare le sue fantasie. Ha dei dubbi su di sé. Ma l’Altro lo vuole, lo cerca, lo sostiene. Non solo. Gli dà un’attenzione speciale: le scarpe nuove, giuste per te. Tutto torna, Nesbø sta dannatamente bene e fa i sogni che ti aspetteresti da uno che nella vita ha osato, ha creato, ha avuto successo. Io non sono convinto. In parte è una questione di mestiere.

Il sogno non è un racconto compiuto, ma una fucina di associazioni, di emozioni, un generatore di storie.

Per interpretarlo davvero voglio il sognatore davanti a me. Devo porgli domande, fare eco alle le sue parole, chiedergli cosa gli evocano. Cosa ha provato quando le hanno chiesto di giocare? Ansia? Gioia? Stupore? Non usava da tanto le scarpe, ricorda momenti in cui le calzava?

Se cogliessi nel viso un’ombra di tristezza, penserei che ancora porta le cicatrici dell’infortunio che – per nostra fortuna – gli ha troncato la carriera di calciatore e ci ha regalato una belva del noir. Glielo farei notare. C’è cupezza nel suo viso, o nostalgia, sbaglio? Sì, ma non per quello che pensa lei, potrebbe dirmi. E magari mi parlerebbe di una partita in cui qualcuno nel pubblico mancava. Qualcuno a cui teneva molto. Oppure tutta un’altra storia. Scorgerei nel viso un guizzo di gioia. E da lì, ricordi di un paio di scarpini da calcio che gli fu comprato da bambino.

I sogni sono fatti così. Perché svelino l’essenza devi parlare con il sognatore, attivare network di memorie, catturare i guizzi dei muscoli facciali.

Nesbø non è qui. Ma io sono furbo, lo cerco sul suo sito. Incauto, si fa trovare. Parla de Il leopardo. La chiusura mi colpisce. Nel romanzo, la vita sentimentale di Harry Hole è a pezzi (come sempre) mentre fa i conti con il padre morente. Nesbø sorride ambiguo: “Tra un paio d’anni, ripensando a questa storia, probabilmente vedrò che ha molto a che fare con la mia vita. Per ora penso che riguardi Harry”. Non doveva scoprirsi così: persisto nell’illazione che i sogni di Harry siano i sogni di Jo. Che se fai un sogno in cui dicono: “Ok, ti vogliamo”, e scrivi di serial killer, nascondi qualcosa. L’uomo di neve mi aspetta, il romanzo voglio dire. Harry Hole avrà incubi. Io saprò a chi chiedere per interpretarli.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

SOGNI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’interpretazione dei sogni

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: Intervista con Antonio Semerari

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Antonio Semerari

Psichiatra e Psicoterapeuta

 

State of Mind intervista Antonio Semerari, Psichiatra e Psicoterapeuta, Fondatore del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

VEDI IL PROFILO DI ANTONIO SEMERARI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

SITCC 2012 – Intervista ad Antonio Semerari sullo Stato Attuale della Società

Corsa in ambulanza – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.06 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #06

Corsa in ambulanza

– Leggi l’introduzione –

Corsa in ambulanza - Centro di Igiene Mentale - CIM Nr.05 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica. -Immagine: © Gstudio Group - Fotolia.comGrottesco! La radio dell’ambulanza ha appena comunicato l’assenza di posti letto in tutti gli SPDC della capitale dove si possono effettuare i trattamenti sanitari obbligatori (TSO). D’ora in avanti a Roma è vietato impazzire. L’infermiere, di fianco al guidatore, si attacca al radiotelefono di bordo a setacciare le altre province. Ancora un posto disponibile a Viterbo. La giornata sarà lunga. 

In altri CIM si teorizzava che, in caso di emergenza o TSO di un paziente in trattamento, non dovessero essere i curanti ad intervenire, per preservare la relazione terapeutica e non inquinarla con azioni forzose se non qualche volta violente.  Biagioli sosteneva la tesi opposta. Intanto, tutto si poteva svolgere con minor conflittualità se chi interveniva e il paziente si conoscevano, inoltre gli sembrava un tradimento  verso il paziente mandare qualcun’ altro a fare il lavoro sporco. Diceva, come esempio, che se c’era da fare un’ iniezione ad un suo figlio voleva essere lui a fargliela.

Così aveva convinto tutti ed era diventata prassi.

Quel giorno dunque per l’emergenza “Dante”, che si prospettava piuttosto complessa e vivace, in assenza dei curanti, le dottoresse Ficca e Filata, a salire sull’ambulanza con il medico del 118 furono i due che meglio conoscevano Dante: Giovanni Brugnoli e la sorella Maria detta Gilda.

L’ambulanza si diresse verso Roma perché l’SPDC di Vontano era chiuso da un mese per ristrutturazione e sarebbe stata una faccenda lunga.

Lei, con una mano, gli carezzava la fronte grondante sudore e sistemava i capelli all’indietro. Con l’altra, teneva ferma la mano dove avevano trovato l’unica via che ancora permettesse l’accesso di un ago. Del resto, era il suo lavoro, era infermiera e forse lo era diventata proprio per lui.

Giovanni puntellava il suo corpo massiccio che, ad ogni curva dell’ambulanza, era sul punto di cadere.

Dante sentiva il fluire rassicurante delle loro parole senza afferrarne il senso. Dopo essersi liberato lo stomaco, inondando di vomito alcolico l’altro infermiere dell’ambulanza, stava meglio e iniziava a dubitare della precedente certezza di morire.

Era una pellaccia lui, non  gliene importava poi tanto e da tempo aveva anche smesso di vergognarsi.

Giovanni era stato il primo ad entrare in casa. Avevano mandato lui in nome della loro antica amicizia e perché era tra gli operatori più bravi a immergersi nelle emergenze, forse perché non aveva paura ad ammettere la sua paura.

Piccolo com’era se la poteva permettere. Dante, invece, era quello che un tempo si sarebbe detto “un marcantonio”: superava il metro e novanta e, dunque di almeno venti centimetri, Giovanni. Spalle squadrate di chi ha sempre lavorato  fisicamente, occhi azzurri e liquidi come il mangiatore di patate di Van Gogh, che sembrano una predisposizione all’alcolismo; un  tempo fluenti capelli lunghi che lo assomigliavano al Che Guevara e lo chiamavano al suo destino di  rivoluzionario ribelle e, infine, accantonate le rivoluzioni, deviante, ormai ridotti e anch’essi sconfitti dall’avanzata calvizie che Maria amorevolmente cercava di nascondere, aggiustandoli.

Correva l’ambulanza e i ricordi. Giovanni era convinto che fosse stata proprio la differenza di stazza a spingere la maestra Vincenti a metterli nello stesso banco in prima elementare. Intanto, sarebbero entrati meglio nell’angusto banco di legno, invece era successo di più, erano diventati amici. Dante proteggeva Giovanni dai bulletti intenzionati a prevaricarlo per la sua piccolezza, Giovanni  mediava il rapporto faticoso di Dante con tutto ciò che era  lettere e calcolo ovvero l’oggetto e il motivo stesso della scuola, insomma un rapporto di mutuo soccorso che la diversità delle origini non minacciava ma piuttosto rafforzava.

Giovanni era figlio di un ferroviere, macchinista ambizioso arrivato a capostazione. Senza fargliene sentire il peso i genitori lo avevano visto medico già a tre anni quando aveva portato il termometro al letto della vecchia zia che viveva con loro. Alla fine, proprio in sanità lavorava, sebbene con i matti e come assistente sociale.

Dante era figlio di un cavatore di tufo. Il padre lo portava con sé perché la madre andava a lavorare come schiava nelle case dei ricchi. Il padre si sentiva in colpa per quanto successo dopo, perché molte volte aveva diviso con il piccolo Dante la colazione di metà mattina all’ombra di una quercia enorme all’ingresso della cava, mezza pagnotta ripiena di formaggio e vino rosso direttamente dal fiasco tenuto al fresco nel torrente. 

A lui sembrava di far bene togliendosi il pane e il vino di bocca per il figlio. Decenni dopo gli psicologi lo avevano fatto sentire un delinquente, ma allora nessuno gli aveva detto niente. Lo faceva per il suo bene e infatti Dante cresceva sano e forte e da grande voleva fare il lavoro del padre. 

Le cose vanno come devono andare: quando la madre resto incinta per la seconda volta, sembrava che sarebbero morte lei e la bambina per una gestosi gravissima. Armenia, allora, offrì la figlia alla madonna, la chiamò Maria e si dedicò completamente a lei.

Dante, nonostante avesse un fisico che gli avrebbe permesso un atteggiamento prepotente, era mite. Anzi, peggio, buono come spesso gli alcolisti. Aveva la commozione facile ed il pianto sempre pronto alle sofferenze altrui. Di tale sensibilità in quel corpo da gigante si vergognava al punto che neppure a Giovanni ebbe il coraggio di dire perché quel giorno in cui era finito in ambulanza con un trattamento sanitario obbligatorio aveva iniziato a bere. 

Qui, per completezza, lo riporto chiedendo, però, al lettore la massima riservatezza per rispetto a Dante.

Nel giardino di fronte alla sua casa c’era un meraviglioso cane lupo. Ogni volta che passava una ambulanza, evenienza frequente, il cane iniziava a rispondere all’ululato della sirena dell’ambulanza. Dal tono lamentoso Dante si era convinto che la povera bestia vivesse ogni volta l’illusione di un amore che  veniva poi infranta dallo scomparire della sirena nel traffico. Impotente di fronte alla sofferenza inconsolabile del lupo, Dante aveva aperto la bottiglia di grappa chiusa precauzionalmente nel buffet del salone poi, ovviamente, non era stato in grado di fermarsi al solo sorso che si era ripromesso.

I distacchi e le perdite erano un dolore cupo per lui sempre in agguato.

Anche su questo gli psicologi in seguito fecero molte ipotesi e qui la colpa toccò a Armenia, per non far torto a nessuno, responsabile di troppa dedizione verso la piccola Maria. Di nuovo mi raccomando che questa storia del cane e dell’ambulanza resti tra noi, non ho avuto da  Dante nè dal cane il permesso di narrarla.

Per gli psicologi poi Maria si era dedicata ad una professione di cura, come è l’infermiera, sentendosi in colpa per le tante attenzioni ricevute e per cercare di curare il padre e il fratello entrambi alcolisti. Si era sacrificata, rinunciando alla vita facile e lussuosa di attrice o, perlomeno modella, che il suo fisico meraviglioso le avrebbe consentito. Compiuti i tredici anni non c’era uomo che non la notasse tentando, se giovane di conquistarla, se adulto di molestarla. Dante aveva avuto il suo bel da fare a proteggere la sorellina dai desideri dei maschi a cominciare dagli zii materni e paterni.

Su richiesta di Giovanni che sapeva quanto agitasse Dante, l’autista aveva spento la sirena lasciando soltanto la muffola lampeggiante. L’ambulanza stazionava assediata dal traffico romano di un piovoso lunedì mattina di fine novembre.

Quale che fosse il dramma che si stava consumando al suo interno, la vita frettolosa e affannata che scorreva intorno al mezzo non poteva rallentare, moltiplicando i ritardi.

Figuriamoci poi se avessero saputo che si trattava solo di un ubriacone  arrogante. C’era tutto il tempo per i ricordi…

“Dante era abbonato al sette in condotta. Non riusciva a stare seduto nel banco e non c’erano le diagnosi di “disturbo….” a salvarlo, era solo un discolo vivace, disubbidiente da cui non si sarebbe tirato fuori niente.

Bacchettate sulle mani quando era sorpreso a copiare, bacchettate per furto quando spariva qualcosa.

Giovanni ancora si portava la colpa e la vergogna per l’episodio della merenda di Alina.

Alina aveva sempre come merenda sette barrette di Ciocorì, il cioccolato con riso soffiato e la sua estetica ne risentiva pesantemente. Superare i 100 chili prima dei tredici anni era consueto nella sua famiglia del sud che non aveva preso atto della fine della guerra e della fame e continuava a ingurgitare tutto ciò che capitava a tiro.

Al contrario, la famiglia di Giovanni era molto attenta alla salute e all’alimentazione, diffidente a tutto ciò che era confezionato, pubblicizzato in televisione e in definitiva, buono. La proibizione aumentava il desiderio di Giovanni, ergastolano dei panini con la marmellata di more fatta in casa.

L’unico ruolo che Dante aveva avuto nell’azione delittuosa era stato distrarre Alina, perdutamente innamorata di lui, invitandola in giardino durante la ricreazione.

Dopo la denuncia del furto la carta del ciocorì era stata ritrovata  dagli investigatori della scientifica, ovvero la maestra Vincenti, sotto il banco dei due. Entrambi avevano spergiurato la loro innocenza sospettando tremende conseguenze.

La certezza pregiudiziale aveva impedito alla Vincenti di notare  le sbafature di cioccolato che decoravano la bocca di Giovanni. Dalla paura Giovanni era corso in bagno a fare pipì e lì era rimasto come in un rifugio antiatomico ad aspettare il day after. Quando era uscito giustizia era stata fatta, Dante era dal preside a negoziare i giorni di sospensione.

I genitori accolsero il caloroso invito del preside di tenerselo a casa e lo ritirarono per quell’anno. Nel successivo, si presentò agli esami  di quinta elementare come privatista e fu inaspettatamente promosso. Le male lingue sostennero che era merito della madre. Armenia aveva ripreso a fare la domestica proprio a casa del preside e si era dimostrata molto, forse troppo, servizievole. Anche a casa di Giovanni giravano queste voci e la madre diceva che tutto una madre farebbe per un figlio aggiungendo poi, in modo del tutto incongruo, che il preside comunque era un uomo molto interessante che non dimostrava affatto i suoi cinquantacinque anni.

Era stato Giovanni, una volta deciso per il TSO, a chiedere a Maria se se la sentisse di accompagnarlo.

Sapeva quanto fosse legata al fratello e competente in situazioni d’urgenza, si conoscevano e stimavano reciprocamente sin da bambini. Avendola vista crescere aveva sviluppato per lei una sorta di tabù dell’incesto perciò, pur riconoscendo la sua bellezza, così assoluta da essere quasi dolorosa da vedere, non la considerava una possibile partner. Per lei era il suo unico amico maschio e gli faceva continue confidenze sulle sue molteplici, originali e sfrenate attività sessuali. Due anni prima, preso da una tachicardia parossistica durante l’ennesimo racconto, le aveva chiesto di soprassedere sui dettagli.

Se l’aveva sempre considerata al di fuori della sua portata, troppa era la differenza tra di loro, Maria aveva abitato stabilmente le sue fantasie.  Il periodo di maggiore invasione fu quando studiava per diventare infermiera.

Giovanni gli disse che lui, grandissimo secchione, non poteva rifiutarsi di darle una mano per l’esamone di anatomia. Si aggiunga che la materia stessa con la necessità di vedere concretamente e toccare con mano quanto letto in astratto, si prestava ad essere galeotta. Furono mesi difficili, conclusi con un prestigioso trenta e lode. Unico strascico la fine della relazione di Giovanni con Valeria, sua storica fidanzata.

Anche adesso, nell’ambulanza sobbalzante su sampietrini e binari, lo sguardo di Giovanni illanguidiva sul corpo di Maria, gli sembrava sconveniente ma non era sotto il suo controllo e a  forza riportava il pensiero su Dante, il da farsi attuale e quante ne avevano passate insieme. Lo aveva pensato più volte di molti pazienti ma ovviamente con Dante, per il lungo percorso comune, era un pensiero ricorrente e più fondato.

Il fatto che Dante fosse il curato, il matto e lui il curante, il sano, gli sembrava del tutto casuale, le parti si sarebbero potute facilmente invertire nella commedia della vita. I ruoli restano attaccati addosso cosicchè ti chiamano sempre  a recitare lo stesso personaggio. Dopo un po’ non sai fare altro. Quello che c’era di specifico, nel caso di Dante, era il senso di colpa che provava, quasi fosse stato lui ad appropriarsi della buona sorte che spettava all’altro, derubandolo della sua fetta.

Quando Valeria lo aveva lasciato, Dante era ancora il suo migliore amico e da lui, dispensatore inesauribile di conforto e certamente distrazione, era corso. Giovanni stesso aveva francamente esagerato in quel periodo con il doppio malto e il tetraidrocannabinolo, come amava dire per sottolineare la sua preparazione.

Ma il macchinista capostazione si era prontamente accorto che stava viaggiando verso il deragliamento ed era intervenuto. Poche entrate a gamba tesa aveva fatto nella sua vita, tutte però decisive. Oggi gli era grato per questo nonostante allora avesse scalciato riluttante. Aveva avuto un padre presente, solido e discreto che Dante gli invidiava nonostante la sua maggiore libertà.

In quel periodo i due amici stavano sempre insieme, la  mattina a scuola, il pomeriggio alla sezione della FIGC e la notte  a casa di Dante, sempre più libera o, potremmo dire, vuota. Anche Dante era stato lasciato da poco da Zoe, la sua ragazza del tempo, ma in un modo più definitivo.

Era una compagna greca venuta a studiare scienze infermieristiche alla Sapienza e a stabilire i contatti con i movimenti giovanili italiani per sostenere l’opposizione ai colonnelli. Olivastra di carnagione, capelli e occhi color della pece, aveva nella sua vitalità ed estroversione gran parte del suo fascino. Secondo la terminologia maschile ciò significava che non era un granchè, appena un gradino in più del cosiddetto “tipo”.

Dopo cinque settimane di ritardo e due test positivi era stata proprio Maria ad accompagnarla da Giuseppina.

L’anziana ostetrica aveva fatto nascere mezzo quartiere ed ora integrava la misera pensione precorrendo, da militante comunista, i tempi della legalizzazione dell’IVG. I soldi li aveva presi in prestito Dante, ma questa è un’altra storia. Dante si prese quattro mesi con la condizionale per lesioni personali allungando la sua fedina penale.

Quel grandissimo cornuto del tassista non aveva voluto far salire Zoe per non sporcare di sangue la tappezzeria.

Avevano dovuto aspettare l’ambulanza che aveva caricato entrambi,  Zoe pallida come la morte che se la stava prendendo a vent’anni con i jeans zuppi di sangue. Lo strenuo difensore delle tappezzerie Fiat con una mandibola fratturata incapace di sputare i due incisivi che bighellonavano nel cavo orale.

Il collettivo dei giovani comunisti greci non trovò i fondi per il rientro della salma che rimase in ospedale senza nessuno che la reclamasse. Giovanni, per esperienza, sapeva che quei corpi finivano a far bella mostra di sé all’istituto di Anatomia umana di via Borrelli.

Grottesco! La radio dell’ambulanza ha appena comunicato l’assenza di posti letto in tutti gli SPDC della capitale dove si possono effettuare i trattamenti sanitari obbligatori (TSO). D’ora in avanti a Roma è vietato impazzire. L’infermiere, di fianco al guidatore, si attacca al radiotelefono di bordo a setacciare le altre province. Ancora un posto disponibile a Viterbo. La giornata sarà lunga. 

A Giovanni il pentimento di essere partito si legge sulla faccia. Maria lo guarda supplice e rimproverante ad un tempo.

Gli dice che quello è il loro posto, che a Dante glielo debbono e  alimenta il senso di colpa di Giovanni.

La corsa sulla Cassia fa sentire meglio che l’annaspare nel traffico romano. Se pure il tempo potrà essere leggermente superiore si ha l’impressione di fare qualcosa, di essere attivi e protagonisti. E’ meglio rispetto all’accanirsi sul clacson o al pregare che il semaforo rinverdisca. L’ambulanza sfreccia al di sopra dei limiti di sicurezza. Si rischia grosso un paio di volte. La paura distrae gli occupanti da altri pensieri. Maria vuole arrivare per accendersi una sigaretta, le sembra di impazzire senza. Giovanni invita alla prudenza ed è incerto se pensarsi saggio o vigliacco. Poi prova nausea ma non è il mal d’auto ma l’essersi scoperto a pensare a se stesso anche in quel frangente. Ecco cos’è, disgustoso.

“Il prestito, per il maledetto intervento di Zoe, Dante l’aveva avuto dalle casse della sezione della Federazione Giovanile comunista di cui era tesoriere. Non erano tempi cui si badava ancora al conflitto di interessi, per cui il fatto di essere il postulante del prestito e anche il concedente non l’aveva considerato un problema. Gli era sembrato ipocrita persino aprire una pratica e prenderne nota. Quei soldi, in fin dei conti, erano stati utilizzati per la crescita del movimento giovanile internazionale. Una finalità statutaria, non c’era bisogno di rimetterceli. Il successo  in un operazione incrementa l’audacia. Se quei soldi potevano essere usati per aiutare una compagna greca perché no per aiutare un giovane compagno italiano tutto dedito all’attività del partito perseguitato da biechi strozzini, cani da guardia del capitalismo e  della proprietà privata?  Quando il revisore regionale se ne accorse l’ammanco era di quindici milioni di lire. La federazione rinunciò alla denuncia perché quelle cose a sinistra non dovevano succedere e quindi non erano successe. La fedina in quell’occasione non crebbe, ma tutti si sentirono un po’ più irreprensibili additandolo con disprezzo. Fu una gara tra i compagni a prendere le distanze da lui. Non andava più bene neanche per il calcetto, pomeriggi e serate si spopolarono di impegni e la compagna più fedele fu la bottiglia.

Anche Giovanni, l’amico più caro, brillante funzionario in ascesa impegnato con psichiatria democratica per l’applicazione della legge Basaglia,  mostrava imbarazzo a frequentarlo. A se stesso diceva che l’amico aveva sbagliato ed era meglio che lo punisse il partito che continuasse così a ficcarsi nei guai. L’ostracismo aveva una funzione educativa”.

Il corpo nei momenti meno adatti prorompe a ricordarci la nostra natura animale. Forse fu a motivo della temperatura che  scendeva, lungo la salita verso il passo dei Monti Cimini, sta di fatto che senza dir nulla l’autista, avvistata una piazzola tra i faggi accostò bruscamente, annunciando che avrebbe pisciato. Giovanni provò irritazione per non essere stato consultato, in fondo era il capo della missione. Maria sorrise felice e si precipitò ad accendere la sigaretta. Catturò gli occhi di tutto l’equipaggio quando, finita la sigaretta, si calò i jeans fino alle caviglie e si accucciò seguendo l’esempio dell’autista. La sua naturalezza nel mostrarsi nuda senza imbarazzo non riduceva la sua potenza erotica. Giovanni sentì muovere dentro i suoi pantaloni ma gli sguardi degli altri gli dissero che non era il solo. Ricordò severo agli altri che si trattava di una emergenza e  il viaggio riprese.

“Finito il liceo con un trentasei politico, ma pur sempre in soli cinque anni,  Dante si iscrisse a Scienze politiche. Quale posto migliore per portare avanti la sua solitaria rivoluzione, ora che il partito gli aveva voltato le spalle.

Si avvicinò sempre di più all’area della sinistra rivoluzionaria ed un giorno raccontò a Giovanni con troppi particolari come si poteva costruire una bomba. Era diventato estremamente difficile contattarlo ed ebbero una feroce discussione sulla venuta di un importante sindacalista alla Sapienza. Lui era tra i più  accaniti contestatori,  Giovanni preoccupato che si mettesse nei guai lo segnalò al servizio d’ordine. Quali che fossero i contatti di questo con la polizia, sta di fatto che il giorno prima fu arrestato per detenzione di stupefacenti e trascorse tre giorni in cella a Rebibbia. Il sospetto di una soffiata non lo abbandonò ma, ma che fosse stato proprio Giovann, non lo pensò mai”.

Il reparto di Viterbo avvertì che potevano prendersela con calma: avendo cambiato comune e persino provincia, la procedura del TSO andava riattivata daccapo, la cosa migliore sarebbe stata se fossero passati direttamente loro in comune dove il delegato del sindaco gli avrebbe predisposto l’ordinanza. Era però necessario che la proposta di ricovero di Biagioli fosse convalidata da un medico del locale Centro di Salute Mentale ed in quel momento nessuno era reperibile. La burocrazia prima di tutto.

Giovanni si chiedeva se fosse valsa la pena di tutte le lotte fatte se quella era la psichiatria che avevano costruito.

Si sentì come doveva essersi sentito Dante il giorno che i carri armati russi erano entrati a Praga e Jan Palach era diventato un eroe nazionale. Ricordava come allora litigarono, Dante inferocito  contro  i sovietici e lui pronto a giustificarli in vista di un bene superiore. Non era proprio un uomo di apparato, come lui, idealista intransigente che non mediava mai con la realtà. Non sapeva se ammirarlo o compiangerlo e si salvò in angolo pensando che al mondo servono entrambi, sia i disordinati che i tutori dell’ordine, come era finito per essere lui. L’ambulanza parcheggiò nella bellissima piazza del comune. Giovanni diede indicazioni precise, dovevano  aspettarlo senza che nessuno si allontanasse mentre lui saliva a prendere l’ordinanza.

“I due ragazzi del ’57  si persero di vista  quando iniziarono a guadagnarsi da vivere.

Giovanni nelle cooperative sociali rosse che si occupavano di salute mentale in Emilia Dante, che conosceva bene le lingue, come centralinista alla Alenia azienda di astronautica e strumentazioni di volo.

Poi ,dopo la chiusura, call-center sempre diversi e più precari.

Quando ci si rincontra dopo anni con un coetaneo si ha netta la sensazione del tempo passato e delle speranze perdute, di ciò che poteva essere e non è stato, di ciò che non doveva essere ed invece era stato.

Ci si avvede d’un tratto dei tradimenti peggiori ,quelli fatti a se stesso senza neppure accorgersene.

Loro si erano ritrovati su due sponde diverse ed era stato ancora più penoso.

Aveva riconosciuto Maria nella sala d’attesa del centro di salute mentale dove lavorava. Per un istante aveva sperato che fosse venuta a dichiarargli il suo amore eterno e  l’intenzione di non lasciarlo mai più. Non era così.

Gli disse che Dante era in macchina e si vergognava a salire. Tutto era precipitato negli ultimi  tre anni, il  padre era morto  in un incidente sul lavoro,  l’INAIL aveva chiesto l’incriminazione del datore di lavoro per il mancato rispetto della legge 626 sulla sicurezza, ma il  risarcimento era però rimasto in sospeso proprio in attesa della conclusione del processo penale. Senza una compagna e nel completo disinteresse degli ex amici, disse Maria con una malcelata aria di rimprovero, Dante aveva cercato conforto nella bottiglia. Non riuscendo a mantenere nessun impiego da quasi due anni viveva come un barbone, spesso a Roma nella zona tra la stazione Termini e via Cavour. Piccoli furti, l’elemosina  dei passanti per comprarsi da bere, ormai la cocaina non se la poteva permettere.

Mangiate saltuarie con gli avanzi dei ristoratori della zona. L’unico reddito era il suo bilocale a San Lorenzo, investimento del risarcimento per la morte del padre, affittato a 300mila lire a tre studentesse calabresi.

La metà di quei soldi li consegnava regolarmente alla madre che  non aveva nessun reddito, collaborando con Maria che faceva le notti in cliniche private, al suo mantenimento”.

Seduto nella bellissima sala d’attesa affrescata del comune di Viterbo, Giovanni  si affacciava ogni tanto sulla piazza a verificare che l’ambulanza fosse al suo posto. Non si sarebbe meravigliato di vederla partire con alla guida Dante ed a fianco quella sciagurata di sua sorella dopo aver convinto il personale di bordo che prima del ricovero potevano andare a darsi una rinfrescata nelle acque del lago di Vico e fare una buona merenda, che poi chissà cosa ti davano in ospedale. Nonostante le pessime condizioni di vita Dante non aveva perso l’ inquietante bellezza che condivideva con la sorella, l’intelligenza, l’ironia ed il carisma che ne facevano un trascinatore di anime. Sbracciandosi e chiamando fece capire che li teneva sottocchio. Intanto ricordava…

“Dante aveva accettato di farsi curare ma da quel momento non erano più stati amici quei due ragazzi del ‘57.

Giovanni era il curante, sano, piccolino ma normale e benestante, apprezzato e stimato nel servizio e nel partito dove si dedicava alla formazione.

Dante era il fallito, l’esempio da non seguire, il matto, il deviante, alcolista e tossicodipendente.

Ogni volta che si guardavano negli occhi provavano un sentimento di reciproca pena, anche Dante nei confronti di Giovanni, cui Dante aggiungeva un pizzico di vergogna e Giovanni una lancinante fitta di colpa.

Negli anni aveva preferito, com’è buona norma, che fossero altri colleghi meno coinvolti a seguirlo.

Lui supervisionava a distanza, non c’era neppure bisogno di dire nulla, tutti sapevano che quello era un paziente cui Giovanni teneva molto perché amichetti fraterni sin da piccoli. Inoltre era il fratello di Maria, un paziente specialissimo e difficilissimo.

Avevano tentato tutte le armi a disposizione di un centro di salute mentale: i farmaci che lo rendevano uno zombie sempre più gonfio e rallentato, le varie attività ricreative e ludiche del centro diurno che ne facevano un matto impegnato e divertito ma sempre di più un matto. Gli avevano trovato un lavoro protetto da un carrozziere e gli davano un sussidio che lo rendeva un matto lavoratore con qualche soldo in tasca, ma sempre di più un matto. Corso di inglese, tango e cucina etnica all’università popolare. Gli avevano trovato un alloggio piccolo in una casa famiglia di matti. D’estate facevano due soggiorni, una settimana al mare ed una in montagna, vacanze da matti. Cosa faceva quell’ingrato? I soldi del sussidio li sprecava in puttane, seppure economiche ed alcool e per ringraziamento a quanto facevano, ogni tanto tentava il suicidio, con le medicine che gli passavano gratis condite con fiumi di brandy scadente. Risultato: corsa all’ospedale, lavanda gastrica e pulizia dell’alloggio stracolmo di vomito ed escrementi. Al servizio iniziava ad essere odiato perché i risultati che non c’erano erano frustranti per i curanti  e motivo di rimproveri da parte di Biagioli”.

Negli ultimi tempi Giovanni si faceva avanti solo nei momenti più difficili, sentiva di dover risarcire personalmente quell’amico perduto, esattamente come era successo quella mattina che aveva avvertito un richiamo inarrestabile a partire per andare a stanarlo.

Non poteva nascondere a se stesso una certa irritazione, a volte lo avrebbe volentieri preso a calci nel sedere.

Lui e tutti gli altri facevano il possibile ma ci doveva anche mettere del suo. Gli capitava di pensare che ognuno ha ciò che si merita ed è artefice del proprio destino. Al contrario, altre volte sentiva che si è vittime del caso, che sia il destino cinico e baro o un Dio capriccioso e di pessimo carattere poco cambia, le cose avvengono  perché ci si trova al posto giusto al momento giusto o al posto sbagliato al momento sbagliato (questa seconda frase finiva sempre per bloccarlo in un rimuginio ossessivo perché formalmente senza senso) e agli uomini spetta solo di raccogliere i cocci.

Questa volta il tentativo di suicidio se lo aspettavano tutti  perché Maria aveva telefonato tre giorni prima dicendo che aveva trovato il fratello in uno stato pietoso.

La mamma aveva avuto un ictus ed era ricoverata al San Giovanni con una tetraparesi, i problemi di assistenza che si sarebbero posti se sopravviveva sarebbero stati enormi.

Dante le aveva ripetuto cupamente e ossessivamente: “l’unica soluzione è la morte”. Si era talmente spaventata che non aveva mai lasciato la madre sola con Dante. Forse però non si riferiva a lei, pensò Giovanni.

Con l’ordinanza del sindaco in mano scese le scale di corsa, col radiotelefono allertò nuovamente l’ospedale che stavano arrivando a momenti con un gravissimo tentativo di suicidio. Gli risposero che chi di dovere stava già aspettando da un pezzo e iniziava a spazientirsi lamentando altri impegni urgenti, frase sibillina e incomprensibile.

Forse a forza di stare in mezzo ai matti un po’ lo si diventa, pensò Giovanni.

Frenata sulla porta del pronto soccorso, le porte posteriori vomitano il malato, Maria e Giovanni corrono ai lati della lettiga, una signora nerovestita alta e ossuta come nella più tradizionale iconografia si mostra spazientita, ha sempre un gran da fare, dà il cambio ai due nel sostenere la barella e si porta via uno dei due ragazzi del ’57.

Al funerale c’era tutto il CIM, persino Francesco Altamura, direttore generale ASL e Rodolfo Torre, attuale direttore del Dipartimento, presero la parola durante le esequie ricordando i periodi in cui avevano lavorato nel CIM di Monticelli, esaltando la scarsità di risorse messe a disposizione dalla politica e la generosità degli operatori.

Due argomenti che catturavano sempre la benevolenza ma non quella di Maria che, splendida nel suo tailleur nero, si rifiutò di stringer loro la mano e stette tutto il tempo sottobraccio a Giovanni.

TORNA ALL’INDICE DELLA RUBRICA

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICHE – CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

ALCOOL

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

Vittimizzazione sessuale: 4 adolescenti su 10 costretti dalle donne

 Di Valentina Goduto

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una grande percentuale di adolescenti e studenti universitari di sesso maschile ha riportato che sono stati costretti almeno una volta ad avere rapporti  sessuali.

Tali risultati possono aiutare a una migliore prevenzione individuando i vari tipi di costrizione che subiscono gli uomini e a riconoscere le donne come responsabili di tale coercizione.

La vittimizzazione sessuale maschile continua ad essere un problema diffuso negli USA, ma raramente indagato. Secondo un nuovo studio condotto dall’Università di Missouri e  pubblicato sulla rivista Psychology of Men and Masculinity il sesso coatto non è raro tra i  giovani maschi adolescenti.

Una grande percentuale di adolescenti e studenti universitari di sesso maschile ha riportato che sono stati costretti almeno una volta ad avere rapporti  sessuali. Tali risultati possono aiutare a una migliore prevenzione individuando i vari tipi di costrizione che subiscono gli uomini e a riconoscere le donne come responsabili di tale coercizione.

Il campione analizzato includeva 54  studenti delle scuole superiori  e 230 universitari  e un’età compresa tra i 14 e i 26 anni e di varie etnie: bianchi, neri, asiatici-  americani, latini e multirazziali. Il 43% degli intervistati ha riferito di aver avuto un’esperienza sessuale indesiderata e di questi, il 95% ha indicato come aggressore una donna.

Il 18% del campione ha riportato di aver subito coercizione sessuale attraverso la  forza fisica (“mi ha minacciato di usare o ha usato un’arma”); il 31% ha affermato che era stato costretto verbalmente (mi ha minacciato di smettere di vedermi) , il 26% di essere stato sedotto attraverso comportamenti sessuali indesiderati (ha cercato di sedurmi toccandomi anche se non ero interessato); e il 7% ha dichiarato di essere stato costretto dopo aver ricevuto alcool o droghe (“mi ha incoraggiato a bere alcoolici e poi ha approfittato di me”). La metà degli studenti ha detto che ha finito per avere rapporti sessuali completi , il 10% ha segnalato un tentativo di avere rapporti sessuali e il 40% ha detto che il risultato è stato baciare o toccare.

Per differenziare la coercizione sessuale da eventuali abusi su minori , è stato chiesto agli studenti di non includere le esperienze con i familiari. Per ulteriori informazioni,  I ricercatori hanno inoltre chiesto ai partecipanti di descrivere il momento in cui si sono sentiti costretti sessualmente. Gli studenti hanno anche risposto a numerose valutazioni psicologiche per misurare il loro livello di funzionamento psicologico, disagio e comportamenti a rischio.

Essere costretti a  rapporti sessuali è apparso correlato ad un maggior pericolo di consumo di alcool e di adozione di comportamenti sessuali a rischio, e gli studenti che sono stati costretti in stato di ebbrezza  o sotto effetto di droghe hanno mostrato un disagio significativo. Tuttavia avere rapporti sessuali non desiderati sembra non avere influenza sull’autostima delle vittime  come invece accade per le donne.

Il tipo e la frequenza di coercizione sessuale varia secondo l’etnia delle vittime. Gli  studenti latini  hanno riportato una percentuale significativamente alta (40%) di esperienze sessuali indesiderate contro l’8% degli americani di origine asiatica , il 19% dei bianchi e il 22% degli studenti multirazziali.

I risultati di questo studio hanno rivelato la necessità di osservare scientificamente la sottile differenza esistente tra la “seduzione sessuale” e la “coercizione sessuale” in quanto la seduzione è una forma particolarmente rilevante e pervasiva di coercizione sessuale.

ARGOMENTI CORRELATI:

SESSO-SESSUALITA’GENDER STUDIES  – ABUSI E MALTRATTAMENTI – ADOLESCENTI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

French, B. H., Tilghman, J. D., & Malebranche, D. A. (2014, March 17). Sexual Coercion Context and Psychosocial Correlates Among Diverse Males. Psychology of Men & Masculinity. Advance online publication.

 

Prendimi l’anima (2002) – Cinema & Psicoterapia nr.22

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #22

Prendimi l’anima (2002)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Prendimi l'anima-LOCANDINA

Nel film emerge in maniera chiara e forte come tra paziente e terapeuta si possano oltrepassare i confini e quali conseguenze ne derivano per la terapia.

Un ottimo esempio da utilizzare per metacomunicare sulla relazione terapeutica quando essa assume aspetti che possono sfuggire ad una corretta gestione.

Info:

Un film di Roberto Faenza. Interpretato da Iain Glen ed Emilia Fox. Italia 2002. Drammatico.

Trama: 

Due giovani studiosi si trovano a Mosca per svolgere ricerche sulla vita della psicoanalista russa Sabina Spielrein. I due ricostruiscono la vita di Sabina, dal suo ricovero a Zurigo nel 1904 per una grave forma di isteria, all’incontro con Carl Gustav Jung, che la prende in cura e riesce a guarirla. Sabina comincia ad interessarsi di psicoanalisi. Nasce così un’intensa relazione amorosa tra lei e Jung. La storia finisce, i due si lasciano e la ragazza completa la sua cura presso Freud, torna in Russia e diventa ella stessa una delle pioniere dell’analisi applicata ai bambini.

Motivi di interesse:

Il giovane dr. Jung non resiste al fascino di Sabina Spierlein, giovane paziente isterica che si innamora di lui. Il film non mostra quali siano le cause dei disturbi della paziente né tanto meno come il terapeuta li cura. La narrazione è incentrata sulla relazione, che rischia di provocare uno scandalo. La psicanalisi era ancora giovane e poco affermata.

Jung regala a Sabina la sua Anima, la parte femminile della psiche maschile – necessaria per avere un rapporto pieno con l’altro sesso (nella donna la parte maschile viene chiamata Animus). Il percorso per arrivare a questa donazione è lungo e spesso illusorio. L’Anima può essere incarnata sia in un’ideale immaginario un amore idealizzato sia in una donna reale.

Sabina era l’Anima di Jung e Jung l’Animus di Sabina? 

L’interrogativo rimane aperto come in tutti i casi in cui nella relazione terapeutica si va oltre. Solo la supervisione e un serio lavoro personale può condurre alla comprensione, ma in quel tempo i pericoli di un metodo che consisteva nell’entrare in intimo contatto con il paziente non erano completamente noti. Jung a fatica si rivolge a Freud per capire cosa stava accadendo. Il timore delle conseguenze negative sul suo prestigio e lo scandalo che poteva suscitare una storia del genere con le implicazioni per tutto il movimento erano troppo forti. Lo stesso Freud fa del tutto per salvaguardare la nascente scienza psicoanalitica e l’immagine del suo prediletto allievo.

Il film non si sofferma più di tanto, quindi, sulle conseguenze della violazione del setting. Sabina verrà seguita da Freud, Jung non sappiamo come risolse il rapporto e guarì le sue ferite, ma il film ci mostra il giovane analista che chiede a Sabina di interrompere la relazione dicendo “Io ti ho compresa nella tua malattia… Ti prego, ora comprendi me nella mia…”. 

Indicazioni per l’utilizzo: 

La violazione del setting è un tema su cui troppo spesso si è sorvolato. Nel film emerge in maniera chiara e forte come tra paziente e terapeuta si possano oltrepassare i confini e quali conseguenze ne derivano per la terapia. Un ottimo esempio da utilizzare per metacomunicare sulla relazione terapeutica quando essa assume aspetti che possono sfuggire ad una corretta gestione. La visione può essere molto interessante anche in chiave didattica, per la formazione dei trainee.

Trailer:

 

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

ARGOMENTI CORRELATI:

CINEMA – ALLEANZA TERAPEUTICA – RELAZIONE TERAPEUTICA – PSICOANALISI SIGMUND FREUD – 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

A Dangerous Method: una kermesse che vive più di Eros che di Thanatos

 

 

 

Sullo stesso tema: 

  •  A Dangerous method. Un film di David Cronenberg, con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Sarah Gadon. Gran Bretagna, Germania, Canada. Drammatico.2011. – LEGGI LA RECENSIONE DI STATE OF MIND – 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Lo smartphone: un’arma a doppio taglio per la produttività

 

 

Lo smartphone- un'arma a doppio taglio per la produttività. - Immagine:© Scanrail - Fotolia.com Sembra che la percezione di una definizione più o meno netta tra lavoro e vita privata moderi la relazione tra uso dello smartphone a scopo produttivo e percezione dello stress legato al lavoro.

In Italia, il 41% della popolazione possiede uno smartphone e in media ogni utente lo utilizza per navigare la rete per quasi 2 ore al giorno (dati “We are Social” aggiornati a gennaio 2014). Se ci aggiungiamo il tempo che si passa al lavoro (chi su PC o altri dispositivi, chi lontano da essi), possiamo presumere che buona parte di quelle due ore faccia riferimento al tempo speso a casa.

Il web stesso pullula di notizie che sottolineano quanto gli smartphone, soprattutto attraverso i social network, stiano danneggiando la nostra vita sociale e relazionale. Aperitivi passati ognuno con gli occhi sul proprio schermo, concerti non ascoltati ma ripresi dalle telecamere dei telefonini, essere sempre fisicamente da una parte e con la testa da un’altra. Le polemiche si sprecano, dalle selfie a ogni ora e in ogni posizione, alla mania di Instagrammare i piatti prima di mangiarli, ai giochi più o meno pericolosi che spopolano su facebook sotto la forma di catene di Sant’Antonio.

Quando si parla di smartphone e produttività, si tende a pensare a quanto questi strumenti possano distrarre dal lavoro e dalle mansioni, provocando un calo nelle prestazioni. Si considera poco l’altra faccia della medaglia, cioè la misura in cui questa possibilità di essere contemporaneamente in più posti si ripercuota sul benessere dei lavoratori una volta che arriva il momento di tornare a casa.

Una ricerca condotta dall’Università di Rotterdam (Derks et al., 2014) ha indagato la relazione tra l’utilizzo dello smartphone per scopo di lavoro ma fuori dall’orario lavorativo (come la lettura delle e-mail), il distacco psicologico dal lavoro una volta rientrati a casa e la sensazione di stanchezza lavorativa, prendendo in considerazione anche la percezione di una divisione più o meno netta tra la vita privata e quella lavorativa.

In particolare, Dersk e colleghi hanno indagato con un diario quotidiano su 4 giorni lavorativi successivi quanto i partecipanti si sentivano in dovere di controllare messaggi e e-mail fuori dall’orario di lavoro, quanto erano in grado di lasciare le questioni lavorative fuori dalla porta di casa, quanto valutavano stressante il proprio lavoro e quanto percepivano che la loro azienda incentivasse e richiedesse un impegno e una reperibilità anche al di fuori delle otto ore.

Analizzando i dati raccolti in quattro diversi setting è emerso come un maggiore uso degli smartphone a scopo lavorativo una volta rientrati in casa fosse correlato con una maggiore difficoltà a staccare la spina e, a sua volta, come questo fosse correlato con una sensazione di maggiore stress e maggiore stanchezza per il proprio lavoro. E fin qui, sono risultati che potevamo immaginare.

La cosa interessante è il ruolo che sembra giocare la percezione dei lavoratori rispetto alle norme implicite dettate dall’azienda per quanto riguarda la chiarezza dei confini tra lavoro e vita privata. Sembra, infatti, che, le persone che normalmente accettano di buon grado che il proprio lavoro si inserisca anche nel tempo in cui non sono in ufficio siano più capaci di staccare dal lavoro nei giorni in cui utilizzano di più il proprio smartphone. Secondo gli autori, queste persone potrebbero essere abituate a continuare a preoccuparsi per questioni lavorative anche una volta rientrate a casa, e l’utilizzo dello smartphone in questo senso potrebbe funzionare da strumento di controllo con la capacità di calmare queste preoccupazioni.

Sembra allora che la percezione di una definizione più o meno netta tra lavoro e vita privata moderi la relazione tra uso dello smartphone a scopo produttivo e percezione dello stress legato al lavoro.

In questo senso, politiche come quella promossa dalla Volkswagen, che prevedono che le e-mail degli impiegati non siano più utilizzabili 30 minuti dopo la fine dell’orario di lavoro, potrebbero risultare in realtà ansiogene e più stressanti per quei lavoratori che accettano di buon grado di continuare a monitorare le proprie mansioni anche una volta fuori dall’ufficio.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA DEL LAVOROPSICOLOGIA DEI NEW MEDIASMARTPHONE STRESS

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Community-based treatment: trattamenti domiciliari – Psichiatria

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio indiano pubblicato in questi giorni sulla rivista The Lancet evidenzia che i cosiddetti “community-based treatment”- trattamenti domiciliari individualizzati che consentono al paziente di rimanere all’interno della propria comunità gestiti da operatori sociali – sarebbero statisticamente moderatamente più efficaci (in associazione al trattamento usuale psichiatrico) rispetto ai soli trattamenti standard (in tale contesto intesi come visite psichiatriche della durata media di 15-20 minuti con prescrizione di farmaci antipsicotici e brevi informazioni sulla patologia e sulla sintomatologia).

Il trial clinico ha coinvolto 282 pazienti di tre regioni indiane tra l’inizio del 2009 e la fine del 2010. In realtà, il senso dei trattamenti “community-based” nei paesi poveri si innesta paradossalmente anche su un limite di tali sistemi sanitari in termini di scarse disponibilità e accessibilità ai servizi di salute mentale.

L’intervento community-based care messo a punto nello studio mira a promuovere la collaborazione tra soggetti –operatori  sociali afferenti alla rete sociale del paziente selezionati considerando un livello di scolarità medio, buone skills interpersonali e formati per sei settimane per l’erogazione di micro interventi  flessibili finalizzati alla psicoeducazione e basica riabilitazione nell’ambito della psicosi.

Per tali facilitatori è prevista una continua supervisione all’interno dei team di specialisti della salute mentale (tecnici della riabilitazione e psichiatri). Il campione dello studio è composto da pazienti con diagnosi di schizofrenia di età compresa tra i 16-60 anni randomicamente assegnati alla condizione di trattamento standard oppure alla condizione di interventi community-based in associazione al trattamento standard.

Tra le misure di outcome adottate ritroviamo la PANSS (Positive and negative syndrome scale) e la Indian disability evaluation and assessment scale (IDEAS). Dopo 12 mesi, i punteggi delle scale PANSS e IDEAS risultavano significativamente inferiori nel gruppo sperimentale di interventi “community-based” associati al trattamento standard rispetto al gruppo di controllo.

Anche se non si sono riscontrate differenze nella percentuale di pazienti che hanno presentato una riduzione di più del 20% della totalità dei sintomi. In particolare, la riduzione più significativa nella sintomatologia e nella quota di disabilità si è riscontrata nei villaggi rurali del Tamil Nadu che non avevano accesso ad alcuna struttura di salute mentale; riduzione sintomatologica maggiore rispetto alle altre due aree semi-urbane con maggiore accessibilità ai servizi psichiatrici.

Interessante anche notare che gli interventi riabilitativi community-based domiciliari però non hanno avuto modo in ogni caso di modificare la stigmatizzazione e migliorare la comprensione della patologia da parte dei familiari. Lo studio è registrato come un International Standard Randomised Controlled Trial, numero ISRCTN 56877013.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOSI  – PSICHIATRIA PUBBLICA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Posseduta – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.04 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

cancel