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The Wrestler (2009) – Tra grandiosità narcisistica e rifiuto del fallimento

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  Nr.24

The Wrestler (2009)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

The Wrestler (2009) - PosterUn film di Darren Aronofsky, con Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry. Drammatico. Francia-USA 2009.

 

Trama

The Ram, Randy Robinson, è un eroe del wrestling degli anni ottan­ta che venti anni più tardi, non balla più sul ring e deve confrontarsi con il fallimento. I fasti e i successi della sua carriera sono solo ricordi per­manenti nei segni della lotta che porta sul corpo. Lavora in un grande magazzino dove il proprietario lo tratta come uno schiavo, cerca di rico­struirsi una relazione affettiva partendo da un rapporto mercenario con una spogliarellista che per molti aspetti gli somiglia, anche lei in disfaci­mento, ha una figlia con la quale non riesce a riallacciare un filo che si è spezzato da troppo tempo.

Le luci si spostano dal ring all’animo di Randy, triste e terrificato dalla sconfitta che gli sbatte in faccia la vita. Lui, abituato a vincere ad essere il numero uno, si ritrova a fare i conti con un declino irreversibi­le e a riflettere sulla sua esistenza vuota.

 

Motivi di interesse

In Randy Robinson sono presenti alcuni tratti tipici di una persona­lità narcisista: ha un senso grandioso di importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore), è assorbi­to da fantasie di illimitati successo, potere e fascino, crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone speciali e richiede eccessiva ammirazione.

La sua storia mostra il passaggio da uno stato mentale grandioso che manifesta con atteggiamento di superiorità, dominio e diversità orgogliosa allo stato depresso-terrifico, con senso di fallimento, di sconfitta e di rifiuto e conseguente autosvalutazione.

Le emozioni di vergogna, tristezza e nostalgia segnano l’umore del protagonista fino a portarlo a uno stato di vuoto devitalizzato con esperienza emotiva spenta, che si legge nei suoi occhi dall’inizio alla fine.

L’anziano wrest­ler cerca di sopravvivere nel suo mito, imbottendosi di farmaci, ma ormai il fisico non lo sorregge e le luci intorno a lui si spengono, i fans si dimenticano di “The Ram”. Non ha altre risorse, se non quelle dei muscoli, non ha altre competenze se non quelle sportive e le vecchiet­te al banco sono avversari più difficili di quelli che incontrava sul ring. Questo colosso invincibile si mostra fragile, incapace, rifiutato, solo e disperato. Negli occhi di Randy è visibile la disperazione di chi sa di essere diventato un perdente.

 

Indicazioni per l’utilizzo

I contenuti del film possono essere utilizzati per il trattamento di pazienti con disturbo narcisistico di personalità. In particolare per:

  • connettere stati interni in relazione all’ambiente;
  • favorire l’accesso ai desideri che non riguardano la grandiosità;
  • incrementare la comprensione degli stati mentali propri e degli altri;
  • Individuare ed interrompere i circoli viziosi che si instaurano tra pensieri, emozioni e comportamenti;
  • identificare gli stati problematici (grandiosità, distacco, vuoto, depres­sione, vergogna, invidia, rabbia) e valutare strategie più funzionali per la gestione di essi;
  • regolare l’autostima mediante la promozione di modalità più funzio­nali.

 

TRAILER: 

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BIBLIOGRAFIA:

Genitori omosessuali: penalizzati nonostante le ricerche a favore

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità.

Secondo una review della Drexel University le decisioni prese dalla Corte sulla custodia di figli a genitori omosessuali spesso non tengono in debita considerazione la ricerca scientifica sull’adeguatezza della genitorialità di gay e lesbiche.

Precedenti ricerche dimostrano, infatti, che gay e lesbiche sono genitori tanto efficaci quanto quelli eterosessuali e che i bambini allevati da genitori gay o lesbiche sono ben adattati, come i loro coetanei allevati da genitori etero.

 Nonostante questi dati l’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità. Inoltre, per le coppie omosessuali con figli, la fine della relazione può significare difficoltà a stabilire diritti parentali per entrambi i genitori, quando uno dei partner non viene riconosciuto come un genitore legale da parte dello Stato e dal giudice, e pertanto non gli viene concessa la custodia o il diritto di visita.
I ricercatori della Drexel raccomandano che psicologi, giudici e legislatori tengono conto della ricerca sulla genitorialità gay. Essi ritengono che questa ricerca abbia il potenziale giusto per aiutarli nelle decisioni complesse in materia di affidamento e di diritto dei genitori e potrebbe contribuire a garantire che tali decisioni giuridiche riflettano effettivamente il migliore interesse del bambino .

 

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Dalla psicopatologia cantata alla Psicantria della vita quotidiana

 

 

In sintonia con la moda holliwoodiana dei sequel delle opere prime, anche noi “psicantrici” abbiamo sentito l’esigenza di dare un seguito a “La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata”, uscito nel 2011 per questo stesso editore, con un nuovo libro-CD intitolato “La Psicantria della vita quotidiana”.


Il titolo ha un chiaro riferimento alla celeberrima opera di Freud (1901), in quanto questa volta la nostra attenzione si è concentrata sugli scenari psicopatologici che si possono incontrare nel nostro vivere quotidiano, anche al di fuori dei luoghi di cura. L’aggressività all’interno dei gruppi, l’influenza delle tecnologie sul nostro modo di relazionarci all’altro, la difficoltà a costruirsi un’identità stabile sono alcuni dei temi che trattiamo in queste canzoni, nate dalle nostre osservazioni effettuate in contesti clinici e, più largamente, sociali.

Ma facciamo un passo indietro.

La Psicantria è andata oltre i confini della pubblicazione, diventando un progetto educativo e culturale, che ci ha dato la possibilità, attraverso le canzoni e i concerti di presentazione, di entrare in contatto con tantissime persone vicine e lontane dallo psicomondo. I contesti nei quali abbiamo presentato lo spettacolo di psicopatologia cantata sono stati molteplici: biblioteche, scuole superiori, teatri, università, congressi scientifici, festival legati salute mentale, eventi organizzati da associazioni di volontariato e cooperative sociali, centri di salute mentale.

Al nostro psicotour è stato riconosciuto nel 2012, con grandissima soddisfazione, il premio “Nessuno mi può giudicare” contro lo stigma in psichiatria, promosso dall’ASL di Lucca. Questo riconoscimento ci ha riempito di orgoglio in quanto crediamo fermamente che lo stigma nei confronti delle persone affette da disturbi psichiatrici sia ancora molto presente nella nostra società, con grandi ripercussioni sull’accesso alle cure e sulla riabilitazione. Più che le scoperte di nuovi recettori neuronali da parte dei neuroscienziati o di innovative tecniche psicoterapiche, siamo convinti che un atteggiamento più accogliente e meno giudicante nei confronti di coloro che vivono le difficoltà quotidiane della malattia mentale, sia il primo passo da fare per migliorare concretamente la loro qualità di vita, con ripercussioni positive sul disturbo stesso.

Ci sono tanti aneddoti di questi tre anni che ricordiamo con piacere e un po’ di incredulità. Non ci saremmo mai aspettati, ad esempio, di ascoltare una versione punk di Jessica l’anoressica, eseguita da una band di liceali di Belluno, di intervenire con la chitarra a congressi nazionali di psicoterapia e musicoterapia, di cantare un grande successo di Caterina Caselli con una psychiatric band a Capannori (LU), di esibirci al premio Lunezia 2012 insieme a Bobo Rondelli e Paolo Jannacci, di essere recensiti positivamente dall’ostico critico musicale Mario Luzzatto Fegiz, o di ritrovarci autori di una canzone nell’ultimo disco di Francesco Guccini.

Abbiamo avuto l’onore di suonare in diverse università italiane per il Segretariato Italiano Studenti in Medicina e uno studente di Ferrara, fino a quel momento avviato verso un futuro da anestesista, dopo aver assistito al concerto ha deciso di scegliere psichiatria. Che responsabilità! La cosa divertente è stata che a un successiva presentazione a Venezia si è presentato il padre dello studente che evidentemente voleva capire meglio il cambio di rotta del figlio. Per fortuna non sembrava arrabbiato!

L’aggettivo psicantrico è ormai entrato nello slang dei nostri social network, identificando un’attitudine alla sdrammatizzazione e all’uso dell’ autoironia come registro comunicativo per entrare in sintonia con l’altro.

L’obiettivo divulgativo e psicoeducativo di Psicantria è stato raggiunto pienamente, grazie soprattutto al potere dello strumento canzone, in grado di stimolare l’identificazione e la condivisione emotiva dei vissuti dei protagonisti dei brani.

In molti ci hanno chiesto se le canzoni psicantriche possano essere utilizzate come terapia. Fino ad oggi non le abbiamo mai sperimentate in prima persona perché non ci sembra opportuno presentarci ai pazienti nella doppia veste di cantautori e terapeuti, con il rischio di creare confusione. Abbiamo invece diverse testimonianze di colleghi che hanno utilizzato le nostre canzoni sia in percorsi terapeutici individuali, sia in gruppi di psicoeducazione con buoni risultati.

I feedback che abbiamo ricevuto sono positivi e le canzoni vengono generalmente apprezzate dalla gran parte dei pazienti che, riuscendo a riconoscersi nelle storie che  cantiamo, possono trovare l’occasione di distanziarsi dalla propria esperienza dolorosa, rileggendola da un’altra prospettiva. Ci sono stati pure riportati casi di pazienti con profili caratteriali di tipo paranoide per cui può essere sconsigliato l’uso dei brani, soprattutto quelli che trattano i temi in modo ironico. Riteniamo comunque che le potenzialità dell’utilizzo dei nostri brani in ambito clinico debbano essere ancora approfondite e meritino ulteriori sperimentazioni in diversi contesti terapeutici. A questo riguardo abbiamo iniziato a raccogliere materiale sull’uso della canzone come strumento di cura e speriamo in futuro di produrre una pubblicazione su questo argomento.

Crediamo sia importante segnalare che le canzoni della psicantria sono state molto apprezzate anche dagli operatori dello psicomondo (medici, psicologi, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione psichiatrica…), che forse si sono identificati con il messaggio di sdrammatizzazione contenuto in alcuni nostri brani. Un operatore di Cremona ci ha confidato che ogni mattina, recandosi al lavoro,  si “caricava” ascoltando il nostro CD in auto. Che soddisfazione!

Lavorare quotidianamente con la sofferenza psichica può essere davvero usurante, ma rappresentare il disagio in una prospettiva diversa e che stimoli la nostra curiosità ci salva dalla cosiddetta “cronificazione”, cioè il pensare che le malattie psichiatriche siano entità statiche e inguaribili. D’altra parte come scrive Saraceno (1995)

“la Salute Mentale è l’insieme delle azioni di promozione, prevenzione e cura riferite al miglioramento o al mantenimento o alla restituzione della Salute Mentale”.

Le canzoni, come altre forme artistiche, possono giocare un ruolo importante nella promozione e nella prevenzione, come potente veicolo di psicoeducazione. In certi contesti come la scuola, la canzone può avere più effetto di tanti discorsi e ce ne siamo resi conto di persona durante l’attività di prevenzione al disagio psichico negli istituti modenesi. Quando imbracciavamo la chitarra calava il silenzio sulla sala, quando iniziavamo a parlare ripartiva il brusio. Del resto per tanti ragazzi la canzone è ancora il principale mezzo di trasmissione culturale (Greenfield et al., 1987), molto più dei libri e dei film. Si pensi ad esempio alla diffusione tra gli adolescenti della musica rap, che in qualche modo rappresenta, per i contenuti di impegno e critica sociale, una forma attualizzata di musica cantautorale.

Nelle nuove canzoni, come accennato in precedenza, il nostro telescopio psicantrico è stato puntato sulle nuove famiglie, sul mondo della scuola, sul disagio giovanile. I temi sono un po’ cambiati rispetto al primo CD, ma l’uso dell’ironia e la modalità di comporre le canzoni a quattro mani sono rimaste le stesse. Per i contributi del libro ci siamo rivolti a bravissimi colleghi psicologi e psichiatri, opinion leaders a livello nazionale negli argomenti trattati, molti dei quali conosciuti proprio attraverso i concerti psicantrici, a cui abbiamo chiesto di produrre riflessioni partendo dai testi delle nostre canzoni. Per rendere il libro ancora più polifonico, per il brano La felicità abbiamo avuto l’onore di includere il commento di un monaco buddista, che visto l’argomento della canzone, ci sembrava il più esperto a riguardo. Buon ascolto e buona lettura!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Palmieri G., Grassilli C. (2014). Psicantria della vita quotidiana. Edizioni La Meridiana. Libro più CD audio.  SFOGLIA l’ANTEPRIMAACQUISTA ADESSO – ACQUISTA ALBUM MP3

 

Viaggio attraverso il Posto delle Fragole di Ingmar Bergman (1957) – Recensione

 

 

Viaggio attraverso il posto delle fragole_Bergman

Bergman ci lascia un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso, per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

In un frammento tratto dalla sua autobiografia “Lanterna magica” (1987) il regista svedese Ingmar Bergman scriveva: “Da piccolo per punizione ero spesso rinchiuso nell’armadio e qui, rannicchiato nel buio, grazie a una torcia, una sorta di lanterna magica che un giorno riuscii a portarmi dentro di nascosto, cominciai a immaginare, a sognare, a creare storie, altri mondi, personaggi, buffoni e marionette che finivano con il sostituirsi alla realtà e alleviavano il dolore della mia solitudine”.

Bergman, figlio di un pastore protestante, aveva ricevuto una rigida educazione improntata ai principi della religione luterana di “peccato, confessione, punizione, perdono e grazia”. Il dono, ricevuto a 12 anni, di un proiettore cinematografico fece sì che Bergman trovasse nel cinema la prosecuzione di quel gioco infantile di illusioni che riusciva a farlo evadere dall’oppressivo clima familiare. A 18 anni se ne andò di casa, si sottrasse alla volontà paterna che lo voleva sacerdote ed intraprese quel percorso che lo portò a diventare uno dei registi più talentuosi e in grado di scavare nell’animo umano.

Nella sua intera opera Bergman riporta i suoi temi di vita dolenti, i rapporti conflittuali con i suoi genitori, con le donne che gli sono state accanto, con i suoi figli e la sua continua interrogazione sulla fede e l’esistenza di Dio, come se cercasse di trovare nei suoi film una risoluzione ai nodi problematici che lo affliggevano.

Non si sottrae a ciò uno dei film più belli di Bergman “Il posto delle fragole” (1957).

Il film si apre con un monologo dell’anziano protagonista, Isak Borg, noto medico e professore prossimo a ritirare un prestigioso premio a coronamento di una illustre carriera:

I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda, deferente passione per la scienza. Ho un figlio anche lui medico che vive a Lund, è sposato da anni, ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva, molto vivace malgrado la sua tarda età. Mia moglie Karim è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me che alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale.

Si delinea quindi fin da subito il personaggio di Isak Borg (che in svedese letteralmente significa “fortezza di ghiaccio”). Borg è un professionista stimato da molta gente ma, per chi vive accanto a lui, dietro questa facciata di bonarietà e modi gentili si cela un uomo egoista, gelido e sordo al sentire degli altri (come emerge da uno dei dialoghi iniziali con la nuora Marianne). La mattina del giorno della cerimonia, Borg viene svegliato e scosso da un sogno angoscioso in cui da una bara vede il cadavere di se stesso afferrargli un braccio e trascinarlo a sé (il sogno in realtà è più esteso e ricco nel suo simbolismo ma per motivi di sintesi non lo tratterò). L’incubo rimanda a Isak una sensazione di morte imminente (interpretabile sia come morte interiore sia come effettivo fine percorso della vita). Al risveglio il professore decide di non prendere l’aereo ma di viaggiare in macchina verso Lund. In questo viaggio lo accompagna sua nuora Marianne che vuole incontrare il marito dopo essersi allontanata dal lui (in quanto, come si scoprirà poi, è incinta ma il marito non vuole che tenga il bambino).

Durante il tragitto, Borg fa una deviazione e si dirige verso la casa in cui da giovane passava le vacanze estive insieme ai sui famigliari, tra cui la cugina Sara, suo primo amore. La ragazza tuttavia preferì sposarsi con l’audace ed impetuoso fratello maggiore di Isak, molto diverso da quest’ultimo. Il giovane Isak infatti viene descritto da Sara in questo modo: “così buono, così nobile e premuroso, è pieno di attenzioni, sempre tanto sensibile, quando siamo insieme leggiamo le poesie e vuole che parliamo della vita e della morte, ci divertiamo a suonare il piano a quattro mani, e mi bacia solamente quando siamo allo scuro, e poi mi parla del peccato, ha un animo così elevato, a suo confronto io mi sento così tanto piccola e meschina…”. Da allora Isak sembra aver portato all’estremo la sua tendenza alla razionalizzazione, negando l’importanza ed il valore degli affetti e dedicando la sua vita al freddo lume della scienza e della ragione.

Rivisitando i posti della sua giovinezza (il posto delle fragole del titolo) e da vari incontri fatti lungo il tragitto, tra cui quello con degli autostoppisti, una ragazza e due ragazzi che se la contendono riproducendo la stessa dinamica che Isak ha avuto con la cugina (non a caso la stessa attrice interpreta la Sara-cugina e la Sara del viaggio) – in un’alternanza tra realtà, sogni e fantasie para-oniriche – l’anziano medico passa attraverso un processo di riflessione sulla sua vita e di presa di consapevolezza di quanto il suo atteggiamento di negazione della dimensione affettiva lo abbia portato a quella che è la sua paura-condanna maggiore, la solitudine.

Ciò lo condurrà ad una riacquisizione delle proprie potenzialità emotive. Il tempo ormai è agli sgoccioli (l’orologio senza lancette del sogno iniziale del film) ma qualcosa si può ancora fare per farsi voler bene da chi gli sta accanto e, soprattutto, per cercare di rompere la catena di trasmissione transgenerazionale della freddezza che da sua madre, è passata a lui ed al figlio Evald. Evald non vuole avere figli e pone la moglie incinta nel dilemma di scegliere tra il bambino e lui. In un flashback del film (quando Marianne racconta a Isak il motivo della conflittualità con il marito) Evald afferma: “…la vita è una cosa assurda ed è bestiale mettere al mondo dei figli con la sciocca speranza che potranno vivere meglio di noi (…). Io stesso fui un figlio non desiderato di un matrimonio che era la copia dell’inferno…un figlio di chissà quale padre”.

Evald è simile al padre, anche lui si sente morto pur essendo vivo ed è rigido nelle sue posizioni, mentre la dolce Marianne vorrebbe tenere questo bambino proprio per spezzare questa catena di freddezza, morte e solitudine. Non resta per Isak che tentare di facilitare la riconciliazione tra figlio e nuora e fare in modo che il cambiamento avvenuto in lui possa investire anche il figlio (in cui tuttavia già si nota un accenno di cambiamento quando rivede la moglie ed esprime al padre la sua paura di perderla).

Prove del mutamento avvenuto nel prof. Borg sono sia il modo con cui affrontra la cerimonia del suo giubileo cogliendone la formalità del apparato e dando più peso alla presenza dei sui affetti in platea e il dialogo con la governante alla fine del film a cui Isak riserva parole di autentico affetto. A questo punto il professore può riaddormentarsi tornando agli episodi della sua infanzia e sognando i suoi genitori ai tempi della sua govinezza che lo salutano sorridendo.

Riguardo questo film, Bergman scrive di aver proiettato la figura del padre distante nel personaggio dell’anziano professore ed anche il rapporto padre-figlio tratteggiato risulta autobiografico. Ma il film è autobiografico anche nella misura in cui le iniziali stesse di Isak Borg sono le stesse del regista (cosa di cui Bergman si accorse solo tempo dopo la stesura) e il film rappresenta quindi anche il bilancio della stessa vita di Bergman, quarantenne al momento della scrittura della sceneggiatura, che guarda alla sua esistenza con gli occhi del vecchio medico.

Lo stesso Bergman ha scritto: “Mi trovavo in lotta con i miei genitori. Non riuscivo a parlare a mio padre, e neppure ne avevo l’intenzione. Io e mia madre cercammo di riconciliarci almeno temporaneamente, ma c’erano troppi scheletri nei nostri armadi, troppe incomprensioni piene di veleno. Credo che i motivi più forti che stanno alla base de Il posto delle fragole si possano trovare in quelle situazioni. Cercavo di mettermi nei panni di mio padre, e cercavo spiegazioni per le amare discussioni con mia madre…Nel film cerco di supplicare i miei genitori; guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi.”

Seppure sia permeato dalla nostalgia per la giovinezza e per il tempo perduto, il film si chiude con una visione che può essere considerata positiva: presa consapevolezza, seppur molto tardi, dei suoi temi dolorosi, per il dottor Borg si è aperta la possibilità di uscire dalla ripetitività della sua condotta, a partire da una riconciliazione con il suo passato e con le figure genitoriali e da una comprensione della trasmissione intergenerazionale degli schemi (anche grazie alla nuora Marianne, capace di restituirgli in maniera chiara la dinamica che lei stessa aveva osservato nell’incontro tra Isak e la sua anziana madre).

Emergono quindi per Isak l’opportunità di vivere il tempo che gli resta proseguendo il recupero della dimensione affettiva dei suoi rapporti con gli altri, ma anche la possibilità di nuovo inizio per la famiglia Borg con la nascita di una nuova vita. E riguardo la possibile interpretazione del sogno finale come anticamera della morte, resta comunque la sensazione di serenità acquisita da Isak, che può chiudere gli occhi in uno stato emotivo completamente differente da quello dell’incubo con cui si è aperto il film.

Bergman ci lascia quindi un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso (per citare una delle scene madri del film) per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Stress coniugale cronico e depressione: esiste una relazione?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

 

Secondo diversi studi le persone sposate sono, in generale, più felici e più sane rispetto ai single. Ma il matrimonio, ahinoi, può anche essere una delle più significative fonte di stress sociale cronico, tanto da aumentare la vulnerabilità alla depressione.

È quanto emerge da un recente studio a lungo termine condotto alla University of Wisconsin, secondo il quale le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

Lo studio longitudinale – parte del National Institute on Aging-funded Midlife in the United States (MIDUS) study – ha utilizzato un ampio campione di adulti sposati che sono stati sottoposti alla somministrazione di test per valutare sia il loro livello di stress coniugale che di depressione. Le valutazioni sono state ripetute nove anni dopo.

I partecipanti hanno  poi eseguito, a distanza di undici anni, un test risposta emotiva, allo scopo di misurare la loro resilienza, cioè la capacità di recupero dopo un’esperienza negativa. Il test prevedeva la misurazione dell’attività elettrica nel muscolo corrugatore sopraciliare (il muscolo “accigliato”) in risposta a immagini negative, positive e neutre.

Come suggerisce il soprannome, il muscolo accigliato, aggrottando le sopracciglia, si attiva con più forza nel corso di una risposta negativa. A riposo, tale muscolo ha un livello di tensione basale, ma durante una risposta emotiva positiva si rilassa.

Misurare quanto questo muscolo si attiva o si rilassa e quanto tempo impiega a raggiungere nuovamente il livello basale, è un modo affidabile per misurare la risposta emotiva e questo strumento si è rivelato utile nell’assesment della depressione. Precedenti studi hanno dimostrato che gli individui depressi hanno una risposta fugace a stimoli emotivi positivi. Davidson, ricercatore a capo dello studio, era interessato non solo a quanto un muscolo si rilassa o si irrigidisce quando una persona guarda un’immagine, ma anche quanto tempo ci vuole perchè la risposta si plachi: il suo team ha scoperto una finestra di 5-8 secondi dopo l’esposizione alle immagini positive più significative.

I partecipanti allo studio che hanno riferito maggiore stress coniugale hanno avuto risposte più brevi alle immagini positive rispetto a quelli che si consideravano più soddisfatti. Non vi era invece alcuna differenza significativa nella tempistica delle risposte negative .

 Lo stress coniugale cronico potrebbe fornire un buon modello di come altri fattori di stress quotidiano possono portare alla depressione. I risultati sono importanti, dice Davidson, perché potrebbero aiutare i ricercatori a capire che cosa rende alcune persone più vulnerabili a problemi di salute mentale ed emotiva e come sviluppare strumenti per prevenirli.

Davidson è ora interessato a trovare gli strumenti per aiutare le persone ad essere più resilienti di fronte allo stress, che nella vita non può essere del tutto eliminato, ma che possiamo allenarci a gestire imparando a coltivare uno stile emotivo più resistente.

 

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Motivare con la Gamification – Tecnologia & Psicologia

 

 

Motivare con la Gamification © alphaspirit - Fotolia.comL’obiettivo della Gamification è quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

La capacità dei giochi di coinvolgere e motivare le persone è alla base del concetto di “gamification”, sempre più diffuso in vari ambiti della nostra società.

L’obiettivo della gamification è infatti quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

Questa idea è sorta e si è diffusa nel mondo del marketing, ma è arrivata a coinvolgere poi molti altri contesti, come quello aziendale, quello della formazione e dell’istruzione.

Più nello specifico, attività di gamification sono utilizzate per cercare di motivare il cambiamento comportamentale, a prescindere dall’ambito di riferimento: possono quindi riguardare la promozione di comportamenti eco-sostenibili, di attività fisiche contro la sedentarietà, di sensibilizzazione alla guida sicura, etc.

Nonostante la diffusione crescente di questi meccanismi, lo studio psicologico della spinta motivazionale derivante dalla gamification è piuttosto acerbo.

Sailer e colleghi hanno recentemente provato a mettere in relazione alcuni elementi tipici dei giochi con i meccanismi motivazionali su cui agiscono. Questo tipo di analisi oltre a rappresentare una base per ricerche future che vogliano approfondire queste tematiche, costituisce anche una guida per la progettazione di attività che, sfruttando le caratteristiche della gamification, mirino a motivare i propri utenti al cambiamento.

L’idea di applicare elementi tipici del gioco ad altri contesti e utilizzarli per altre finalità non è poi così nuova: basti pensare ai sistemi di fidelizzazione come i programmi frequent flyer per farsi un’idea di che cosa sia la gamification. Alcuni elementi tipici del gioco sono essenziali per comprendere questo concetto e capire come possa essere applicato.

Nello specifico, il gioco è caratterizzato da almeno un obiettivo da raggiungere; una serie di regole, che determinano come l’obiettivo si possa raggiungere; un sistema di feedback che restituisca al giocatore informazioni sui propri progressi; la partecipazione volontaria da parte dell’utente.

La motivazione è stata studiata in psicologia da varie prospettive (ad esempio le teorie del contenuto e quelle del processo) che hanno cercato di spiegare quali siano i motori in grado di dare avvio ad un comportamento e di orientarlo al raggiungimento di specifici obiettivi. Non solo: la motivazione regola anche la persistenza e l’intensità dei comportamenti.

Le diverse teorie psicologiche sulla motivazione non sono in contraddizione tra di loro, ma si concentrano su diverse componenti, che diventano più o meno rilevanti, a seconda del punto di vista.

Alcuni dei meccanismi motivazionali possono essere strettamente connessi ad alcuni elementi di gioco, in grado di innescare e mantenere alcuni specifici comportamenti. In particolare, alcune caratteristiche peculiari dei giochi riguardano:

Il punteggio. Anche se a prima vista i punti possono sembrare un ingrediente semplice, questi possono indirizzare i meccanismi motivazionali, specialmente in merito alla prospettiva comportamentista sull’apprendimento. Il punteggio, infatti, rappresenta un rinforzo positivo immediato e può essere visto come un premio virtuale dovuto a specifiche azioni eseguite.

I badge. Si tratta di rappresentazioni visive dei propri successi. I badge sono in grado di soddisfare il bisogno di successo dei giocatori. In un certo senso, i badge possono essere intesi come status symbol virtuali e funzionano inoltre come strumento di identificazione nel gruppo, al quale comunicare le proprie esperienze. Come strumento motivante, i badge svolgono anche la funzione di definizione degli obiettivi e possono favorire nel giocatore la sensazione di competenza.

Le classifiche. Esplicitando il successo dei diversi giocatori, le classifiche rappresentano un elemento critico rispetto alla funzione motivazionale dei giochi. Infatti, sono solo pochi i giocatori che riescono a raggiungere le posizioni più elevate della classifica.

Le altre persone, saranno per lo più nelle zone basse o intermedie, con frequente demotivazione. Tuttavia, le classifiche individuali favoriscono la competizione. I giocatori nella parte alta della classifica svilupperanno anche un certo senso di competenza. Infine, le classifiche a squadre possono sviluppare meccanismi di cooperazione e la condivisione di obiettivi e opportunità.

Le barre di avanzamento. I grafici che rispecchiano i progressi del giocatore rappresentano, anche simbolicamente, la distanza dal raggiungimento di un obiettivo o che permettono di confrontare la propria prestazione con quelle precedenti, sono in grado di fornire dei feedback importanti per la motivazione. Visualizzare il proprio percorso permette inoltre di rendere gli obiettivi, e i meccanismi per raggiungerli, chiari.

L’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco.

Concludendo, è possibile osservare come specifici elementi di gioco siano strettamente collegati ai meccanismi motivazionali che si ritrovano nelle principali teorie motivazionali.

Sono tre le componenti principali della gamification che sono messe in luce da questo tipo di analisi, che andrebbero prese in considerazione ogni volta che si progetta un’attività di gamification o che si desidera approfondire la ricerca in questo ambito.

Innanzitutto la persona: è importante indagare le caratteristiche del target per meglio tarare gli elementi di gioco. In secondo luogo occorre valutare l’ambiente di gioco, affinchè sia progettato seguendo le linee guida rappresentate dalle teorie motivazionali. Infine, la terza componente è il contesto, inteso come il contenuto o l’argomento principale di ogni singola attività di gioco.

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Saving Mr BanksLa storia di una tata fantastica, ideale, che mette ordine, salva genitori non adeguati e salva anche i bambini dai vissuti dolorosi. Una tata a servizio di un piano di vita controllante, una tata a servizio della propria creatrice che vuole così allontanarsi dal proprio tema di vita doloroso.

“Vento dall’est. La nebbia è là, qualcosa di strano fra poco accadrà. Troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me…”

Chi l’avrebbe detto che dietro ad uno dei produttori più celebri della storia del cinema, nonché fondatore dei più divertenti e spensierati cartoni animati del mondo, si nascondesse un’infanzia difficile e tutt’altro che felice? E chi avrebbe pensato che all’ombra di una dolce e incantevole tata si nascondesse una donna astiosa, sprezzante e diffidente? Ecco cosa ci svela “Saving Mr. Banks”, la recente produzione di Walt Disney, che narra di come il suo fondatore, dopo ventuno anni di tentativi ed attese, riesce a convincere Mrs. Pamela Lyndon Travers, creatrice di Mary Poppins, a cederne i diritti cinematografici.

Nei momenti cruciali della decisione della scrittrice di affidare a Disney la propria storia, personale e letteraria, si susseguono nel film flashback sugli eventi significativi della sua infanzia; in questo modo il regista svela al pubblico la chiave di lettura della personalità di Pamela, così egocentrica, inflessibile, paranoica, ma anche evidentemente fragile e vulnerabile.

John Lee Hancock ci rende partecipi del processo di elaborazione dei traumi dell’infanzia che l’autrice ha dovuto affrontare per superare la ritrosia verso la trasposizione cinematografica della sua opera (“Mary Poppins e i Banks sono la mia famiglia, signor Disney…”).

Inizialmente, si rimane affascinati, esattamente come la dolce bambina protagonista, dalla figura di un padre, all’apparenza fantasioso, affettuoso e attento. Presto tuttavia appare chiaro che quello stesso uomo, così appassionato e sognatore, cerca di nascondere alle figlie un animo fragile e immaturo, incapace di adattarsi a un mondo in cui non si rispecchia, che richiede di essere più responsabile e pragmatico.

Per superare il senso d’inadeguatezza e le emozioni negative che lo attanagliano, utilizza l’alcol e ne diviene ben presto dipendente. La figlia grande, Pamela, assiste alla trasformazione del padre, prima così vicino, ora così lontano, autocentrato e trascurante. Tuttavia una bambina così piccola non può perdere improvvisamente l’idealizzazione del padre, amato e ammirato, soprattutto quando non può affidarsi all’altra figura di riferimento, la madre, depressa e troppo assorta dalla sua sofferenza per accorgersi di quella della figlia. Quella di Pamela è davvero una ”tana distrutta”, dove anche il bisogno innato di sicurezza e protezione non viene più risolto dai genitori.

E quindi cosa rimane da fare per assicurarsi la vicinanza dei genitori e sopravvivere? Mettere in atto un accudimento invertito, sembra risponderci il regista. Quel tipo di accudimento che Bowlby aveva già descritto negli anni 50, in cui il bambino si “genitorializza”, comprende quali sono i bisogni del genitore, e realizza che andare incontro ad essi, prendendosi cura dell’altro, è l’unico modo per essere pensato dalla figura di attaccamento. Tuttavia il costo di tale strategia si presenta sempre, nel presente o nel futuro, poiché la rabbia, la paura, la tristezza, vengono dissociate o negate in nome di uno scopo più alto, la salvezza del legame di attaccamento. Questa forma di auto contenimento difensivo (Winnicot, 1988), fa affrontare ai bambini che l’hanno sperimentato tutte le emozioni più dolorose o difficili da soli e conferma che è bene non fidarsi degli altri.

Da piccola Pamela può aver pensato che raccontare le proprie emozioni avrebbe potuto ferire in qualche modo i genitori, in quanto era chiaro quanto essi non fossero in grado contenerle, e si è quindi sentita costretta all’autosufficienza, all’autonomia forzata, illudendosi o costringendosi a pensare di non avere bisogno degli altri.

A questo senso di onnipotenza ha contrapposto un modello operativo interno dell’altro non necessariamente malvagio, ma freddo e assente, poco affidabile e, soprattutto, immodificabile.

Ciò che all’inizio è stata soltanto una difesa, funzionale solo in quel periodo della sua vita, ben presto diviene un piano di vita: il piano di vita controllante, caratterizzato da ipermonitoraggio degli stati interni, rimuginio, perfezionismo, rigidità su regole di comportamento, controllo relazionale e diffidenza.

Questo ci spiega la modalità relazionale sospettosa e svalutante di Pamela nei confronti di Walt Disney e del suo staff.

Reprimere le emozioni è tuttavia un modo veramente inefficace di affrontarle, perché esse, come sosteneva Freud (1915), “proliferano nel buio”; inoltre non mostrando mai agli altri la confusione emotiva che si ha dentro, come afferma Segal, “non si riceve mai la rassicurazione di essere conosciuti o compresi e amati malgrado tutto”.

E’ su queste corde che sembra aver agito Walt Disney per aiutare l’adulta Pamela ad affrontare il suo passato: empatizza con lei, valida le sue paure e condivide con lei la sua storia, segnata dal rapporto difficile con un padre duro, severo e intransigente. Walt Disney comprende l’importanza di mantenere “un ricordo meraviglioso” del padre, appunto “Saving Mr. Banks”, ma la esorta a lasciare il passato (“La vita intera è una condanna troppo lunga per chiunque, Pamela!”) e la sprona a costruirsi una vita incentrata sulla consapevolezza delle emozioni negative e sull’accettazione del fatto che qualcuno di importante per noi ci ha in qualche modo ferito, seppure involontariamente.

Difendendo Mr. Banks Pamela difende se stessa dagli incubi della sua infanzia, dal vortice dei ricordi, dai modelli operativi interni che le sussurravano di salvare i suoi legami di attaccamento, minacciati dall’alcolismo del padre e dalla depressione della madre.

Ma non salviamo le persone imprigionandole in una rappresentazione idealizzata che non ci permette di arrabbiarci con loro o in un’immagine completamente svalutante che non ci permette di placare la nostra rabbia nei loro confronti; le salviamo solo quando riusciamo ad introiettare una visione unitaria e integrata della persona, resa possibile solo dalla comprensione dell’altro nei suoi aspetti positivi e negativi.

Durante la realizzazione del film di Mary Poppins si riattivano in Pamela i frammenti di vita più dolorosi e immergendosi nuovamente in essi, è costretta a cercare di comprendere le ragioni dei modi di agire dei suoi genitori, facendo suo anche parte del loro dolore. Occorre infatti passare del tempo a piangere il tema doloroso di vita per riprogettare piani di vita più funzionali. Solo in questo modo le è possibile perdonare in modo autentico il padre e la madre per la loro incompetenza genitoriale.

L’accettazione dei genitori e la formazione di rappresentazioni integrate di essi, è il solo passo che potrà permetterle di crearsi anche un’immagine di se stessa scevra dal senso di onnipotenza e piena della consapevolezza che tutti noi siamo umani imperfetti, ed in quanto tali, abbiamo bisogno degli altri.

C’è un momento nel film in cui ci accorgiamo che il processo di elaborazione degli eventi traumatici dell’infanzia di Pamela si sta ormai compiendo: le sue lacrime iniziano a scendere sentendo Mary Poppins affermare: “A volte una persona che amiamo, anche se non per colpa sua, non vede più in là del suo naso”. E’ in quell’istante che la scrittrice comprende completamente suo padre e lo salva, ma non da Walt Disney, dalla rigidità della sua idealizzazione, iniziando ad integrare una visione realistica del papà.

Saving Mr. Banks è in realtà un Saving Mrs. Travers: solo costruendosi nuove rappresentazioni dei genitori, e di loro stessi nel rapporto con lei, Pamela può salvare se stessa da una vita costellata di solitudine, freddezza emotiva, scoprendo il calore della condivisione e dell’accettazione autentica tra esseri umani.

Consigliato ai nostalgici, ai sognatori, ai figli, ai genitori e soprattutto a chi fatica a fare i conti con le sofferenze del passato.

 

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro: dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

Secondo un team di psicologi della San Francisco State University avere uno sbocco creativo fuori dall’ufficio può aiutarci a svolgere meglio il nostro lavoro: indipendentemente dal tipo di hobby, chi ne ha uno ha anche maggiori probabilità di trovare soluzioni creative a problemi di lavoro e di cambiare le proprie abitudini per dare una mano ai colleghi.

I ricercatori hanno esaminato circa 350 persone (con una varietà di posti di lavoro e una varietà di hobby) indagando su quello che facevano nel loro tempo libero e su come si comportavano al lavoro.

I risultati dell’indagine indicano che chi aveva un hobby aveva punteggi di performance tra il 15 e il 30 % più alti rispetto a chi si impegnava in attività creative solo occasionalmente.

I ricercatori hanno anche esaminato un secondo gruppo di 90 americani, capitani dell’Air Force.

Il loro obiettivo era verificare se un hobby avrebbe potuto fare la differenza anche in persone già bene addestrate a risolvere problemi difficili e ad aiutare gli altri. Anche in questo caso avere uno sbocco creativo ha potenziato le performance lavorative.

I risultati dello studio indicano che c’è una correlazione tra l’avere uno sbocco creativo, un hobby, e l’essere creativi al lavoro, ma non ci dice cosa influenzi cosa. Probabilmente i comportamenti si rinforzano a vicenda, concludono i ricercatori, in un circolo virtuoso di soddisfazione e voglia di fare che fa sentire più carichi di energia e di impegno, sia al lavoro che a casa.

Insomma d’ora in poi ricordiamoci che non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro, ma che dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

 

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Fidati, sei intelligente! – Psicologia e relazioni interpersonali

 

 

Fidati, sei intelligente SQUARE - © bluedesign - Fotolia.comFidati, sei intelligente: una recente ricerca dell’Università di Oxford ha valutato la relazione che intercorre tra fiducia, intelligenza, felicità e salute. Nello specifico, Carl e Billari (2014) hanno utilizzato i dati del General Social Survey (GSS), una grande intervista che è stata somministrata a un campione di adulti americani ogni 1-2 anni a partire dal 1972, e si sono concentrati su quattro variabili.

L’intelligenza è stata valutata con due test di vocabolario.

La fiducia generale negli altri e nel genere umano è stata valutata con una semplice domanda, che chiedeva ai partecipanti “In generale, diresti che ti puoi fidare della maggior parte delle persone o che non si è mai troppo attenti quando si ha a che fare con gli altri?”; la domanda prevedeva tre possibili risposte: “mi posso fidare”, “non mi posso fidare” e “dipende”.

La salute generale è stata valutata con la risposta alla domanda “Diresti che la tua salute fisica in generale è eccellente, buona, discreta o scarsa?”, e anche in questo caso i partecipanti avevano le 4 opzioni di risposta proposte.

Anche la felicità, infine, è stata valutata con una domanda diretta al campione, che chiedeva “Nel complesso, come diresti che ti vanno le cose in questo periodo? Diresti che sei molto felice, abbastanza felice o infelice?”.

A questo punto, i ricercatori hanno indagato la relazione tra intelligenza, felicità, salute e fiducia negli altri, controllando anche per diverse variabili demografiche (come genere, età, etnia, lingua, istruzione, stato civile e introito economico).

Le analisi dei dati hanno evidenziato due risultati importanti.

Innanzitutto, sembra ci sia una forte correlazione tra intelligenza e fiducia, anche considerando nel modello i fattori sociodemografici. In altre parole, gli autori ci dicono che persone più intelligenti tendono a fidarsi più delle persone, considerate come un insieme; si affacciano al mondo, insomma, più fiduciosi e convinti che gli altri possano essere un elemento positivo anziché un pericolo da cui guardarsi. Carl e Billari si spiegano questo risultato alla luce della teoria Darwiniana, e sostengono che la capacità di valutare gli altri come persone degne di fiducia sia una sfaccettatura particolare dell’intelligenza umana che si è evoluta con la selezione naturale.

In secondo luogo, sembra che alti livelli di fiducia siano correlati a alti livelli di felicità e salute riportati, anche controllando per il livello di intelligenza. In sostanza, secondo Carl e Billari persone che si fidano del mondo, a prescindere da quanto sono intelligenti, sono anche più felici e più sane. In realtà questo dato in particolare è da valutare con cura, perché, vista la natura del tutto soggettiva dei dati (riportati dai soggetti con una sola domanda) e vista la contemporaneità della raccolta delle risposte, è possibile che in realtà la situazione sia rovesciata, cioè che persone in un periodo che valutano come particolarmente felice e buono da un punto di vista fisico, siano anche meglio predisposte verso le altre persone, risultando come più fiduciose nel confronti degli altri.

Il dato relativo al rapporto tra fiducia e intelligenza, invece, sembra essere corroborato anche da precedenti ricerche, che hanno sottolineato come l’intelligenza all’età di 10-11 anni predica la fiducia a 34 anni (anche controllando per numerosi fattori socio-economici) (Sturgis et al., 2010) e hanno spiegato la correlazione tra fiducia e livello di istruzione è alla luce delle abilità cognitive (Hooghe et al., 2012).

 

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Corporate Psychopath - Immagine: © bilderstoeckchen - Fotolia.com - SQUAREPsicopatia: lo psicopatico nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Un interessante articolo dell’Fbi suggerisce quali linee guida occorre tenere nel lavoro investigativo con soggetti psicopatici. La psicopatia è una struttura di personalità in cui prevalgono l’incapacità di provare senso di colpa, la tendenza sistematica a prevaricare e a manipolare gli altri, nonché la costruzione di un’immagine di Sé falsa e irrealistica che viene utilizzata nei contesti interpersonali.

Il soggetto psicopatico riesce spesso a farsi ammirare negli ambienti sociali che frequenta poiché nel primo impatto con le nuove conoscenze assume una maschera brillante, ricca di abilità e risorse.

Il suo obiettivo è in generale essere riconosciuto come individuo carismatico; più nello specifico, esercitare su alcune persone da lui designate un’influenza manipolatoria che gli permetta di ottenere vantaggi concreti, denaro, successo, potere. L’assenza di un sentimento di colpa lo rende freddo e strategico nel perseguire i propri scopi a danno del prossimo, mentre le doti che spesso effettivamente possiede – eloquio fluente, capacità di persuasione, slancio prorompente nel portare avanti le proprie posizioni – gli consentono di conquistare la suggestione e l’obbedienza dell’altro.

Il soggetto psicopatico ha una maschera diversa per ogni contesto in cui agisce, talvolta per ogni singola relazione di lavoro o di amicizia, penetra negli stati mentali dell’interlocutore riuscendo a individuarne le vulnerabilità per sfruttarle a proprio vantaggio.

Nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Analogamente, la sua impulsività e la ricerca del rischio sono spesso intesi come dimostrazione di energia, capacità di azione, abilità nell’esecuzione di compiti complessi, mentre la natura irrealistica degli obiettivi che si pone viene facilmente confusa con un talento visionario; da ultimo, la mancanza di empatia finisce per essere valorizzata come segno inequivocabile di una predisposizione a guidare le operazioni con sangue freddo e pianificazione strategica. Quando un soggetto psicopatico si imbatte nella Polizia i rischi per gli investigatori sono molteplici; in primo luogo, la fascinazione con cui lo psicopatico è riuscito a manipolare i suoi collaboratori potrebbe riprodursi nella relazione con gli inquirenti, sui quali egli cerca di instaurare lo stesso dominio psicologico che l’ha sostenuto nei misfatti precedenti.

Diventa perciò indispensabile riconoscere queste dinamiche e possedere un’elevata consapevolezza delle proprie modalità di funzionamento relazionale, dei propri stati emotivi, così da identificare le interferenze che si producono nell’interazione con lo psicopatico. Quest’ultimo è solito isolare le vittime esattamente come un predatore e ciò richiede che il lavoro investigativo si sviluppi come un gioco di squadra, in modo che ogni soggetto impegnato nel rapporto con lo psicopatico si avvalga di un confronto e di un monitoraggio costante resi possibili dalla collaborazione coi colleghi.

Lo psicopatico, pur non riuscendo a creare un’intimità affettiva con nessuno – del resto non ne ha bisogno per realizzare i suoi scopi – è in grado di generare vincoli emotivi, relazionali, persino fisici con le sue vittime, osservando questi effetti dall’esterno, nella corazza della propria anaffettività ma facendoli percepire all’altro come conseguenze inevitabili di un’empatia reale, di un rapporto autentico.

L’investigatore deve quindi gestire i tentativi dello psicopatico di suscitare una complicità sottile; lo psicopatico può cercare di instaurare un legame fondato sulla possibilità esclusiva di comprendersi reciprocamente in virtù di un’intelligenza speciale condivisa, e se questa manipolazione ha successo le ripercussioni sono gravi.

Generalmente gli indicatori linguistici ed espressivi – l’enfasi con cui lo psicopatico racconta di sé – possono permettere all’inquirente di orientarsi in maniera corretta; la personalità psicopatica è riconoscibile per l’autocompiacimento che rivolge alle proprie gesta, per la sicurezza che ostenta anche quando viene messa con le spalle al muro, elementi che non sfuggono ad un poliziotto esperto.

Le vittime dello psicopatico temono le ritorsioni che potrebbero subire esponendosi, per questa ragione è fondamentale che gli investigatori sappiano costruire con loro una relazione di fiducia, così da ricavare informazioni preziose sulle azioni del colpevole.

Che dire, quindi? La realtà delle manipolazioni criminali supera l’immaginazione delle serie televisive, e la figura dello psicopatico rimane misteriosa, diabolica. Da studiare.

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Secondo uno studio recentemente pubblicato su The Journals of Gerontology i pensionati che utilizzano Internet hanno un terzo in meno di probabilità di andare incontro alla depressione dei loro coetanei non internauti.

Un dato rilevante, se si pensa che la depressione colpisce quasi l’8% degli americani di età superiore ai 50 anni, cioè tra i 5 e i 10 milioni di persone. Gli anziani, in altre parole, sono molto più vulnerabili alla depressione, alla solitudine e all’isolamento sociale rispetto alle persone più giovani.

E infatti l’uso di internet ha avuto un forte impatto nel ridurre la depressione sopratutto sulle persone che vivevano da sole; questo dato suggerisce che l’uso della rete sia davvero un mezzo di collegamento con gli altri, capace di ridurre il senso di isolamento e la solitudine.

Un team di ricercatori della Michigan State University ha analizzato le risposte di 3.075 uomini e donne che non vivevano in case di cura; i dati sono stati raccolti nell’arco di sei anni dalla U.S. Health and Retirement Survey, un ampio studio di popolazione che si è concentrato su come le persone affrontano la transizione al pensionamento.

I ricercatori hanno identificato la depressione attraverso le risposte ad un questionario di 8 items, inoltre ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto se facessero uso di Internet per la posta elettronica o per altri scopi.

Circa il 30% dei partecipanti alla ricerca usavano Internet: quando i ricercatori hanno confrontato i punteggi sulla depressione, hanno scoperto che chi aveva l’abitudine di andare on-line aveva un 33% in meno di probabilità di essere depresso rispetto a chi non usava internet.

Lo studio non ha esaminato quanto e come Internet venisse usato dagli utenti, ma sappiamo da studi precedenti che gli anziani sono per lo più interessati a comunicare con la famiglia e gli amici, di solito tramite e-mail.

Molti anziani hanno anche problemi di mobilità e di salute che gli impediscono di viaggiare e di fare visita alla famiglia, per questo motivo essere in grado di utilizzare l’e-mail per vedere le foto di figli e nipoti li aiuta a mantenere i contatti.

Cotten, il ricercatore a capo dello studio, sottolinea che imparare a usare internet per un anziano è sicuramente più difficile che per un bambino, ma i dati della sua ricerca mostrano che 80enni, 90enni e addirittura i centenari possono ancora imparare a usare il computer e Internet; inoltre gli anziani sembrano preferire i tablets ai computer tradizionali o ai portatili, più facili da usare e anche da trasportare.

 

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Laura D’Aniello

 

 

Trasmissione intergenerazionale violenza - Immagine:  ©drubig-photo - Fotolia.com Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con l’altro” appresa dai modelli genitoriali.

La trasmissione della violenza familiare di generazione in generazione è attualmente oggetto di studio, con particolare attenzione alla connessione con la regolazione emotiva e gli aspetti di relazionalità familiare che svolgono un ruolo fondamentale nello stabilire il benessere emotivo e lo sviluppo relazionale dei bambini.

Siegel (2013) sottolinea come i bambini che assistono a violenza all’interno della coppia genitoriale correrebbero un rischio maggiore di riviverla nelle relazioni intime da adulti.

Esplorando il contesto d’apprendimento delle famiglie d’origine, emerge quanto possano essere diversificate le situazioni in cui i bambini si trovano ad essere testimoni di violenza: essa può essere perpetrata sia dal padre che dalla madre e, nelle rispettive famiglie, uno o entrambi i genitori possono essere stati vittime di abuso (Barner & Carney, 2011). E spesso il maltrattamento fisico è accompagnato da quello emotivo, sebbene non tutte le relazioni emotivamente abusanti culminino poi in violenza fisica.

I bambini, crescendo in un ambiente familiare di questo tipo, sarebbero esposti a conflittualità e ostilità tra partner, che è stato dimostrato danneggiarli anche in assenza di abuso vero e proprio (Amato, Loomis & Booth, 1995; Gottman & Katz, 1989; McNeal & Amato, 1998). Inoltre, un clima di violenza familiare può causare triangolazione dei figli e loro coinvolgimento nella relazione di coppia, creazione di alleanze insane (ad esempio, madre-figlia e padre-figlio) e tendenza all’auto-colpevolizzazione da parte dei bambini che possono pensare di essere, in qualche modo, la causa del marasma familiare (Grych, Raynor, & Fosco, 2004; Kerig & Swanson, 2010); non è insolito, infine, che essi possano vivere rifiuto o aggressioni conseguenti al conflitto genitoriale da parte di uno dei genitori o da entrambi.

In questa cornice, una prospettiva sistemica che indaghi una possibile ereditarietà della violenza riconosce come tali dinamiche di coppia possano riverberarsi sui figli e come le riorganizzazioni e le ristrutturazioni dei ruoli familiari che ad esse fanno seguito possano innescare reazioni o collocazioni dei bambini in ruoli familiari che vanno contro uno sviluppo emotivo e cognitivo “ideale” e che potrebbero dare origine all’apprendimento della violenza (Gagne, Drapeau, Saint-Jacques, & Lepine, 2007; Struge-Apple, Skibo, & Davis, 2012).

Ciò accade, ad esempio, quando adulti che non sono capaci di consolarsi da soli (forse in virtù di un apprendimento a sua volta derivato dalla famiglia d’origine) si rivolgono inappropriatamente ai loro figli per avere conforto: possono crearsi così modalità relazionali in cui i bambini vengono collocati in ruoli con responsabilità non adeguate all’età e che, di conseguenza, precludono una risposta adeguata ai loro bisogni oppure vengono disillusi nell’aspettativa che le loro necessità d’affetto siano notate o soddisfatte dai genitori (Hooper, 2007).

In questi casi, i figli possono anche mettere in atto tentativi di protezione del genitore maltrattato o vittimizzato (Amato et al., 1995; Cummings & Davies, 2010) “perdendo di vista” se stessi: i bambini, traendo la conclusione che un genitore sia incapace di proteggersi, non crederanno facilmente che sia in grado di fornire loro protezione, per cui non solo “prenderebbero il suo posto”, amandolo e cercando di meritare il suo amore, ma apprenderebbero anche che la violenza perpetrata dall’altro genitore sia un modo per esprimere e dimostrare l’amore.

Alla luce di questa prospettiva, le donne si sentirebbero amate nella cornice di una relazione violenta perché questa, in qualche modo, ripropone le antiche modalità relazionali vissute nella famiglia d’origine dove l’amore ricevuto era in funzione di quello dato “nonostante tutto”, della sopportazione e dell’idea che una buona partner debba rimanere al suo posto anche “nella cattiva sorte”. È così che si instaurerebbe il circolo vizioso di desiderare intensamente di essere amata proprio da chi convalida quest’idea.

Siegel (2013) approfondisce, inoltre, l’apprendimento dei bambini che assistono alle aggressioni incontrollate di uno dei genitori (di solito il padre), sottolineando come possano sperimentare un’identificazione vicaria che cambi il loro livello di fiducia e sicurezza nei confronti del genitore aggressivo. Ciò significa che per poter tollerare e controllare la paura, diventerebbero a loro volta violenti.

La violenza, in questi termini, potrebbe essere intesa come un apprendimento del tipo “È così che papà controlla la paura, è così che ama, è così che si fa”, per cui, parallelamente all’apprendimento ipotizzato per la donna, questo potrebbe essere il versante maschile, dove l’uomo reitererebbe comportamenti violenti perché appresi dai modelli genitoriali.

Introducendo i contributi della ricerca neurobiologica (Briere, 2002; Gunnar & Fisher, 2006; Perry, 2009; Yates, 2007), Siegel collega, inoltre, la violenza perpetrata ad un danneggiamento nella funzione della regolazione emotiva: i maltrattanti sarebbero carenti nella capacità di osservare, comprendere e gestire l’escalation delle emozioni, così come nelle competenze necessarie per risolvere le divergenze ed i problemi in modi costruttivi e non violenti.

Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con” appresa dai modelli genitoriali.

 

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Tutto bene signora. (2013) di Francesco Bricolo - Immagine: © Pragmata EdizioniDiciamolo subito, questo non è un libro per tutti, anche se i due protagonisti, Tiberio e Sabrina, sono invece una coppia come tante: lui ingegnere edile, lei insegnante, sposati da anni e con due figli: il ventenne  Tommaso e la diciassettenne Chiara. Vite comuni nella Milano dei nostri giorni; persino il cognome, Brambilla, è una garanzia di normalità.

Tiberio deve ritagliarsi del tempo dal lavoro per fare qualche accertamento: negli ultimi tempi è dimagrito, si sente stanco; Sabrina lo accompagna in ospedale per un controllo, il medico di famiglia ha prescritto una gastroscopia. Nell’attesa dei risultati un po’ di timore, certo, ma il quotidiano ha le sue scadenze, impossibile crogiolarsi nella preoccupazione. Il risultato arriva ed è quanto mai impietoso: un cancro all’esofago, in stadio già molto avanzato. Ma questo Sabrina non viene a saperlo; non lo sa perché Tiberio, semplicemente, non glielo dice. Anzi, dice che va tutto bene. La vita scorre come sempre, Sabrina è contenta e non ci pensa più: l’ansia dei giorni precedenti si volatilizza. Sta arrivando il Natale e Tiberio, che sa che quelle feste saranno le ultime, decide di regalare alla moglie un Capodanno in Norvegia, il viaggio sognato da anni, programmato nei minimi dettagli, e mai fatto.

Decide anche un’altra cosa: vuole ricorrere alla morte assistita, in Svizzera, la dolce morte per non soffrire, e anche questo lo decide da solo: non vuole essere un peso per chi gli sta intorno, essere trattato da “caso umano”, così dice a se stesso.

Con qualcuno, però, Tiberio parla: con la dottoressa che gli ha diagnosticato il tumore; con una suora, laureata in psicologia e che ha esperienza nell’accompagnamento dei malati terminali; con un religioso, padre Ernesto, dal quale vorrebbe avere dei perché.

Tiberio confida alla dottoressa le sue preoccupazioni e riversa sui religiosi tutta la sua incontenibile rabbia: perché Dio gli ha fatto questo? Dio deve dargli una giustificazione, lui è credente e si aspetta delle risposte.

E ancora perché Dio, come se ciò non fosse abbastanza, è contrario all’eutanasia? Si deve anche morire con dolore, non basta forse già dover morire? Perdere la dignità in un letto di ospedale è cosa necessaria per onorare la vita?

Sabrina, intanto, continua a non sapere nulla e pregusta tranquilla il suo Capodanno; proprio a Capodanno ci saranno nuovi, imprevedibili, eventi, che renderanno a Tiberio sempre più complicato condividere con gli altri la sua realtà di persona che si prepara alla morte.

Perché, in modo asciutto, senza mai cadere nel melodrammatico e nel patetico, proprio di questo il libro parla: della morte, sviscerando uno dopo l’altro, con precisione chirurgica, tanti temi difficilissimi che a giorno d’oggi sono tabù. Si parla apertamente, con un linguaggio quotidiano, di quello di cui nessuno vuole mai parlare: di malattia inguaribile, di paura della morte, di paura della sofferenza, di suicidio assistito, di diritto di scelta e, anche, di vergogna. La vergogna nello scoprirsi vulnerabili ed indifesi di fronte agli altri e di fronte ad una realtà che non possiamo assolutamente controllare.

Non si parla mai di queste cose; scrive in un blog, sul Corriere della Sera, Caterina Croce:

“Siamo impegnati a schivarla, a tacerla, a negarla, la morte. Ne parliamo se solletica il nostro senso del macabro: se c’è uno zio orco o una sorellastra invidiosa, se c’è una mamma Medea o un vicino squilibrato. Ne parliamo quando il suo avvento è così ingiusto, inatteso e incalcolabile che possiamo ascriverla alla dimensione remota e indistinta dell’eccezione: un terremoto, uno tsunami, un naufragio al largo delle coste di Lampedusa. Ne parliamo se segna una dismisura, un accidente che riguarda altri. Viceversa, parliamo poco – o quasi per nulla – della morte nella sua banalità: nel suo accadere ordinario e comunissimo”.

Tiberio è arrabbiato e anche lui non parla; scopre nel tenere il suo terribile segreto tutto per sé una dimensione di potere, l’unica possibile in una realtà che lo condanna ad essere, progressivamente, sempre più impotente. Si sente coraggioso  e contrasta con testardaggine, immerso in un delirio di autodeterminazione, i suoi interlocutori – la dottoressa, la suora psicologa e il frate- che su una cosa concordano tutti: deve parlare con moglie e figli  mettendo fine alla sua recita di normalità, smettendo di far finta che, come dichiara il titolo, vada “tutto bene”.

Perché leggere questo libro? Per deprimerci, per imparare la rassegnazione? No. Per imparare a trovare le parole. Tiberio lo capisce un po’ alla volta: non si può fare tutto da soli, condividere è un atto di enorme coraggio. Ed è, soprattutto, un atto vitale.

Sì, vitale, anche in situazioni che sembrano essere l’antitesi della vita. Vitale è questo libro, fino alla sua ultima pagina, con una conclusione che è come un inizio. E anche qui mi tornano in aiuto le parole di Caterina Croce:

 “Esercitarsi a pensare il limite è un’occasione per cambiare la propria vita, per guardare a come stiamo vivendo, per correggere il tiro, se ci pare di aver perso di vista il senso, e ritrovare la mira, per azzardare un bilancio che insieme sia un rilancio[…] E allora forse sì, se serve a cambiare e a riscoprire il gusto tondo della felicità, parlare di morte può essere una buona notizia”.

 

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Lesioni cerebrali: quali conseguenze sulle relazioni sociali?

Valentina Goduto

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una nuova ricerca ha scoperto che bambini che hanno avuto un trauma cranico possono avere delle conseguenze sulla vita sociale per gli anni a venire.

Maggiori difficoltà sono state riscontrate nella capacità di concentrazione e nel ricordare le cose con ovvie conseguenze sul modo di interagire.

Per il loro studio, i neuroscienziati presso la Brigham Young University (BYU) hanno esaminato un gruppo di bambini dopo tre anni da una lesione cerebrale traumatica, più comunemente causata da incidenti stradali. Hanno scoperto che una lesione persistente in una regione specifica del cervello poteva predire la salute della vita sociale dei bambini.

Per lo studio, pubblicato sul Journal of Head Trauma Rehabilitation, Gale e Ashley Levan hanno confrontato la vita sociale dei bambini e la capacità di pensiero con lo spessore dello strato esterno del cervello nel lobo frontale.

Le misurazioni cerebrali sono state effettuate con risonanza magnetica (MRI), mentre le informazioni sociali sono state raccolte dai genitori su una varietà di temi, come la partecipazione dei loro figli in gruppi, il numero di amici, e la quantità di tempo trascorso con gli amici.

Gli scienziati BYU hanno anche scoperto che lesioni fisiche e il ritiro sociale sono correlati con la competenza cognitiva”, definita come la combinazione di memoria a breve termine e velocità di elaborazione del cervello.

Nella interazioni sociali abbiamo bisogno di elaborare il contenuto di ciò che una persona sta dicendo oltre a quello dei segnali non verbali. Dobbiamo quindi possedere le informazioni nella nostra memoria di lavoro per essere in grado di rispondere in modo appropriato. Se si interrompe la memoria di lavoro o la velocità di elaborazione possono verificarsi difficoltà nelle interazioni sociali, afferma Levan.

Altri studi su bambini con ADHD, disturbo in cui sono interessati i lobi frontali, mostrano che la terapia può migliorare la memoria di lavoro.

I ricercatori sperano che gli studi futuri con MRI di BYU potranno valutare se i miglioramenti nella memoria di lavoro possono “curare” le difficoltà sociali causate da lesioni alla testa.

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Corpo Celeste (2011) di Alice Rohrwacher- Psicologia Film Festival

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

11° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Mercoledì 7 Maggio ore 21,00

presso il Cecchi Point, via Antonio Cecchi 17

con la proiezione del film

CORPO CELESTE

di Alice Rohrwacher (2011)

presenta il dott. Dario Consoli

Ingresso libero

SCARICA LA LOCANDINA

 PFF - corpo celeste - Locandina

 PFF PROGRAMMA 2013-2014

 

Il Film

Al centro della storia c’è Marta ed i corsi di catechismo che la stessa frequenta per accostarsi alla cresima. Con lei una famiglia in difficoltà e la comunità religiosa di una città meridionale. Persone disposte all’accoglienza a patto che ci si adegui ai rituali di una civiltà conservatrice e chiusa. L’ingenuità di Marta e il suo non riconoscersi nei comportamenti che le verranno imposti la faranno progressivamente distaccare da quel mondo.

Se l’alienazione in senso lato è il segno principale che percorre tutto il film, non solo nel girovagare e nello spaesamento di Marta m anche per la presenza di un umanità con cui è impossibile comunicare – il prete del paese dedicato agli affari della politica più che a quelli evangelici, ma anche l’insegnante di catechismo chiusa all’interno delle formule imparate a memoria ed impartite senza alcun spirito critico, e ancora il Vescovo e la sua curia intenti a soddisfare i propri bisogni nella scena che li vede attendere i preparativi della cerimonia chiusi in una stanza a mangiare ed incuranti dell’esistenza dei fedeli – il film della Rohrwacher è tutto giocato nella dialettica tra la rarefazione del suo personaggio principale, Marta, e la sovraesposizione delle persone che la circondano. Tanto lei è introspettiva e quasi stupita nella scoperta delle cose, quanto gli altri sono invadenti e rumorosi nell’occupazione dello spazio. Al corpo minuto della bambina si oppone l’opulenza sgangherata del corpo ecclesiastico in un alternanza di rumori fraudolenti e di vuoti siderali.
Girato con stile scarnificato e oggettivo, “Corpo celeste” è organizzato come un racconto di formazione, in cui l’apprendistato del personaggio procede di pari passo con la scoperta delle sovrastrutture che regolano la società dove egli si muove. Intimo ed allo stesso tempo sociale, il film costringe lo spettatore a sintonizzarsi sulle onde emotive della storia grazie ad una scrittura che preferisce suggerire più che esplicitare. I rumori di fondo e quelli sparati a tutto schermo, il contrasto tra la modernità del centro urbano e l’arcaicità del paesaggio naturale rendono la narrazione per lunghi tratti ipnotica e paradossalmente sospesa in un limbo di tragica attesa.

La regista

Alice si laurea a Torino in Lettere e Filosofia. Successivamente, ottiene un Master in sceneggiatura e linguaggio documentario presso la videoteca Municipal di Lisbona e un Master in tecniche narrative, sceneggiatura e drammaturgia presso la Scuola Holden di Torino.

La sua prima esperienza di lavoro cinematografico è nella direzione e nel montaggio del documentario Un piccolo spettacolo (2005), dove si occupa pure del soggetto, della sceneggiatura e della fotografia. La pellicola ottiene il primo premio alla Festa Internazionale del Cinema Documentario di Roma. A seguire, sempre all’interno dello stesso genere, c’è Vila Morena, diretto con Alexandra Loureiro e prodotto dalla Videoteca Minucipal di Lisbona.

Nel 2006 partecipa al film collettivo Checosamanca, presentato alla I edizione di Cinema – Festa Internazionale di Roma, nella sezione Extra. Fra il 2008 e il 2009 si occupa prevalentemente di montaggio di documentari altrui.

Il primo film a soggetto arriva nel 2011 con Corpo Celeste, presentato alla Quinzaine di Cannes, che le vale anche il Nastro d’argento al miglior regista esordiente. Nel 2014 sarà in concorso al Festival di Cannes con il suo terzo lungometraggio, Le meraviglie.

 

Dario Consoli

Dario Consoli (1985) è dottorando in Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Torino e insegna presso la NABA di Milano. Dal 2009 è docente nelle scuole superiori per il progetto Questioni di bioetica. Nel 2013 è stato research fellow presso l’Institut für Kulturwissenschaft della Humboldt-Universität di Berlino. Ha pubblicato contributi in diversi volumi collettanei, su riviste italiane – tra cui Aut aut – ed è in uscita la sua prima monografia su Peter Sloterdijk per l’editore il Melangolo. I suoi temi di ricerca si collocano all’interno della filosofia sociale, concentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di soggettivazione nella società contemporanea. Si occupa inoltre di progettazione culturale e fa parte del direttivo dell’Associazione Laboratorio Corsaro e dell’Associazione Culturale Franco Antonicelli.

Vi aspettiamo numerosi

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Programma 2013-2014 del PFF

ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

Someone Beside You e l’approccio Windhorse alla malattia mentale

Matteo Bessone, Paola Parini

 

 

Someone beside youI racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi sintomi, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Someone Beside You – Qualcuno accanto a te è un roadmovie di Hedgar Hagen del 2006. Illustra il viaggio di alcuni psichiatri e dei “loro” pazienti attraverso Svizzera, Francia, USA e Italia. Lungo il viaggio i protagonisti evocheranno nuovi approcci alla malattia mentale e nuove rappresentazioni di questa, utilizzando alcuni concetti mutuati da approcci orientali, soprattutto in seno al buddismo.

Durante tutto il film i protagonisti sono in viaggio, in movimento, lo stesso movimento incessante la cui consapevolezza emerge tramite pratiche meditative e in cui è inevitabilmente immerso lo stesso percorso di continua conoscenza della psicologia. Lo scenario di tale movimento è il mondo esterno e non il setting clinico. Gli autori suggeriscono che la guarigione dalla psicosi, possibile, possa avvenire più facilmente nel naturale contesto ecologico.

Non ne emerge una critica diretta, rancorosa, agli approcci psichiatrici o psicologici dominanti, ma i protagonisti, seppur esperti (talvolta anche per esperienza vissuta in prima persona), si fanno portatori di un atteggiamento peculiare, tanto relazionalmente, con i pazienti, quanto di fronte al disagio di questi: traspare un’apertura amorevole, un’umanità compassionevole dei dottori nei confronti di quelli che una certa psichiatria preferisce identificare come propri oggetti (di studio), e che tende a catturare tramite una presunta conoscenza oggettiva e reificante.

Emerge in questi professionisti la consapevolezza dell’impermanenza dell’essere: di sè, come dei “propri pazienti; della “propria scienza”, come della sofferenza altrui: una capacità di dimorare nell’incertezza, del movimento incessante, tutte consapevolezze spesso misconosciute da un certo modo di intendere le scienze “ psi” che invece tendono comprensibilmente, e come qualsiasi altro sistema di significato, ad identificarsi in maniera irremovibile e ad ancorarsi alle proprie teorie e ai propri costrutti, che diventano in questo modo gli unici legittimi.

Durante il film si percorrono le fila della follia, tentando di seguirne le trame concettuali che vengono intessute dall’incontro di psicologia occidentale con le pratiche orientali. La follia viene evocata come un “Secondo Stato Umano”, uno stato in cui emerge il lato opposto della persona per come questa viene conosciuta da sé e definita dal mondo attorno a lei.

A tutti è possibile aver accesso a tale stato dal momento che avere una mente equivale già alla possibilità di perderla. La possibilità di far emergere tale lato opposto permette alla persona di lottare ostinatamente per il diritto di non essere capiti, mantenendo uno spazio di individualità che le permetta di andare oltre se stessa, trascendendosi, fino a fondersi con il mondo.

All’interno dell’approccio Windhorse un ruolo fondamentale è giocato dall’espressione “Isola di chiarezza” che sta ad indicare come anche nei momenti di maggior difficoltà, quando la mente corre via, alla folle velocità della psicosi, può accadere che in tutto quel folle impazzare di pensieri, improvvisamente, per un istante sospeso, tutto si fermi. Come nell’occhio di un ciclone, si crea una sorta di isola di calma dove la consapevolezza è possibile.

Accade allora che la persona si renda conto della “differenza di stato” rispetto all’impazzare di prima. E’ questo il processo che ha forse portato Podvoll, padre del “Progetto Windhorse”, a definire la psicosi come secondo stato.

Ed è proprio la possiblità di condivisione di tali illuminanti momenti di chiarezza (la psicologia occidentale li chiamerebbe insight, da cui “insight meditation”, uno dei sinonimi di mindfulness) che è alla base del progetto Windhorse:

Avere accanto qualcuno” che faccia da testimone, con la sua semplice presenza, con la qualità del suo essere, per ricordare quello che è successo poc’anzi, e insieme aiuti a ricostruire il processo, a capire come accade che la mente si perda… e poi ritorni.

“Riconoscere le isole di chiarezza” è uno dei dieci punti che illustrano le caratteristiche della “Basic Attendance”, il “modo”, l’Attitudine tipica dell’approccio Windhorse.

E’ difficile, quando non fuorviante, esplicitare un approccio basato sullo “stare con”, altamente esperienziale. Certamente vengono in aiuto alcuni suggerimenti di Kabat Zinn che concernono la Mindfulness:

[…]‘non è una tecnica, è una ‘modalità’, è un Modo di Essere, un Modo di Vivere, un Modo di Ascoltare, un Modo di Percorrere il cammino della vita, in armonia con le cose così come sono.

Le radici orientali dell’approccio Windhorse, lo rendono molto meno interventista di qualsiasi approccio occidentale. L’importanza del clima emotivo che viene a crearsi con l’intera équipe, contribuisce a far emergere un movimento trasformativo del paziente e della sua energia. Un movimento che va verso un equilibrio più armonico, maggiormante integrato rispetto a tutte le istanze presenti, interne ed esterne.

Si potrebbe forse provare ad utilizzare l’omeopatia come metafora, sia per la somiglianza dell’effetto del farmaco al sintomo che si vuol curare: il terapeuta/farmaco e il paziente/sintomo sono simili (omeo), entrambi umani, entrambi, direbbe Podvoll, con una mente che si può perdere. La funzione stimolante del farmaco omeopatico, simile a quella dei vaccini, sul sistema immunitario e sull’attivazione del corpo volta ad attivare tutti i meccanismi omeostatici nella direzione della guarigione, può ricordare la tendenza Windhorse a non risolvere i problemi al posto del paziente, ma a stargli accanto, il più possibile, a volte con un semplice rispecchiamento, più spesso con la propria semplice presenza, mentre egli cerca di trovare, autonomamente ma con un accompagnamento, le proprie soluzioni.

I racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi “sintomi”, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Karin, la prima paziente intorno alla quale è nato il primo progetto Windhorse, narra con stupore del rapporto con Podvoll: “Egli mi credette, di solito gli psichiatri non credono ai pazienti.”

La psichiatria sicuramente ha aperto le proprie porte negli ultimi decenni, sempre più tentata, anche solo per motivi di convenienza, da approcci basati sulla domiciliarietà più che non sul ricovero in strutture (esemplare è l’aumento del tasso di dimissioni del 1965 in USA quando la normativa relativa a Medicare e Medicaid, i due programmi di assistenza sanitaria pubblica, ha iniziato a prevedere fondi federali per l’assistenza in comunità alloggio mentre sussidi analoghi non erano previsti per le strutture ospedaliere).

Qual è allora la peculiarità di Windhorse? Cosa lo differenzia da un qualunque altro intervento integrato?

In primis, la pratica della meditazione, che accomuna i membri dell’équipe e che viene svolta sia singolarmente, che in gruppo. Questa crea un terreno comune, la “coltivazione”, appunto, di quell’atmosfera e quelle modalità di ascolto non giudicanti, fondamentali per un reale incontro con l’altro a partire da una profonda conoscenza di sè. La particolarità della meditazione windhorse si evince anche durante le riunioni d’equipe: il modo di discutere i problemi non può prescindere dalla posizione interna di “ascolto non giudicante”. Questo non significa però che non esista il conflitto, anzi, se è importante “stare con quello che c’è” (o che “non c’è”) nulla può essere lasciato fuori.

“L’attenzione all’ambiente” viene a configurarsi quindi come attenzione allo spazio interpersonale, dove può nascere, se coltivata da curiosità e benevolenza, un’autentica relazione. In questo spazio è fondamentale la real ” presenza” di tutti i presenti.

Da un punto di vista pratico, quello che avviene in un progetto Windhorse è la costituzione di un’équipe terapeutica formata da almeno due Basic Attenders, uno psicoterapeuta, in alcuni casi uno psichiatra e un medico di base. Tale équipe sarà tenuta a muoversi nella rete che è stata costruita attorno al paziente per integrare l’approccio Windhorse, che necessita di incontri regolari, con gli altri approcci in essere. Dopo una prima fase di indagine dei bisogni della persona e degli altri abitanti della casa (nel caso di un progetto domiciliare) si stabilisce quanti turni di Basic Attendance e quante sedute di psicoterapia possano essere ottimali per il paziente. Le riunioni d’équipe si tengono con cadenza quindicinale o settimanale, mentre a cadenza mensile è previsto un incontro con il paziente e gli abitanti della casa o altri familiari o persone coinvolte nel progetto e tutta l’equipe.

Questo significa prendere in carico anche altri eventuali componenti del nucleo familiare, occuparsi anche della sofferenza della famiglia. La sofferenza del paziente non è esclusivamente sua, ma trova spazio anche in quella famiglia stessa che è possibile abbia contribuito a generarla. Ancora una volta, nessuno può essere lasciato fuori.

Come scrive E. Podvoll in “Recovery Sanity”: “La Basic Attendance agisce oltre che sul paziente anche sull’ambiente che la persona abita e frequenta […]”. Si tratta di organizzare momenti di presenza al fianco del paziente presso la propria abitazione o presso i luoghi che via via si ritengono coerenti con i bisogni espressi dal percorso terapeutico. Ogni “turno” ha qui una durata di tre ore. Svolgere un “turno” di Basic Attendance non significa semplicemente “stare accanto” a qualcuno, ma prendersi carico di qualsiasi cosa abbia una diretta attinenza con lo stare vicini ad una persona che decide di intraprendere un percorso fragile, incerto e a volte drammatico verso la propria guarigione.

I principi sono detti “di base” (basic) in quanto sono riconducibili alla condizione basilare e fondamentale del sincronizzare corpo, mente e ambiente nelle normali attività della vita mantenendo l’attenzione al presente, momento per momento, e affinando le percezioni.

Questo tipo di servizio prende di volta in volta connotazioni pratiche diverse: fare l’accompagnatore, il tutore, la guida …”

Negli ultimi anni Windhorse si sta aprendo anche, per quanto riguarda i momenti di incontro allargato alle famiglie, alle esperienze di “Open Dialogue” portati avanti da Seikkula.

Quello che più stupisce del film è la posizione degli esperti. I protagonisti suggeriscono una conoscenza del folle e della sua follia, non tanto attraverso categorie psicologiche consolidate, ma tramite un gentile ed autentico incontro di diverse umanità.

Un incontro in cui si fa cruciale l’abbandono dell’arroccamento difensivo (identificazione) dietro i rispettivi ruoli di paziente-terapeuta. Guardando Someone Beside You, in certi momenti, soprattutto durante le prime scene, l’identificazione di chi sia paziente e chi terapeuta non è così facile. Il setting classico viene completamente scardinato in favore di quello che potrebbe essere chiamato un “controtransfert globale” che si avvicina molto ai concetti di “posizione terapeutica” della psicologia e psicoterapia di strada.  o alla necesssità di “interiorizzare il setting” espressa da Sergio Erba a proposito del setting psicoanalitico. (N.B. in questo testo, Sergio Erba utilizza i termini psicoanalisi e psicoterapia spesso come sinonimi).

“Senza setting, l’analisi non poteva aver luogo (…) si finiva con l’utilizzarlo solo nella sua forma nei suoi aspetti esteriori, fisici. E nel ruolo di custode dell’ortodossia che il setting si era ritrovato a ricoprire,esso si comportava come un ringhioso mastino che, non essendo stato addestrato a distinguere tra amici e nemici, finiva per abbaiare indistintamente contro tutti.

Per molto tempo infatti, coloro che si sono avventurati nel trattamento delle psicosi si sono visti squalificare la loro esperienza come non psicoanalitica solo perchè avevano dovuto apportare modifiche al setting tradizionale. Oggi che l’esigenza di allargare gli ambiti dell’applicazione psicoanalitica è particolarmente sentita e diffusa, il problema di questa rigidità si ripropone con forza. MI è capitato sovente di sentire affermare, da parte di colleghi, su questo argomento, che “bisognerebbe interiorizzare il setting” (…) in altri termini, l’esigenza di possedere una sostanza per essere liberi rispetto alla forma. Se so che il setting è essenziale, ma non dispongo di un convincente perchè, sono costretto ad attenermi a quella che è la forma in uso. Se invece posseggo un perchè, sono la sostanza, la funzionalità a diventare il mio punto di riferimento.”

E’ solo l’abbandono delle difese del ruolo da parte del terapeuta che può permettergli di recuperare l’abisso che lo separa dal paziente impededogli un autentico incontro.

Lo psicoterapeuta così facendo, per mezzo della curiosità e della fiducia che il paziente possa assumersi la piena responsabilità del proprio spirito, lo può aiutare a riprendere consapevolezza delle rappresentazioni di sé e del mondo trovando la giusta distanza dai propri pensieri.

Perchè questo possa realizzarsi occorre un luogo dove questo sia possibile: un luogo dove incontrarsi, uno spazio-tempo, un setting che si crei volta per volta, dove niente e nessuno venga lasciato fuori: il paziente, il terapeuta, i familiari, un luogo dove incontrare sè e l’altro. Come una tenda da nomadi, L’Ambiente Windhorse si “monta” là dove necessario, insieme a chi la abiterà e diventa luogo dell’incontro.

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Binge Drinking: le abbuffate di Alcool – Psicologia

 Teresita Forlano

 

 

Binge Drinking - Psicologia - Immagine: © creative soul - Fotolia.comIl binge drinking modalità di bere di origine nordeuropea che implica il consumo di numerose unità di alcol in un breve arco di tempo, si è ormai diffuso stabilmente in Italia, registrando dal 2013 un costante aumento in entrambi i sessi, soprattutto tra i giovani, ma sempre più tra gli adolescenti e in particolare tra i maschi.

La grande diffusione del fenomeno binge drinking, è una problematica psico-sociale emergente, questo è quanto si evince dalla ‘Relazione al Parlamento su alcol e problemi alcol correlati 2013′ pubblicata sul sito del Ministero della Salute.

Nel 2012 i binge drinkers rappresentano complessivamente il 6,9% della popolazione di 11 anni e più (l’11,1% tra i maschi e il 3,1% tra le femmine) ma tra i giovani maschi di 18-24 anni il fenomeno interessa ben il 20,1%; inoltre, il 14,8% ha ammesso comportamenti di binge drinking e, da quanto si legge nella Relazione, appare anche, nei giovani di entrambi i sessi, la correlazione, evidenziata dall’Istat, tra binge drinking e assidua frequentazione di discoteche, soprattutto nella fascia di età 18-24 anni”.

Tale correlazione, secondo il Ministero della Salute, può aggravare i pericoli derivanti dal bere e richiede pertanto un monitoraggio particolarmente attento, anche in considerazione del fatto che i giovani fra i 20 e i 24 anni continuano ad essere la classe di età più colpita dai danni per incidente stradale, uno dei più importanti indicatori di danno indirettamente causato dall’alcol. Nel 2012 sono stati 309 i morti e 31.305 i feriti in questa classe di età.

Che cos’è il Binge Drinking

Il binge drinking letteralmente significa abbuffata alcolica, e consiste nell’assunzione di 5 o più bevande alcoliche al di fuori dei pasti in un breve arco di tempo, con gravi rischi per la salute e la sicurezza. Nel binge drinking la persona ingerisce volutamente quantità ripetute di alcol in misura maggiore rispetto alle sue capacità psicologiche e fisiologiche e al contesto nel quale si trova; lo scopo patologico di queste abbuffate alcoliche è quello di provare ebbrezza fino ad arrivare alla ubriacatura completa con perdita di controllo e intossicazione. Il punto critico può essere raggiunto dopo molte ore o anche diversi giorni di assunzione. Gli episodi di Binge drinking sono contraddistinti da:

  • eccessivo consumo di alcol;
  • assunzione di alcol rapidamente in un breve arco di tempo;
  • bere fino ad ubriacarsi e a sentirsi male;
  • bere in compagnia in particolari eventi.

Si arguisce che esso è più probabile in situazioni sociali, piuttosto che, quando l’individuo è solo. I binge drinker bevono maggiormente cocktail, birra e vino mentre in misura minore i liquori. Sono attenti alla moda dell'”happy hour” proposta dai locali.

Disagi e rischi per la salute e il benessere dell’individuo

Nelle abbuffate alcoliche esiste sia la pericolosità indotta dalla quantità eccessiva di alcool, sia quella dovuta alla modalità di ingestione, la quale, amplifica l’impatto negativo sulle capacità e sulla salute psicologica, cognitiva e organica. Va sottolineato che le ripetute bevute possono avere carattere occasionale, ma purtroppo, alcune volte, si trasformano in atteggiamento frequente e poi in vera e propria patologia sia fisica che psichica, ovvero in dipendenza da alcool, con il possibile verificarsi di concomitanti sintomi di astinenza quali: depressione, disturbi del sonno, disturbi sessuali, irritabilità, problemi di performance cognitive, come problemi di concentrazione, apprendimento e memoria (sia a lungo, che a breve termine), con pericolosi sbandamenti dell’attenzione e vuoti mnemonici non solo nelle attività scolastiche o lavorative, ma anche nelle attività semplici e normali di tutti i giorni.

Fare esperienza del Binge drinking comporta problemi nelle attività quotidiane, nelle amicizie, nei rapporti affettivi, nelle dinamiche familiari, nelle aree sociali, personali, sessuali, l’individuo ha quasi sempre difficoltà a gestirsi dato lo stato di alterazione in cui si trova dopo un abbuffata alcolica.

Oltre la sfera interpersonale, lavorativa, familiare, affettiva, viene messa in serio pericolo la propria vita e salute con gravissimi rischi: incidenti, violenza, atti di vandalismo, rapporti sessuali non protetti con predisposizione al contagio di malattie virali e gravidanze indesiderate. A causa degli effetti a lungo termine sulla salute fisica con problemi e danni al sistema cardiaco, ormonale, neurologico, gastrointestinale, ematico, immunitario, muscolo- scheletrico, a livello fetale nelle donne in gravidanza, nell’attività circadiana, e sulla salute mentale con la riduzione della capacità di attenzione, concentrazione, e possibile stato confusionale, il binge drinking è considerato uno dei più grandi problemi di salute al giorno d’oggi.

Studi sul fenomeno

Recenti studi americani, dimostrano che l’alcol bevuto velocemente ha effetti maggiormente deleteri rispetto alla stessa quantità assunta con più dilazione temporale. Ulteriori studi hanno posto in evidenza il fatto che bere grosse quantità di alcol in tempi rapidi, in particolare durante il fine settimana o comunque in concomitanza di feste o ritrovi, e poi mantenere durante il resto dei giorni sobrietà dagli alcolici, è molto pericoloso in quanto, può aumentare gli effetti negativi dei momenti di Binge drinking.

Motivi che possono spingere alle abbuffate alcoliche

Le motivazioni che spingono i giovani ad avvicinarsi all’alcol possono essere: uniformarsi al gruppo , provare sensazioni piacevoli; la solitudine, evadere dai problemi, dal senso di vuoto, curarsi dalla depressione; alcuni giovani lo fanno per disinibirsi prima di un rapporto sessuale.

Prevenzione

Il binge drinking è nocivo, indipendentemente dall’età di una persona, gli operatori sanitari possono contribuire prestando maggiore attenzione alle proprie abitudini di consumo dei pazienti, soprattutto ex bevitori. Nel caso di adolescenti, interventi di tipo preventivo possono essere ad esempio: controlli periodici, riabilitazione psico-sociale e tutor coetanei che possono ridurre il livello di consumo critico. In alcuni casi si ricorre a sedute coinvolgendo i familiari del paziente.

In Italia i bevitori giovani sono aumentati, come evidenziato dal rapporto del Ministero della Salute, anche se, rispetto agli altri paesi la percentuale è minore (ma questo non deve tranquillizzare, il problema esiste comunque). I giovani sono prematuramente iniziati al consumo di alcolici, anche sotto forma di dolci con dirette ricadute sulla salute, sull’economia e sul lavoro. Efficaci strategie per ridurre il binge drinking potrebbero essere: oltre a leggi adeguate per il consumo di alcool, aumentare l’attenzione pubblica e diffondere informazioni sui rischi derivanti dal fenomeno, magari conducendo inchieste dai dipartimenti di emergenza sul comportamento pericoloso; investire nella ricerca, formare operatori sanitari e comunicare con il pubblico.

 

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– FLASH NEWS-

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Una fragranza, un profumo, scatenano ricordi. Ma come? Secondo il Kavli Institute for Systems Neuroscience la connessione è data da una sincronia di onde cerebrali.

Gli odori, dal nostro naso si traducono in e collegano ai ricordi in un’orchestra sinfonica di onde cerebrali. Ogni ricordo ha un suo luogo e una localizzazione ben precisa nella mappa interna di ognuno di noi.

 

Il legame tra odori e memoria è noto da tempo, uno studio ha recentemente scoperto il processo tramite il quale avviene questa associazione.

Sembrerebbe che le reti neurali siano collegate tramite onde cerebrali sincronizzate di 20-40Hz.

Questo processo associativo tra ricordi e profumi è stato indagato grazie allo studio di come un gruppo di ratti ai quali erano stati inseriti 16 elettrodi nell’ippocampo e in diverse aree della corteccia entorinale, sceglieva la strada in un labirinto avendo come unico indizio un odore e grazie all’associazione tra odore e luogo, i ricercatori hanno potuto ipotizzare un pattern di attività di onde cerebrali sincronizzate.

L’uso di onde cerebrali sincronizzate è presente anche nei processi di codifica e recupero dei ricordi, ma questo studio mostra per la prima volta la relazione tra lo sviluppo di uno specifico gruppo di oscillazioni nell’ippocampo alle prestazioni di memoria.

Le oscillazioni corticali potrebbero dunque essere un meccanismo generale che media le interazioni tra neuroni funzionali specializzati nei circuiti cerebrali.

 

 

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