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Un ricordo di Franco Baldini

 

Il 19 maggio 2014 è mancato Franco Baldini, figura importante nella storia del cognitivismo clinico italiano.

Si laureò a Padova nel 1976, e potè partecipare alla vita della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) fin quasi dalla sua fondazione. Si specializzò in Italia nella SITCC e poi negli Stati Uniti dove ottenne il titolo di Supervisore dell’Institute for Rational-Emotive Therapy di New York. E’ stato direttore e responsabile del Centro Albert Ellis di Verona fino al 1991. Divenne socio didatta della SITCC e responsabile  della sede di Verona della Scuola di Specializzazione dell’APC (Associazione di Psicologia Cognitiva) e dell’SPC (Scuola di Psicoterapia Cognitiva).

Il suo principale interesse fu la diffusione della terapia razionale emotiva comportamentale di Albert Ellis (REBT) in Italia, unendo i suoi sforzi a quelli di Cesare De Silvestri e Carola Schimmelpfennig.

Baldini, con l’aiuto di De Silvestri, promosse la I-RET (la I sta per Italia e “RET” è il termine usato fin o agli anni ’90 per indicare la REBT), un organo volto a promuovere la terapia di Ellis in Italia. L’I-RET fu in grado di organizzare un seminario condotto da Albert Ellis in persona a Verona nel 1993 e nel periodo 1996-2006 organizzò molti corsi di training REBT. Baldini ha anche pubblicato un libro di compiti terapeutico che include alcuni interventi REBT (Baldini, 2004).

Come uomo, era cordiale e allegro, amante dei piaceri della vita e della compagnia di allievi, amici e colleghi. Ogni estate -curioso del mondo- viaggiava in continenti lontani, per lo più in Africa.

Grazie al suo impegno, non è possibile dimenticare che tutte le iniziative di promozione e diffusione della REBT in Italia sono una continuazione del lavoro iniziato da Franco Baldini.

 

 

 

 

Riferimenti:

Il piacere di essere se stessi. L’identità sociale tra essere e dover essere

 

 

 

il piacere di essere se stessi e identità sociale© Marek - Fotolia.comNel corso del ciclo vitale l’individuo costruisce l’identità sociale. Tale costrutto è composto da due dimensioni, una privata per se stessi e una pubblica per gli altri. Spesso l’identità per sé contiene le costrizioni che le agenzie formative hanno imposto durante l’età evolutiva. Nelle situazioni di stress capita, sovente, di percepire con più forza questi vincoli e allora non resta che riscoprire se stessi, in un’ottica liberatoria, per ristabilire l’equilibrio psicologico.

 

 

La microstoria dell’infante

Ognuno di noi è portatore di emozioni, di modi di pensare e di abitudini che sono stati acquisiti nel corso dell’intero ciclo di vita. Questo bagaglio costituisce la nostra ricchezza, ma talvolta in esso sono insiti i semi del disagio, nella misura in cui tale apparato non ci appartiene o meglio ci appartiene solo in parte.

Al momento della nascita l’infante già possiede una microstoria che è fatta dalle percezioni che i genitori proiettano sul nuovo nato. Nell’immaginario genitoriale subentrano una serie di attribuzioni che consentono di costruire un’intelaiatura concettuale su cui si adagerà la vita dell’infante.

In altre parole, i genitori percepiscono il proprio figlio in base a quella che è stata la loro storia nella propria famiglia di origine. Questo determina un’ipoteca nell’accostamento emozionale al piccolo che influirà successivamente, ovvero l’esperienza di figlio, nel vissuto genitoriale, ha difficoltà ad essere separata dall’esperienza di genitore.

Così in questa piccola istituzione sociale che è la famiglia il nuovo nato si trova ad avere due genitori che sono contemporaneamente ancora figli dei propri genitori e questo incide sulla mappa concettuale che successivamente si formerà.

La socializzazione primaria

La diade genitoriale è chiamata a far incamerare al nuovo nato quelli che sono i prodotti culturali della società in cui vive, attraverso quel processo che va sotto il nome di socializzazione primaria. Per mezzo di tale procedura l’infante viene colonizzato al vivere sociale, che è fatto di abitudini, routine e modi di essere che riflettono la cultura dominante e che sono egemoni in quel contesto di vita.

In altre parole, con la socializzazione primaria il bambino interiorizza il mondo dei genitori. In questo modo si pongono le basi per una costruzione della personalità che è sintonica con la cultura nella quale si vive (Benedict, 1960).

Con il concetto di cultura si definiscono le convinzioni, le abitudini e le istituzioni sociali che caratterizzano una società. Le istituzioni traggono origine dai comportamenti individuali che si ripetono nel corso dello scorrere del tempo e che si consolidano in modelli di comportamento, che sono adottati da tutti gli individui che fanno parte della stessa società (Kardiner, 1965).

In pratica, il bambino si trova a dover assimilare nei primi anni di vita quella che è la struttura culturale della società in cui vive. Che questo non sia un atto indolore è rappresentato dalle ribellioni a cui il piccolo sovente accede, quando, attraverso le crisi di opposizione, che caratterizzano la sua crescita, vuol affermare il proprio io in termini differenti da quello che la volontà genitoriale vorrebbe.

Uno strumento potente per la trasmissione di questo mondo culturale è rappresentato dal linguaggio. In altri termini, attraverso il linguaggio la diade genitoriale provvede a socializzare il proprio figlio, per mezzo degli aspetti semantici e pragmatici che sottendono al dato linguistico.

Essere e dover essere

La crescita dell’infante si struttura come una doppia storia, ovvero una storia di superficie fatta da tutti quei comportamenti, quelle abitudini e quei pensieri che privilegiano la sintonia con il mondo dei propri genitori, che è il mondo sociale, e una storia sotterranea, dove albergano le opposizione, ovvero quelle abitudini, quei comportamenti e quei pensieri che sono poco sintonici con i processi della socializzazione primaria.

In pratica, si crea una distanza fra quello che il bambino è e quello che in realtà deve essere se vuol continuare ad avere l’affetto dei propri genitori, la stima sociale dei suoi coetanei e di tutti quelli adulti con cui si interfaccia nel corso della suo ciclo di vita.

In questa maniera si sviluppa quello che Fromm, citato in Caprara e Gennaro (1994), definisce il carattere sociale, ovvero una struttura di personalità che è sintonica con l’ambiente nel quale il bambino vive. I due mondi, in realtà, procedono per percorsi paralleli.

Il primo si ipertrofizza e si implementa grazie ai riconoscimenti sociali che il piccolo riceve e che gli fanno adottare, in modo completo e profondo, le caratteristiche sociali del contesto in cui è immerso.

L’altro mondo, quello sotterraneo, vive di riverberi, che sono fatti di veri bisogni, di desideri ed di un’ideologia della vita che non collima con quella vigente nella cultura dominante. Man mano che la crescita procede si crea una discrepanza maggiore fra quello che Rogers, menzionato in Caprara e Gennaro (op. cit.), chiama vero sé e il mondo fittizio del sé condizionato dall’accettazione sociale.

Il bambino vorrebbe, ma non può. Deve adattarsi a quelle che sono le limitazioni dell’esserci, mentre la sua persona vorrebbe tutta la libertà dell’essere, ovvero una libertà incondizionata, come afferma Binswanger, riportato in Caprara e Gennaro (op. cit.).

In questo periodo la sua storia è fatta da due movimenti contrastanti, sintonici con i due mondi vissuti interiormente, che sono l’obbedienza e la disobbedienza. Il non perdere l’affetto dei propri genitori e delle altre figure carismatiche che entrano nella sua vita lo induce ad essere obbediente, l’amore per la libertà e per la sperimentazione lo spingono alla disobbedienza.

In questa fase, come Piaget (1972) segnala, la morale del bambino è eteronoma, ovvero deriva dai divieti posti dalla volontà genitoriale, che sono vissuti come norme imposte dai genitori e non come propri desideri e per questa ragione non sono ancora interiorizzati.

La socializzazione secondaria

La crescita, dal punto di vista sociale, si completa nel corso degli anni con quella che Berger e Luckmann (1969) chiamano socializzazione secondaria, ovvero quel processo che induce ad interiorizzare i saperi professionali e che determina il possesso di un lessico, di una metodologia e di una ideologia della realtà sintonica con la scelta lavorativa che si compie.

L’identità sociale

Attraverso questo lungo percorso l’individuo acquisisce la propria identità sociale, che come Dubar (2004) avverte, è costituita da due componenti, cioè l’identità per sé e l’identità per l’altro.

Entrambe si formano attraverso dei processi sociali, in quanto alla base di esse ci sono delle procedure che coinvolgono l’alterità o se stessi, in qualità di soggetto sociale.

In pratica, nel corso della storia individuale, le due identità, da cui è composta l’identità sociale, si strutturano attraverso due processi ben precisi:

  • il processo biografico;
  • il processo relazionale.

Nello specifico, attraverso la propria storia di vita o biografia si costruisce l’identità sociale per sé e attraverso le interazioni sociali si realizza l’identità per l’altro, che permette di essere percepiti dall’alterità.

L’identità per sé è costituita da i due mondi di cui si diceva. In pratica, l’individuo costruisce questa idea di sé, tramite quello che è, ma in tale identità sono contenuti anche i germogli di quello che non è e che, di fatto, vorrebbe essere. L’identità per l’altro si costituisce nel corso della propria storia mediante le varie esperienze che portano a stare con gli altri.

In tali circostanze, noi forniamo il materiale, attraverso il mostrarci, l’essere e il reagire, che consente agli altri di farsi un’idea di noi.

La liberazione dal dover essere

In alcune circostanze, specificatamente nelle situazioni di stress, l’identità per sé si sfibra nei due mondi, da cui è composta, ovvero quello palese che ha costituito l’immagine che si ha di sé e quello più intimo dove sono sepolti i veri bisogni e i desideri.

In questa circostanza tale realtà profonda reclama di uscire allo scoperto inviando segnali, che incrementano l’insoddisfazione e il senso di infelicità. In questo frangente diventa imperativo riscoprire se stessi, in pratica far emergere quello che per diverso tempo si è tenuto ai margini. Tale mondo è fatto di creatività, di cambiamenti, del dare un senso diverso alla propria vita, al proprio lavoro, ai rapporti con gli altri.

In altre parole, il mondo parallelo, che ha costituito l’altra faccia dell’identità, invita a cambiare vita, a riscoprire cose che nel corso degli anni sono state abbandonate per far posto ad una serie di doveri e responsabilità, il più delle volte non in sintonia con i veri bisogni.

Ecco allora riscoprire il vero sé, per mezzo di attività nuove, più gratificanti o semplicemente cambiando la maniera di percepire se stessi e la propria vita. È un modo per ritornare a provare il piacere di essere se stessi, in una prospettiva di liberazione, che, come Bauman (2011) osserva, presuppone il liberarsi da vincoli o catene, che il più delle volte sono solo nella mente.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Bauman, Z. (2011). Modernità liquida. Roma – Bari: Laterza.
  • Benedict, R. (1960). Modelli di cultura. Milano: Feltrinelli.
  • Berger, P. e Luckmann, T (1969). La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Caprara, G.V. & Gennaro, A. (1994). Psicologia della personalità. Bologna: Il Mulino.
  • Dubar, C. (2004). La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Kardiner, A. (1965). L’individuo e la sua società: psicodinamica dell’organizzazione sociale primitiva. Milano: Bompiani.
  • Piaget, J. (1972). Il giudizio morale nel fanciullo. Firenze: Giunti.

 

Autore: Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta, psicopedagogista. Insegna, come docente a contratto, Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Psicologia delle Diverse Abilità, Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

Storia dell’Autismo. Conversazioni con i pioneri: Evoluzione storica del disturbo e trattamenti

 

 

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

storia dell'autismo: recensione_Adam Feinstein“Nulla è completamente originale. Tutto è influenzato da ciò che è stato prima.” Con queste parole di Lorna Wing, psichiatra britannica e madre di un’autistica, si apre questo interessantissimo libro e le pagine a seguire danno prova di ciò, ricordandoci costantemente che non si può andare da nessuna parte se non si conosce la strada percorsa da chi ci ha preceduti.

I personaggi raccontati dall’autore sembrano infatti cedersi il testimone dopo aver dato il loro personale contributo nella scrittura della storia dell’autismo che ha inizio negli anni ‘30 e, fortunatamente, continua ad appassionare ancora oggi professionisti, parenti e le stesse persone autistiche.

Si tratta di personalità molto diverse tra loro, accomunate dal desiderio di conoscere meglio e trattare con efficacia le persone con questo disturbo. Il fatto che le storie delle loro vite siano racccontate attraverso le parole di chi li ha conosciuti di persona e la cura nel descrivere il contesto storico di riferimento, rendono la lettura di questo libro avvincente e a tratti commovente.

C’è chi si distingue per ambizione, chi per umanità e chi per coraggio ma in ogni caso si tratta di vite che hanno lasciato il segno, che hanno contribuito a far sì che l’autismo sia riconosciuto oggi come una sindrome neurobiologica per la quale non esiste alcun trattamento efficace che pretenda una guarigione in termini di adesione totale alla cultura neurotipica e che non chiami quindi in causa anche l’ambiente sociale in cui il soggetto autistico è inserito.

Molti sono gli insegnamenti che si possono trarre dalla lettura di queste pagine, soprattutto per noi professionisti che desideriamo contribuire a scrivere le pagine a venire di questa storia.

Primo fra tutti ho avvertito un grosso richiamo alla responsabilità personale.

Le idee di molti professionisti del passato hanno infatti condizionato anche drasticamente le vite di molti pazienti. Basti pensare all’enorme influenza che il libro di Bruno Bettelheim, The Empty Fortress (1967), in cui riconosceva nei disturbi emotivi delle madri la causa dell’autismo dei figli, ebbe sulle vite di molti autistici e delle loro famiglie.

Ci sono voluti più di trent’anni prima che questa pericolosa teoria venisse ufficialmente respinta e scientificamente screditata.

E se pensiamo di essere troppo piccoli per fare la differenza, forse dovremmo ricordarci di persone come Sybil Elgar, la prima insegnante inglese ad occuparsi di autismo nei primi anni ‘60, che mossa dallo sconcerto a seguito di una visita a un ospedale di Londra per bambini con gravi disturbi mentali,  ideò un metodo strutturato di insegnamento rivolto ai bambini autistici assolutamente controcorrente rispetto ai metodi tradizionali dell’epoca ma che permise ai suoi allievi di fare numerosi progressi e gettò le basi di molti degli attuali approcci all’insegnamento rivolti ai bambini con disturbi dello spettro autistico, come per esempio l’impiego di supporti visivi.

Questo ci insegna che umanità, buon senso, ascolto e coraggio dovrebbero indurci a sperimentare cose nuove, piuttosto che aderire senza spirito critico a ciò che ci viene insegnato.

Un’altra cosa che noi professionisti non dovremmo dimenticare dalla lettura di questo libro, è l’enorme influenza che le associazioni di genitori hanno avuto nel promuovere la ricerca e nel diffondere metodi di intervento ritenuti efficaci.

Le famiglie non prendono soltanto parte al trattamento rivolto ai loro membri autistici ma con loro hanno contribuito e contribuiranno sempre di più a scrivere l’autismo.Questo significa anche trattare con enorme considerazione e rispetto il loro punto di vista circa l’autismo e non smettere mai di confrontarlo con il nostro, nell’interesse dei loro figli e di tutta la popolazione autistica.

Insomma, se davvero tutto è influenzato da quel che viene prima e siete interesssati all’argomento, abbandonatevi a questo libro, non potrà che avere una buona influenza su di voi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Feinstein, A. (2014). Storia dell’autismo. Conversazione con i pioneri. Uovonero Editore. ACQUISTA ONLINE

 

Contagio da stress: quando lo stress altrui diventa nostro

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il contesto in cui viviamo- se (come è probabile che sia) popolato da persone stressate- può influenzare in qualche misura la nostra risposta allo stress e un’aumentata concentrazione del cortisolo.

Anche lo stress è contagioso: semplicemente guardare un’altra persona vivere una situazione stressante può essere sufficiente per far sì che il nostro corpo rilasci cortisolo, l’ ormone dello stress. Questi sono i risultati di uno studio del Max Planck Institute for Cognitive and Brain Sciences di Lipsia e dell’Università di Dresda. Tale forma empatica di stress sembra insorgere prima di tutto tra i partner di una coppia.

Tuttavia anche l’osservazione attraverso dei filmati di estranei esposti a situazioni stressanti può “allertare” alcune persone. Dunque il contesto in cui viviamo – se (come è probabile che sia) popolato da persone stressate- può influenzare in qualche misura la nostra risposta allo stress e un’aumentata concentrazione del cortisolo.

I ricercatori hanno chiesto ad alcuni soggetti (tra cui anche partners di una coppia) di sottoporsi a task stressanti (risolvere complessi compiti matematici e sostenere una sorta di colloquio), mentre altri soggetti avevano il compito di osservare attraverso uno specchio unidirezionale quello che accadeva al soggetto coinvolto nei task. In generale, il 30% degli osservatori ha dimostrato un significativo aumento dei livelli di cortisolo, e tale effetto era ampiamente più diffuso (40% degli osservatori) nel caso in cui si osservasse il proprio partner in una situazione stressante. Quindi, sembrerebbe che la vicinanza emotiva sia un facilitatore ma non una condizione necessaria affinchè si verifichi tale meccanismo di contagio dello stress.

 I risultati dello studio debellano anche un comune pregiudizio riguardante le differenze uomo e donna: uomini e donne presentano in eguale misura e con simile frequenza risposte stressanti “empatiche” a fronte dell’osservazione dello stress altrui; anche se nei self-report le donne tendono ad autovalutarsi come più empatiche rispetto alle autovalutazioni degli uomini. E’ interessante notare che tale autovalutazione attraverso self-report non venga poi supportata da misure fisiologiche oggettive della risposta stressante a livello fisiologico alla visione di consimili in situazioni stressanti.

Lo stress rappresenta un problema soprattutto nelle sue forme di cronicità, mentre una risposta di stress puntuale ha una sua funzione evolutiva: di fronte a un pericolo, il nostro corpo risponde con un aumento del cortisolo che ci consente di affrontare o fuggire dalla situazione. La cronicità di elevati livelli di cortisolo può però avere effetti negativi sul sistema immunitario a lungo a termine; e se la semplice osservazione dello stress altrui può “attivarci” in tale direzione, vale la pena considerare alcune modalità di regolazione emotiva che ci consentano di modulare la nostra risposta quando questa si presenta regolarmente sotto forme stressanti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Run & Jump (2013) di Steph Green – Psicologia Film Festival

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Serata di chiusura del V Psicologia Film Festival

Dedicata al ricordo di Ferdinando Rossi, preside della facoltà di Psicologia

Martedì 20 maggio Maggio

Cortile di Palazzo Badini, via Verdi 10, Torino

ingresso libero

ore 19,15 Apericena stile “Bellavita” porta un piatto da condividere

ore 21,15 proiezione del film

RUN & JUMP

di Steph Green (2013)

presentato dalla dott.ssa Patrizia Gindri

 …e a seguire dibattito

run & Jump 2013 Psicologia film festival Torino

Il Collettivo di Psicologia organizza la serata conclusiva della V edizione dello Psicologia Film Festival, martedì 20 maggio presso il cortile di Palazzo Badini (via Verdi 10, Torino), che sarà dedicata alla memoria di Ferdinando Rossi, Preside della Facoltà di Psicologia scomparso prematuramente ad inizio anno. L’appuntamento ad ingresso libero inizierà alle ore 19,15 con un aperitivo condiviso, e a seguire, alle ore 21,15, la proiezione di Run & Jump di Steph Green. Il film sarà presentato dalla dott.ssa Patrizia Gindri che condurrà anche il dibattito. La serata è organizzata in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema e Videocommunity

 

Il film

Run & Jump, racconta una storia ambientata nella campagna irlandese dove Venetia, a seguito di un ictus, si ritrova a fare i conti con un marito, Conor, mutato nel carattere e nelle abitudini. L’estraneo è Ted, neuropsicologo venuto dagli Usa, presumibilmente più interessato alla disamina di un caso scientifico piuttosto che ai progressi dell’uomo, che (forse) non ha più fatto ritorno? Come andare avanti, superando lo spettro del confronto tra presente e passato? Le metamorfosi inattese e i tentativi di adattamento di una famiglia che deve imparare a crescere intorno alla figura di un nuovo marito, padre, figlio (e oggetto di studio).

 

L’opera prima di Steph Green, statunitense di nascita ma divisa tra Los Angeles e Dublino, ravviva una certa tradizione di cinema europeo, capace di fare i conti con sentimenti scricchiolanti e famiglie da ricomporre. Un cinema che mette a nudo le sfere più intime, accogliendo un estraneo – un ricercatore armato di videocamera, lo spettatore – tra le mura domestiche, senza bisogno di nascondere cocci e panni sporchi sotto il tappeto del pudore. Dramma dei sentimenti che si racconta, con spontaneità e leggerezza, a suon di sussurri e grida, che danza il ritmo di balli notturni e corse in bicicletta sotto la pioggia.

 

Ciò che mi ha attratto verso questo film è stato il punto di vista unico della sceneggiatura: questa non è la storia di un uomo che si riadatta alla vita dopo un infarto, ma di una donna che si adatta a un nuovo uomo. Questo aspetto della vicenda non è raccontato spesso e io non l’avevo mai trovato scritto in questo modo. La sceneggiatura di Aibhe rappresentava il classic triangolo amoroso in un modo nuovo, in un mondo diverso, in cui la relazione tra due persone si sviluppava in un modo riservato e realistico, mai autoreferenziale. Durante il nostro primo incontro Aibhe mi ha detto che voleva fare un film su come le cose non vadano sempre bene. –  Steph Green

 

La regista

Steph Green, selezionata come uno dei nuovi 25 volti del cinema indipendente da Filmmaker Magazine, è nata a San Francisco e passa il suo tempo tra Los Angeles e Dublino, in Irlanda. Il corto New Boy ha ricevuto una nomination per un Oscar nel 2009, e ha continuato a vincere premi incluso il Tribeca Film Festival nel 2009. La sua sceneggiatura per Run & Jump, scritta in collaborazione con Ailbhe Keogan, è stata selezionata per i Sundance Screenwriting labs e per la Berlinale Script Station. Run & Jump è il suo primo lungometraggio, ed ha avuto la sua première al Tribeca Film Festival nel 2013.

 

Patrizia Gindri

Psicologa e psicoterapeuta responsabile del servizio di Psicologia del Presidio Sanitario San Camillo; è docente del corso di Riabilitazione Neurocognitiva. Si occupa di disturbi pervasivi i dello sviluppo, in particolare di autismo e sindrome di Asperger, nonché di neuropsicologia dell’invecchiamento, dei fenomeni quali neglect e anosognosia. Infine, si dedica all’attività libero professionale di psicoterapeuta.

In caso di mal tempo la serata sarà rinviata a martedì 27 maggio. Seguiteci su facebook per rimanere aggiornati

 

Vi aspettiamo numerosi

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Programma 2013-2014 del PFF

ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

Report dal seminario: Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale

Milko Prati, Ilaria Merici

 

Report dal seminario:

Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale: Indici predittivi in infanzia e adolescenza

 

Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale- Indici predittivi in infanzia e adolescenza - LOCANDINA -Lo scorso week end (9-10 maggio 2014) a Milano si è tenuto un convegno sul tema degli indici predittivi di comportamenti suicidari e borderline. Organizzato dall’Istituto ISIPSÉ (Istituto di Specializzazione in Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale) in collaborazione con il CSCP (Centro Studi per la Cultura Psicologica) e l’Università Bicocca, ha visto come relatrice una delle personalità di maggior rilievo della psicologia evolutiva internazionale, la Professoressa Karlen Lyons-Ruth.

Il Dott. Carlo Rodini ideatore dell’iniziativa, ha aperto il convegno presentando il prezioso contributo scientifico fornito dagli studi di Karlen Lyons-Ruth nel campo della psicologia dello sviluppo all’interno della matrice della Contemporary Psychoanalisys, in particolare rispetto al lavoro del Boston Change Process Study Group.

La relatrice si è focalizzata nel corso della prima giornata sull’infanzia e l’età scolare, per poi passare il giorno successivo all’adolescenza. La base di partenza è stato uno studio longitudinale realizzato con lo scopo di capire il ruolo a lungo termine delle esperienze precoci sullo sviluppo della psicopatologia dei bambini, attraverso valutazioni multimodali e multidisciplinari.

I risultati dello studio longitudinale hanno permesso di mostrare che ci sono fattori predittivi nell’infanzia, nell’età scolare (K. Lyons-Ruth 2013;15(5-6):562-82) e nell’adolescenza (K. Lyons-Ruth 2013 Apr 30;206(2-3):273-81) dell’espressione del disturbo borderline di personalità e di comportamenti autolesivi e suicidari.

Questi i fattori:

  • durante l’infanzia, è stato valutato lo stile di attaccamento con la Strange Situation ed è risultato statisticamente significativo il tipo disorganizzato e non il tipo evitante, come ci si poteva forse attendere;
  • in età scolare e in adolescenza, l’osservazione ha evidenziato che assumono particolare rilevanza statistica i comportamenti controllanti di tipo punitivo, quelli di tipo caregiving, i comportamenti disorganizzati, il ritiro materno e la confusione di ruoli. Con sorpresa è emerso che non è un fattore predittivo il comportamento ostile e/o intrusivo della madre.

K. Lyons-Ruth ha tenuto a precisare che i risultati dello studio non devono essere interpretati come un effetto domino, ha infatti affermato: “L’infanzia contribuisce ma non determina cosa succede dopo”. Lo stile di attaccamento disorganizzato pertanto non è conferma di per sé dell’espressione futura di un disturbo borderline di personalità.

I fattori predittivi sono stati mostrati anche attraverso la visione, con commento, di numerose sequenze filmate di interazioni madre-bambino e madre-adolescente. Questa modalità ha permesso un maggiore coinvolgimento da parte dell’audience che ha potuto apprezzare anche le possibili applicazioni dei risultati di una ricerca scientifica in ambito clinico.

In particolare, le evidenze cliniche di maggior rilievo riguardano la confusione di ruolo nell’interazione bambino-genitore che è:

  • osservabile chiaramente già dall’età di 3 anni;
  • predittiva dall’età di 8 anni di caratteristiche di disturbo borderline di personalità;
  • fortemente correlata in adolescenza all’ideazione suicidaria e a comportamenti autolesivi.

La discussione in plenaria è stata animata soprattutto per quanto riguarda le possibili ulteriori aree di indagine: quale ruolo gioca il padre? Quali possono essere i fattori preventivi ed eventualmente riparativi? Questioni ancora aperte che stimolano la ricerca e potranno essere oggetto di studio nel futuro.

 

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MMPI-2: Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo – Psicodiagnostica

 

 

MMPI-2: Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo_RecensioneUn manuale completo, chiaro e di immediato utilizzo: ogni capitolo è corredato di tabelle di riferimento per il corretto impiego delle scale, e di utili esempi; uno strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi sia per chi si appresta per le prime volte all’utilizzo del MMPI, sia per chi da anni ci lavora, senza mai dimenticare l’importanza dell’aggiornamento e la curiosità di comprendere, approfondire e integrare le informazioni che si possono ricavare dallo strumento, tenendo bene a mente l’unicità del cliente.

L’introduzione di Abbate, descrive in modo semplice e chiaro, utilizzando non meglio azzeccata metafora del vestito, le caratteristiche principali dello strumento, ponendo enfasi a quelle che lo rendono unico e al tempo stesso parte integrante e necessaria di una valutazione che voglia essere completa della persona che ci troviamo di fronte.

L’MMPI non è un questionario, come spesso viene trattato, ma è un Inventario, in quanto il soggetto ha il compito di scegliere tra tutta una serie di frasi quelle che meglio lo descrivono, e mentre lo fa è come se svolgesse un compito cognitivo: si trova di fronte ad un costrutto e deve decidere se appartiene o meno ad un gruppo (fai parte di quelli che ogni mattina leggono il giornale?). Per tornare alla metafora del vestito, se scegliere un paio di jeans piuttosto che un altro.

Il risultato è una fotografia che ci dice come la persona che abbiamo deciso di valutare sta adesso, come si vede in questo momento della sua vita.

Non ci dice niente sulle dinamiche interne, sulle Rappresentazioni interne di Sé e degli altri, evidenziando invece gli aspetti di stato e il grado di gravità di uno specifico disturbo; per questo motivo, se si volesse avere una buona Valutazione Diagnostica, soprattutto in ambito peritale, si dovrebbe far riferimento a altri strumenti, come il Rorschach, che consente invece una misurazione di tratto.

Viene offerta una panoramica partendo dall’MMPI-2 vicino all’MMPI per arrivare lentamente all’MMPI 2 –RF, passando attraverso le nuove scale PSY 5, le Restructured Clinical Scales, le Content Component Scales, per impadronirsi di uno strumento veramente nuovo, da inserire in un’ottica di assessment più attuale e senza nostalgia del buon vecchio MMPI, di cui non sentiremo la mancanza.

Nel primo capitolo si fa una disamina storica, partendo dalle origini, attraversando le diverse revisioni e i diversi sviluppi, fino alla versione attuale, l’MMPI-2 RF (Restructured Form) del 2008, con una totale revisione del questionario, tale da farlo essere uno strumento completamente diverso (Abbate, 2014).

Il seconda capitolo è dedicato alla Somministrazione ed è a mio parere molto utile, soprattutto per chi si avvicina allo strumento, in quanto merita (così come vengono descritti) tutta una serie di accorgimenti che mai dovrebbero essere trascurati, quali l’attenzione al contesto di somministrazione, i limiti di età, il quoziente intellettivo, le capacità di lettura e comprensione del testo, la capacità di tollerare un compito lungo, problemi uditivi e visivi, patologie psichiatriche e, infine, le modalità con cui congedare il soggetto.

Nel terzo capitolo vengono analizzate le scale di validità, che nello specifico fanno riferimento alla verifica del modo in cui il soggetto ha partecipato al test: con quale disponibilità si presenta, se e quanto è stato sincero e con quanta accuratezza ha risposto alle domande, consentendo inoltre di rilevare la tendenza a presentare un’immagine più negativa della realtà, esagerandola, oppure la tendenza a sottostimare le difficoltà, altri indici e diverse modalità di configurazione delle scale, che nell’insieme consentono una buona stima dei risultati e quindi dell’interpretabilità del profilo.

Il quarto capitolo è dedicato interamente alle scale cliniche (con anche l’introduzione delle scale cliniche ristrutturate), alla loro suddivisione in scale nevrotiche, psicotiche e di atteggiamento, e alle rispettive sottoscale; si evidenzia come la natura categoriale delle scale cliniche originali ci impone di “fidarci”principalmente delle inferenze basate sui punteggi estremi; ciò nonostante si sottolinea l’importanza e la necessità, per un buon clinico e testista, di non applicare in modo acritico e diffuso l’interpretazione del punteggio. È bene illustrato il significato dei punteggi bassi, l’utilizzo più utile delle sottoscale e infine la configurazione possibile delle triadi nevrotica e psicotica.

Il quinto capitolo è dedicato all’interpretazione del profilo con code-type, ovvero per “codice”, il cui risultato è dato dai numeri delle due o tre scale che presentano il punteggio più elevato e che sono combinate tra loro: in letteratura sono presenti le descrizioni dei codici che si presentano con maggiore frequenza, ma, come gli stessi autori precisano, Weiner e Greene (2008, p.150) sottolineano che ogni affermazione presente in un codice, va considerata come un ipotesi da verificare attraverso il colloquio e la storia clinica del soggetto. Di grande utilità sono a mio parere le tabelle che riportano le corrispondenze tra le scale cliniche dell’MMPI-2 e i criteri diagnostici asse I e asse II (disturbi clinici e disturbi di personalità) del DSM-IV.

Il sesto capitolo inizia con un excursus storico delle le scale di contenuto, che consentono di ampliare le interpretazioni e le implicazioni dei punteggi ottenuti dalle scale cliniche, e approfondisce la loro suddivisione in base a ciò che misurano: i comportamenti sintomatici interni, le tendenze aggressive esterne, l’autopercezione negativa e i problemi generali; si sottolinea inoltre come queste siano in realtà delle dirette affermazioni, cioè quanto il soggetto di vuole effettivamente riferire, e in tal senso andrebbero prudentemente considerate in una visione d’insieme.

Il settimo capitolo illustra in ultimo le scale supplementari, sempre con relativa suddivisione in gruppi in base ai costrutti che valutano, le scale PSY 5 per la valutazione dei tratti di personalità, quali Aggressività, Psicoticismo, Alterazione dell’autocontrollo, Nevroticismo e Introversione (rilevanti sia nel normale funzionamento della persona, sia in situazioni di difficoltà) mai da considerare in modo indipendente ma sempre all’interno dell’intero protocollo e, infine gli item critici e il loro utilizzo.

L’ottavo capitolo è dedicato ai dati normativi, mentre il nono capitolo illustra il sistema di scoring che può essere sia manuale che computerizzato e le procedure interpretative, rispetto alle quali, a mio parere, è ben sottolineato come non si possa trattare della “semplice messa insieme” degli elementi ricavati, ma bensì si debba tenere conto di tutti gli aspetti emersi e della loro integrazione armonica.

In tal senso viene presentata, tra i diversi metodi, quella che agli stessi autori sembra essere una strategia interpretativa corretta e utile, strategia ramificata o ad albero, che parte dalle scale cliniche di base con valori significativi e integra le altre scale.

Il decimo capitolo riguarda gli ultimi sviluppi dell’MMPI-2, dalle Scale Cliniche Ristrutturate nate, così come riferito dagli stessi autori, con l’intento di migliorarne l’interpretabilità e ampiamente descritte, fino alla versione dell’MMPI-2-RF, che si presenta come un questionario autonomo, un’alternativa, una sorta di versione ridotta, della quale vengono descritte le caratteristiche indicado i punti in comune e di differenza con MMPI-2, i punti di forza e di debolezza.

Nell’undicesimo capitolo vi è una breve introduzione dell’MMPI Structural Summary, uno schema per l’esame supplementare di scale e punteggi del test, che non intende soppiantare o sostituire la strategia tradizionale di interpretazione mediante code-type, ma di un utilizzo congiunto; viene illustrato il formato dell’MMPI-2 SS con a conclusione un esempio di caso e rispettivo Report.

L’ultimo capitolo è dedicato alla presentazione completa di un caso clinico, i cui punteggi sono ottenuti con il programma di scoring edito dal Giunti-OS e allegati in Appendice, con il confronto con l’MMPI-2-RF per lo stesso caso.

Un Manuale completo, chiaro e di immediato utilizzo: ogni capitolo è corredato di tabelle di riferimento per il corretto impiego delle scale, e di utili esempi; uno strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi sia per chi si appresta per le prime volte all’utilizzo del MMPI, sia per chi da anni ci lavora, senza mai dimenticare l’importanza dell’aggiornamento e la curiosità di comprendere, approfondire e integrare le informazioni che si possono ricavare dallo strumento, tenendo bene a mente l’unicità del cliente.

 

 

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  • Abbate, L. & Roma, P (2014). MMPI-2. Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo. Milano: Cortina. ACQUISTA ONLINE

Il contagio dello sbadiglio: questione di empatia?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sbadigliare è uno dei comportamenti più primitivi, definito addirittura un fossile comportamentale e condiviso da diverse specie; persino in fase gestazionale il feto umano sbadiglia già dal suo primo trimestre.

In ambito psicologico ed etologico, è stato studiata la contagiosità dello sbadiglio: nel caso dei primati umani e non umani vedere consimili sbadigliare può facilmente portare a riprodurre lo sbadiglio. Ma come si spiega questo fenomeno? Diversi studiosi sostengono che l’effetto contagio dello sbadiglio sia uno dei modi di espressione dell’empatia: il livello di vicinanza affettiva (familiari vs. amici vs. sconosciuti) influenzerebbe la probabilità di incappare in involontari e contagiosi sbadigli. Tuttavia pochi studi si sono finora avventurati nello studio della variabilità individuale che modula la tendenza a farsi contagiare dallo sbadiglio. Come spesso accade lo studio delle differenze individuali può gettare nuova luce sul fenomeno in sé, sulle sue radici e funzioni.

 Secondo un nuovo studio della Duke University, l’empatia e la tendenza al contagio emotivo non sarebbero fattori esplicativi della variabilità individuale alla contagiosità dello sbadiglio. 328 soggetti sono stati reclutati per la ricerca ed è stato loro chiesto di guardare un video della durata di tre minuti di altre persone che sbadigliavano: a ciascuno di loro è stato indicato di fare un click sul PC ogni volta che si ritrovavano a sbadigliare guardando il video. Inoltre i ricercatori hanno misurato anche alcune funzioni cognitive, il livello di empatia e di contagio emotivo, di stanchezza e di sonnolenza.

Sorprendentemente, le variabili di empatia e intelligenza non hanno presentato alcuna correlazione significativa con la tendenza a farsi contagiare dallo sbadiglio. E’ invece, l’età a presentare correlazioni significative inversamente proporzionali con la propensione a farsi contagiare dallo sbadiglio: la maggior parte di soggetti più suscettibili al contagio erano soggetti di età inferiore ai 25 anni, mentre le persone più anziane hanno dimostrato meno probabilità di riprodurre spontaneamente sbadigli guardando consimili sbadigliare. Ad ogni modo, una gran quota di suscettibilità al contagio per tale comportamento ancestrale rimane ancora statisticamente non spiegata, altre ricerche sono necessarie per indagare quali fattori possono esplicare la complessità di tale variabilità individuale.

 

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Conchita Wurst: donna barbuta sempre… criticata! – LGBT

Emanuel Mian

 

 

CONCHITA WURST EUROVISION 2014DONNA BARBUTA SEMPRE….CRITICATA:

essere transgender non è solo sorrisi e paillettes.

Conchita Wurst ha rappresentato l’Austria a Copenhagen all’Eurovision Song Contest del 2014 ed ha vinto con il brano “Rise like a phoenix”.

Sin qui nulla di strano.

Conchita pero’ si è presentata sul palco, vestita come farebbe una giovane donna ad un gran galà, lunghi capelli castano scuro che adornano un viso aggraziato, occhi ammaliatori e…..una folta barba scura!

Conchita infatti è biologicamente un uomo e si chiama Thomas Neuwirth.

Prima della meritata vittoria, numerose sono state le polemiche da parte di politici ed opinionisti, critiche ed accuse che si susseguono tutt’ora, verso l’immagine particolare che l’artista ha portato sul palco in Mondovisione.  La partecipazione di questa cantante ha infatti  “scomodato” il parlamentare russo fautore della famigerata legge tacciata di omofobia il quale ha accusato Conchita di essere una pervertita e di rappresentare il futuro degrado dell’integrazione Europea. La proposta da parte della Bielorussia, invece, è stata di usare tecnologie digitali per oscurare l’esibizione della brava artista.

Fortunatamente entrambe le richieste sono state respinte.

L’esibizione e vittoria di Conchita, proprio per la sua particolarità, ha rimesso in luce un fenomeno sempre più in crescita rispetto al transgenderismo e le problematiche a questo legate: la transfobia.

Un recente studio ha rilevato su circa 152 soggetti transgender, numerosi episodi di stigma da parte persino dal personale sanitario (Kosenko et al.,2013). Le persone transgender devono affrontare una forte discriminazione nella vita di tutti i giorni e questo puo’ portare già ad un isolamento marcato in grado di aumentare il rischio di depressione e ansia , disturbo post-traumatico da stress e abuso di sostanze.

La ricerca ha rilevato che, nonostante ciò, molti individui transgender esitano comunque a cercare terapie adeguate per paura di essere maltrattati persino da chi dovrebbe averne cura. Non solo, in questi casi, i disturbi alimentari e dell’immagine corporea rischiano di acutizzarsi (Mian, 2006) e questo anche perché non vi è ancora una cultura fra i clinici di indirizzare le specifiche problematiche dei transgender con protocolli e metodiche adeguati a causa della poca conoscenza rispetto al mondo LGBT e la possibilità di incorrere nella stigma di cui sopra.

Interessante lo studio condotto su due soggetti transgender biologicamente di sesso maschile (si definiscono “male to female”) che soffrivano di un disturbo alimentare e dell’immagine corporea (Murray et al., 2013). Questi, avevano modificazioni del rapporto verso il proprio corpo ed il cibo in relazione all’identita’ di genere durante il corso della propria vita. Quando si trovavano ad orientarsi verso l’apparire femminile, erano presenti i tipici sintomi delle donne colpite da anoressia nervosa, quali il forte desiderio di magrezza, l’insoddisfazione corporea e la restrizione calorica. Al contrario, mentre incarnavano le fattezze biologicamente espresse dal proprio sesso, si ritrovavano a ossessivizzarsi verso un corpo muscoloso e ad essere maggiormente vulnerabili ad episodi di discontrollo orale (cio’ che comunemente definiamo come abbuffata).

Come il corpo veniva vissuto e “pensato” modificava il comportamento alimentare e la percezione corporea. Ma che significato aveva tutto questo per i singoli individui?

In particolare, per il primo, la magrezza serviva come una sorta di “strategia difensiva” per autogiustificare l’impossibilita’ a poter generare dei figli, mentre per il secondo, la muscolosità era funzionale a giustificare la propria sofferta omosessualità.

Quest’ultimo risultato sembra coincidere con uno studio che ha preso in esame piu’ di 400 uomini gay o bisessuali al Toronto LGBT Festival del 2008. Gli studiosi cercavano una correlazione fra il cosiddetto “drive for muscolarity” o desiderio di muscolosità ed altri parametri (età, peso, grado di educazione etc etc) riscontrando in estrema sintesi, che l’internalizzazione della omonegativita’ era proporzionale con il desiderio di avere un corpo eccessivamente muscoloso (Brennan et al., 2012).

Il termine “omonegatività interiorizzata” indica un conflitto tra la propria disposizione sessuale e la propria immagine di sé, caratterizzato da imbarazzo, vergogna, depressione e talvolta ideazione suicidaria.

Come aiutare quindi gli amici della comunità LGBT che spesso trovano negli psicologi l’unico punto di ascolto ai propri disagi? E come possono capire che stanno lavorando con il giusto approccio terapeutico?

Per i colleghi, consiglio di avvicinarsi con ancora maggiore sensibilita’ a questo mondo con approcci modulari che tengano conto che l’immagine corporea riveste un ruolo predominante e che fa da fil rouge sul resto (Wilhelm et al., 2011; Mian & Gerbino, 2009). Ai membri della comunità LGBT, consiglio di evitare qualsiasi approccio terapeutico o di supporto psicologico che miri a qualsiasi livello ed in qualsiasi modo ad accusarli o colpevolizzare le proprie scelte.

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Ritornando a Conchita, molti possono avere visto nella sua immagine un collegamento, ad esempio, con il discusso film del 1932 di Tod Browning intitolato “Freaks” ambientato in un circo dove era presente una donna barbuta.

Niente di piu’ lontano da qui.

L’immagine per i transgender è molto, ma l’immagine che vediamo non è tutto. L’utilizzo di queste fattezze aldilà delle facili polemiche o critiche, puo’ rappresentare un modo per Thomas/Conchita di comunicare all’ascoltatore di andare oltre cio’ che la vista gli pone dinanzi. Con il tempo, sarà dato piu’ spazio alle indubbie capacità di Conchita/Thomas e non, come troppi superficialmente fanno, al suo essere una donna con la barba.

 

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AUTORE DELL’ARTICOLO: 

Emanuel Mian. Psicoterapeuta, PhD in Neuroscienze.
Docente nel Master in “Dietistica e Nutrizione Clinica”- Università di Pavia

La Terapia nel Disturbo di Panico: confronto tra CBT e EMDR

 

 

 

disturbo di panico - Immagine: ©-almagami-Fotolia.comI risultati dello studio hanno mostrato che sia la CBT che l’EMDR sono risultati efficaci nella cura del disturbo, con un maggiore mantenimento dei risultati dell’EMDR a 1 anno di distanza.

La Terapia Cognitivo Comportamentale ha largamente dimostrato di essere la terapia più efficace per la cura del Disturbo da Attacchi di Panico con o senza Agorafobia. Tali risultati vengono anche mantenuti a 1 anno di distanza dal trattamento.

Ma ad oggi possiamo dire con certezza che tale primato appartenga ancora alla Terapia Cognitivo Comportamentale?

Un recente studio pilota di Faretta (2013) ha confrontato la CBT (Cognitive-Behavioral Therapy) con l’EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing) per il trattamento del Disturbo di Panico.

Il razionale della scelta è stato il considerare l’Attacco di Panico alla stregua di un’esperienza traumatica per il soggetto che lo sperimenta. Il campione era costituito da 19 soggetti con diagnosi di attacco di panico con o senza agorafobia assegnati al trattamento CBT o EMDR.

I risultati sono stati valutati all’inizio, alla fine e a 1 anno dal trattamento attraverso alcune scale sintomatologiche.

Il trattamento EMDR ha seguito il protocollo delle 8 fasi della Shapiro (2001) con una differenza introdotta nella fase 2 dove è stata prevista una specifica fase di psicoeducazione sul disturbo da attacchi di panico e nella fase 3 dove la riprocessazione dei targets è stata condotta sugli eventi stressanti immediatamente precedenti l’insorgenza del disturbo, il primo attacco di panico, il più recente e il peggiore in assoluto.

Nel gruppo CBT è stato seguito il protocollo classico che prevede una fase di assessment e concettualizzazione del caso, psicoeducazione, tecniche di rilassamento e gestione dei sintomi ansiosi, esposizione immaginativa e homework.

I risultati dello studio hanno mostrato che sia la CBT che l’EMDR sono risultati efficaci nella cura del disturbo, con un maggiore mantenimento dei risultati dell’EMDR a 1 anno di distanza.

Tuttavia, pur avendo il merito di aver aperto una strada alternativa per la cura del disturbo, questo studio ha delle forti limitazioni metodologiche che non è possibile non prendere in considerazione: il campione troppo piccolo per la generalizzazione dei risultati, la non assegnazione casuale del campione nei gruppi di trattamento, uno sbilanciamento tra i due campioni rispetto alla percentuale dei soggetti agorafobici (CBT 56% vs EMDR 20%) e assenza di valutatori indipendenti.

Siamo quindi in attesa di uno studio che rimedi a tali lacune metodologiche e che ci permetta di chiarire se effettivamente l’EMDR abbia la stessa efficacia della CBT nella cura del disturbo da attacchi di panico.

 

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Le Nuvole di Picasso di Alberta Basaglia: nella storia del manicomio liberato

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le nuvole di picasso di alberta basaglia_recensioneAlberta Basaglia ci riporta agli anni di Gorizia dalla prospettiva di una bimba che, con l’alibi dell’ingenuità e della purezza tipici di quell’età, ci fa scoprire quel mondo di fermento rivoluzionario, di bizzarri personaggi con i quali si ritrovava a condividere la propria quotidianità anticonformista fatta di musica, disegni e un papà freneticamente appassionato del proprio lavoro e instancabilmente impegnato, quasi per una corsa contro il tempo, a raggiungere un traguardo importante che riesce a mettere a segno quasi al 90° minuto.

Un piccolo libro che arriva proprio al momento giusto se si pensa alla delicata situazione degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) che proprio di recente, con un’ulteriore proroga, hanno visto slittare la loro chiusura al 2015.

Sembra quasi paradossale, ma la storia si ripete forse con le stesse difficoltà, le stesse trafile burocratiche e lo stesso scetticismo che accompagnò la riforma della psichiatria italiana promossa da Franco Basaglia con la famosa legge 180.

Alberta, figlia del noto psichiatra italiano che agli inizi degli anni ’60 diede inizio, nel manicomio di Gorizia passando poi per quello di Trieste, alla rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi nel nostro Paese, ci regala Le nuvole di Picasso, edito da Feltrinelli, con il quale rivive le vicende di quel periodo con gli occhi protagonisti di chi, per sua fortuna, in quella rivoluzione ci è nata e cresciuta.

Gli occhi di Alberta, il suo grande problema, la sua menomazione che, malgrado tutto, le ha dato la possibilità di vivere sulla propria pelle il senso di diversità; un concetto molto a cuore a quei due genitori, Franco e Franca, per il quale giorno e notte lottavano affinché potesse essere accettata senza condizioni.

Alberta Basaglia ci riporta agli anni di Gorizia dalla prospettiva di una bimba che, con l’alibi dell’ingenuità e della purezza tipici di quell’età, ci fa scoprire quel mondo di fermento rivoluzionario, di bizzarri personaggi con i quali si ritrovava a condividere la propria quotidianità anticonformista fatta di musica, disegni e un papà freneticamente appassionato del proprio lavoro e instancabilmente impegnato, quasi per una corsa contro il tempo, a raggiungere un traguardo importante che riesce a mettere a segno quasi al 90° minuto.

Da adulta Alberta, psicologa per ironia della sorte ma forse anche per fisiologica e prematura formazione sul campo, deciderà di partire da quel mondo di colori per tornare indietro nel tempo e per scoprire l’orrore celato dietro alle notti insonni dei genitori, a quel via vai di professori e intellettuali e alle battaglie culturali di quegli anni, complici dell’avverarsi di quel sogno di libertà che Franco Basaglia per anni aveva inseguito, superando mille ostacoli e dando inizio, finalmente, ad un lungo e tortuoso nuovo percorso per la psichiatria italiana.

 

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Appunti sul tablet? Per l’apprendimento meglio usare carta e matita

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science prendere appunti a mano con carta e penna è meglio rispetto a scrivere appunti digitali se il nostro obiettivo è apprendere e fissare in memoria a lungo termine informazioni concettuali.

L’abitudine di scrivere appunti su laptop e altri dispositivi digitali è tanto più frequente quanto ampiamente controversa in relazione alle maggiori opportunità di distrazione che il digitale offre. Gli psicologi della Princeton University, dunque, si sono domandati se e quanto fossero efficaci gli appunti digitali in termini di performance accademiche, anche quando pc e tablet sono utilizzati unicamente allo scopo di prendere appunti durante le lezioni o sessioni di studio.

 

In un primo studio 65 studenti universitari hanno guardato in piccolo gruppo uno tra cinque TED Talks chiedendo loro di scegliere la modalità che solitamente utilizzavano per prendere appunti: laptop non connesso a internet oppure carta e penna. Dopo essere sottoposti a tre compiti distrattori, è stato loro chiesto di rispondere a una serie di domande sul talk precedentemente ascotato che andavano ad indagare sia la comprensione concettuale che il recupero mnestico di specifiche informazioni fornite. I risultati sono interessanti: se i due gruppi (appunti carta matita e appunti digitali) hanno avuto performances molto simili nel recupero mnestico di informazioni fattuali, il gruppo di studenti che ha preso appunti digitali ha dimostrato di avere prestazioni peggiori in termini di comprensione concettuale. Analizzando le caratteristiche delle note si è anche rilevato che gli appunti digitali contenevano una maggior quota di sovrapposizione e mera trascrizione delle parole del relatore rispetto agli appunti carta-matita: inoltre, all’interno del gruppo “appunti a mano” una migliore comprensione concettuale era associata a un minor numero di sovrapposizione di verbatim riguardo le parole del relatore.

 

E’ plausibile dunque inferire che i tradizionalisti che si appuntano note e concetti a mano su carta siano maggiormente coinvolti in un processo di elaborazione di ciò che ascoltano, mentre l’appunto digitale sarebbe più associato a un processo di trascrizione passiva di ciò che si ascolta.

 

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Manuale di felicità combriccoliana: recensione ed esperienza di lavoro

manuale di felicità combriccolianaPer gli adulti non sempre si rivela facile parlare di emozioni con i più piccoli e talvolta comprendere il loro mondo interno non sembra essere cosa da poco.

Nel lavoro di Sabrina Gasparini (edito Edicolors), tuttavia si può ritrovare un valido strumento per esplorare le emozioni dei bambini. Il suo racconto, Manuale di felicità combriccoliana, aiuta a riflettere su ciò che i più piccoli provano e sulle situazioni che per loro potrebbero rivelarsi difficili da affrontare. Di breve lunghezza ma di piacevole lettura (scappano sorrisi anche ai più grandi), il racconto si apre presentando i personaggi della Combriccola della Mezza Luna, animali o persone molto diversi tra loro ma legati da una grande amicizia, “salvaguardata” da un vero e proprio Codice di Comportamento Combriccoliano.

La storia centrale che viene presentata inizialmente è quella di Totino, un ragazzo che durante una partita di calcio è stato definito dal pubblico “incapace” per aver mancato un goal. È così che il protagonista inizia a provare

“un oggetto strano che gli adulti chiamano RABBIA”,

si sente male, vorrebbe piangere e star da solo ma qui intervengono gli amici della Combriccola che consentono a Totino di ritrovare la strada verso la felicità. A questo punto tocca agli altri protagonisti della Combriccola che, per consolare Totino, raccontano dei loro momenti difficili e di ciò che hanno fatto per sentirsi finalmente meglio. Si leggono così storie di tristezza, di cattiveria e rabbia, di delusione e paura, accompagnate però dalla morale che parlandone e contando sugli amici si riesce a superare il tutto e a ritrovare ciò che la Combriccola della Mezza Luna chiama Nontristezzaaltrimentichenoiauffastruffa, ovvero la felicità.

 Il ruolo che l’autrice dona all’ironia, al saper ridere anche quando ci si sente tristi, è un punto vincente del racconto, e credo si possa vedere come un insegnamento per i più piccoli a non lasciarsi abbattere perché è normale provare tristezza o rabbia o delusione, e a guardarsi invece attorno, dove c’è sempre qualcuno con cui ridere e superare certi momenti (e qui l’insegnamento è anche per i più grandi affinché si mostrino comunque pronti ad ascoltare e aiutare i bambini durante le loro difficoltà).

 L’autrice consiglia inoltre un lavoro da fare con i bambini di età dai 7 ai 10 anni, con gruppi che contano fino a 28 alunni, lavoro che potrebbe rivelarsi molto utile per i maestri e soprattutto per gli stessi bambini. A questo proposito, seppur il lavoro è pensato dall’autrice per bambini più piccoli, ho provato, in prima persona, a svolgere lo stesso lavoro con un gruppo di ragazzi disabili un po’ più grandi d’età. Anche in questo caso, infatti, si riscontra spesso una notevole difficoltà a parlare di emozioni, soprattutto di quelle negative.

L’indicazione dell’autrice di iniziare il lavoro con il gioco della risata (chiedere a qualcuno di ridere e osservarne la mimica per poi imitarlo) è stato molto utile: i ragazzi hanno cominciato a ridere e ciò ha consentito di lavorare in modo più rilassato. L’autrice presenta poi la seconda parte (dopo la lettura della fiaba) del lavoro: chiedere ai bambini di descriversi come un personaggio della Combriccola, chieder loro di scrivere in quale modo rallegrerebbero Totino e se si sono mai sentiti come lui. Durante questa parte, nel mio lavoro con i ragazzi disabili, ci sono state delle difficoltà, soprattutto nel parlare delle volte in cui si è provata rabbia. Tuttavia, attraverso una riflessione guidata, sono emersi finalmente i vissuti dei ragazzi, cosa li faccia sentire in collera o tristi e questo l’ho trovato davvero prezioso in quanto, condividendo con i compagni di classe tali racconti, si è potuto intervenire meglio anche sull’integrazione. Mi ha sorpreso osservare quanto sia stato invece facile, per i ragazzi con cui ho lavorato, trovare diversi modi per rallegrare Totino: da chi gli regalerebbe tanti palloncini colorati per farlo ridere, a chi lo porterebbe ad un raduno di auto da corsa per distrarlo da quanto accaduto, a chi invece gli direbbe “Guardati attorno, ci sono tanti amici, sono loro che ti rendono felice”.

Leggere questa fiaba si mostra particolarmente utile per tutti coloro che hanno bisogno di comprendere al meglio ciò che provano i bambini, in primis i genitori ed i maestri, ma anche a psicologi e chiunque lavori con i più piccoli.

In più, dopo averlo constatato in prima persona, suggerirei di cuore la lettura e il lavoro illustrato dall’autrice anche a tutti quegli educatori che spesso purtroppo non hanno facile accesso al mondo interno dei bambini. La lettura sarà piacevole e anche lavorare sul testo risulterà molto divertente e appagante, sia per i bambini che, naturalmente, per gli adulti.

 

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Il pregiudizio tra eziologia e modalità di espressione comportamentale

 

Il pregiudizo tra eziologia e comportamento - Immagine: tratto da American History XIl pregiudizio rappresenta un fenomeno complesso, a cavallo tra la dimensione sociale e quella individuale, spesso foriero di problemi e tensioni che si ripercuotono pesantemente sulle società multietniche dell’inizio del XXII° secolo.

E’ un fenomeno conosciuto e studiato da molti decenni: già nel 1954 lo psicologo statunitense Gordon Allport pubblicò un libro dal nome “La natura del pregiudizio” in cui teorizzava brillantemente le origini di tale fenomeno e delle linee guida per impostare interventi per abbassarne il livello.

La definizione data da Allport è la seguente:

Il pregiudizio (etnico) è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo.

Rupert Brown, professore di Psicologia Sociale all’Università del Kent, in parte contesta questa definizione: egli non ritiene che sia necessario presumere che siano credenze fasulle generalizzate in maniera arbitraria, ciò può corrispondere spesso a verità, ma talvolta risulta concretamente difficile da dimostrare. La definizione che lui dà di pregiudizio è:

Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro sola appartenenza ad esso.

In una prospettiva sociale di pregiudizio già Allport sosteneva che la categorizzazione è un processo cognitivo fondamentale nel costituirsi dello stesso; secondo Bruner (1957) essa è definibile come una caratteristica ineludibile dell’esperienza umana, un mezzo necessario per semplificare ed ordinare un mondo troppo complesso per la capacità computazionale del nostro cervello.

Campbell e Tajfel dimostrarono negli anni cinquanta che una conseguenza diretta della categorizzazione è l’accrescimento delle somiglianze intragruppo e delle differenze tra i diversi gruppi, ciò vale sia per stimoli fisici che per individui di diverse categorie sociali. Un’altra conseguenza della categorizzazione, altrettanto importante della precedente, fu dimostrata da Rabbie e Horwitz nel 1969 e da Tajfel et al. nel 1971: la semplice appartenenza ad un gruppo, anche creato a caso e senza alcuna conoscenza reciproca degli appartenenti ad esso, spingeva le persone a considerare le prestazioni dei membri del proprio gruppo superiori ed a favorire quando possibile i membri del proprio gruppo.

Un modo completamente diverso di considerare il pregiudizio è il non vederlo come un fenomeno sociale tra differenti gruppi, bensì come una caratteristica della personalità; il maggior rappresentante di tale filone di ricerca è Adorno, che nel 1950 teorizzò la personalità autoritaria: una personalità sensibile alle idee fasciste e razziste, iperdeferente ed ansiosa verso le figure d’autorità, che vede tutto o bianco o nero, senza sfumature intermedie, incapace o poco disposta a tollerare l’ambiguità in sé o negli altri e apertamente ostile verso chi è diverso e non si conforma.

Adorno e collaboratori teorizzarono l’eziologia di tale carattere in un’ottica freudiana: queste persone erano cresciute in famiglie in cui vigeva una educazione rigida, conservatrice, punitiva e fredda; tali bambini risultavano frustrati nei loro bisogni di autonomia e spontaneità e, non riuscendo ad esprimere la propria rabbia verso i genitori punitivi e terrorizzanti, trovavano più semplice spostare l’aggressività verso altri soggetti considerati come più deboli o inferiori.

Tale ipotesi ha evidenziato parziali riscontri positivi nella ricerca e ha sollevato parecchi dubbi.

Uno dei principali fu espresso da Rokeach nel 1956, il quale riteneva che la teoria e le scale utilizzate per misurare il pregiudizio da Adorno si riferissero esplicitamente ad un razzismo politicamente di destra rivolto alle classi normalmente discriminate negli U.S.A. in quegli anni; egli quindi teorizzò la mentalità chiusa, che, essendo scevra da contenuti, descriveva una forma mentis rigida, resistente alle informazioni contrastanti il suo sistema e facente largo uso del principio di autorità.

Altri autori hanno evidenziato ulteriori elementi alla base del pensiero pregiudiziale, quali la presenza di conflitti di interesse (reali o percepiti) tra gruppi – ben esemplificata da Sherif nei suoi studi sui campi estivi – piuttosto che la necessità di mantenere un’identità sociale positiva – intesa come insieme di aspetti dell’immagine individuale di sé che derivano dalle categorie sociali cui l’individuo sente di appartenere (Tajfel e Turner, 1986).

Oltre alle possibili eziologie, la ricerca, nel corso del tempo, ha preso in esame le modalità di espressione esteriori del pregiudizio, tanto in contesti di laboratorio (Augustinos, Ahrens e Innes, 1994) quanto in contesti di tipo ecologico ( Gaertner e Dovidio, 1986), riscontrando notevoli cambiamenti: se il pregiudizio “vecchio stampo” era caratterizzato da espressioni dirette di odio e intolleranza verso i membri di gruppi stigmatizzati, come cittadini americani di colore o portatori di handicap, quello moderno sembrerebbe invece più sfumato e sostenuto da temi relativi a differenze culturali, conflitti di valori e tradizioni e percezione di vantaggi immeritati ottenuti dagli outgroup in questione a discapito dei membri maggioritari (Pettingrew e Meertens, 1995); l’ansia e il disagio nel contatto reciproco sostituirebbero, inoltre, sentimenti di ostilità e rifiuto più tipici del razzismo classico.

Tale pregiudizio moderno non risulterebbe tuttavia completamente indipendente da quello vecchio stampo: entrambi presenterebbero una certa reciproca correlazione (Sniderman e Tetlock, 1986), recentemente dimostrata in uno studio relativo agli atteggiamenti nei confronti di persone con disabilità intellettiva (Akrami et al., 2006).

L’impressione generale è quella di una certa continuità di fondo del tema pregiudiziale, e di un assottigliamento delle modalità di espressione discriminatoria, fenomeni per i quali è necessario lo sviluppo di strumenti di rilevazione sufficientemente sensibili, nell’ottica dello sviluppo di interventi volti a favorire reciproca conoscenza, empatia e cooperazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Akrami, N., Ekehammar, B., Claesson, M., Sonnander, K. (2006). Classical and modern prejudice: attitudes toward people with intellectual disabilities. Research in Developmental Disabilities, 27 (6): 605-17.
  • Allport G., “La natura del pregiudizio”; 1976, la Nuova Italia.
  • Augustinos, M., Ahrens, C., Innes, M. (1994). Stereotypes and prejudice: The Australian Experience. British Journal of Social Psychology, 33, 125-141.
  • Brown R., “Psicologia sociale del pregiudizio”; 1997, il Mulino.
  • Gaertner, S.L., Dovidio, J.F. (1986). The aversive form of racism. In J.F. Dovidio e S.L. Gaertner ( Eds. ), Prejudice, Discrimination and Racism (pp. 61-89). San Diego: Academic Press.
  • Pettingrew, T.F., Meertens, R.W. (1995). Subtle and blatant prejudice in Western Europe. European Journal of Social Psychology, 25, 57-75.
  • Sherif, M., Harvey, O.J., White, B.J., Hood, W.R., Sherif, C.W. (1961). Intergroup conflict and co-operation: The robber’s cave experiment”. Norman: University of Oklahoma.
  • Sherif, M. e Sherif, C.W. (1953). Groups in harmony and tension: An integration of studies on intergroup relations. New York: Octagon.
  • Sherif, M., White, B.J. & Harvey, O.J. (1955). Status in experimentally produced groups. American Journal of Sociology, 60, 370-379.
  • Sniderman, P.M., Tetlock, P.E. (1986). Symbolic racism: Problems of motive attribution in political analysis. Journal of Social Issues, 42, 129-150.
  • Tajfel, H., Turner, J. (1986). The social identity theory of intergroup behaviour. In S. Worchel e W.G. Austin ( a cura di ), Psychology of Intergroup Relations. Chicago: Nelson.

Bias impliciti: quali interventi? – Psicoeducazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Un nuovo studio – che ha usato l’idea del contest tra ricercatori- mette a confronto diversi interventi per modificare i cosiddetti bias impliciti.

Il Test Implicit Association test (IAT) è un semplice task che è possibile completare online al seguente indirizzo Web Project Implicit.

Il test registra la velocità delle risposte del soggetto cui viene richiesto di selezionare determinati target (volti di diverse etnie) e assegnarli velocemente ad alcune categorie (per esempio buono o cattivo).

Anche le persone che consciamente e consapevolmente rinnegano e ripudiano qualsiasi tipo di pregiudizio possono avere punteggi al test IAT e cioè ad esempio dimostrano una maggiore facilità nell’associare volti bianchi a categorie positive (ad esempio, buono), fenomeno identificato come ‘bias implicito’.

La ricerca rispetto a questo tema è controversa, e ora un nuovo articolo, pubblicato su Journal of Experimental Psychology, riporta i risultati di una sorta di contest che ha voluto coinvolgere diversi riceratori per progettare brevi interventi finalizzati a modificare i bias impliciti degli individui.

I diversi interventi – ben 17!- progettati dai diversi gruppi di ricerca sono stati resi accessibili online e avevano una durata inferiore ai 5 minuti.

Campioni di circa 300-400 persone sono stati randomicamente assegnati a ciascun intervento in modo da poter assicurare un elevato potere statistico nel valutare l’effetto di ciascun mini protocollo di intervento sulla modificazione dei bias impliciti (attraverso appunto i punteggi allo IAT).

Dei 17 interventi testati, nove si sono dimostrati in qualche misura efficaci, mentre 8 assolutamente non influenti sulla modificazione dei bias impliciti: tra questi ad esempio, mini training per migliorare l’empatia, interventi incoraggianti l’assunzione di prospettiva dell’outgroup oppure immaginare interazioni positive tra diversi gruppi etnici sembrano non funzionare.

D’altro canto gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Ci sono però una serie di riflessioni. Primo, lo IAT è dunque considerabile una misura di un fenomeno cognitivo che va al di là dei self-report più espliciti in cui gioca un ruolo più forte la desiderabilità sociale.

In secondo luogo, qual è l’effetto a lungo termine di tali interventi brevi in termini di cambiamento degli atteggiamenti sia nella forma esplicita che implicita.

 

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  • Lai, C.K., Marini, M., Lehr, S.A., Cerruti, C., Shin, J.E., Joy-Gaba, J.A., Ho, A.K., Teachman, B.A., Wojcik, S.P., Koleva, S.P., Frazier, R.S., Heiphetz, L., Chen, E.E., Turner, R.N., Haidt, J., Kesebir, S., Hawkins, C.B., Schaefer, H.S., Rubichi, S., Sartori, G., Dial, C.M., Sriram, N., Banaji, M.R., & Nosek, B.A. (2014). Reducing Implicit Racial Preferences: I. A Comparative Investigation of 17 Interventions. Journal of experimental psychology. General PMID: 24661055

 

PROVA IL TEST:

Senza paura, senza pietà: Diagnosi e Trattamento di adolescenti devianti

 

Senza paura senza pietà di Alfio MaggioliniIl testo, a cura di Alfio Maggiolini e del gruppo di studio de Il Minotauro, si pone come una lettura completa ed esaustiva per la presa in carico, diagnosi e trattamento degli adolescenti che commettono reati o che hanno una condotta cosiddetta “deviante”.

 

La risposta degli adulti ai comportamenti devianti degli adolescenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e/o un atteggiamento repressivo. E’ inoltre difficile per l’operatore (psicologo, educatore etc) fornire un supporto a chi non desidera riceverlo, ossia il ragazzo che si trova inserito nel circuito penale minorile.

Ci si interroga diffusamente su quali possano essere le cause e i fattori che concorrono a tali comportamenti. La risposta del testo è quella di prendere in considerazione non solo il singolo, ma anche gli stili relazionali famigliari e sociali, senza perdere di vista il periodo/percorso evolutivo specifico dell’adolescenza.

 

Una corretta valutazione è la base per un intervento efficace, infatti la violazione delle regole può essere espressione di:

•          una crisi evolutiva fase-specifica;

•          il segnale di un vero e proprio squilibrio mentale (ad esempio un break down psicotico);

•          l’uso/abuso di sostanze;

•          una tendenza antisociale.

 

Gli adolescenti antisociali vanno visti innanzitutto per ciò che sono, ossia adolescenti che faticano a definire la propria identità, in particolar modo quella sociale.

In linea generale l’adolescenza è caratterizzata da comportamenti trasgressivi/aggressivi perché utili per crescere, mettendo in discussione le regole ricevute, nel tentativo di sperimentarsi e conoscersi.

Ciò che distingue gli adolescenti con condotta deviante è, dal punto di vista oggettivo/concreto, che tali comportamenti rappresentano un pericolo per sè e per gli altri.

Molto accento, nel testo, viene posto sul significato che il comportamento al limite riveste a livello comunicativo e metaforico. Spesso, infatti, il reato rappresenta la speranza/illusione che possa farli sentire o apparire adulti (la cosiddetta funzione adultizzante del reato) e protegga dalla frustrazione del non potere o del non riuscire (ancora).

Tali comportamenti, se ripetuti, possono risultare – invece – espressione di una vera e propria tendenza antisociale, che potrebbe cristallizzarsi, a lungo andare, in uno stile di personalità strutturato. Non è ancora possibile, infatti, definire una struttura di personalità stabile nell’adolescente, dal momento che la sua condizione essenziale è, per l’appunto, quella di una personalità in divenire.

Proprio in virtù di un soggetto in crescita e in stretta relazione con il mondo circostante, è di fondamentale importanza porre attenzione al senso soggettivo e comunicativo dell’atto deviante (ad es: cosa significa per quel ragazzo in particolare, con quella storia di vita e quel gruppo di amici aver rubato un motorino? Cosa significa se collochiamo questo reato all’interno del suo cammino evolutivo?). Questo è un passaggio di fondamentale importanza per non rischiare di etichettare un ragazzo, fornendogli una stampella negativa per l’identità, in cui rischia di rimanere incastrato.

 Particolare importanza è rivestita anche dalla cultura di appartenenza: il contesto, infatti, definisce la norma, ciò che è consentito e ciò che non lo è.

Uno dei compiti principali dell’adolescenza è sviluppare e riconoscersi in un ruolo sociale, anche in termini di maschile e femminile. Il comportamento antisociale, dunque, può essere visto come una modalità disfunzionale di acquisire un’identità sociale. I maschi antisociali enfatizzano la forza e la virilità, le femmine, invece, la propria spregiudicatezza sessuale.

 

Approcciando i disturbi antisociali in un’ottica evolutiva, la diagnosi dovrà tenere conto di tre fattori:

–           Comportamento (parte manifesta e visibile);

–           Personalità;

–           Intenzioni.

In tal modo il disturbo manifesto viene messo in relazione con un mondo interno che rimanda ad un processo di sviluppo in essere: a che punto di questo cammino è l’adolescente? Come si relaziona con la separazione dalle figure genitoriali, oppure, a che punto è della propria maturazione sessuale?

Bisogna inoltre interrelare anche le intenzioni (in termini di sviluppo), mezzi e risultati che ottiene l’adolescente con le proprie azioni. Il comportamento deviante può essere un mezzo alternativo per ottenere un risultato che stenta ad arrivare, una scorciatoia disfunzionale.

Non bisogna dimenticare, infine, l’importanza del terzo sociale, che nella valutazione di un adolescente con condotte devianti può essere particolarmente rilevante. Una volta compiuto il reato, infatti, l’adolescente dovrà affrontare un percorso non semplice di indagine e di valutazione, che può arrivare ad esporlo anche a livello mediatico. Senza scomodare televisioni o casi eclatanti, i ragazzi devianti debuttano in società con un marchio, un’etichetta che rischia – come detto- di poter essere difficilmente lavata via.

Quello che, in conclusione, è chiamato a fare l’operatore che si occupa di adolescenti di questo tipo, è capire le motivazioni sottostanti e soprattutto, in termini prognostici, comprendere che genere di progetto può essere funzionale al ragazzo (messa alla prova? Detenzione?).

Un peso e una valutazione non da poco, che questo bel testo cerca di rendere più chiaro possibile.

 

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  • Maggiolini, A. (2014). Senza paura, senza pietà. Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE

In rete o nella rete? Accompagnare gli adolescenti ad un uso responsabile di internet

 

 

giovani e internet © contrastwerkstatt - Fotolia.comRisulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

Internet risulta oggi il principale mezzo di comunicazione di massa, nelle vite sia degli adulti che dei ragazzi. L’avvento di internet e il suo utilizzo, che al giorno d’oggi spazia dall’ambito lavorativo a quello scolastico per arrivare a quello ludico-ricreativo, rappresenta una delle principali rivoluzioni dal punto di vista delle comunicazioni e quindi delle relazioni umane, costituendo una importante sfida dal punto di vista educativo nella relazione tra adulti e adolescenti.

Dal momento che comunicare è sempre e da sempre un bisogno essenziale degli esseri umani, anche i mezzi e i modi attraverso cui le persone intraprendono, costruiscono e mantengono scambi comunicativi si evolvono nel tempo.

Le comunicazioni mediate da internet hanno definitivamente interrotto la dicotomia tra comunicazione scritta e comunicazione orale, consentendo scambi interattivi scritti ma al tempo stesso diretti ed immediati come quelli orali, come avviene tramite chat, post sui social network, e-mail e messaggistica istantanea. Si tende quindi a parlare di oralità scritta (Pozzi e Toscani, 2008), intendendo una forma di comunicazione, rivoluzionaria e innovativa, che abbraccia contemporaneamente la struttura della comunicazione scritta e l’immediatezza della comunicazione orale, costruendo quindi nuovi linguaggi, nuove grammatiche e nuovi codici di comunicazione tra persone.

Un’altra essenziale trasformazione che internet ha portato nelle vite delle persone, è che, per la prima volta nella storia dell’uomo, le nuove generazioni padroneggiano questi strumenti e linguaggi con esperienza maggiore rispetto alle generazioni che le hanno precedute. Dal punto di vista educativo e pedagogico, questo dato di fatto rappresenta un’enorme e difficile sfida da affrontare, in quanto i nativi digitali (Prensky, 2001) sono ritenuti madrelingua dei linguaggi virtuali e multimediali mentre gli adulti risultano “immigrati digitali”, con lacune di apprendimento e di trasmissione dei codici stessi.

Emerge in modo sempre più evidente un gap generazionale e, soprattutto nei due contesti educativi per eccellenza (scuola e famiglia), si osserva la convivenza di più generazioni culturali, nate e cresciute con strumenti e linguaggi di comunicazione diversi, spesso in difficoltà nel costruire e condividere valori, norme, regole e identità.

Rimane quindi da chiedersi e, soprattutto, invitare gli adolescenti a chiedersi: quali sono le reali opportunità e punti di forza delle nuove tecnologie? Quali sono invece i rischi e le criticità di questi strumenti?

Se, da una parte gli adolescenti sono abbastanza sicuri nell’evidenziare le potenzialità della rete (divertimento, approfondimento di interessi e passioni, sviluppo della conoscenza e della creatività, contatto diretto e immediato con i pari, facilità e immediatezza dell’utilizzo), dall’altra appaiono spesso carenti di informazioni, ma soprattutto di consapevolezze, in merito alle criticità e ai rischi oggettivi (Couyoumdjian et al., 2006; Lancini, 2009).:

  • In rete, infatti, viene messo a rischio il contatto con Sé stessi, in quanto la dimensione corporea e del “faccia a faccia” è negata, mettendo a rischio le capacità e le competenze socio-relazionali dei ragazzi;
  • Inoltre, gli adolescenti vivono una forte pressione, da parte dei pari ma anche più in generale dalla società dei consumi (Bauman, 1999) all’omologazione e al possesso di strumenti sempre nuovi con ricadute importanti a livello della stima di Sé; spesso, e questi gli adolescenti lo riconoscono apertamente, si prova una forte fatica a tollerare la frustrazione di non avere il cellulare o la consolle uguale a quella dei compagni oppure di non ricevere in maniera immediata risposte a messaggi e chat.
  • Infine, l’utilizzo della rete da parte degli adolescenti manca di controllo, che, quando non può arrivare dall’interno, deve o dovrebbe giungere dall’esterno, da parte degli adulti di riferimento. E’ proprio nel mondo fluido, immenso e incontrollabile della rete che spesso gli adolescenti entrano in contatto con contenuti non adeguati alla loro giovane e fragile età, oppure, approfittando dello schermo del pc, che è al tempo stesso protezione e maschera, attivano modalità di comunicazione aggressive, denigratorie o prepotenti nei confronti dei pari.

Risulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

E’ essenziale avvicinare gli adolescenti al concetto di intimità, un valore importante che ci riporta alla consapevolezza della riservatezza di alcune informazioni private e personali per le quali è necessario un atteggiamento di grande attenzione e protezione, in quanto una volta immesse nell’universo virtuale non è più possibile cancellarle né avere pieno controllo del loro utilizzo da parte di altri utenti (Rivoltella, 2001).

E’ importante quindi ricordare alcuni semplici ma essenziali consigli di buona navigazione agli adolescenti (e anche agli adulti):

  • Mai comunicare o condividere informazioni personali, password oppure dettagli relativi alla propria famiglia e alla propria residenza;
  • Prestare attenzione alle impostazioni di privacy dei social network, dei blog e dei servizi di chat;
  • Ricordare che virtuale non fa rima con legale; alcuni comportamenti sono scorretti, per non dire illegali, offline così come online e non devono quindi essere messi in atto. L’atteggiamento di correttezza e rispetto favorisce un utilizzo responsabile della rete e una consapevolezza della propria cybercittadinanza;
  • Coltivare interessi paralleli, affiancando alle nuove tecnologie, gli interessi e le passioni fuori dalla rete;
  • Ricordare l’importanza della comunicazione interpersonale e del “faccia a faccia”, sia nei rapporti alla pari che nella relazione con gli adulti;

Richiedere l’ascolto e il sostegno da parte degli adulti non solo per tutelare la propria immagine e riservatezza sulla rete, ma anche e soprattutto per avere maggiori strumenti di gestione delle emozioni e legate all’uso delle tecnologie.

 

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Adolescenti internet 300 - Immagine:  © Romario Ien - Fotolia.comI ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

I miei amici, ormai tutti –ahimè- abbondantemente oltre gli anta, e quelli che incontro per motivi professionali, dichiarano, spesso, la loro impotenza nei confronti di figli che sembrano preferire l’hashtag all’associazione in parrocchia, la Play al calcetto, What’s app alla chiacchiera da bar.

E attribuiscono il disimpegno e il menefreghismo dei ragazzi (tutti: preadolescenti, adolescenti e giovani adulti), e la scarsa comunicazione tra loro e con gli adulti, soprattutto alla massiva frequentazione degli ambienti virtuali delineati da internet e dintorni.

Di primo acchitto sembra uno di quei moralistici mantra generazionali che hanno riguardato di volta in volta la musica rock, i jeans, la rivoluzione sessuale, i manga giapponesi…

Ma, cercando di scremare il bambino dall’acqua sporca, devo prendere per buone alcune percezioni relative a questi tempi complessi. Vedo anch’io adolescenti e giovani adulti isolati, evitanti rispetto alle difficoltà,  che non fanno sport, disinteressati alla politica, con ridotti consumi culturali –anche in presenza di lauree e master-, esibita crassa ignoranza per la storia del proprio paese.

Talvolta percepisco un vivere povero, di superficie, scarsamente impegnato e partecipato, privo di orizzonti che eccedano di un po’ il proprio ombelico… “Sono gli sdraiati, i figli adolescenti, i figli già ragazzi” (Serra, 2013). Per fortuna è una bieca generalizzazione, ma dando questa tendenza per vera, il colpevole è internet?

Butto lì due dati.

Primo. Le nuove generazioni, anche quelle del passato, non sono specializzate in innovazioni e salti in avanti, ma sono sismografi molto sensibili dell’esistente: colgono cioè quello che viene loro consegnato e anticipano le tendenze.

Secondo. I valori e le etiche non sono in contrasto ma, di solito, abbastanza in continuità con quelle del contesto (Meeus e Crocetti, 2009).

Dando per buoni questi dati, i valori e i comportamenti dei nostri figli sono una reinterpretazione di roba che è già nel mondo adulto e precorre il domani. E d’altra parte, se le tendenze sono quelle figurate nei nostri reality, Homer Simpson è alla porta. Il mondo adulto non è migliore di quello giovanile. Anzi.

John Medina (Medina, 2010) spiazzava i genitori che andavano da lui per lamentare le difficoltà dei figli chiedendo il report personale degli amici frequentati e degli scambi di visite, della frequenza ad associazioni e gruppi di volontariato, di hobby e sport. Come dire: i ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

E i nuovi media, come il televisore per gli anziani, sono, contemporaneamente, straordinarie opportunità di incontro e conoscenza, e facili riempitivi di vuoti; sostituti virtuali di comunità  inesistenti –o distratte-. Inutile lamentarsene: il nostro è un mondo bello, pieno di opportunità e potenzialità. Ma anche, e questo vale per qualunque età, competitivo, difficile, mutevole, con scarsa trasmissione di valori strutturati, con comunità frammentate e fluide…  Con proposte educative e modelli adulti  non sempre all’altezza della complessità e velocità delle nostre società, specie di quelle proprie del mondo occidentale.

Sommessamente: se vogliamo giovani impegnati e combattivi, ricchi di amore per la bellezza, rispettosi dei valori relazionali e comunitari, coltiviamo in tal senso le nostre esistenze adulte. Vivremo meglio e i ragazzi -forse- ci seguiranno.

 

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AUTORE: 

Giacomo De Caterina. Medico chirurgo, iscritto all’Ordine dei medici di Napoli n.22027. Psichiatra; Psicoterapeuta. Specialista in neurologia; Master in Disturbi del comportamento alimentare

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