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Psicoterapia Metacognitiva: efficace per ansia e depressione – Meta-analisi

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy, MCT) è un recente approccio psicoterapeutico che considera i disturbi psicologici come il risultato di uno stile di pensiero rigido che può ostacolare la naturale regolazione emotiva e rendere ansia e depressioni pervasive, intense e durature. Questo stile di pensiero consiste in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e comportamenti di gestione della sofferenza controproducenti.

La MCT ha sviluppato tecniche e protocolli di intervento per i Disturbi d’Ansia e la Depressione. La teoria e la terapia hanno avuto nel corso degli anni numerosi supporti scientifici di validità ed efficacia. Solo recentemente è stata pubblicata la prima meta-analisi che raccoglie tutti gli studi di efficacia della MCT anche confrontata con altre terapie come quella cognitivo-comportamentale.

Pur essendo solo all’inizio di questo lungo confronto è la prima volta che viene mostrata su un ampio insieme di studi la superiorità di una terapia su interventi cognitivo-comportamentali per disturbi d’ansia e depressione.

I punti forti di questo articolo sono: (1) gli autori sono indipendenti (l’analisi non è stata effettuata dagli autori della terapia), (2) le analisi sono state fatte sui dati originali, (3) sono stati inseriti tutti gli studi registrati anche quelli mai pubblicati.

On primary outcome measures the aggregate within-group pre- to posttreatment and pretreatment to follow-up effect sizes for MCT were large (Hedges’ g = 2.00 and 1.65, respectively). Within-group pre- to posttreatment changes in metacognitions were also large (Hedges’ g = 1.18) and maintained at follow-up (Hedges’ g = 1.31). Across the controlled trials, MCT was significantly more effective than both waitlist control groups (between-group Hedges’ g = 1.81) as well as cognitive behavior therapy (CBT; between-group Hedges’ g = 0.97).

 

THE EFFICACY OF METACOGNITIVE THERAPY FOR ANXIETY AND DEPRESSION: A META-ANALYTIC REVIEWConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Article first published online: 22 APR 2014 (…)

 

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Otto Kernberg: Amore e Aggressività tra Psicoanalisi e Ricerca empirica

Emanuele Preti

 

 

Amore e aggressività - Otto KernbergIn quest’ultimo volume, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui.

Amore e aggressività: Prospettive cliniche e teoriche, edito da Fioriti nel 2013, raccoglie alcuni dei contributi prodotti da O. Kernberg negli ultimi dieci anni.

Presentare O. Kernberg al pubblico italiano è un compito superfluo. Da diversi decenni, infatti, le sue opere sono un elemento imprescindibile in qualsiasi biblioteca di psicologi, psichiatri e psicoterapeuti.

In quest’ultimo volume, tuttavia, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui:

Questo volume raccoglie il mio lavoro degli ultimi anni con pazienti affetti da gravi disturbi di personalità, coppie in situazioni di conflitto e nell’ambito della ricerca e della formazione psicoanalitica. Tale contributo è stato sensibilmente influenzato dall’attività di ricerca e dal lavoro clinico del Personality Disorders Insitute presso il Weill Cornell Medical College (Westchester Division) del New York Presbyterian Hospital e riflette lo strenuo sforzo di abbattere i confini tra l’approccio psicoanalitico, la clinica psichiatrica e la neurobiologia.

(Kernberg, 2013, p VII)

“Abbattere i confini” richiede una visione laica degli accadimenti psichici normali e patologici. Appare evidente, via via che ci si addentra nei tanti e diversi temi trattati dai lavori raccolti nel volume, come tale visione sia il frutto di due caratteristiche che, a mio avviso, costituiscono l’unicità e la forza dell’approccio di Otto Kernberg. La prima, ovvia, è costituita dalla serietà e dallo spessore con cui l’autore si è sempre mosso all’interno della Teoria psicoanalitica, contribuendo in modo sostanziale alla sua sistematizzazione e aprendo, con la sua declinazione della teoria delle relazioni oggettuali, alla possibilità di navigare in acque nuove.

Il secondo aspetto caratterizzante è quello dell’apertura sincera e sistematica al confronto con la ricerca empirica. Visitando il Personality Disorders Institute della Cornell University e il Personality Studies Institute di Madison Avenue (New York) il livello di confronto tra gli aspetti teorico-clinici e quelli legati alla continua messa alla prova empirica dei modelli e dei presupposti teorici e tecnici appare evidente nei continui scambi tra i diversi componenti del gruppo (tra gli altri, John Clarkin, Frank Yeomans, Michael Stone).

E’ a partire da questi fili conduttori che si dipana la trattazione di temi di scottante interesse.

Il nucleo clinico del volume ruota attorno alla patologia dell’identità. A partire da questa pietra miliare, Kernberg approfondisce la clinica del paziente narcisista e, più in generale, riprende e approfondisce alcuni aspetti teorici e tecnici della Transference-Focused Psychotherapy.

Particolarmente interessante è, ad esempio, il tentativo di tracciare delle linee di demarcazione e dei confini chiari tra i concetti di mentalizzazione, mindfulness, insight, empatia e interpretazione. Kernberg dedica poi uno spazio particolare alla sessualità e alle “limitazioni alla capacità di amare” caratteristiche dell’area borderline.

Il capitolo che meglio rappresenta la tendenza all’apertura della teoria psicoanalitica ad altri campi e metodi di indagine è quello che affronta, passando in rassegna le più recenti linee di ricerca, il rapporto tra affetti intesi dal punto di vista psicoanalitico e aspetti neurobiologici.

Chiudono il volume alcuni contributi legati ad aspetti che potrebbero essere considerati marginali, ma che rappresentano probabilmente alcune tra le sfide più rilevanti nella società contemporanea: il tema della formazione in psicoanalisi e quello della religione.

Kernberg, past president dell’International Psychoanalytical Association dal 1997 al 2001, propone un’analisi attenta e critica delle difficoltà relative alla formazione psicoanalitica e alle dinamiche istituzionali degli istituti di formazione. La religione è infine trattata dall’autore sia nei suoi aspetti di costruzione socio-culturale che in relazione alla capacità di trascendere dal dominio interno delle relazioni oggettuali nella formazione di un’esperienza spirituale.

 

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I pensieri ingarbugliati

 

Pensieri ingarbugliati - Vignetta - Immagine: © Costanza Prinetti 2014 - 624
I pensieri ingarbugliati – Immagine: © Costanza Prinetti 2014

 

GLI ARTICOLI ILLUSTRATI DA COSTANZA PRINETTI

 

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internet & whatsapp -  Immagine: © fotomek - Fotolia.comIl presente supera in velocità la nostra capacità di comprenderlo e questo è evidente per chi cerca di ragionare sulle modalità dell’ agire e dell’interagire nell’epoca post moderna,  soprattutto sul nostro divenire rispetto a spazi che si chiudono o si aprono nelle nuove tecnologie.

Da sempre, lo studio e la cura dei disturbi psicopatologici si sono occupati a fondo dell’incontro dialogico e del modo di entrare o di non entrare, in relazione con l’ altro. La crisi della comunicazione si evidenzia ormai ovunque, dentro e fuori lo spazio clinico e secondo Eugenio Borgna per approfondirla occorre affrontare “temi come quelli del silenzio e del dialogo, intesi come modalità di comunicazione, non solo linguistiche ma esistenziali”. Continua scrivendo: “Nel franare della comunicazione cambiano fatalmente l’immagine e la fisionomia del silenzio e del dialogo”.

Riporto questa citazione al tema della comunicazione, linguistica ed esistenziale, per porre un interrogativo su come sono cambiate le nostre vite da quando computer e telefonini sono diventati oggetti centrali e irrinunciabili.

Il fenomeno di questa diffusione è ambivalente, perchè si è integrato nelle abitudini socialmente predominanti, estendendosi a tutte le fasce della popolazione in un modo così rapido che risulta complesso già fin da ora prevederne gli effetti futuri.

In un breve lasso di tempo, infatti, l’avvento degli smartphone ha incrementato l’ uso d’ innumerevoli dispositivi con relative funzioni, fino a travalicare il confine netto che separa il passatempo dalla dipendenza: basta pensare al tempo che ciascuno di noi impiega su piccole e grandi piattaforme di social network.

Le ultime ricerche affermano che, indipendentemente dai vantaggi prodotti, trascorrere troppo tempo a contatto con il proprio telefono può portare ansia e paura, piccole e grandi alterazioni dell’umore che vengono indicate con il termine di nomophobia  (abbreviazione della frase non-mobile-phone fobia).

Sebbene apparentemente inappropriato, la denominazione “fobia” descrive al meglio la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo. Solo riconoscendo il vissuto relativo alla separazione da un oggetto che custodisce un mondo emozionale di desideri e sentimenti è possibile intravedere le forme ansiose tipiche di ogni separazione. Allenandoci a riconoscere quando la tendenza al controllo della comunicazione diventa controllo della relazione, possiamo aiutare le persone a vedere la pericolosità  dell’ imperativo che le costringe  a raggiungere in ogni momento e in ogni momento  ad essere raggiunte.

Una delle caratteristiche della nomofobia, ad esempio, è proprio quella sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili. Si accompagna a questo la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo, anche quelli più intimi come il bagno, la camera da letto o lo spazio di una seduta in terapia.

Senza entrare nell’area dei disturbi del comportamento presenti nelle dipendenze, il controllo eccessivo sull’oggetto telefono porterebbe così ad instabilità dell’ umore, aggressività e, non ultima,  difficoltà nella concentrazione, con maggiore vulnerabilità per i giovani.  Nella quinta e ultima edizione del DSM, le diagnosi di abuso da sostanze e dipendenza hanno ceduto il posto alla nuova categoria dipendenze e disturbi correlati; fra le dipendenze comportamentali è stato richiesto l’inserimento dell’Internet Addiction Disorder (IAD), condizione caratterizzata da un forte desiderio di connettersi al Web, con un tempo trascorso on line tale da compromettere la propria vita reale. Pur non avendo dati sufficienti per rendere ufficiale tale inserimento, questa diagnosi è stata inserita in appendice, con lo scopo di promuovere studi sull’argomento; è auspicabile raccogliere dati interessanti su nuovi e importanti fenomeni, sia normali che patologici.

Noi, dal canto nostro, possiamo osservare il fenomeno ed essere pronti a riconoscere da un lato la pericolosità di una dipendenza, dall’ altro il valore di un dialogo anche virtuale, se questo consente di uscire dal silenzio di una solitudine altrimenti incolmabile.

 

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In che modo l’autoritarismo dei genitori influenza la personalità dei figli?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il termine “autoritarismo” è usato nelle scienze sociali in rapporto a tre tipi di fenomeni: personalità, ideologie e regimi.

Per quanto riguarda la personalità autoritaria, il punto di riferimento fondamentale per ogni ulteriore riflessione è costituito dalla ricerca curata da Th.W. Adorno per la Scuola di Francoforte (1950).  Secondo i risultati i tratti della personalità autoritaria sono essenzialmente la sottomissione e l’aggressione, la ricerca esasperata dell’ordine e il rifiuto dell’ambiguità.

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il ricercatore di scienze sociali Michal Reifen Tagar dell’Università del Minnesota ha ipotizzato che tali differenze interindividuali nei livelli di autoritarismo emergano già nella prima infanzia. Tagar e colleghi hanno condotto 40 bambini di 3 e 4 anni di età all’interno del loro laboratorio e hanno mostrato loro dei video in cui degli adulti erano ripresi durante un compito di denominazione di oggetti. Un video mostrava un adulto intento ad utilizzare il nome convenzionalmente associato all’oggetto (“shoe” quando veniva presentata una scarpa, ad esempio); un altro video, invece, mostrava un altro adulto che utilizzava un’etichetta verbale insolita (“ball”). Un’ulteriore tipologia di video, poi, mostrava un soggetto intento a dare un’alternanza di risposte convenzionali e non convenzionali. Ai bambini venne successivamente mostrata un’altra serie di video in cui i soggetti introducevano e denominavano degli oggetti completamente nuovi.

Lo scopo degli autori era quello di valutare il livello di fiducia dei bambini in queste nuove denominazioni, sulla base dei video visti in precedenza.

I risultati hanno mostrato come essi riponessero maggiore fiducia verso l’adulto che nella prima serie di video aveva fornito una risposta convenzionale. Tale risultato sembrerebbe prevedibile, ma ad un’attenta analisi emerse un ulteriore fattore: il soggetto che aveva fornito risposte usuali aveva maggiore presa proprio sui bambini con genitori molto autoritari o socialmente conformisti, i quali, inoltre, riponevano maggiore fiducia nell’adulto che dava risposte ambigue rispetto ai compagni.

Come spiegare tale osservazione, apparentemente in contrasto con gli altri risultati? Gli autori suggeriscono che la scelta di tale sottogruppo di bambini potesse essere dettata dal fatto che il soggetto osservato nei video era un adulto e, come tale, degno di fiducia, indipendentemente dalla coerenza delle sue risposte.

In accordo con Tagar e collaboratori, tali risultati rivelerebbero un’emergente manifestazione di autoritarismo già in tenera età e tale tendenza sarebbe predetta dalle caratteristiche psicologiche dei genitori.

Non sarebbe ancora completamente chiaro, però, se in tale influenza giochino un ruolo maggiore i fattori genetici, la socializzazione o entrambi.

 

 

 

 

 

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BIBLIOGRAFIA

The Fascinating World of Executive Functions

Elena Lo Sterzo

 

 

The Fascinating World of Executive Functions Executive function is an umbrella term, referring to those high-level processes that control and organise other mental processes, that facilitate new ways of behaving and optimise one’s approach to unfamiliar circumstances.

Years of observation at behavioural performances of patients with different type of lesions at frontal lobe, along with investigations with neuroimaging techniques, have led to confidently hypothesize that these processes are supported by structures within the frontal lobes on the brain.

Most theories of executive function are based on a distinction between automatic and controlled processing. Routine processing refers to mental operations that are overlearned, such as reading out a word. On the other hand, non-routine processing most commonly refers to mental operations that are used in situations when there is not a well-established stimulus-response association, or where a behavioural impasse occurred.

Flexible representations of goals and intentions are at an abstract level of processing. Such higher-level representations are often contrasted with lower-level cognitive processes involved in analysing specific perceptual inputs and generating specific motor outputs.

According to most theories, executive function involves the modulation of lower-level processes by those at a higher level, allowing us to behave flexibly, rather than being slaves to our environment. The executive system has been traditionally quite hard to define, since there is no single behaviour that can in itself be tied to executive function (or indeed executive dysfunction).

One of the most influential framework for understanding executive functions has been offered by Norman and Shallice (1986): they proposed that behaviour is governed by sets of thought or action schemas (a set of actions or cognitions that became very closely associated through practice.)

These schemas can be triggered by events in one’s environment and can be sufficient to behave appropriately in routine situations involving well-learned links between particular events in our environment and particular ways of behaving. However, in situations involving novelty or where well-learned responses need to be inhibited, environmental triggering is insufficient and a second system is required to modulate the activity level of schemas. Norman and Shallice called this the supervisory system and suggested that it is supported by the frontal lobes of the brain.

Another theoretical model for understanding executive functions has been put forward by Duncan (2001): according to its adaptive coding model, the prefrontal cortex (PFC) has a remarkable ability to adapt its function to the current task, thus PFC is viewed as “global workspace” that, rather than multiple executive processes, can adapt to many different cognitive operations.

Determining the relative contributions of different frontal subregions to different executive functions is a highly complex matter, but on current evidences, some suggestions can be put forward. Ventrolateral PFC (VLPFC) is thought to be involved in comparatively simple tasks, such as short-term maintenance of information that cannot currently be perceived in working memory. By contrast, dorsolateral PFC (DLPFC) has been most commonly implicated in manipulating that information. DLPFC has also been suggested to be involved in complex functions such as making plans for the future.

The largest and most mysterious, sub-region of prefrontal cortex is the rostral PFC (RPFC): patients with damage restricted to the RPFC often perform well on standard neuropsychological tests, including classical tests of executive function such as the Wisconsin card sorting test (Grant & Berg, 1948). Instead, patients with damage to this region seem to have particular difficulties in real-world multitasking situations (e.g. Multiple errands test, Shallice & Burgess, 1991), such as organizing a shopping trip when there are few strict constraints but also multiple instructions to be remembered, and potential distractions in the environment.

Recent accounts have focused on the role of RPFC in the most high-level human abilities, such as combining two distinct cognitive operations in order to perform a single task, trying to work out what other people are thinking (mentalizing), and reflecting on information we retrieve from long-term memory (source memory).

Interestingly, the gateway hypothesis proposed by Burgess et al. (2005) claims that RPFC is involved in modulating the attentional balance between stimulus-oriented and stimulus-independent information (i.e. information that we perceive in our environment and information that we represent internally).

Finally, although we now have a much greater understanding of the ways in which executive functions can be split into various discrete processes, and the ways in which PFC can be split into functionally discrete subregions, further researches are needed in order to deepen the functions of prefrontal cortex in explicit computational terms: not just knowing that a particular region of PFC supports a particular ability, but also clarifying how it happens.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Genitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

 

Genitori in pratica.

Manuale di primo soccorso psicologico

per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

di Roberta Mariotti e Laura Pettenò

Edizione Erickson

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Genitori in praticaGenitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani: la relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino.

Care mamme e cari papà,

dopo aver trascorso l’ennesima notte insonne dico che fare il genitore è faticoso, impegnativo e a tratti demoralizzante, ma è una delle esperienze più belle della vita! Sono certa che molti di voi condividono questo punto di vista, malgrado gli stenti giornalieri fiaccano l’animo e il fisico.

Allora, ecco il libro che fa per noi: “Genitori in pratica” di Roberta Mariotti, Laura Pettenò, Edizione Erickson. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

La relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino. A volte si è complici dei propri pargoli, altre volte guide, altre ancora fermi sui propri principi. Quanto è difficile tutto questo! Come è complicato metterlo in pratica e soprattutto come è faticoso capire quando è il caso di comportarsi in un modo piuttosto che nell’altro! Il cambiamento di rotta, l’aggiustamento richiesto dai diversi eventi che si presentano durante la vita, richiedono sistemazioni in itinere nel modo di rapportarsi ai figli, poiché rimanere fermi sulle proprie convinzioni, spesso, porta a effetti negativi. Fondamentale e indispensabile, in questo caso, è la capacità di adattamento che vira dal prendersi cura dei figli, nei primi anni di vita, al renderli autonomi durante l’adolescenza. Ma tutto questo iter è una corsa a ostacoli, caratterizzata da molti intoppi e problemi da arginare e risolvere.

Per riuscire a trovare una soluzione alle difficoltà presentate dalla prole il presupposto, o meglio, la prerogativa richiesta ai genitori è di essere flessibili, che non significa assecondare tutti i comportamenti del bambino, ma nel sapersi modificare in relazione alle difficoltà presentate, cogliere prospettive diverse dalle proprie e adattarsi alle circostanze. 

E’ necessario, dunque, conoscere come “funziona il problema“, dove, come e quando nasce,  per poterlo spiegare al proprio figlio e trovare una soluzione allo stesso. Ed ecco presentate le quattro trappole mentali, comunicative, relazionale e comportamentali, nelle quali i genitori possono cadere quando i figli si trovano ad affrontare una situazione complicata:

 

1. difficoltà di messa a fuoco del problema e della situazione in cui si manifesta. Mettere a fuoco la soluzione al problema e non solo la sua causa porta il genitore a identificare una spiegazione all’evento sia in termini di pensieri sia di comportamenti.

2. reciproca influenza; la dinamica relazione che si presenta tra genitore figlio influenza il modo di comportarsi. Quindi, in alcuni casi è necessario entrare nel merito della relazione e modificarla.

3. convinzione che il nostro pensiero sia l’esatta rappresentazione della realtà; spesso non ci rendiamo conto che il pensiero si basa su convinzioni personali derivanti da esperienze precedenti, ma non sempre sovrapponibili alla realtà e che, tante volte, portano ad amplificare i comportamenti disadattivi del bambino. Quindi un cambio di rotta, con messa in discussione delle proprie credenze/convinzioni giova alla relazione.

4. abitudine a ripetere ciò che conosciamo, perché è più economico per la nostra mente, ma non sempre funziona. In questo caso si rinuncia a costruire una soluzione nuova e più efficacie alla situazione adducendo anche, in alcuni casi, a un peggioramento della stessa.

In aggiunta, sono largamente enucleate le trappole derivante da una cattiva gestione delle emozioni sia positive sia negative.

Con un linguaggio semplice e diretto e con il racconto di numerose testimonianze tratte dalla pratica clinica delle autrici, questo manuale suggerisce strategie e soluzioni per rendere i genitori inclini a risolvere i problemi presentati dai propri figli. Si tratta di facile strategie ed euristiche di pensiero utili per dialogare, sostenere e supportare i propri figli nel raggiungimento degli obiettivi quotidiani, grandi o piccoli che siano, insegnando il senso della vittoria e della sconfitta.

Per concludere, quello che spesso noi genitori facciamo è di farci influenzare dai nostri stessi pensieri senza metterli in discussione e senza pensare minimamente che possono essere modificati in relazione alla situazione attuale. La soluzione a tutto questo consiste nell’individuazione e contestualizzazione del problema, nello stabilire un obiettivo da raggiungere in relazione al problema, nell’ eliminazione della soluzione che non sortisce l’effetto voluto e nella creazione di nuove strategie funzionali alla situazione verificatasi.

Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto (Vincent  van Gogh).

 

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La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

Anche i giovani padri sarebbero a rischio di un significativo aumento di sintomi depressivi in co-occorrenza del cambiamento del loro ruolo familiare.

Uno studio longitudinale recentemente pubblicato sulla rivista Pediatrics lo riporta e sottolinea la necessità di guardare criticamente all’emergenza di tale fenomeno con adeguati e tempestivi interventi di screening e monitoraggio per poi rispondere al bisogno dei giovani padri.

Secondo i dati dello studio (che ha coinvolto un campione di padri americani diventati genitori per la prima volta nella fascia di età dai 24 ai 32 anni e che vivevano in casa con i figli), i sintomi depressivi aumentavano mediamente del 68% durante i primi cinque anni di paternità (da sottolineare che ciò non significa che si debba poi necessariamente sviluppare un conclamato episodio depressivo maggiore o disturbo dell’umore – aspetto non considerato dallo studio che utilizzando questionari self-report e non colloqui clinici/SCID-I).

La ricerca ha utilizzato dati raccolti da 10.623 giovani uomini coninvolti nello studio National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health) monitorati e valutati durante l’adolescenza fino alla transizione nell’età adulta; in particolare sono state utilizzate come misure di outcome una batteria di scale per la valutazione della depressione con riferimento al Center for Epidemiologic Studies Depression Scale.

E’ interessante notare che lo studio mette in evidenza che sono proprio i giovani padri che vivono in casa insieme ai figli a sviluppare un aumento dei sintomi depressivi nei primi cinque anni di paternità; va sottolineato che coloro che invece non vivevano quotidianamente nella stessa casa con i figli presentavano maggiori sintomi depressivi prima della nascita del figlio che invece iniziano a diminuire durante gli anni della paternità ( da riconoscere che tale sottocampione è però minore in termini di numerosità rispetto al campione di padri che convivono con i loro figli).

La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui piccoli figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

 

 

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Un Alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera – CIM Nr.09 Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #09

Non vorrei rapporti con me stesso

 

 

– Leggi l’introduzione –

Non voglio rapporti con me stesso. - Immagine: ©-rolffimages-Fotolia.comAl CIM su ogni paziente grave si concentrano gli sforzi di molti operatori, anche se fatalmente è uno ad essere il principale care giver, colui che tiene in mente il paziente e le fila dei vari interventi per scongiurare la confusione.

Pur non essendo la prima ad averlo visto, la curatrice di Paolo era indubbiamente la dottoressa Maria Filata, la psicologa che più amava addentrarsi nei rompicapi dei casi più gravi, quella che veniva chiamata quando gli altri sentenziavano che non c’era nulla da fare se non i farmaci.

Lei non ci voleva stare che i suoi quindici anni di studi psicologici dovessero solo servire ad aumentare la compliance del paziente alla terapia farmacologica.

Paolo è un ragazzo (a lungo si chiederà perché lo percepisce come ragazzo,  considerato che a quell’età lei aveva due figli, ma tanto basterà a farle attivare l’accudimento) di trent’anni, con almeno 15 kg di troppo, vestito da prima comunione, capelli neri lisci ordinati con una riga a sinistra che Maria credeva estinta da almeno due generazioni, occhi sorpresi a scrutare un mondo che lo confonde, sorriso cordiale, simpatico.

Gli è stato inviato dal Dr. Irati che gli ha prescritto neurolettici a basso dosaggio.

Sa cosa sia una psicoterapia ed è molto motivato a capire cosa gli stia capitando.

Dice di sentirsi perfettamente rappresentato da una canzone di Battiato che parla di “un alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera”.

Se non si fosse trovato di fronte la dottoressa Filata, che diffida delle categorie diagnostiche, sarebbe bastata questa citazione per ritrovarsi rinchiuso nel recinto degli evitanti. Dice di essere confuso e disorientato, la mente è avvolta da ovatta che la protegge dagli urti, ma la ottunde. Tra lui e gli altri un velo, un vetro, insomma una insuperabile separazione. Estraneo agli altri, anche da solo non sta in buona compagnia, ha l’angosciante sensazione di un andirivieni della consapevolezza, ripetuti black out dell’attenzione rendono frammentato il colloquio e spesso gli altri si spazientiscono per il suo esserci e andarsene.

Non certo Maria Filata che, anzi, è già conquistata dal ragazzo trentenne smarritosi nel mondo.

Nelle assenze è tormentato da tic complessi. Il principio aristotelico di non contraddizione non lo riguarda, a distanza di pochi minuti ribalta precedenti affermazioni e non mostra di avvedersene.

Personalità multipla? Deficit cognitivo? A distanza di poco, però, è capace di insight meritori della psicoanalisi viennese di inizio novecento.

In uno di questi momenti di lucidità introspettiva propone la sua spiegazione patogenetica, riferendosi a due episodi all’origine di tutto verificatisi sette anni prima.

Il primo episodio lo vede tradire il suo migliore amico mettendosi di nascosto con la sua ragazza. Sussiste anche l’aggravante dei futili motivi perché non era tanto interessato a lei ma, soprattutto voleva liberarsi di un’ ingombrante vergognosa verginità (a Maria non sembra un motivo futile ma tiene per sé il commento).

Nel secondo episodio abbandona il suo cane, che aveva fortemente voluto, in campagna da parenti della madre.

Di nuovo il demonietto diagnostico si fa avanti, il  tema ridondante è quello del tradimento e della colpa, potrebbe trattarsi di ossessioni e le discontinuità dovute ad un intenso rimuginio compulsivo. 

Paolo conferma che due anni prima trascorreva giornata intere a letto in preda all’ansia, a rimuginare su questi tradimenti e non vedeva più nessuno sentendosi indegno: esce solo per andare a giocare al bingo ed in una di queste occasioni si blocca per strada, è immobile e assente. 

Catatonico e dunque senza dubbio schizofrenico, conclude soddisfatto il demonietto semplificatorio.

Lo ricoverano a Villa della Quiete ed iniziano i tentativi farmacologici per fare diagnosi “ex adiuvantibus”, come è scritto sulla cartella.

Maria sa di cosa si tratti: di fatto si provano vari farmaci senza avere una diagnosi poi, se uno fa un po’ di effetto, si stabilisce che il paziente ha proprio la malattia per cui quel farmaco è efficace.

A far attenzione si possono udire i colpi delle testate di Popper sul coperchio della bara.

Maria ha deciso che, quando Irati le farà le sue tirate sul maggior rigore scientifico della medicina rispetto alla psicologia, gli darà una testata sul naso aquilino.

Rassicurata dalla raffazzonaggine della medicina decide di dare ascolto alle sue sensazioni.

L’impressione generale che ha è di trovarsi di fronte ad una persona che ha subito un trauma e che, per recuperare un minimo controllo emotivo, si autoinduce brevi dissociazioni, trance, per anestetizzare il possibile dolore del ricordo emergente. 

L’ipotesi nascente di un disturbo dello spettro dissociativo, che placa le ansie del signore infernale delle classificazioni, è sostenuta dalla presenza di sintomi psicosomatici, cefalee e coliche intestinali “sine causa”, abbondante uso di sostanze prima dei 18 anni ed esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione,  causa dei blocchi motori che lo hanno condotto al ricovero. 

La ricostruzione della storia di vita diventa ancora più importante e con il consenso di Paolo si decide di coinvolgere in alcuni incontri anche la madre.

L’impressione è di scoperchiare un termitaio pullulante di segreti dove è facile perdersi e protettivo confondersi.

Non c’è bisogno di prolungata ricerca per scoprire il trauma motivo della dissociazione, forse il più grave è seduto lì proprio a fianco a Paolo.

La madre è una donna spigolosa nell’aspetto, il viso sovrastato da un caschetto nero mostra solo angoli acuti.

Nei confronti del  figlio è critica e disprezzante. Pur impegnata nella conversazione con la dottoressa trova il tempo per ricordare al figlio che “puzza”, “è un assoluto cretino”, “con quella faccia non andrà da nessuna parte”, insomma supportiva e incoraggiante. La Filata esercita tutta la disciplina interiore di cui è capace, si dice che anche lei è certamente una persona sofferente, da capire e aiutare e che quello  è certamente il modo di fare migliore che ha trovato per sopravvivere. Il solito demonietto nosografico le propone sottovoce narci…, border…. ma lei lo mette a tacere definitivamente, sentenziando “stronza e cattiva” in comorbilità.

I genitori di Paolo erano entrambi divorziati quando si sono conosciuti già molto adulti.

Lei aveva già un figlio, ora sposato e padre a sua volta.

Il padre ha avuto 4 figli di cui uno morto per droga, forse sparato per questioni di spaccio ma tutto è avvolto dal segreto. Della esistenza di tutti questi fratelli molto più grandi di lui Paolo viene a conoscenza solo a 17 anni, invece  non ha mai saputo che lavoro facesse il padre che sembra gestire traffici loschi.

I segreti si infittiscono ulteriormente: presenza quotidiana nella loro casa di uno zio che zio però non è.

Mario è un vecchio collega di lavoro della madre, di lei innamorato sin dal liceo. Si è sempre occupato di questi “nipoti”, il primo figlio della donna e Paolo con soldi, regali di ogni genere, viaggi.

Le ipotesi che si susseguono in testa di Maria sono due: Mario è il vero padre dei ragazzi e lo proverebbe la sua dedizione a loro, oppure  Mario è un pedofilo che si è insinuato nella loro famiglia.

A sostegno della seconda ipotesi Paolo dice testualmente: “quando ero ricoverato lo cacciavo, avevo la sensazione che mi avesse fatto del male, mi ha rovinato con dei suoi comportamenti che non capivo o se ho capito ho dimenticato”.

(le parole di Paolo sembrano un protocollo programmatico della dissociazione da trauma).

La madre descrive Mario come un uomo depresso e cattivo, tossicodipendente e grosso spacciatore che si è sempre insinuato nelle sue due famiglie grazie al potere dei suoi soldi. 

La confusione contagia anche Maria che inizia a sperimentare gli stessi vissuti di Paolo.

Per non perdersi cerca di far chiarezza chiedendo perché abbia affidato i figli ad un uomo di cui parla così male e la madre, prima risponde che non può dirglielo (ciò resuscita la primigenia ipotesi che sia il padre vero), poi che i figli avevano bisogno di una figura maschile forte perché entrambi i padri sono dei falliti senza palle infine, cimentandosi anche lei in una dissociazione da manuale, cambia discorso e riferisce che uno psicoanalista cui chiese perché non le piacevano i luna park e il circo sentenziò che lei negava la maternità… e conclude con un gesto d’intesa dicendo a Maria “ci siamo capite vero dottoressa?”.

Paolo presente alla conversazioni è travolto dai tic e completamente assente, se ne è mentalmente andato come avrebbe fatto volentieri la stessa dottoressa Filata, ora però davvero convinta di quanto la madre stia male.

Il padre attualmente 82enne ha un’idea primitiva del maschile e della virilità. Regole di vita trasmesse a Paolo sono sintetizzabili in “le donne sono tutte mignotte”, “ogni lasciata è persa” “il valore di un uomo si misura dal suo pisello”, “meglio un figlio morto che un figlio frocio”.

Maria si era accorta da tempo che il tema della sessualità era per Paolo scivoloso, da un lato intrattiene idee grandiose quasi deliranti in linea con le attese paterne per cui pensa che tutte le donne lo desiderino sessualmente e lui se le farebbe tutte, cui seguono comportamenti goffamente seduttivi, dall’altro ammette a mezza bocca di non avere forti spinte erotiche verso le donne mentre ne prova di intense e inconfessabili verso i maschi.

Lo sforzo che Maria Filata chiede a tutti alla riunione clinica generale è di mettersi nei panni di Paolo per cercare insieme di capirlo meglio prima di risolvere il problema diagnostico e farmacologico.

Come poteva sentirsi un bambino allegro ed estroverso che, diventato  ragazzino adolescente in cerca della sua identità magari pure con dei dubbi, si trova in una famiglia in cui regna il non detto, l’inganno ed  è esaltata la forza e una virilità da spogliatoio e da caserma e dove ogni insicurezza è squalificata, negata o derisa?

Maria riporta testualmente una frase “la verità è che io non voglio più avere rapporti con me stesso” che riassume il vissuto di Paolo.

Irati sostiene che in ciò trova spiegazione la dissociazione come modo per non stare con se stesso.

Certamente è dissociata la parte omosessuale che sarebbe compito della psicoterapia esplorare e portare alla luce.

Silvia e Giovanni da assistenti sociali rivendicano una visione più complessa e meno intrapsichica del caso e sottolineano come si sappia poco del percorso scolastico e lavorativo di Paolo.

Sulla stessa linea intervengono Luisa e Maria lamentando la mancanza, almeno nel resoconto della dottoressa Filata, di un bilancio delle risorse di Paolo, strumento indispensabile per elaborare un progetto.

Come sempre decisa e priva di qualsiasi dubbio, la dottoressa Mattiacci propende per un immediato allontanamento di Paolo da casa con  un ricovero in una comunità terapeutica. Sostiene la necessità di un netto viraggio farmacologico verso i neurolettici, ma gli altri medici presenti storcono la bocca (il che avviene regolarmente quando uno dei tre si esprime su qualsiasi cosa).

La Filata integra il suo resoconto riferendo che, dopo scuole secondarie a carattere tecnico, Paolo ha svolto vari lavori sempre interrotti per mancanza di continuità nell’impegno, anche per l’abuso continuo di sostanze che faceva all’epoca e che oggi è contenuto.

Biagioli invita tutti per la settimana successiva ad un brainstorming su possibili interventi terapeutici che possibilmente utilizzino come punti di forza le naturali tendenze di Paolo, con lo spirito di assecondare l’onda sfruttandone la forza piuttosto che contrastarla.

Raccolte tutte le proposte, la dottoressa Filata le organizzerà in un progetto unitario che negozierà con Paolo e insieme presenteranno ai genitori che hanno da due mesi lasciato il gruppo di sostegno per familiari.

All’inizio della riunione successiva Biagioli esorta ad evitare il cosiddetto “tiro al piccione,” consistente nel mettere in atto tutta la propria intelligenza per evidenziare i difetti di qualsiasi proposta con il risultato di abbatterle tutte perché nessuna è perfetta e rimanere con un cielo privo di volatili. Non si tratta di un concorso a premi non ci sarà un’ idea vincente, ma un collage di idee che si supporteranno a vicenda. Con tono stentoreo, che scatena scomposta ilarità, afferma che o si vince insieme o si perde insieme e soprattutto che a vincere deve essere Paolo. Su questo proclama garibaldino tipo “o Roma o morte” si consumano gli ultimi caffè della colazione e si parte con le idee più bizzarre.

Irati ribadisce che, asse portante dell’intervento deve essere la psicoterapia individuale, con l’obiettivo di emanciparsi dalla famiglia esplorandone i numerosi segreti e  l’accettazione della propria omosessualità negata.

Silvia e Giovanni concordano con Lina sull’opportunità di un allontanamento dal patogeno nucleo familiare, ma sono nettamente contrari ad un ricovero in Comunità, ritenendo anzi che una caratteristica generale dell’intervento debba essere proprio la riduzione della psichiatrizzazione del caso con lo stigma che comporta, contribuendo a farlo sentire “un alieno che non vola”.

A loro avviso bisogna pensare ad un alloggio diverso anche chiedendo esplicitamente risorse ai genitori che si erano detti disponibili per una terapia privata.

Gli assistenti sociali ribadiscono poi che non c’è vera autonomia senza indipendenza economica (i soliti marxisti) e dunque la ricerca di formazione e di un lavoro è al primo posto della loro agenda.

Considerata l’abitudine di Paolo a vivere nella menzogna e a dissociarsi hanno pensato alla cooperativa “La maschera” che fa teatro a livello amatoriale e fornisce anche servizi a compagnie professionistiche.

Dal canto suo Biagioli propone un progressivo wash out da tutti i farmaci.

La Mattiacci lo incenerisce con uno sguardo di traverso e lui  si corregge dicendo che avrebbe lo scopo di vedere il quadro clinico allo stato puro per poter meglio fare diagnosi.

Gilda si offre di inserire Paolo in un corso di yoga che lei frequenta in modo da insegnargli tecniche di rilassamento che possano supplire all’eliminazione delle benzodiazepine.

La formazione sistemica della dottoressa Ficca emerge nel proporre un intervento terapeutico vero e proprio per la coppia dei genitori che sono anch’essi estremamente sofferenti e non pronti ad affrontare il distacco di Paolo.

L’incontro della dottoressa Filata con Paolo, che era previsto per il martedì successivo fu disdetto da Paolo per la prima volta: telefonò per chiedere di spostarlo di una settimana.

Lei si consultò con Biagioli e ipotizzarono che fosse un drop out motivato dall’intuizione di Paolo che  lo si volesse allontanare dalla famiglia.

Invece era solo il funerale di Mario, che un’auto aveva travolto proprio sotto casa (casusalmente o intenzionalmente sarà compito del magistrato stabilire).

Maria e Paolo al di là delle condoglianze di rito si scambiarono uno sguardo che intendeva “finalmente si inizia a far ordine”. La realizzazione dei vari progetti immaginati per Paolo fu facilitata da un lascito testamentario di Mario per Paolo di parecchi soldi.

Paolo andò a vivere per proprio conto in affitto e due anni dopo ereditò alcuni immobili per la morte del padre. Progressivamente, l’unico legame che restò con il CIM fu la psicoterapia con la dottoressa Filata, gli altri interventi furono progressivamente abbandonati tranne la cooperativa teatrale che divenne il suo hobby preferito.

Non ebbe mai  un lavoro stabile, viveva di numerose rendite immobiliari, si limitava all’uso moderato di canne e aveva saltuari compagni con i quali si sentiva meno alieno.

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

 

 

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Psicoterapia: Intervista a Franco Del Corno – I Grandi Clinici Italiani

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Franco Del Corno

Psicologo Psicoterapeuta, Presidente di SPR Italia

 

State of Mind intervista Franco Del Corno, Psicologo e Psicoterapeuta. Co-Fondatore dell’Associazione e la Ricerca in Psicologia ARP, Presidente di SPR, Society for Psychotherapy Research Italy Area group. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

VEDI IL PROFILO DI: Franco Del Corno 

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Alle radici della malattia di Parkinson

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio condotto dai ricercatori della Johns Hopkins su neuroni umani coltivati in laboratorio e sulle drosophilae ha portato all’identificazione di un processo che concorre ad una particolare condizione della malattia di Parkinson, riscontrata in un gran numero di pazienti.

La possibilità inoltre di intervenire su tale processo sembrerebbe aprire le porte ad una nuova speranza di trattamento.

Infatti, sebbene alcuni farmaci, come la L-dopa, consentano ai pazienti una più facile gestione dei sintomi, il disturbo non può essere arrestato e il peggioramento della malattia porta ad un aumento dei tremori fino all’immobilità e, in alcuni casi, alla demenza.

Il progetto di ricerca coordinato da Ted Dawson, professore di neurologia e direttore del dipartimento di ingegneria cellulare del Johns Hopkins, ha preso avvio dalle scoperte in merito all’origine della malattia di Parkinson, i cui sintomi sono legati alla degenerazione delle cellule nervose responsabili della produzione di dopamina.

Le evidenze circa l’implicazione di fattori genetici nell’origine del disturbo sono apparse una decina di anni fa, quando è stata identificata una mutazione chiave in un enzima conosciuto come leucine-rich-repeat-kinase 2 (LRRK2). È stato Dawson a riconoscere che si trattasse di una chinasi, cioè un tipo di enzima in grado di trasportare gruppi fosfato alle proteine, modulandone la loro attivazione o disattivazione.

Nonostante nel corso degli anni diversi studi abbiano mostrato che il blocco dell’attività dell’enzima mutato arrestasse la degenerazione neurale mentre un suo aumento ne provocasse un peggioramento, per circa un decennio gli scienziati non sono riusciti a capire quale fosse il legame tra la mutazione di LRRK2 e la malattia di Parkinson.

Lo studio di Dawson mostra un chiaro collegamento tra LRRK2 e i meccanismi patogenetici di questa patologia.

È stato grazie a lui che sono state identificate le proteine coinvolte nel disturbo sulle quali sembrava agire LRRK2. Al tempo, nessuno sospettava che LRRK2 fosse coinvolto in attività fondamentali come la produzione delle proteine.

Le proteine identificate sono poi state sottoposte ad una serie di test per capire quali di queste potessero essere fosforilate da LRRK2.

Studiando inizialmente i risultati della mutazione di tre proteine ribosomiali (s11, s15, s27), il team di Dawson è giunto alla conclusione che una mutazione della proteina s15 bloccasse la fosforilazione di LRRK2 in modo tale da proteggere le cellule nervose dalla morte.

Con la proteina ora identificata, il team di Dawson sta affrontando ulteriori esperimenti per verificare come un eccesso nella produzione della proteina possa causare la degenerazione neuronale. Vogliono inoltre vedere cosa succede bloccando l’azione dell’enzima LRRK2 su s15 nei topi.

 

 

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Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

Se per una famiglia prendere un cane è una decisione stimolante e allo stesso tempo di responsabilità, nel caso di famiglie con bambini autistici la stessa decisione risulta essere ancora più importante e impegnativa.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Missouri ha indagato se avere un cane all’interno di una famiglia con un bambino autistico comporta dei benefici. Indipendentemente dal possesso di un cane o meno, dalle risposte dei genitori sembrerebbe di si.

Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

I bambini con disturbi dello spettro autistico spesso hanno difficoltà nell’interagire con gli altri e di conseguenza nel formare amicizie. Avere ed interagire con un cane significa offrire a loro compagnia ed amore incondizionato senza pregiudizio alcuno, sostiene  Gretchen Carlisle, un ricercatore presso il Centro di Ricerca Interazione Uomo-Animale (ReCHAI) dell’Università di Medicina Veterinaria di Missouri.

Nello studio sono stati intervistati 70 genitori di bambini con autismo. Dei quasi due terzi in possesso di un cane, il 94% ha affermato che i loro figli sono inseparabili dai loro cani. Anche nelle famiglie senza cani, il 70% dei genitori ha affermato che ai loro figli piacciono i cani. I genitori che all’interno della famiglia avevano un cane hanno argomentato la loro scelta alla luce dei benefici percepiti per i loro figli.

Sempre Gretchen Carlisle sostiene che i cani possono aiutare i bambini con autismo, agendo come fattore facilitante all’interno del processo di interazione sociale.

Per esempio, i bambini con autismo possono avere difficoltà ad interagire con gli altri bambini del quartiere. Se i bambini con autismo invitano i loro coetanei a giocare con i loro cani, questi ultimi diventano un ponte comunicativo che consolida le interazioni fra i bambini.

Gli autori raccomandano ai genitori di coinvolgere attivamente i loro figli nella scelta del cane. Tanti bambini con autismo sanno già come preferirebbero il loro cane e se vengono coinvolti attivamente nella decisione si aumenta la probabilità di creare un’esperienza piacevole già dal momento dell’inserimento del nuovo membro della famiglia nella casa.

Sebbene questo studio indaghi esclusivamente i benefici che i cani portano nelle famiglie dei bambini con autismo, gli autori non escludono che gli stessi benefici si abbiano anche nel caso di animali di compagnia diversi dai cani.

I bambini sono unici e ognuno di essi sogna il suo animale di compagnia che può essere un gatto, un coniglio o come nel mio caso da bambina…un cavallo.

Quindi nella scelta dell’animale di compagnia un ruolo fondamentale deve essere attribuito ai propri interessi e alle proprie caratteristiche di personalità.

Se da un lato questa ricerca aggiunge credibilità scientifica ai benefici dati dall’interazione uomo-animale e ci aiuta a capire l’importanza e il ruolo dell’animale di compagnia nel migliorare la vita dei bambini con autismo, dall’altro lato aiuta i professionisti del settore sanitario ad insegnare come e perché indirizzare le famiglie con dei bambini autistici nella scelta dell’animale di compagnia più adatto.

 

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Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi – Report da Firenze 2014

Federico Calemme

 

 

Omogenitorialità & Scuola

Il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi affronta il tema della famiglia del 2014, in una scuola ancora non pronta a due papà o due mamme.

Mai spot con una famiglia gay, sono per la famiglia tradizionale. È il Settembre del 2013 quando Guido Barilla dichiara apertamente di essere contro le famiglie omogenitoriali, promuovendo un assetto familiare eterosessuale composto da padre, madre e uno o due figli.

Una famiglia, quella promossa da Barilla, che si rispecchia nelle rappresentazioni culturali, nelle immagini veicolate dai mass media, e nelle istituzioni di un Paese che ignora la realtà: nel 2014 siamo dinanzi ad una galassia di forme familiari in continuo movimento, in cui compaiono a pieno diritto anche le famiglie omogenitoriali.

Ma l’Italia del 2014 per quanto tempo ancora rimarrà ancorata ad una tradizione ormai tramontata? Per quanto tempo ancora il Bel Paese e le sue istituzioni potranno dire MAI ad una famiglia omogenitoriale?

È attorno a questi quesiti che lo scorso 5 Aprile, nella cornice di una Firenze uggiosa, si è svolto il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi, promosso dall’Istituto degli Innocenti e da Famiglie Arcobaleno, Associazione Genitori Omosessuali.

Tema centrale è stato il pregiudizio insito nel nostro contesto culturale che, a detta del Dott. Federico Ferrari, uno dei relatori del seminario, ha influenzato per troppo tempo anche le ipotesi di ricerca, ancorandole alle stesse premesse radicate.

Due padri o due madri potrebbero essere bravi genitori? I figli di famiglie omogenitoriali avranno problemi di identificazione sessuale? I figli di coppie gay o lesbiche saranno oggetto di stigma culturale? 40 anni di ricerca hanno dato risposte favorevoli alle famiglie omogenitoriali ma nonostante ciò le domande tornano, come se questa cultura eterocentrica non volesse e non potesse accettare la realtà.

I nuovi quesiti che dovrebbero affacciarsi sullo scenario della ricerca non fanno capo al se ma al COME: Come possono funzionare al meglio i nuclei omogenitoriali? A quali condizioni? Uno dei fattori di rischio più importanti si è rivelato essere l’Omofobia nel contesto scolastico, per cui assistiamo a situazioni di discriminazione nei confronti di figli di coppie LGBT (con una frequenza, secondo alcune ricerche, del 50%), nonostante i dati dicano anche che i figli di famiglie omogenitoriali non soffrano effettivamente più degli altri. Come spiegare questi dati contraddittori? L’elemento chiave, continua Ferrari, sembra essere il dialogo con la scuola, ossia il rapporto tra genitori LGBT, più attenti e competenti rispetto alle situazioni di discriminazione, e istituzione educativa. Un rapporto più trasparente e in cui l’obiettivo primario sembra proprio essere normalizzare le realtà omogenitoriali. La scuola ha gli strumenti per poter compiere questo processo di normalizzazione?

Irene Biemmi, assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Firenze, ha sottolineato come il cambiamento possa e debba partire proprio dal materiale didattico che viene fornito ai bambini all’interno della scuola. Ad oggi infatti nei libri di testo vengono ancora forniti modelli familiari di tradizione eterocentrica, in cui non solo viene meno la realtà omogenitoriale, ma vi è ancora una discriminazione di genere: il padre è il genitore che lavora e che si assenta da casa tutto il giorno, mentre la madre provvede alla casa e ai figli e, quando lavora, al massimo fa la segretaria o la maestra.

È ancora questo il messaggio che vogliamo veicolare ai nostri figli? Come possiamo pretendere che la scuola tenga il passo con la realtà se il modello fornito non corrisponde nemmeno alla generazione di genitori, quanto più a quella dei nonni? Inoltre, continua Giuseppina La Delfa, presidente di Famiglie Arcobaleno, sarebbe importante andare a modificare anche tutti gli aspetti burocratici che sono legati alla scuola in quanto non solo luogo educativo ma vera e propria istituzione, a partire ad esempio dai moduli di iscrizione in cui al posto delle voci padre e madre, sarebbe più corretto un documento con genitore 1, genitore 2.

Piccoli accorgimenti, assieme all’inserimento di tematiche omosessuali nelle attività curriculari, che si muovono verso una missione di integrazione che se in passato ha toccato altri tipi di realtà non tradizionali, come le famiglie extracomunitarie, ora deve dedicarsi alle famiglie composte da due papà o due mamme.

La scuola in quanto specchio e scultrice dell’Italia che sarà, deve essere pronta ad una realtà che sta abbandonando le fila dell’eccezionalità, a favore di una famiglia sganciata dagli orientamenti sessuali e dal genere, in cui la parola tradizionale possa corrispondere semplicemente ad un nucleo familiare armonico e funzionale.

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INFO: PROGRAMMA  

La Self-Mirroring Therapy: usare i Neuroni Specchio per comprendere se stessi

 

 

 

Neuroni specchio. - Immagine: ©-ktsdesign-Fotolia.comLa SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni e gli stati emotivi degli altri.

La self mirroring therapy ( SMT ), ideata e sviluppata da Piergiuseppe Vinai e Maurizio Speciale, nasce dall’esigenza di trovare un’applicazione psicoterapeutica alle recenti scoperte neurofisiologiche sul sistema dei neuroni specchio.

Se da una lato, infatti, tali scoperte hanno avuto un grande valore esplicativo incominciando a chiarire  i meccanismi  alla base delle  dinamiche emozionali che avvengono durante la relazione  paziente- terapeuta, dall’altro non hanno avuto un altrettanto valore applicativo nel facilitare il processo di cambiamento da parte del paziente.

La SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni  e gli stati emotivi degli altri.

Attraverso tale procedura  il paziente osservandosi  come se fosse un “personaggio” di un film, riconosce le proprie emozioni  non a partire  dalle proprie capacità autoriflessive e introspettive (capacità alquanto limitate nella popolazione clinica in generale e, in particolare, nei pazienti alessitimici) ma dalla visione del proprio comportamento non verbale e, in particolare, dalla propria espressione mimico- facciale.

Inoltre l’osservarsi dall’esterno  facilita una maggior riflessione sui propri stati mentali incrementando cosi’ le proprie capacità metacognitive.

Nel setting, quindi, tale metodologia  “sfrutta”  come fattore terapeutico oltre che le “parole” soprattutto la visione di se stessi. A tal proposito  la ricerca neuroscientifica  mostra  sempre più chiaramente  l’importanza dell’esperienza visiva; essa, attivando il meccanismo dei neuroni specchio,  si configura come una processo multimodale che implica l’attivazione di circuiti cerebrali non solo “visivi” ma anche sensori-motori, viscero-motori e affettivi .

Quando, osserviamo un altro individuo esprimere un’espressione emotiva, si attivano gli stessi circuiti motori, viscero-motori ed affettivi che sono coinvolti quando noi stessi produciamo quella stessa espressione emotiva; la vista, ad esempio, di un individuo che provando l’emozione di  disgusto  è in in preda a conati di vomito, induce spesso nell’osservatore reazioni simili  a quelli che proverebbe lui stesso assaggiando un alimento disgustoso.

Questo meccanismo  definito da Vittorio Gallese “simulazione incarnata” (embodied simulation) ci permetterebbe non solo di “vedere” l’espressione emotiva altrui ma anche di “comprenderla” come se fossimo noi stessi a provare quella particolare emozione.

La SMT fa si che il paziente usi questo “potere” dell’immagine e, in particolare della propria immagine, (che, come confermano recenti studi  neuroscientifici, attiverebbe ancor più intensamente il sistema dei neuroni specchio) a  fini terapeutici per comprendere in modo più  “profondo” le proprie emozioni,  le proprie convinzioni  e più in generale il proprio modo di funzionare.

L’effetto terapeutico per il paziente è una sorta di insight  sulle convinzioni disfunzionali che nel tempo ha sviluppato su di se e sugli altri attivando, conseguentemente, stati emotivi di  accudimento, compassione  e di “perdono” verso se stesso. 

Tutto ciò gli  consente  di entrare più in sintonia e di  migliorare il rapporto  con quel “personaggio” che osserva nel video e, quindi, in ultima analisi, di raggiungere, in tempi relativamente brevi, un maggior  livello  di benessere psichico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • P.Vinai, M.Speciale ( 2013) “Il colloquio nella Video-Based cognitive Therapy” in G. Ruggiero, S.Sassaroli ” Il colloquio in psicoterapia cognitiva” Raffaello Cortina, Milano
  • M.Speciale, F.Tonello, P.Vinai (2014) “Incontro tra Tecnologia e Psicologia: esperienze italiane” in A. Cantagallo “Teleriabilitazione ed ausili: la tecnologia in aiuto delle persone con disturbi neuropsicologici” Franco Angeli, Milano
  • P. Vinai, M. Speciale, L.Vinai, C. Bruno, P. Vinai, M. Ambrosecchia, M. Ardizzi, G.M. Ruggiero, V. Gallese “Implementing the ABC framework of the Rational Emotive Behavior Therapy through the Self Mirroring technique: clinical implications and neurophysiological background”.  Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.   (submitted)

CONSULTA IL SITO:  www.selfmirroringtherapy.com

 

Strategie per incrementare l’efficacia della regolazione emotiva

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

Una delle criticità nello studio dei processi di regolazione emotiva nell’ambito della psicologia generale consiste nella appropriazione di efficaci strategie nel medio e lungo periodo. Di fatto le ricerche sperimentali in tale ambito hanno dimostrato l’efficacia di alcune strategie regolatorie che i soggetti erano chiamati ad utilizzare durante la singola sessione sperimentale.

Un nuovo studio pubblicato su Emotion si è occupato di come incrementare l’efficacia della regolazione emotiva a medio termine in soggetti sani.

Focalizzandosi sulla strategia del reappraisal cognitivo, che implica il reframing cognitivo degli eventi emotigeni allo scopo di modulare l’emozione stessa, i ricercatori hanno utilizzato un task sperimentale di reppraisal già noto in letteratura e hanno misurato l’efficacia in termini di regolazione emotiva a seguito di 4 sessioni sperimentali consecutive ( a distanza di 3-5 ciascuna) di training e pratica guidata in due diverse strategie di reappraisal cognitivo.

Tutti i soggetti hanno compilato questionari self-report come misure di outcome tra cui Perceived Stress Scale e il Positive and Negative Affect Schedule.

Tre gruppi di soggetti sono stati randomicamente assegnati alle condizioni “distanziamento” (tecnica di reppraisal per cui al soggetto si chiede di vedere l’immagine emotigena come oggettiva, imparziale e secondo un’ottica scientifica distaccata), “reinterpretazione” (tecnica di reappraisal che prevede che i soggetti cerchino di raccontarsi una storia tale per cui l’immagine emotigena aversiva evolverà in modo più positivo oppure di focalizzarsi su dettagli non cosi terribili), “controllo” (assenza di strategie di regolazione emotiva).

I risultati dimostrano che sia nella condizione di “distanziamento” che “reinterpretazione” si ha una riduzione nei self-report dell’affettività negativa, anche se gli effetti più significativi e a lungo termine relativamente alla riduzione dello stress percepito nella quotidianità si riscontrano solo a carico del gruppo “Distanziamento” rispetto alla condizione di controllo (effetto dunque non attribuibile all’abituazione).

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

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La simulazione di patologia in ambito giuridico – Psicologia

Cristina Fratini

 

 

La simulazione di patologia in ambito giuridico. -Immagine: © ra2 studio - Fotolia.comSimulare e dissimulare come due facce di una realtà nascosta e unica, due processi che compromettono il nucleo significativo della relazione medico-paziente.

Mettere in scena una malattia mentale, mostrare in modo esagerato dei sintomi psichici, fingere di non avere problemi quando invece si è afflitti da una condizione morbosa a carattere psichiatrico, sono tutti comportamenti accomunati dal fatto che il soggetto che li mette in atto, riferisce una menzogna rispetto alla malattia presentata, con motivazioni e finalità che possono essere completamente differenti.

La possibilità che un paziente manifesti un quadro clinico che non ha un’effettiva corrispondenza con la sua realtà psicologica, oppure presenti dei sintomi che non corrispondono alla sua esperienza sensoriale, è certamente più frequente di quanto il clinico ritenga di solito.

Il problema della simulazione va ben al di là del fenomeno in sé e per sé considerato e investe il nucleo significativo della relazione medico-paziente: il contratto basato su un rapporto di reciproca fiducia.

In un setting valutativo come quello peritale è normale che il periziando/vittima/convenuto faccia il suo gioco autotutelante e cerchi di ottenere il massimo vantaggio con il minimo rischio. Simulare una malattia psichiatrica è azione dai molti risvolti positivi per l’interessato: in ambito penale, non dover rispondere agli interrogatori; non dover partecipare al processo; invalidare la credibilità di testimonianze; godere di trasferimenti in reparti clinici o psichiatrici o di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere; vedersi riconosciuto un vizio di mente al momento del fatto e via dicendo.

In ambito civile i vantaggi possono essere il vedersi riconosciuto un danno biologico di natura psichica a varia genesi e dinamica; ottenere una pensione; godere di un favorevole riconoscimento del danno e via discorrendo. Porre un’ipotesi di simulazione crea facilmente una condizione di conflitto tale da far precipitare la relazione medico-paziente. Da questa situazione si generano le innumerevoli difficoltà che s’incontrano, sia sotto il profilo medico-legale sia sotto il profilo prettamente psichiatrico, quando ci si trova nella condizione di dovere differenziare una patologia vera da una patologia simulata (Ferracuti S., Parisi L. & Coppotelli A., 2007).

L’analisi psicopatologica è l’unica che può dimostrare se è per lo meno lecito dubitare del “significato di malattia” e discriminare i veri malati da quelli che tali non sono (Fornari, 2011). Una definizione di simulazione che tutt’oggi può essere ritenuta valida a livello operativo è quella di Callieri e Semerari (1959): “un processo psicologico caratterizzato dalla decisione cosciente di riprodurre, imitandoli, sintomi patologici, e di mantenere tale imitazione per un tempo più o meno lungo e con l’aiuto di uno sforzo continuo fino al conseguimento dello scopo, quando il simulatore non si renda conto dell’inutilità del suo atteggiamento”.

Il concetto di simulazione porta con sè il tema della dissimulazione in cui chi mente nasconde, minimizza certe informazioni senza dire effettivamente nulla di falso, fa trasparire solo in parte la propria sofferenza e i segni della malattia.

Come afferma Bruno (2000): “simulare e dissimulare possono essere considerati due facce di una realtà nascosta e unica, due soci che sono tutt’uno come la patologia e il benessere. Negare la realtà e affermare i desideri: non sempre illegale è la simulazione. Ottenere un beneficio e conservare un ruolo: non sempre immorale è la simulazione. Divenire quello che non si è, o che si pensa di non essere”.

Da un punto di vista pratico le difficoltà sono legate alla varietà di tipologie cliniche di simulazione messe in atto dal soggetto. Verranno di seguito elencate le patologie che maggiormente vengono simulate senza però entrare nello specifico dei comportamenti che il simulatore mette in atto.

La simulazione di schizofrenia è rara e la si osserva in contesti psichiatrico-forensi a carattere penale, di solito per reati gravi e ci si riferisce al simulatore cosciente, ossia alla persona che in piena lucidità attua una serie di comportamenti e riferisce dei sintomi che hanno come scopo quello di accreditare la presenza di una schizofrenia. Le motivazioni sono varie: valutazione di pericolosità sociale e, in ambito civile, evitare licenziamenti, cambi di ruolo lavorativo, mobbing. Molto frequente è la dissimulazione nei procedimenti di adozione o affidamento dei minori.

La sindrome di Ganser: stato crepuscolare isterico durante il quale il detenuto cerca di recitare la parte del malato di mente, in conformità con quello che egli ritiene essere la malattia mentale.

I quadri depressivi sono simulati per finalità medico-legali che rientrano prevalentemente nella possibilità di ottenere un beneficio in relazione alla detenzione o al riconoscimento di un danno biologico. In sedi civilistiche si osserva anche la dissimulazione di condizioni depressive in corso di perizie di affidamento di minori da parte di uno dei genitori.

La simulazione di amnesia la troviamo molto spesso negli indagati o imputati di fatti di sangue che affermano di essere amnesici del fatto oppure nei casi di valutazioni di danno biologico a seguito di traumi. 

Il Disturbo Post-traumatico da Stress è simulato maggiormente per ragioni economiche. I sintomi principali sono ben conosciuti per la loro frequente rappresentazione attraverso i media e sono facilmente simulabili perché non verificabili.

I disturbi fittizzi e la sindrome di Munchausen sono condizioni cliniche non direttamente determinate da agenti patogeni esterni o processi degenerativi interni; questi pazienti “scelgono” di rendersi malati per una “necessità psicologica” che appare slegata dall’idea di ottenere da tale scelta vantaggi materiali riconoscibili.

In conclusione, si evidenzia come la simulazione di patologia sia un campo che a tutt’oggi necessita di approfondimenti poichè ricco di fenomeni che non consentono una facile soluzione e che richiedono necessariamente l’interazione di diversi punti di vista. Alla luce di tutto ciò appare idonea la frase di Lunghi “il limite della simulazione è l’immaginazione umana”.

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L’Odissea di Omero – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.08 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #08

L’Odissea di Omero

 

– Leggi l’introduzione –

L’Odissea di Omero - Centro di Igiene Mentale - CIM Nr.07 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica. -Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

L’invito ad occuparsi di Omero era giunto dal dottor Rodolfo Torre, attuale direttore del Dipartimento di salute Mentale che, ponendosi con atteggiamento rimproverante aveva immediatamente irritato Biagioli che non riusciva ad avere un rapporto sereno col suo vecchio maestro.

A sua volta Torre aveva raccolto le segnalazioni del sindaco di Monticelli che aveva sentito dire alla gente “ tanti appresso a quella sgualdrinella (intendendo Antonella) e nessuno che si occupi di quel povero ragazzo”.

Il povero ragazzo, al secolo Omero Cogliati, 45 anni portati malissimo, spalle curve, capelli scuri lisci, forforosi e già molto radi, occhi che esprimevano il più assoluto disinteresse, viveva da solo nel garage della casa della madre vedova, Assunta.

Un letto singolo, un tavolo e due sedie di formica marrone, un lavandino con poggiato uno scolapiatti di plastica rossa ed una stufetta elettrica con la parabola tutta ammaccata, la moto Guzzi 350cc del padre.

Alle pareti, una sventagliata di quadri caotica. Per usare il gabinetto saliva in casa della madre. Lì lasciava il sacchetto della roba da lavare e tornava con quella pulita. Comunque il cambio vestiti era previsto mensilmente e la doccia ogni due mesi. Nel garage aleggiava dunque quel classico odore di psicotico, un  misto di fumo freddo di sigarette, cibo stantio, essere umano in macerazione e fluidi corporei evaporati.

Non  cucinava e la madre gli lasciava di ritorno dalla spesa frutta, affettati, formaggi e pane sulla finestrina del garage che lui prendeva quando non visto.

La vita per Omero si era presentata subito in salita.

La madre era al secondo mese della sua gravidanza nell’agosto del 1956 quando apprese dalla radio che il marito Giovanni era tra i 136 italiani che sarebbero rimasti per sempre in terra belga nelle profondità della miniera di carbone di Marcinelle dove, per un errore umano, morirono 262 minatori.

Il padre, emigrante morto eroicamente per dare un futuro alla famiglia, restò nella mente di Omero come un mito irraggiungibile.

La famiglia, di origini molisane, non aveva parenti nè la madre, sposatasi contro la volontà della famiglia, ebbe coraggio di tornare al suo paese d’origine. Trattata come una vedova di guerra, ottenne un posto alle poste con cui riusciva ad andare avanti galleggiando sopra il livello di povertà. Quel figlio molto intelligente avrebbe rappresentato il suo riscatto.

In effetti, Omero alle elementari e poi alle medie era sempre il primo della classe e si immusoniva se non raggiungeva il dieci in tutte le materie. Tutta la sua vita era la madre, che non lasciava un istante, la scuola e i libri. Non aveva amichetti. Quando gli altri lo cercavano per giocare insieme spariva per ore e salutava a stento gli adulti che venivano a far loro visita. Sembrava una timidezza sconfinata ma era qualcosa di più, Omero tanto era interessato alle cose ed al loro funzionamento tanto era disinteressato agli esseri umani. 

Torturava i piccoli animali che riusciva a catturare nel giardino di casa, mutilava i ragni zampa dopo zampa fino a che non ne rimaneva la rotonda immobile palletta del ventre, collezionava le code delle lucertole e le ali strappate alle farfalle.

A 10 anni bruciò con la benzina presa dal serbatoio del motorino delle poste il gatto siamese dei vicini.

Da quel momento le famiglie non gradirono più che i loro figli giocassero con Omero che restò sempre più solo.

Non ne provava alcun dolore e ancora di più si dedicò ai suoi amati libri di matematica.

Certi del suo talento i professori sollecitarono la madre a garantirgli le scuole superiori, possibilmente il liceo scientifico, in vista di ingegneria o matematica pura come lui diceva spesso.

Le astrazioni lo attraevano così come la concretezza e gli umani lo ripugnavano.

I soldi per prendere il pullman tutti i giorni per raggiungere il liceo scientifico di Vontano non c’erano.

La sua altissima media però consentiva una possibilità: l’accademia militare della Nunziatella di Napoli non comportava spese per le famiglie dei più meritevoli, che si assumevano l’unico impegno di non lasciare l’esercito almeno per i cinque anni successivi alla laurea.

Per i primi sei mesi giunsero all’ufficio postale, dove la mamma lavorava, rassicuranti cartoline postali con su scritto “tutto bene”, “ niente di nuovo”, “quando vieni a trovarmi”, “ cibo abbondante”.

Poi, silenzio assoluto per altri sei mesi.

Quando la madre, preoccupata, stava racimolando i soldi per andare a sincerarsi di come stessero le cose ecco arrivare un telegramma proprio per Assunta Ginestra vedova Cogliati: la si pregava di recarsi all’ospedale militare del Celio di Roma a ritirare, diceva proprio così, suo figlio Omero che era stato riformato per motivi psichiatrici.

Assunta potè vederlo per una mezz’ora, poi il colonnello medico la liquidò, sostenendo che il ragazzo poteva agitarsi. Vista la madre sprovveduta e spaventata sul da farsi la rassicurò, dicendole che sarebbe stato l’esercito a sistemare Omero in un luogo idoneo.

Dunque dai 17 ai 30 anni Omero stette al Manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma (il più grande d’Europa) dove ricevette le migliori cure dell’epoca.

Assunta temeva quanto poi effettivamente si verificò nel 1986.

Per via della legge Basaglia i matti non erano più tali e dovevano occuparsene le famiglie.

In paese quasi non lo ricordava più nessuno, lei stessa ne aveva paura, così gli attrezzò il garage e iniziò il loro menage fatto di panni che salivano e scendevano, di affettati, formaggi e frutta sul davanzale.

Omero non usciva mai dal suo garage ed il paese presto ne dimenticò  l’esistenza.

Il sindaco si avvide di lui controllando le liste elettorali, chiese notizie in paese e  convocò il dottor Torre: stava  al CIM riesumarlo.

In una riunione con Biagioli , il sindaco e la madre formularono le ipotesi più assurde: Biagioli avrebbe potuto  presentarsi come un incaricato del comune per verificare l’abitabilità, oppure un idraulico o un talent scout per nuovi talenti della pittura, oppure la madre avrebbe potuto sbriciolare i farmaci all’interno delle pagnottelle che gli comprava o diluirli nell’acqua minerale.

Giovanni e Biagioli, che si occuperanno del caso essendo quelli delle “mission impossible” per la capacità di non scoraggiarsi e di inventare soluzioni creative ma, soprattutto, perché si divertono a lavorare insieme intendendosi al volo, scartano tutte le ipotesi che prevedano un inganno e scrivono una lettera per Omero che affidano alla madre.

“ Caro Omero, non ci conosciamo e se mi arrivasse una lettera da uno sconosciuto la getterei immediatamente, tanto più se si trattasse di uno psichiatra che  vuol farsi i fatti miei. Nulla di strano, dunque, se a questo punto la strapperai in mille pezzi, ti garantisco che sei libero di farlo e non ci saranno conseguenze. 

Ti scrivo perché tua madre e il sindaco sembrano preoccupati per la tua salute, insomma si chiedono se tu sia matto. Penso che vivere isolati sia una delle possibili scelte di vita e mi vengono in mente “gli stiliti” o, più vicine, le suore di clausura del convento della Consolata. Che sia una scelta libera, o una costrizione a motivo di qualche paura, tu solo lo sai. Siccome una mamma preoccupata scassa, volevo chiederti se, quando e se tu vorrai, ci darai una mano a tranquillizzarla in modo che tutti si possa campare più tranquilli.

 Se ti andrà di farlo fai una chiamata allo 0578992233  e cerca di me,  Carlo, o di Giovanni che lavora con me. 

In verità anche io sono un po’ curioso di sapere se sei matto o un gran fico che ha capito tutto. 

Per comunicare con me puoi utilizzare quello che preferisci: oltre il numero di prima ti dò anche il cellulare mio 3309874356 e la mail [email protected]. Vedi tu!”

Alla riunione generale partirono le scommesse: la chiamata di Omero era data 1 a 5, in altri termini veniva stimata con una probabilità del 20%.

La dottoressa Mattiacci era per un TSO per ripartire daccapo con un caso troppo trascurato, la dottoressa Ficca, la cui meticolosità ossessiva per le procedure e la paranoia erano peggiorate dall’inizio della convivenza con l’ingegner Riccardo, era per garantirsi da un punto di vista medico legale dopo la segnalazione, e fare una domiciliare comunque. Luisa era comunque sempre d’accordo con Biagioli, sebbene indispettita di non essere stata scelta come compagna per questa nuova avventura che si prospettava lunga, ma il crescere dei pettegolezzi su di loro e l’attivazione del marito di Luisa avevano consigliato diversamente o forse Biagioli, superato l’apice stava scivolando lungo la parabola discendente dell’innamoramento.

Gilda, poi, sosteneva  di non dover intervenire in alcun modo accusando il CIM di essere strumento di normalizzazione di tutte le devianze al servizio del potere costituito. Le sue posizioni si erano ancor più radicalizzate dopo la morte del fratello, di cui sentiva colpevoli la società in generale ed il CIM in particolare.

Giuseppe Irati, impeccabile in un doppiopetto grigio che lo faceva diverso dal resto del popolo in jeans d’ordinanza,  ribadiva che l’unico intervento possibile e deontologicamente corretto fosse sui portatori della richiesta, vale a dire la madre.

La saggezza della dottoressa Filata ricordò a tutti che  la discussione si sarebbe potuta rimandare a un mese, dopo aver concesso ad Omero il tempo di eventualmente farsi vivo.

Non era una situazione d’urgenza, ma cronica da anni, che solo la compilazione delle liste elettorali aveva sollevato dall’oblio, dunque calma.

Un mese dopo, alla riunione successiva, si discusse a lungo se chi aveva scommesso 1 contro 5 sulla telefonata di Omero  avesse o meno vinto.

Per la Ficca, che non aveva intenzione di pagare non c’erano dubbi: non c’era stata nessuna chiamata.

Al contrario la Filata, sempre attenta alla sostanza delle cose e poca incline a dispute nominalistiche che chiamava con un brutto nome, sosteneva che la presenza nella stanza accanto di Omero in compagnia di Carlo e Giovanni fosse un successo, anche se non aveva chiamato e si era presentato direttamente due giorni prima al portoncino del CIM. Addirittura, a suo avviso, i perdenti avrebbero dovuto pagare il doppio.

Per soddisfare la curiosità dei lettori debbo chiarire subito che Omero era effettivamente matto e non semplicemente un signore riservato o tutt’al più evitante o schizoide.

L’accademia militare della Nunziatella non lo aveva riformato, ma gli aveva affidato in gran segretezza una missione speciale: altro che caccia militari , razzi e astronavi, il futuro del trasporto intergalattico era il teletrasporto. 

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

Durante il periodo del ricovero al Santa Maria della Pietà (noto centro di tortura interplanetario) avevano tentato in tutti i modi violenti possibili di estorcergli il suo segreto.  Ora lo facevano in modo più subdolo  con onde elettromagnetiche che gli leggevano il pensiero.  Le onde però non riuscivano a penetrare la saracinesca metallica del garage e, per le rare volte che usciva, si era fatto un passamontagna completamente rivestito di carta stagnola anch’essa schermante le onde.

Lui era stato scelto per la sua attitudine matematica, l’intelligenza superiore e, soprattutto, per la stupidità della madre che le impediva di accorgersi di cosa le accadesse intorno e, dunque, del vitale segreto del figlio.

Aveva accettato di incontrarli perché recentemente, tormentato dalle pressioni esterne sentiva la sua resistenza venir meno e Carlo e Giovanni avrebbero potuto essere due preziosi alleati contro lo stress, proprio a motivo della loro professione. Della selezione del materiale che testimoniasse la nostra civiltà avrebbe continuato ad occuparsene personalmente, essendo il suo compito specifico, loro sarebbero potuti essere dei personal trainer per metterlo in perfetta forma in vista della missione.

Ricevuta la loro lettera aveva chiesto ai suoi superiori il permesso di coinvolgerli  e questo era giunto inequivocabile con un servizio televisivo del giorno stesso sul fitness fisico e mentale che si chiudeva con la famosa frase latina “mens sana in corpore sano”.

Nella cosmografia di Omero intorno a lui c’erano degli schermi protettivi, il metallo e la stupidità della madre, dalle spie mentali al servizio dei terribili extraterrestri che impedivano la piena liberazione della cultura terrestre. Lui, solo ma ora con l’aiuto dei suoi due trainer avrebbe liberato l’umanità dall’oppressione galattica.

Carlo, in privato, tentò una interpretazione collegata al doppio soffocamento del padre nelle viscere della terra a Marcinelle e di lui da una madre che  vi aveva riversato tutte le sue attese.

Giovanni replicò che i matti erano in due e che piuttosto trovasse una buona idea per mollargli dei neurolettici altrimenti non se ne usciva.

Affascinante il fatto che dopo anni di lavoro in continua osmosi di ruoli quelli che meno credevano al potere dei farmaci fossero proprio i medici.

Si accordarono per due  incontri settimanali. Il primo avveniva nel garage dove Omero mostrava loro i reperti raccolti durante la settimana e discutevano di quali sarebbe stato opportuno procurare nella settimana a venire. I tre parlavano lungamente di quali fossero le cose importanti della vita,  gli obiettivi esistenziali,  i pericoli e come preservarsene. Queste lunghe chiacchierate a tre costituivano una sorta di psicoterapia finalizzata a ricostruire la vicenda interiore di Omero con lo scopo di renderlo più forte di fronte alle prove che lo attendevano. Carlo lo convinse anche a prendere tutte le sere un farmaco  che lo avrebbe aiutato a superare lo stress in cui la missione affidatagli lo costringeva a vivere. 

Il secondo incontro della settimana era dedicato al fare concretamente per la cura del corpo. Con Giovanni, Omero iniziò a fare lunghissime passeggiate nei boschi circostanti a Monticello, così da zone meno frequentate e più rassicuranti ci si avvicinò sempre di più al centro del paese.

Omero diceva che la presenza di Giovanni lo rendeva più impermeabile e resistente alle influenze negative degli altri, modo bizzarro e delirante per segnalare la positività della relazione terapeutica.

In una di queste passeggiate raggiunsero il centro diurno.

Era il periodo in cui  la Signora Cristina Forni, vedova dell’indimenticato medico condotto, meglio nota alle nostre cronache psichiatriche come catwoman, teneva un corso di pittura a tempera e ad olio per i pazienti che lo frequentavano. Omero mostrò un immediato interesse per le composizioni astratte e, a detta di Cristina, anche un notevole talento.

La settimana successiva Giovanni e Carlo bussarono alla saracinesca del garage portando un regalo inaspettato: tele di varie dimensioni, pennelli, tubietti di colore e una splendida tavolozza.

Omero poteva frequentare il corso di Cristina ed esercitarsi per proprio conto.

La sua produzione artistica era emotivamente toccante con un assoluto predominio dei colori scuri e di sprazzi luminosissimi di rosso vivo. I suoi quadri non lasciavano indifferenti e sul loro significato e l’attribuzione di possibili titoli si centravano le lunghe chiacchierate dei tre compari. I quadri figurativi venivano usati come una tavola del T.A.T. e quelli astratti come una del Roschach.

I due operatori entusiasti del loro lavoro con Omero che, pur continuando ad essere immerso nel suo delirio galattico, li aspettava con ansia e con loro usciva tranquillamente di casa, riferivano mensilmente alla riunione generale del servizio. La puntigliosa dottoressa Ficca, forse invidiosa degli innegabili successi di chi agiva senza  le pastoie dell’osservanza cieca delle regole, sollevò un problema: in fondo la loro relazione con Omero non si basava su un inganno analogo a quello che avevano sdegnosamente rifiutato quando era stato proposto dalla madre?  Effettivamente lui riteneva volessero davvero aiutarlo nella missione interplanetaria che non era mai stata messa in discussione.

Biagioli si produsse allora in una appassionata difesa che fu ricordata come “il diritto all’autoinganno”: Carlo sosteneva che non si dovesse nascondere nulla ai pazienti, fornendo loro tutti gli elementi di realtà possibili, ma che non si dovesse forzarli a rinunciare alle loro spiegazioni soggettive spesso a scopo antalgico. 

Del resto, diceva l’autoinganno è una delle attività tipica degli uomini impegnati a rendere meno dolorosa la loro realtà. In particolare, ribadiva, si pensi ai malati terminali che nonostante mille evidenze continuano a proiettarsi nel futuro. 

E’ corretto dir loro come stanno le cose, ma sarebbe crudele impedirgli la speranza. 

Omero aveva ricevuto una lettera in cui si dichiarava chiaramente che erano operatori del CIM che volevano interessarsi della sua dubbia salute mentale, Carlo gli prescriveva farmaci che comprava in farmacia, con Giovanni andavano al gruppo di pittura del centro diurno psichiatrico, nessuno lo ingannava, ma perché rompere la bella favola che si raccontava?  Ormai da mesi la sua vita procedeva secondo una routine decisamente ampliata e la missione di teletrasporto intergalattico sempre meno presente nella sua mente.

Oltre i due incontri settimanali, trascorreva ore a dipingere , usciva a farsi la spesa da solo,  aveva imparato a prepararsi un pranzo caldo, pasta o minestre che integravano i secondi freddi.

Mancavano pochi giorni al Natale e avevano intenzione di proporgli di esporre i suoi quadri ad una collettiva  dedicata ad artisti esordienti.

Omero li aspettava come sempre sulla porta del garage ma aveva una faccia lugubre.

Li fece accomodare e gli spiegò il suo dolore: la televisione la sera prima era stata chiarissima, per  un incolmabile ritardo degli aspetti tecnici e per colpa dell’incompetenza della squadra degli ingegneri spaziali, il progetto era stato accantonato almeno per i prossimi cinquant’anni.

Lui, encomiato per il lavoro svolto, era comunque posto in congedo permanente e definitivo.

Anche il loro ruolo di suoi trainer non aveva più senso. Li congedò in una gelida antivigilia di Natale, dicendo che comunque avrebbe avuto piacere di rivederli ogni tanto e di continuare a discutere delle sue opere d’arte che erano state molto apprezzate alla mostra. Prendendo atto della sua richiesta le visite assunsero cadenza mensile, a titolo di follow up.

A distanza di tre anni la situazione è stabile, Omero non è certo guarito e non lo farà mai ma la sua qualità di vita è migliorata e il sindaco conta su un voto in più.

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Autismo: il racconto dell’esperienza di Uta Frith in un documentario

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma.

La BBC2 dedica attraverso Horizon Program un video documentario a Uta Frith, una delle studiose chiave che ha trasformato la comprensione dell’autismo dal punto di vista psicologico.

Non si tratta solo di un’intervista ma di un vero e proprio film documentario in cui la psicologa ricercatrice presenta se stessa e stralci di vera vita professionale – tra cui anche filmati in bianco e nero degli albori fino al famosissimo task di Sally and Anne- per trasmettere al pubblico non solo ciò che ha studiato, ma anche come lo ha fatto, quali erano i presupposti e le conoscenze a partire dagli anni 60 alla base del suo lavoro clinico con i bambini e gli adulti autistici.

Uta Frith, ora professore di psicologia dello sviluppo alla University College London, inizia la sua carriera negli anni 60 e dedica la sua vita professionale a cercare di capire come funzionano le menti di persone con autismo.

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma; durante tutto il corso del video documentario si rimanda poi a quali sono ad aggi e quali sono state negli anni passati le sfide cliniche e di ricerca rispetto a questo complesso tema.

 

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 BIBLIOGRAFIA:

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