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Disabilità e qualità della vita – Il tempo libero della persona disabile

 

 

 

 

Qualità della vita e disabilità. - Immagine: © Lifeinapixel - Fotolia.comAttualmente il concetto di salute si identifica in uno stato di benessere che coinvolge la dimensione fisica, psicologica e sociale dell’individuo.

Legata alla percezione di benessere è la qualità della vita: in pratica, un paradigma che rende la persona soddisfatta o insoddisfatta della propria quotidianità. La qualità della vita è data anche dall’impiego del tempo libero in attività gratificanti.

Nel disabile, spesso la qualità della vita appare scadente in virtù del fatto che il tempo libero è un tempo vuoto, abitato dalla solitudine e dalla noia.

 

La qualità della vita

Attualmente il concetto di salute è inteso non come assenza di malattia, ma in una accezione decisamente più ampia e completa. A questo riguardo gli organismi internazionali (Organizzazione Mondiale della Salute) hanno focalizzato la definizione di salute in una dimensione olistica, esplicitandola come una condizione di benessere che riguarda le tre dimensioni che caratterizzano la vita di ogni individuo, ovvero la dimensione fisica, psicologica e relazionale – sociale.

Laddove si vuol caratterizzare il costrutto di benessere, si deve ricorrere alla determinazione degli elementi che lo compongono. In pratica, potremmo definire un individuo in uno stato di benessere allorquando ha:

delle priorità che dirigono la sua vita;

la sensazione di guidare il corso degli eventi che compongono il suo ciclo vitale;

una buona relazionalità sociale, che lo fa interfacciare in termini positivi e gratificanti con l’alterità.

Sintonica e complementare con il concetto di benessere è la rappresentazione mentale individuale dell’idea di qualità della vita, che diviene il fondamento paradigmatico ed euristico della percezione del benessere personale. In altre parole, dalla qualità della vita le persone traggono le inferenze in grado di definire il proprio benessere in termini di presenza o assenza. I parametri che tipizzano la qualità della vita sono molteplici, ricoprendo tutti gli aspetti della vita quotidiana e fornendo gli archetipi per una prospettiva temporale positiva e ottimista. A questo riguardo si possono citare alcuni parametri, quali:

  • il possedere un’attività lavorativa appagante e gratificante;
  • l’avere la percezione della propria libertà personale;
  • il vivere in ambienti qualitativamente superiori;
  • il fruire di un tempo libero piacevole.

L’elenco potrebbe continuare all’infinito, investendo tutte le dimensioni che compongono la vita dell’individuo sia in un’ottica olistica che ecologica. Brown, citato in Soresi (2007), individua nel concetto di qualità della vita degli elementi oggettivi e soggettivi. Fra i primi sono da elencare:

  • le possibilità economiche;
  • le peculiarità dell’ambiente;
  • le condizioni di salute.

Fra i secondi sono da citare:

  • la sensazione di realizzazione;
  • la percezione della sintonia con la propria individualità e con l’alterità;
  • la conoscenza dei propri desideri;
  • l’impressione di essere sempre all’altezza del compito da svolgere in ogni situazione.

Il fatto che gli individui possano percepire in maniera differente le stesse situazioni di vita deriva dai costrutti personali che compongono la loro mappa cognitiva e che li fanno essere:

  • più o meno ottimisti,
  • più o meno fiduciosi in se stessi;
  • più o meno coscienti del proprio empowerment personale.

 

La disabilità

Attualmente, grazie alle rivoluzionarie concettualizzazioni sancite dall’ICF (2002), la disabilità è considerata uno stato di salute in un ambiente sfavorevole. In questo modo si pongono in evidenza le correlazioni che legano la percezione del proprio stato di salute e di benessere alle variabili ecologiche, che caratterizzato il contesto di vita dell’individuo, rimarcando ancora una volta come la sensazione di disabilità sia strettamente proporzionale alla qualità della vita vissuta. In altre parole, laddove il disabile ha l’impressione che la propria vita sia ricca di un vigore fisico, frutto anche di trattamenti abilitativi, riabilitativi e terapeutici idonei ed efficaci, di una serenità emotiva, di un contesto sociale, che favorisce l’evoluzione personale, che sostiene e incrementa i rapporti con gli altri individui, che non lede le prerogative personali e soprattutto che permette di esercitare il libero arbitrio, lì egli vivrà la sua disabilità come una diversa abilità.

La considerazione di tali costrutti ha permesso un salto di qualità nell’ambito dell’approccio e dell’intervento a carico della disabilità. In pratica, il paradigma fondante dei trattamenti biopsicosociali destinati alle persone affette da uno stato morboso invalidante è divenuto l’incremento della qualità della loro vita. Tale finalità si realizza, come la Donati (2003-2004) puntualizza, operando su due fronti:

da un lato ristrutturando il contesto esterno dell’individuo, ottimizzando la dimensione lavorativa e l’impiego del tempo libero;

dall’altro lato revisionando il suo contesto interiore, incrementando le chiavi di lettura positive che la persona adopera per leggere se stesso, gli altri e la realtà che lo circonda, ovvero attuando una riorganizzazione della cognitività e della percezione della realtà.

 

Il tempo libero della persona disabile

Frequentemente il tempo libero della persona disabile è un tempo vuoto, alimentato dalla noia e dalla solitudine, dal senso di abbandono e di impotenza, come messo in evidenza da Trisciuzzi, Fratini & Galanti (2010). Per lungo tempo si è provveduto ad ottimizzare il percorso scolastico e riabilitativo di chi è affetto da disabilità, trascurando questa importante dimensione che è rappresentata dal tempo non occupato, che, soprattutto, nell’adulto disabile, una volta terminata l’esperienza formativa, diviene il tempo prevalente.

I contesti educativi, nello specifico la scuola, sono chiamati ad intervenire in tal senso, insegnando al disabile tutte quelle abilità che gli possano permettere di vivere il tempo libero come un momento di gioia e non di tedio.

Wehman, citato in Donati (2003-2004), distingue nel tempo libero due parametri che lo contraddistinguono:

  • uno tangibile, legato alla porzione temporale impiegata;
  • l’altro personale, connesso alle emozioni positive e al senso di soddisfazione e di benessere che le attività svolte donano.

Nell’ambito del tempo libero della persona disabile un posto di rilievo lo deve occupare la pratica sportiva. Infatti, l’esercizio delle  attività motorie e sportive permette all’individuo diversamente abile di:

  • incrementare le risorse personali;
  • migliorare i comportamenti, le competenze, le capacità e le abilità;
  • implementare la relazione con l’alterità;
  • potenziare l’empowerment soggettivo;
  • ampliare l’autonomia personale.

Ci si riferisce, prevalentemente, all’attività fisica adattata, ovvero una pratica motoria e sportiva modificata per incontrare, accogliere e soddisfare i bisogni delle persone affette da disabilità.

A questo riguardo, già nel 1978, la Carta internazionale dell’Unesco, citata in Casalini (2008), dichiarava:

“Ogni essere umano ha il diritto fondamentale di accedere all’educazione fisica e allo sport, che sono indispensabili allo sviluppo della sua personalità. Condizioni particolari devono essere offerte ai giovani, compresi i bambini in età prescolare, alle persone anziane e ai disabili per permettere lo sviluppo integrale della loro personalità, grazie ai programmi di educazione fisica e di sport adattati ai loro bisogni”.

 

Le storie di vita: Saverio

Sono cieco dalla nascita e ho un grande desiderio che mi accompagna da sempre: vedere i colori. Ho ventitré anni: in tutti questi anni ho sempre sognato di poter assaporare per un attimo i colori. I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre descritto le cose, utilizzando i colori. So che ci sono oggetti neri, che la terra è marrone, che le foglie degli alberi sono verdi, che il mare è azzurro e che il cielo è turchese. D’estate quando sono in spiaggia cerco di gustare i colori: sento sul mio corpo i raggi del sole e immagino che esso diventi giallo come il colore del sole. La stessa sensazione la provo quando faccio il bagno in mare: penso che il mio corpo si dipinga d’azzurro.

Ho imparato nel corso della mia vita ad associare ai colori le sensazioni che provo nel corpo. Per esempio suppongo che il giallo corrisponda ad una percezione di calore. La stessa che mi regala il sole quando mi espongo ai suoi raggi. L’azzurro lo paragono a quel senso di fresco che assale il mio corpo quando faccio il bagno nel mare. Il marrone lo assoccio a quell’impressione di ruvido, di farinoso che provo quando tocco e sbriciolo una zolla di terra. Il verde lo equiparo a quel fresco che mi comunicano le foglie quando le metto fra le mani. Ad ogni colore ho imparato ad associare le sensazioni corporee. In certi momenti mi sembra di vedere attraverso il corpo. In altri momenti, in cui mi sento scoraggiato, ritengo che sia tutta un’illusione e che a me è stato negato il piacere di vedere i colori.

Quello che mi pesa in talune circostanze è la mancanza di autonomia: non posso aprire la porta e andarmene per strada così come fanno tutti. Altre volte penso di essere comunque avvantaggiato, perché ho un cane guida che mi fa compagnia e mi indica la strada quando per qualche ragione devo allontanarmi da casa. Mia madre sovente mi dice che io sono fortunato, perché ho una famiglia che mi vuole bene, degli amici che si ricordano ogni tanto di me. In alcuni giorni ci credo e penso di avere avuto dalla vita tutto quello che potevo desiderare. Altri giorni mi diventa faticoso credere a questa fortuna: mi sento in quei frangenti uno storpio che non può vedere e basta! Quando ero piccolo mio padre e mia madre mi raccontavano delle storie, delle favole. Quelle che mi piacevano di più erano tratte dalla mitologia greca. Mi intrigavano le vicende che si stabilivano fra gli dei e fra gli dei e gli esseri umani. Ogni sciagura umana era la conseguenza di qualcosa di negativo che gli uomini avevano fatto agli dei.

Da allora in poi si è annidata nella mia mente l’idea che le disgrazie di ogni uomo siano una specie di punizione inviata da forze superiori. Negli attimi di sconforto, che il mio lungo tempo libero mi regala, mi interrogo a questo riguardo, ma non mi sembra di aver fatto mai niente di male. Il mio caso è, forse, l’eccezione che conferma la regola.

 

Le storie di vita: Pasquale

Avere venti anni non è uno dei periodi migliori della vita. Ho letto questa frase in un libro e da allora mi risuona nella mente, come se fosse un’ossessione. Per una malattia neurologica le mie gambe non sono in grado di sostenere il mio corpo e né tanto meno di accompagnarmi in qualche luogo. La maggior parte della mia vita l’ho passata su di una sedia a rotelle e in questi venti anni ho avuto la sensazione di essere cresciuto, perché ho dovuto cambiare più volte le carrozzine, in base alle diverse dimensioni del corpo.

La mia mente non è stata colpita da alcun deficit e questo in certe circostanze mi dispiace, perché se le mie emozioni fossero ovattate da qualche accidente cerebrale, soffrirei di meno. In alcuni frangenti mi prende una tristezza, vedo gli altri, “i normali”, e provo quasi una forma di invidia, che mi porta ad essere scontroso e cattivo con i miei genitori, con le mie sorelle e con qualche amico che ho, perché essi camminano e io non lo posso fare. A dire la verità i miei genitori mi sostengono in ogni momento e mi aiutano a superare anche questi sbalzi d’umore. D’altra parte posso anche fare a meno delle gambe, visto che ho una carrozzina elettrica, guido l’auto e frequento l’Università. In tutti questi anni le mie sorelle e qualche amico hanno fatto a gara per spingere la mia carrozzina manuale e per accompagnarmi dove desideravo. Nei pomeriggi oziosi e vuoti penso che la mia famiglia, per via della mia disabilità, mi abbia molto viziato, dandomi tutto quello che potevo desiderare, decisamente più di quello che è stato dato alle mie sorelle.

Ho sentito spesso, di nascosto, mio padre e mia madre autoaccusarsi di avermi reso un infelice per sempre, considerato che la mia malattia dipende dal materiale genetico che entrambi mi hanno trasmesso. La loro più grande preoccupazione è per quando essi non ci saranno più. Per questo “torturano” le mie sorelle, dicendo loro che dovranno interessarsi per sempre di me. In questo modo mi fanno sentire un peso, un qualcosa di fastidioso che sarebbe bene non avere. Per rassicurarli, quando mi accorgo che sono più pensierosi del solito, dico che solitamente i genitori muoiono prima dei loro figli normali, ma questo non avviene per i figli disabili. Le statistiche affermano che i figli disabili muoiono presto, molto prima dei loro genitori. Essi mi guardano e non sanno in quel momento se ridere o piangere, rimangono molto scossi emotivamente e per questo cambiano discorso, dicono cose banali che in quel momento non hanno nessuna attinenza. Per fortuna che mi sono rimaste una dose di autoironia e una piccola vena di umorismo, che mi consentono di non prendermi troppo sul serio quando la catastrofe emotiva è in agguato.

 

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Il Matrimonio oggi, migliore o peggiore di una volta? – Psicologia

 

 

 

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?. - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.comSi è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

I Matrimoni oggi, sono migliori o peggiori di quelli di un tempo?

Si tratta di una spinosa e insidiosa domanda, visti gli attuali alti tassi di divorzi che si registrano e i fallimenti relazionali che si collezionano. Spesso conversando tra amici al bar, si dice: “Non esistono più i legami come quelli di un tempo, come quelli dei nostri nonni, duraturi si intende!”. E allora, cosa ha portato a questo cambio di direzione all’interno della coppia?

Tendenzialmente, i più tendono a rispondere in un duplice modo:

1. Se si rimane nell’ambito di una visione di declino della sfera coniugale, allora si ottiene che il matrimonio, inteso come istituzione, si è indebolito. Infatti, i tanti divorzi rifletterebbero una diminuzione dell’impegno nella coppia coniugale con relativo calo della moralità che ha danneggiato i consorti in prima persona, i bambini e la società in generale.

2. Nell’ambito della resilienza coniugale, i cambiamenti culturali subiti da questa istituzione, avendo come riferimento i nostri nonni dobbiamo guardare come erano le cose almeno due generazioni fa,  sono il segno che qualcosa è cambiato nel rispetto della autonomia delle persone che ne fanno parte, e soprattutto in favore della donna, tutelandola in una serie di diritti. Da questo punto di vista il vero danno sarebbe stato se il matrimonio non si fosse adeguato ai tempi rimanendo a un secolo fa.

Lo psicologo Eli J. Finkel  ci offre una recente terza visione della questione. La risposta alla, ormai, famigerata domanda è: “Il matrimonio, quello medio, di oggi è più debole, rispetto al suo corrispettivo di un tempo, sia in termini di soddisfazione, intesa come qualità della relazione, sia in termini di tassi di divorzio. Ma i migliori matrimoni oggi, invece, sono molto più forti, sia in termini di piacevolezza coniugale sia di benessere personale rispetto agli stessi di un tempo”.

Cerchiamo di capire questa affermazione. Consideriamo per esempio i dati riportati da uno studio condotto all’Università del Missouri in cui si analizzavano 14 ricerche longitudinali eseguite tra il 1979 e il 2002 volte a valutare la qualità coniugale e il benessere personale.

Si è dimostrato come la qualità coniugale predica uniformemente un maggiore benessere personale (ovviamente, i matrimoni più felici rendono le persone più felici ) e questo effetto è diventato molto più forte e solido nel tempo. Il divario tra i benefici derivanti da un buon matrimonio rispetto a uno mediocre, dunque, è aumentato.

Come e perché si è verificata questa divergenza?

Per rispondere a questa domanda, Finkel, insieme ad altri colleghi quali Chin Ming Hui, Kathleen L. Carswell e Grazia M. Larson, hanno sviluppato una nuova teoria del matrimonio, in via di pubblicazione.

Secondo questa nuova prospettiva, le  aspettative di matrimonio sono attualmente molto più ambiziose, ma d’altra parte,  si possono in effetti raggiungere dei livelli di qualità matrimoniale senza precedenti, visto il benessere socio-econimico nel quale ci troviamo, anche se la condicio si ne qua non è data dall’investire una grande quantità di tempo ed energia in questa partnership. Se non si fosse in grado di mettersi in gioco in questo modo, il matrimonio sarà probabilmente deludente e quindi destinato a finire. Inoltre, il matrimonio risponde sempre più a una visione dicotomica delle cose, “tutto o niente”. Quindi, o si crea una relazione secondo principi condivisi e, per raggiungerli, si  lavora molto investendo enormi energie o … “ciccia!”.

Per capire il matrimonio di oggi, è importante verificare come si è arrivati ​​al punto in cui siamo. Nel corso della storia, il sociologo Andrew J. Cherlin e lo storico Stephanie Coontz, si sono susseguite almeno tre tipologie di matrimoni. Il matrimonio istituzionale, si aveva quando c’era una prevalenza di famiglie agricole dove tutto l’interesse ruotava intorno a cose come la produzione di cibo, il riparo e la protezione dalla violenza. Questi prerequisiti erano più importanti che lo scopo stesso del matrimonio, ovvero se fosse nato o meno un sentimento tra i due coniugi.

Nell’era del matrimonio paritetico, si cambia punto di vista. Non si è più concentrati sul fare ma, finalmente, entra in gioco il sentimento, l’amore, l’essere amati e l’avere una vita sessuale appagante. Questo periodo coincideva con il passaggio dalle aree rurali alla vita urbana. Gli uomini erano sempre più impegnati nel lavoro salariato, che amplificava la diversa realizzazione sociale dei due sessi.

Poi, si passa all’era del matrimonio auto- espressivo, inteso in termini di realizzazione personale, autostima. Il matrimonio era diventato il mezzo elettivo per raggiungere la propria realizzazione.

Beh a questo punto è d’uopo fare riferimento alla “gerarchia dei bisogni” descritta nel 1940 dallo psicologo Abraham Maslow. Secondo cui, i bisogni umani si possono inserire in una gerarchia a cinque livelli: Il bisogno più basso è quello del benessere fisiologico – tra cui la necessità di mangiare e bere – seguita dal bisogno di sicurezza, da quello di appartenenza e di amore, poi dalla stima e infine troviamo l’auto-realizzazione.

L’emergere di ogni bisogno, in sostanza, dipende dalla mera soddisfazione di un bisogno più profondo. Quindi, se si ha fame è chiaro che tutta la attività è volta alla soddisfazione di questa esigenza; solo quando viene soddisfatta è possibile concentrarsi sul bisogno successivo, e così via. Questa prospettiva è vera anche per il matrimonio, e per le aspettative che lo muovono. Tali aspettative erano basse durante l’era istituzionale, medie durante il periodo paritetico e alte durante l’era auto – espressiva. La seguente scalata storica ha importanti ripercussioni sul benessere coniugale perché soddisfare le esigenze di livello superiore produce maggiore felicità, serenità e profondità della vita

Ma attualmente le esigenze degli individui della coppia sono aumentate e quindi raggiungere le aspettative proprie e altrui diventa sempre più difficile, di conseguenza proprio in questa sfera si collezionano sia dei grandi successi sia le più grandi delusioni del matrimonio moderno.

Coloro che investono di più nella coppia, passando più tempo col partner, ottengono risultati migliori. Questo significa che non bisogna mai perdere di vista cosa fare per ottenere un matrimonio di successo, ovvero lavorarci su costantemente, in termini di energie e tempo impiegato con il coniuge per raggiungere la piacevolezza relazionale; bisogna impegnarsi a tutto tondo nella relazione. Se così non fosse queste cose potrebbero essere cercate altrove ed ecco che arriva la fine della relazione.

La chiave del successo matrimoniale potrebbe essere riassunta da una celebre frase del film ” Qualcosa è cambiato” del 1997:  “Mi fai venire voglia di essere un uomo migliore”. Significa che la qualità del tempo è talmente tanto squisita che l’altro migliora la caratteristiche del partner.

Secondo il sociologo Robert N. Bellah , l’amore è, in buona parte , “l’esplorazione reciproca di sé e delle infinite e complesse emozioni che ne derivano”; questo costituisce il tesoro segreto e nascosto della relazione di coppia, che va quotidianamente rinvigorito per ottenere buoni risultati.

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Dolore cronico, qualità del sonno e attività fisica – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio del Dipartimento di Psicologia della University of Warwick è possibile aiutare chi soffre di dolore cronico ad avere una vita più attiva, migliorando la qualità del suo sonno.

Un trattamento focalizzato sulla qualità del sonno non ha come obiettivo solo quello di ridurre l’insonnia legata al dolore ma anche, e sopratutto, quello di aiutare i pazienti a recuperare l’energia necessaria ad impegnarsi nell’attività fisica.

L’attività fisica infatti  è un elemento chiave nel trattamento della gestione del dolore. I medici dovrebbero prescrivere molto più spesso corsi di ginnastica, fisioterapia, passeggiate e gite in bicicletta come parte del trattamento, ma chi ha voglia di impegnarsi nell’attività fisica quando si sente uno zombie privo di forze?

I dottori Tang e Sanborn, coautori dello studio, hanno esaminato la relazione quotidiana tra sonno notturno e attività fisica diurna in pazienti con dolore cronico.

I pazienti hanno indossato un accelerometro (che misura l’attività motoria) per monitorare la loro attività fisica quotidiana, diurna e notturna, per una settimana. Grazie a un diario elettronico cellulare ogni mattina al risveglio i pazienti hanno anche valutato la qualità del loro sonno, l’intensità del dolore e lo stato dell’umore.

I risultati indicano che l’unico predittore affidabile di attività fisica è la qualità del sonno: cioè la qualità del sonno è stata in grado di predire l’attività fisica più delle valutazioni sull’umore e sull’intensità del dolore.

Questi risultati mettono in discussione l’obiettivo principale dei trattamenti classici del dolore cronico, che si focalizzano principalmente sulla differente gestione delle attività durante il giorno.

Il sonno infatti, come questo studio mette in luce, ha un potere naturale di recupero che viene spesso trascurato nella gestione del dolore . Una maggiore enfasi del trattamento sul sonno potrebbe aiutare i pazienti a migliorare il funzionamento diurno e quindi la loro qualità di vita.

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Rendimento scolastico e aspettative genitoriali

 

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Natalia Ginzburg riflette sulle preoccupazioni e le aspettative dei genitori, sull’ansia che li spinge a volere costantemente il loro successo, a non accontentarsi dei piccoli passi compiuti, causando l’allontanamento che oggi sempre sempre più presente nelle relazioni genitori-figli

Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né che siano oppressi dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intenti a preparare se stessi alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?

 

Le preoccupazioni dei genitori e il successo dei propri figli a scuola. Un brano di Natalia Ginzburg su cui riflettere | Didattica Orizzonte ScuolaConsigliato dalla Redazione

Di seguito viene proposto un brano della scrittrice Natalia Ginzburg (1916-1991) tratto dal suo libro “Le piccole virtù“. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


High place phenomenon: quell’impulso a buttarsi (Urge to Jump) – Psicologia

 

 

 

High place phenomenon- quell’impulso a buttarsi. -Immagine: © Chlorophylle - Fotolia.comQuando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

In una scena del  film “Pirati dei Carabi: Oltre i confini del mare“ il capitano Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, guardando il mare dal ciglio di uno strapiombo afferma: “Sai quella voce che ti parla nei posti molto alti, hai presente? E che ti dice ‘salta!’… Io non la sento!”

La versione originale, in lingua inglese, non parla di voce, ma di “urge to jump”, ovvero una sensazione di crescente impulso e spinta a tuffarsi.

A differenza del capitano, un buon numero di persone riferiscono di aver provato quel tipo di sensazione almeno una volta nella vita.  Alcune di esse riportano di avvertire tale tensione ogni volta in cui si trovano in prossimità di altezze particolarmente elevate.

Questo tipo di fenomeno, chiamato dai francesi anche “Appel du vide” (traducibile come “Richiamo del vuoto”) è stato spesso associato, in maniera speculativa, con le ideazioni suicidarie, tuttavia con scarsi dati a sostegno dell’ipotesi.

Un gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia della Florida State University, guidato dalla dott.ssa Jennifer L. James, ha condotto uno studio su tale fenomeno,  rinominato High Place Phenomenon (HPP), con l’obiettivo di evidenziare che esso è comune alla popolazione generale e al fine di esplorare il ruolo della sensibilità all’ansia (anxiety sensitivity) nell’esperienza dell’HPP.

L’ipotesi del gruppo di ricerca è che l’esperienza dell’HPP nasca da un’errata interpretazione di un segnale interno di sicurezza o di sopravvivenza.

Secondo i ricercatori, le persone particolarmente reattive riguardo a tali segnali  (es. “attento, arretra, potresti cadere!”), saranno quelle che più frequentemente riferiranno di provare la sensazione di impulso.

Un particolare tratto caratteristico di questa tipologia di individui sarebbe la sensibilità all’ansia, quella tendenza a temere i sintomi e le sensazioni corporee tipiche dell’arousal.

Per verificare tali assunti sono stati coinvolti 431 studenti di college ai quali sono stati somministrati questionari per indagare quanto frequentemente hanno provato l’HPP, per valutare la sensibilità all’ansia (Anxiety Sensitivity Index; ASI; Reiss et al., 1986), eventuali stati depressivi e ideazioni suicidarie (Depressive Symptoms Inventory-Suicide Subscale; DSI-SS; Metalsky and Joinet, 1997; Beck Depression Inventory, BDI, Beck et al., 1979).

I risultati della ricerca mostrano che l’HPP è piuttosto frequente nella popolazione.

Tra le persone del campione che non hanno mai avuto idee legate al suicidio, più del 50% hanno riferito di aver provato il fenomeno almeno una volta nella vita. Questo dato contribuisce a confutare l’esclusivo legame di connessione tra l’impulso e i pensieri di suicidio e a sfatare il vecchio pensiero di matrice psicanalitica che vuole che tali tipi di pensieri nascondano in realtà un inconscio desiderio di morte.

Un altro interessante aspetto che emerge dallo studio coinvolge il ruolo della sensibilità all’ansia, che potenzierebbe la frequenza del fenomeno tra le persone senza ideazioni suicidarie.

Tale ruolo è spiegato dai ricercatori prendendo in considerazione il circuito neurale della paura. L’HPP rappresenterebbe uno di quei casi in cui i sistemi percettivi che regolano tale emozione funzionano in maniera discordante.

In concreto, quando una persona si trova in un luogo particolarmente alto, il circuito della paura reagirebbe alla situazione inviando un rapido segnale che la spinge a porsi in una condizione di maggior sicurezza, spesso senza che ne sia del tutto consapevole, fino a quando non ragiona sul proprio comportamento valutando i segnali di percezione corporea come impulso anziché come segnale di sopravvivenza.

Nelle persone con sensibilità particolarmente elevata ai sintomi dell’ansia vi è in generale una maggior tendenza a percepire i segnali enterocettivi e talvolta ad attribuire ad essi una valenza opposta.

Il lavoro di J.L. James e colleghi rappresenta il primo studio empirico su tale fenomeno, piuttosto comune ma poco approfondito.

Future ricerche di approfondimento potrebbero prendere in considerazione possibili correlazioni tra HPP e particolari tratti di personalità, come il sensation seeking o disturbi tipici delle strutture ansioso-fobiche, come il disturbo ossessivo-compulsivo.

Alcuni strumenti per l’assessment dei sintomi del DOC, infatti, individuano tra i possibili pensieri ossessivi  la paura di agire sotto un impulso involontario, in particolare il Padua Inventory (Sanavio, 1988) sembra identificare bene l’HPP nell’item 46 “Quando guardo giù da un ponte o da una torre provo una specie d’impulso a gettarmi nel vuoto”.

È importante sottolineare, come già evidenziato nella ricerca e come confermato dal prof. J.S. Abramovitz, che tali pensieri intrusivi sono sperimentati occasionalmente da gran parte della popolazione, tuttavia in maniera meno resistente, ansiogena e ripetitiva rispetto alle persone con DOC.

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BIBILOGRAFIA:

Open – La mia vita, di Andre Agassi (2011) – Recensione

Alessia Incerti

«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. 

 Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. 

Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…». 

Andre Agassi

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI SATTE OF MIND

Open Andre Agassi - Recensione
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina

Scoprire che vincere, che essere campione non risana tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

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Uno dei piú grandi campioni di tennis di tutti i tempi racconta la propria storia di vita, quella di bambino , di atleta adolescente , di professionista del tennis, di uomo con chiarezza e accettazione compassionevole.

Andre Kirk Agassi (Las Vegas, 29 aprile 1970) è un ex tennista statunitense.

Racconta la propria storia di atleta e di uomo partendo dalla fine: incuriosisce il lettore con la descrizione dei preparativi della sua ultima partita prima di congedarsi al pubblico sportivo. 

Una doccia indispensabile per riattivare un corpo stanco , che porta le ferite dei combattimenti e nel  sotto fondo le voci allegre dei figli che fanno colazione con la mamma, Stephi Graff.

Ma chi è Andre Agassi ?

Ha vinto 60 titoli ATP e 8 tornei dello Slam, Agassi è uno dei 7 giocatori che nella loro carriera sono riusciti a vincere tutti e 4 i titoli dello Slam,  ed il primo a realizzare il Career Grand Slam su tre diverse superfici. Ed inoltre medaglia d’oro del singolare olimpico e infine è stato introdotto nella International Tennis Hall of Fame. In una parola una leggenda nel suo sport, ma ciò che egli stesso racconta nella sua autobiografia è una storia di dolore, di sofferenza emotiva di doveri, di mancanza di affetto e riconoscimento e di fatica nel costruirsi un’ identità che sappia volersi bene, chiedersi cosa vorrebbe e di cosa ha bisogno.

Andre e i suoi fratelli crescono negli Stati Uniti, terra natale della madre, mentre il padre è iraniano di origini armene e assire, trasferitosi a Las Vegas dopo aver gareggiato come pugile nelle Olimpiadi del 1948 e del 1952 per  l’Iran. Soltanto dopo aver acquisito la cittadinanza americana il padre decide di cambiare il suo cognome in Agassi.

Mike Agassi era un grande appassionato di tennis e sognava per i suoi quattro figli un futuro da campioni. Provò a trasformare ognuno di loro in un professionista di successo, ma l’impresa riuscì soltanto col figlio più piccolo, Andre, al quale già all’età di due anni mise in mano una racchetta e da allora tutte le sue conversazioni con il padre riguardavano il tennis e l’obiettivo era di diventarne il numero uno.

Tuttavia, quello che sarebbe diventato uno dei più grandi campioni di sempre, non ha un ricordo positivo della sua infanzia. Il suo incubo inizia con “il drago”, ma non quello delle favole che viene sconfitto dal principe, quello delle favole che i genitori leggono ai piccoli per favorire il sonno, ma il drago- macchina che il padre stesso aveva progettato per lanciare palle velocissime. Nel libro con estrema passione ed al tempo stesso lucidità, l’autore racconta delle eccessive pressioni del padre: “Da ragazzino avevo odiato il tennis, vivevo nella paura di mio padre, che mi voleva campione a tutti i costi”.

Racconta di un’infanzia senza divertimento , con poca o nulla  libertà di fare amicizie e semplicemente giocare , imparare e crescere. Un infanzia che permette di esplorare solo ciò che il padre include nel suo scopo: “un figlio campione di tennis”.

Agassi descrive bene come questo lo ha condotto a soffrire di una sofferenza emotiva che lo conduce a creare un altro obbiettivo per la propria vita : potersi dire io vado bene così , io sono importante per me e per qualcun altro. Scoprire che vincere , che essere campione non risane tutte le ferite, non elimina il dolore che si prova per non essere libero di essere se stessi: “Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.

Agassi descrive i fatti, i luoghi, le persone che lo hanno odiato e lo hanno amato, i propri pensieri che diventano tormenti e le emozioni dolorose che diventano da fuggire.

Racconta della solitudine e di come la vicinanza affettuosa di persone, amici, mentori, fidanzate e mogli lo abbia sostenuto nel suo percorso di crescita umana, portandolo a divenire l’uomo che si descrive ora : un marito e un padre amorevole; uno che ha sofferto ma che ha potuto imparare che ha un valore come persona a prescindere dal risultato.

Consigliato ai genitori  ai  figli; agli atleti e ai terapeuti.

Consigliato a chi fatica a essere onesto e compassionevole nei propri riguardi.

 

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Secondo una nuova ricerca le caratteristiche del viso di un uomo contengono alcuni indizi sulla sua intelligenza. Lo stesso però non si può dire per i tratti del viso delle donne. 

I ricercatori della Charles University di Praga hanno reclutato 80 studenti , che hanno completato un test di QI e sono stati fotografati con un’espressione neutra . Altri 160 studenti hanno valutato le 80 fotografie per intelligenza o per attraenza.

I risultati indicano che le persone che sono state percepite come più attraenti avevano anche la tendenza a essere percepite come più intelligenti, sia dai partecipanti maschili che da quelli femminili. Questo legame tra bellezza e intelligenza percepita era più forte per i volti femminili che per i volti maschili.

Inoltre i partecipanti hanno valutato come più intelligenti proprio gli uomini con un più alto QI, basandosi unicamente sulla loro fotografia. Per le donne, invece, i ricercatori non hanno trovato alcun legame statisticamente significativo tra l’intelligenza percepita e il QI reale.

Naturalmente , i risultati hanno sollevato la questione del perché la gente poteva prevedere l’intelligenza degli uomini, ma non quella delle donne, basandosi unicamente sul loro volto. I ricercatori hanno proposto una serie di spiegazioni che verranno testate in future ricerche: una possibile spiegazione è che indizi di intelligenza superiore siano legati al dimorfismo sessuale e siano pertanto evidenti solo nei volti degli uomini. Un’altra possibilità è che le donne siano per lo più giudicate sulla base della loro attraenza. L’effetto alone della bellezza può quindi impedire una corretta valutazione dell’intelligenza delle donne.

Esaminando le caratteristiche geometriche dei volti , i ricercatori sono stati in grado di determinare un legame tra certe caratteristiche facciali e l’intelligenza percepita, sia per gli uomini che per le donne .

In entrambi i sessi, un volto più stretto con un mento più sottile e un grande naso prolungato caratterizza lo stereotipo previsto di alta intelligenza, mentre un viso piuttosto ovale e ampio con un mento enorme e un naso piccolo caratterizza la previsione di scarsa intelligenza“, hanno detto i ricercatori.

Ma queste caratteristiche facciali sono state associate solo con l’intelligenza percepita; i ricercatori infatti non hanno trovato alcun legame tra questi tratti facciali e i punteggi QI reali.

Questi volti di presunta alta e bassa intelligenza probabilmente non rappresentano niente di più che uno stereotipo culturale, perché questi caratteri morfologici non correlano con la vera intelligenza dei soggetti “, sottolineano i ricercatori.

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Maddalena D’Urzo

 

GAP - Gioco d’Azzardo Patologico: personalità & alcool - Psicologia. - Immagine: © Kenishirotie - Fotolia.comQuesto studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra Gioco d’Azzardo Patologico e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento.

Numerosi studi evidenziano che le persone affette da Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) tipicamente hanno anche altri disturbi in comorbilità come: Disturbi d’Ansia, Disturbi dell’Umore (Depressione), Suicidalità, Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità (Lorains, Cowlishaw & Thomas, 2011). Anche l’Abuso di Sostanze (in particolare di alcool) spesso viene riscontrato nei giocatori patologici (Maccallum et al. 2002;  Grant et al. 2002; Toneatto et al. 2002; Brunelle et al., 2003; Grant et al. 2004).

La relazione che intercorre tra GAP e uso di alcool è molto complessa e ancora poco chiara; come evidenziano Stewart e Kushner attualmente in letteratura sono state formulate tre ipotesi per spiegarla (Stewart & Kushner, 2005).

1) L’assunzione di alcool può contribuire al GAP. Le evidenze che supportano questa prima ipotesi sono emerse sia da studi condotti sui giocatori mentre erano sotto l’effetto dell’alcool che mediante self-report. Dai risultati è emerso che i giocatori, quando assumono bevande alcoliche, sono  generalmente meno inibiti, e hanno sia una maggiore tendenza a correre dei rischi che una maggiore persistenza.

2) Il GAP causa l’assunzione di alcool. Siccome nei luoghi in cui si gioca d’azzardo l’alcool è sempre disponibile, i giocatori potrebbero utilizzarlo, come meccanismo di coping, per alleviare lo stress associato alle ingenti perdite di denaro.

3) Per concludere, una terza ipotesi, potrebbe implicare dei fattori sottostanti, ancora sconosciuti, che renderebbero le persone particolarmente vulnerabili a entrambi i disturbi.

Un recente studio australiano (Abdollahnejad, Delfabbro & Denson, 2014) pubblicato su Addictive Behaviors, ha indagato se l’alta prevalenza di comorbilità psichiatrica, spesso osservata nei giocatori patologici, sia influenzata dalla co-occorrenza di abuso di alcool.

La ricerca è stata effettuata su un campione di 140 giocatori (59 uomini e 81 donne, con un’età media di 47 anni) a cui sono stati somministrati dei test per valutare la gravità del GAP, l’uso di alcool e la presenza di diagnosi in asse I o II. I soggetti che sono stati inclusi nel campione hanno riferito di giocare almeno ogni quindici giorni a video poker, corse, scommesse sportive, casinò.

Lo studio ha evidenziato che la maggior parte dei Disturbi Psichiatrici, e in particolare i Disturbi di Personalità, si riscontrano nel gruppo di soggetti con una doppia diagnosi (Gioco d’Azzardo Patologico e Disturbi da Uso di Alcool); in questo gruppo, si riscontra la prevalenza più alta di Disturbi di Personalità, in particolare quelli del cluster B (Disturbo Borderline e Disturbo Antisociale di Personalità).

Mentre nel secondo gruppo, giocatori che non abusano di alcool, sono state riscontrate caratteristiche di personalità di tipo depressivo, evitante o ossessivo.

Questo studio sottolinea l’importanza di considerare il ruolo dei Disturbi di Personalità e dell’Abuso di Alcool, e in generale di Sostanze, quando si esamina la correlazione esistente tra GAP e comorbilità psichiatrica sia per comprendere meglio i meccanismi patologici che per progettare il trattamento. È infatti possibile che riuscendo a ridurre il Disturbo di Personalità sottostante almeno una parte dei problemi legati alle dipendenze patologiche si riduca.

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Eros e Cioccolato – Gli effetti del cioccolato sul tono dell’umore

Antonio Scarinci, Sofia Piccioni

 

Il piacere della cioccolata può generare benessere e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Amore e odio già in Empedocle rappresentavano forze contrapposte che con Freud si trasformano in pulsioni di piacere e di morte, Eros e Thanathos.

Eros nella mitologia greca è il Dio dell’amore e del desiderio e per i greci l’amore è ciò che fa muovere verso qualcosa. Cupido scaglia le sue frecce e fa innamorare gli dei.

Il cioccolato o cioccolata, è un alimento derivato dai semi del cacao, per le antiche civiltà dell’America centrale era il cibo degli dei. La bevanda amara ed energetica che veniva ricavata dai semi del cacao era afrodisiaca, eccitava e alleviava la sensazione di fatica.

Molti personaggi famosi nel corso della storia hanno avuto una forte passione per il cioccolato, Casanova, per esempio, ne faceva abbondantemente uso per gli effetti afrodisiaci.

Oggi il cioccolato è consumato in tutto il mondo e soprattutto per interessi commerciali sono stati effettuati diversi studi su di esso.

I risultati sono controversi, alcuni (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) attestano gli effetti antiossidanti e di prevenzione delle malattie cardiovascolari e di alcune forme di cancro, altri sconsigliano (Associazione Dietetica e della Nutrizione Britannica) il consumo di cacao perché può dare dipendenza, può condurre all’obesità, alla perdita di controllo sui propri impulsi e addirittura alla perdita di autostima.

Il cacao contiene monoammine tra cui la feniletilammina, la teobromina e stimola la produzione di serotonina e di endorfine capaci di produrre una serie di effetti sull’umore e su alcune funzioni biologiche (inibizione dell’appetito, riduzione della sensazione della fatica, innalzamento del tono dell’umore, mantenimento della veglia e attivazione delle funzioni mentali).

La feniletilammina è stata definita “love-drug” e, modulando la trasmissione dopaminergica, è capace di produrre le stesse sensazioni che sperimenta una persona innamorata. Alcuni studi arrivano ad indicarla come una sostanza migliore dei farmaci antidepressivi.

La serotonina è un neurotrasmettitore e l’inibizione della sua ricaptazione è il meccanismo con cui alcuni psicofarmaci agiscono sul tono dell’umore.

Il cioccolato è anche uno stimolante naturale, alcuni risultati di ricerca ottenuti dall’Università di Wheeling in West Virginia dimostrano che il consumo di cioccolato provoca un incremento dell’attenzione, dello stato di allerta e un incremento del rendimento mentale.

Altri studi condotti con metodiche di neuroimmaging hanno rilevato che la contemplazione, l’odore ed il sapore del cioccolato attiva il metabolismo nell’insula anteriore della circonvoluzione temporale superiore e della corteccia orbito frontale, le stesse zone che si attivano nelle dipendenze da droga quando i soggetti pensano al consumo.

Il consumo di cioccolato offre sensazioni di rilassamento e felicità e consente di attenuare l’ansia. L’Università di Helsinki ha condotto uno studio su 300 donne in gravidanza, i figli di quelle che avevano consumato regolarmente cioccolato risultavano più attivi e reattivi.

Naturalmente, i risultati di questi studi possono essere influenzati dal committente (spesso sono i produttori a commissionarli) tant’è che altre ricerche attestano risultati esattamente contrari.

Una ricerca pubblicata su Archives of Internal Medicine, sostiene che il cioccolato potrebbe essere una concausa importante di infelicità, sbalzi d’umore e depressione.

Un’altra ricerca australiana pubblicata su Journal of Affective Disorders esclude un effetto benefico della cioccolata sull’umore: “La cioccolata può fornire un piacere emotivo, soddisfacendo un desiderio, ma quando viene consumata per avere un conforto o per vincere il malumore, è più probabile che sia associata a un prolungamento dello stato d’animo negativo, piuttosto che alla sua fine”.

Una cosa è certa: consumare cioccolata procura piacere e forse per questo se ne consuma in grandi quantità.

Il tono edonico positivo migliora il benessere (Heller et al. 2009; Schacter et al. 2007).

I sistemi edonici del cervello che abbracciano i livelli corticali e sottocorticali filogeneticamente sono comparsi precocemente e hanno una grande importanza nel fitness, svolgono una funzione adattiva e si sono evoluti per mediare comportamenti legati al sesso al cibo e al sonno e ad altri piaceri sensoriali (Koob, Volkow 2010; Panksepp 1998; Tindell et al. 2006).

I sistemi neurali dei piaceri edonici sensoriali più semplici vengono riciclati per la generazione dei piaceri derivanti dai comportamenti sociali e intellettuali (Frijda 2010; Harris et al. 2009; Salimpoor et al. 2011; Skov 2010; Frith, Frith 2010; Kringelbach et al. 2008; Leknes, Tracey 2008).

Il nucleo accumbens, il pallidum ventrale e le regioni profonde del tronco encefalico codificano le reazioni di gradimento e le connettono a varie regioni della corteccia orbitofrontale (Pecina 2008; Pecina, Smith 2010; Smith et al. 2011).

Il piacere della cioccolata può, quindi, generare benessere (Lorenzini, Scarinci, 2013) e mantenere una baseline di piacevolezza nei momenti di flessione causati da avversità di vario genere e predisporre a comportamenti sociali amorevoli.

Inoltre, la codifica del piacere che agisce sul tono edonico tende a diffondersi nel cervello e si associa all’attivazione di molte funzioni psicologiche (Beckmann et al. 2009), può raggiungere l’apice nella localizzazione di alcune regioni della corteccia orbitofrontale e la sua attivazione determina le valutazioni soggettive di piacevolezza legate al gusto ma anche ad aspetti affettivi e astratti (Georgiadis, Kortekaas 2010; Veldhuizen et al. 2010; Vuust, Kringelbach 2010; Kringelbach 2010).

Del resto, la corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nei disturbi emotivi e nelle dipendenze (Kringelbach 2005).

Occorre tener presente, però, che l’eccesso di desiderio sembra svincolato dal piacere e dall’eudemonia (Wiers, Stacy 2006; Camerer 2006).

Il cioccolato non è solo, quindi, un piacere effimero, può predisporci alla relazione, crea le condizioni per l’esternazione, per vivere un profondo contatto.

D’altra parte può essere un nutrimento che appaga il vuoto affettivo, la noia, può esaudire compulsivamente il desiderio in modo rapido e in quantità e quindi generare dipendenza. Questi aspetti contrapposti, dolce/amaro; liquido/solido; chiaro/scuro sono propri dell’alimento e ne costituiscono il carattere ambivalente. Il cioccolato può essere dolce, dare calore, appagare e può anche essere qualcosa che fa ingrassare che rende dipendenti, che fa ammalare.

Ippocrate sosteneva “è la quantità che fa il veleno”. Il male non è nella sostanza ma nell’appetizione dei piaceri che contraddistingue il nostro tempo. Può dare sollievo alla fatica di esistere, fornire un po’ di piacere e “i piaceri semplici e naturali sono l’ultimo rifugio degli uomini complessi” (Oscar Wilde) . Senza, però, esagerare!

A proposito di esagerazioni, David Lewis neuropsicologo, a seguito di una ricerca condotta con alcune coppie giovani, sostiene che mangiare un pezzo di cioccolato fondente sia più eccitante che baciare il proprio partner. L’aumento del ritmo cardiaco è stato il parametro preso in considerazione che per durata e intensità, dopo il consumo di cioccolato ha avuto picchi sorprendenti, inoltre tutte le aree del cervello ricevevano uno stimolo più intenso e duraturo rispetto a quello registrato durante il bacio. Lo studio ha chiari limiti metodologici: un conto è baciare appassionatamente la propria amante in un posto riservato e al riparo da occhi indiscreti, altro è baciare la propria compagna in un laboratorio dove ti senti addosso il ruolo della cavia. Pasini (1994) evidenzia che mentre per gli uomini il cioccolato predispone alla sessualità, la maggior parte delle donne lo preferisce al sesso, mentre Murray (2001) associa addirittura i tratti di personalità del soggetto e il rapporto con l’alimento, proponendo una serie di interpretazioni psicologiche prive di basi empiriche.

Mettendo da parte le iperboli, sta ad ognuno restituire al cioccolato – lo stesso discorso si potrebbe fare per altri alimenti – il peso che gli spetta. Ci può far sorridere, renderci allegri, predisporci ad andare oltre il peccato di gola, trasportati dal piacere e dall’attivazione affettiva quando leggiamo il cartiglio che contiene una frase d’amore mentre gustiamo un bacio di cioccolato offertoci dalla donna che amiamo, ma non dobbiamo farci influenzare e trascinare dalle attese suscitate da informazioni e comunicazioni che spesso non sono affatto disinteressate.

Non possiamo essere certi che il cioccolato sia un afrodisiaco, ma può diventarlo quando si crea una certa atmosfera intorno al suo consumo e si attivano tutti i sensi. Simbolicamente può essere considerato di natura ermafrodita, copre tutte le forme della sessualità, è maschile ma anche femminile. Alimento indiscutibilmente tra i più amati e diffusi del nostro pianeta ha sicuramente valore gratificante, ma il significato che gli si attribuisce coinvolge naturalmente la scala di valori e lo stile di vita di ogni singolo consumatore.

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Come società abbiamo certamente equiparato la velocità all’intelligenza, e l’intelligenza ha probabilmente molto a che fare con fare collegamenti veloci, ma ha sicuramente altrettanto molto a che fare con fare i giusti collegamenti.

Nel 1884 Sir Francis Galton, noto anche come il padre della psicometria e dell’eugenetica, chiedeva tre pence a chi si sottoponeva a semplici test che misuravano la sua altezza, il peso, l’acutezza della vista e la rapidità nel colpire con il pugno; Galton raccolse così i dati di 17.000 individui.

Il dato che più lo interessava era la velocità di reazione di un soggetto, che credeva fosse fortemente correlata all’intelligenza.

Per decenni molti ricercatori hanno perseguito l’idea di Galton per la quale velocità è uguale a intelligenza e, mentre molti test recenti non hanno trovato alcuna relazione coerente tra queste due misure, alcuni hanno dimostrato una correlazione debole ma inconfondibile tra tempi di reazione brevi e punteggi più alti nei test di intelligenza.

Se c’è una logica a cui questa correlazione risponde, è che i segnali nervosi viaggiano veloci tra gli occhi, il cervello e i circuiti che attivano i nostri neuroni motori: più velocemente il nostro cervello elabora le informazioni che riceve e più acuto è il nostro intelletto.

Lo psicologo Michael Woodley della Umea University (Svezia) ha avuto abbastanza fiducia in questa correlazione, da utilizzare più di un secolo di dati sui tempi di reazione per confrontare la nostra intelligenza con quella dei vittoriani. Le sue scoperte mettono in discussione la  convinzione, a noi cara, che la vita frenetica che conduciamo sia un segno della nostra produttività e del nostro benessere mentale. Infatti quando i ricercatori hanno esaminato tempi di reazione di 14 studi condotti tra il 1880 e il 2004, hanno trovato un declino preoccupante, che corrisponderebbe ad una perdita di una media di 1.16 punti di QI a decennio.

Facendo due conti siamo mentalmente inferiori ai nostri predecessori vittoriani di circa 13 punti di QI .

Come società abbiamo certamente equiparato la velocità all’intelligenza, e l’intelligenza ha probabilmente molto a che fare con fare collegamenti veloci, ma ha sicuramente altrettanto molto a che fare con fare i giusti collegamenti.

Infine anche la percezione della velocità può essere ingannevole. Quando le cose vengono facilmente o velocemente, quando non dobbiamo lottare, tendiamo a sentirci più intelligenti. In uno studio, Adam Alter e altri psicologi della New York University hanno chiesto a dei volontari di rispondere a una serie di domande scritte con un font chiaro e nitido o leggermente sfocato, difficile da leggere. Le persone che hanno dovuto sforzarsi di più hanno finito per elaborare il testo più profondamente, rispondendo anche alle domande in modo più accurato .

Insomma, quando dobbiamo prendere una decisione ponderata, ci pensiamo a lungo e fatichiamo, e questo non è poi così diverso dal pensare lento.

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Recensione Memorie traumatiche - Giannantonio Memorie traumatiche, forse più di altri libri dello stesso autore, sembra rappresentare una lucida e appassionata testimonianza di una carriera trascorsa a sperimentare, a cercare sempre nuove vie, senza mai accontentarsi, per offrire ai pazienti strumenti terapeutici sempre più efficaci, sfuggendo all’illusoria comodità della semplificazione, delle procedure schematizzate.

Stavo terminando il suo ultimo libro quando mi ha raggiunta la notizia della morte di Michele Giannantonio.

Essere immersa nelle sue parole, nei suoi pensieri mi ha fatto percepire in maniera ancora più forte il dispiacere per la scomparsa di un uomo e di un clinico che ho imparato ad apprezzare per la libertà di pensiero, il coraggio di aprirsi a nuove idee, di modificare il suo fare terapeutico al servizio del paziente.

Memorie traumatiche”, infatti, forse più di altri libri dello stesso autore sembra rappresentare una lucida e appassionata testimonianza di una carriera trascorsa a sperimentare, a cercare sempre nuove vie, senza mai accontentarsi, per offrire ai pazienti strumenti terapeutici sempre più efficaci, sfuggendo all’illusoria comodità della semplificazione, delle procedure schematizzate.

I protocolli rigidamente adottati sono come gli abiti dei grandi magazzini: vestono discretamente la maggior parte delle persone, ma non stanno benissimo a nessuno” (p. 157).

E’ un approccio invece sartoriale quello che Giannantonio ha proposto in queste pagine: un intervento cucito sul singolo paziente, adatto alle sue specifiche difficoltà, esigenze, capacità.

Il libro esplora un modello di “Psicoterapia Integrata-Corporea” che integra, modifica e arricchisce l’EMDR in funzione di una maggiore efficacia clinica.

Quest’ottica non tradisce affatto lo spirito integrativo e rivoluzionario che caratterizza e ha sempre caratterizzato l’EMDR, anzi, rende onore all’impostazione aperta e orientata alla sperimentazione che la stessa Francine Shapiro ha sempre incoraggiato.

L’EMDR nasce, infatti, come approccio integrativo rispetto a contributi provenienti da diverse scuole e metodologie terapeutiche, mirato al trattamento di tutti i livelli del funzionamento umano: cognitivo, emotivo, comportamentale e somatico. Ed è proprio il corpo al centro di questa riflessione sulle possibili evoluzioni e integrazioni dell’EMDR.

Il protocollo standard resta il migliore strumento a disposizione per il trattamento di situazioni standard, appunto, ma necessita di arricchimenti, modifiche ed integrazioni per adattarlo a situazioni più complesse, come ad esempio il trattamento di pazienti che provengono da storie di sviluppo in cui hanno subito molteplici e continuativi traumi di natura interpersonale. In questi casi i pazienti presentano alterazioni del funzionamento che vanno al di là dei sintomi del PTSD e che richiedono una specifica attenzione nel trattamento.
La prima parte del volume passa a setaccio il protocollo standard mettendone in luce punti di forza e potenziali limiti e criticità nel trattamento di pazienti con traumi complessi.

Ogni difficoltà, ogni blocco che si può incontrare nell’applicazione del protocollo standard evidenzia specifiche modalità di funzionamento del paziente, fornendo preziose informazioni che l’autore utilizza per proporre vie alternative di accesso e di elaborazione.

Il processo di elaborazione delle informazioni è composto di elementi cognitivi, emotivi e sensomotori, come un “cavo a tre fili”, e lo stallo può verificarsi all’interno di ciascun registro, in cui il paziente si trova confinato senza riuscire a progredire nella rielaborazione.

Fin dalla fase di assessment possono sorgere blocchi che rendono necessari accorgimenti e modifiche, che possono riguardare la relazione terapeutica, l’individuazione del target di intervento, della cognizione negativa e positiva, l’accesso alle emozioni e alla localizzazione corporea del disagio, il procedere dal passato al futuro, ecc.

Nella seconda parte del volume vengono approfondite le proposte di integrazione e modifica al protocollo, talvolta minimali, talvolta decisamente radicali, fino al suggerimento di lavorare con altri approcci, quando opportuno.

Includendo nel trattamento i contributi provenienti da altri approcci centrati sul corpo, in particolar modo dalla Psicoterapia Sensomotoria, Giannantonio mostra vie di accesso ad aspetti dell’esperienza umana altrimenti difficilmente raggiungibili, appartenenti all’implicito, all’indicibile, all’inconsapevole, come la postura, l’andatura, i movimenti, i confini corporei, che non possono essere ricondotti ad una memoria episodica e dunque non trattabili con il protocollo standard dell’EMDR.

Due i punti di maggiore rilievo di questa parte: la maggiore enfasi data alla dimensione somatica e il radicamento nella teoretica post-traumatologica e derivante dalla teoria dell’attaccamento, il tutto all’interno della imprescindibile cornice data dalla relazione terapeutica.

Il corpo svolge in effetti un ruolo assolutamente fondante nella nostra esperienza, determina cosa è possibile sentire, le risorse a cui abbiamo accesso e la mappa del mondo in cui ci muoviamo. E’ fonte preziosa di informazioni sul paziente e per il paziente stesso.

Data l’architettura cerebrale, inoltre, un cambiamento a livello somatico produce modificazioni a livello emotivo e cognitivo.

L’autore, inoltre, in linea con i modelli di intervento nel trattamento dei disturbi post-traumatici, mette in evidenza come il lavoro sulle memorie traumatiche sia solo una delle fasi del lavoro con questi pazienti.

Janet, per esempio, proponeva un modello in 3 fasi: stabilizzazione e riduzione dei sintomi; trattamento delle memorie traumatiche; integrazione della personalità.

La fase della stabilizzazione, in particolare, è di cruciale importanza nel lavoro con persone traumatizzate e può richiedere un lavoro anche molto lungo prima di poter accedere alla rielaborazione dei ricordi traumatici.

Per poter affrontare un ricordo traumatico il paziente deve collocarsi all’interno della “finestra di tolleranza” dell’attivazione e delle emozioni ed essere in grado di modulare tale attivazione; l’alleanza terapeutica deve essere sufficientemente solida e l’umore e le condizioni generali del paziente devono essere adeguate.

Un altro aspetto, messo in evidenza dall’autore, riguarda i sistemi motivazionali o sistemi d’azione: attraverso l’uso dell’EMDR e di altri approcci somatici, il paziente deve essere accompagnato nel percorso di riappropriazione dell’intera gamma dei suoi sistemi motivazionali.

Riconoscendo l’importanza che le sue difese hanno rivestito nel corso dell’esperienza traumatica, compito della terapia è aiutare il paziente a riconoscere come alcuni aspetti di queste difese siano ormai anacronistici e ad utilizzare in maniera flessibile tutte le risposte del sistema di difesa (quelle di mobilizzazione e di immobilizzazione).

Non solo: il paziente va accompagnato e sostenuto promuovendo il funzionamento nelle situazioni non minacciose della quotidianità, dando spazio alla libera espressività di ogni sistema motivazionale.

La terza parte del volume è dedicata agli approcci metodologici e alle specifiche tecniche di intervento proposti per affrontare proprio queste sfide.

L’aurore presenta dettagliatamente la sua proposta di integrazione del protocollo EMDR standard all’interno di una più ampia concettualizzazione di intervento, ovvero una “Psicoterapia Integrata-Corporea” che include i contributi della Psicoterapia Sensomotoria, della Psicoterapia Ipnotica, del Focusing, dell’Hakomi Method, del Somatic Experiencing e di altri approcci somatici.

Fil rouge di tutta la trattazione è la ricerca di un’attenta e rispettosa regolazione tra terapeuta e paziente, una regolazione che è in primo luogo somatica ed emotiva e che costituisce non solo una cornice all’interno della quale strutturare l’intervento clinico, ma che è essa stessa intervento clinico, esperienza correttiva e occasione di crescita per terapeuta e paziente.

E’ un bel regalo quello che Michele Giannantonio ci ha lasciato: l’invito a non fermarsi, a seguire la via di una ricerca continua, inseguendo innanzi tutto l’efficacia terapeutica, mettendo alla prova le nostre teorie e i nostri metodi e modificandoli quando serve.

Essendo lui stesso alla fine di un viaggio ha saputo infondere in queste pagine l’entusiasmo per nuovi inizi, nuovi viaggi, nuove scoperte

 

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  • Giannantonio, M. (2014). Memorie traumatiche. EMDR e strategie avanzate in Psicoterapia e Psicotraumatologia, Mimesis Edizioni ACQUISTA ONLINE 

 

Innamorata persa – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.07 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #07

Innamorata persa

 

– Leggi l’introduzione –

Innamorata persa CIM 07. - Immagine: © Web Buttons Inc - Fotolia.comSpinto dal destare l’interesse del lettore, temo di aver dato una idea distorta o perlomeno parziale del lavoro del  CIM. Non si deve pensare che sia un susseguirsi di emergenze di casi bizzarri e interessanti che si concludono rapidamente e più o meno positivamente.

Nella grande maggioranza, superato il momento dell’acuzie segue una lunga presa in carico che prevede aspetti psicologici, farmacologici e sociali e che dura per moltissimo tempo.

Sul singolo caso si concentrano dunque quelle risorse professionali che sono necessarie, formando mini equipe che coordinano i diversi interventi, anche tenendo conto della facilità dei diversi operatori a collaborare.

Maria detta Gilda non avrebbe mai seguito un caso insieme al Dr. Giuseppe Irati e tale reciproca intolleranza lasciava ai più molti sospetti su un periodo che si collocava tra il secondo ed il terzo matrimonio di Irati ed aveva visto l’improvvisa separazione di Maria.

Al contrario, Carlo Biagioli e Luisa sarebbero andati a fare una domiciliare anche a Lucifero nell’ultimo girone dell’inferno, se  avessero avuto l’opportunità di trascorrere una notte fuori insieme.

Per questo non c’è trasferta di durata superiore ad un giorno che non li veda candidati.

Ma lasciamo perdere i pettegolezzi e torniamo alla operatività normale.

Gli assistenti sociali curano la parte economica e, insieme agli infermieri, la riabilitazione e il reinserimento lavorativo che li porta ad essere costantemente impegnati in contatti istituzionali con gli amministratori locali, sindacati e organizzazioni di categoria.

Ancora, nella maggior parte dei casi la presa in carico avviene su richiesta dell’interessato o dei familiari senza alcuna emergenza.

Infine, le varie professionalità sono impegnate in diversi progetti per la promozione della salute mentale.

Il millennio appena iniziato dopo le vacanze di Natale vede gli assistenti sociali, Silvia Ciari e Giovanni Brugnoli, determinati come sempre, impegnati nella creazione di una rete di residenze per accogliere i pazienti che saranno dimessi dagli ospedali psichiatrici giudiziari entro due anni.

Le psicologhe, Filata e Ficca,  stanno predisponendo degli sportelli di ascolto nelle scuole superiori per intercettare, in collaborazione con i Sert, il disagio giovanile nel delicato periodo tardo adolescenziale che vede l’esordio delle patologie psicotiche e dei disturbi alimentari.

Le infermiere Maria e Luisa hanno calendarizzate le visite domiciliari per tenere il polso delle situazione, oltre che gestire alcune attività riabilitative per migliorare la qualità della vita e favorire il reinserimento nella comunità di chi ha avuto difficoltà che lo hanno costretto ad una sosta ai box.

I medici, Irati e Mattiacci, hanno varato un corso di aggiornamento per i colleghi di medicina generale sul rischio suicidiario con la sponsorizzazione delle aziende produttrici degli antidepressivi.

Salta immediatamente agli occhi che, per fare tutto questo, gli operatori risultano pochi.

Oltre alle richieste dell’assegnazione di ulteriori risorse sostenute, senza mediazioni, dal presidente dell’associazione dei pazienti e familiari, l’indomito Vitale Eusebi, cosa fare?

Facendo di necessità virtù, Biagioli ha inventato il metodo Ayax ad imitazione del calcio totale (tutti in attacco e tutti in difesa) giocato dall’indimenticabile  Olanda di Kruiff.

Ciò significava che, se la ideazione dei vari progetti era affidata alle specifiche professionalità, la realizzazione invece coinvolgeva tutti, con una feconda osmosi di competenze. Infermieri agli sportelli di ascolto nelle scuole, psicologi in domiciliare che scoprivano aspetti dell’esistenza dei loro pazienti banditi, in genere, dall’asettico ambulatorio, medici a confronto con i sindaci per ottenere benefici per i loro assistiti.

Il solo Biagioli, dedicandosi al coordinamento di tutte queste attività e, soprattutto, ai rapporti con il centro pulsante della ASL non ha specifici incarichi. Trascorre spesso le mattinate in verbose, lunghissime quanto inconcludenti riunioni con gli alti dirigenti della ASL per decisioni inerenti il management aziendale, la suddivisione delle risorse, la mediazione con i sindacati, la stipula di convenzioni ed appalti di ogni genere.

Durante tali insensati sperperi di tempo e denaro fissa ansioso il cellulare come un adolescente in attesa della conferma del primo appuntamento. Si auspica una chiamata di emergenza che gli consenta una giustificatissima fuga verso ciò che unicamente lo interessa: i pazienti, meglio se gravi.

Le riunioni cliniche in quel mese di gennaio del 2001 si concentravano su due casi provenienti entrambi dalle frazioni a sud di Monticelli che sembravano affette da una epidemia di follia: Antonella e Omero.

Il contatto con Antonella era avvenuto con la dottoressa Mattiacci, durante una consulenza nel reparto di ginecologia dell’ospedale generale di Monticelli.

Dopo la dimissione, la Mattiacci chiese di essere affiancata dalla dottoressa Maria Filata per la stima che aveva nei suoi confronti e perché riteneva utile una figura con lo spessore materno della Filata che lei, senza figli sentiva di non avere. Antonella, 33 anni, con una prevalenza di curve rispetto alle rette nel disegno del suo corpo, ha un modo infantile di relazionarsi sollecitando tenerezza e accudimento. Meglio la definisce una ambiguità di fondo per cui tratti infantili sono mischiati ad una femminilità seduttiva.  Sin da piccola ha dovuto farsi carico della gestione del padre, bracciante agricolo, durante le prolungate assenze della madre ricoverata in clinica per un disturbo bipolare risoltosi solo qualche anno fa con una corda intorno ad un trave della stalla.

Nella ricostruzione della sua storia, nella psicoterapia con la Filata, emergerà dopo parecchi mesi che aveva sostituito la madre non soltanto nella gestione della casa. Forse anche lei presentava oscillazioni stagionali del tono dell’umore, ma il ricovero in ginecologia era stato motivato dalla terza gravidanza isterica nel giro di due anni.

La sessualità per Antonella era un terreno scivoloso. Il suo primo ragazzo importante lo aveva avuto a 18 anni, nello stesso anno della morte della madre. Secondo la Filata, era stato un modo per arginare le richieste del padre che, dopo la vedovanza, erano diventate più pressanti.

Quando si innamorava, Antonella mostrava una gioia incontenibile che scivolava rapidamente in una specie di eccitamento sub maniacale. Eccedeva nel trucco e le manifestazioni affettive anche verso semplici conoscenti erano talmente esagerate da diventare moleste.

Una gelosia soffocante mise in fuga il giovane partner. Antonella per sei mesi non uscì più di casa, era il padre a fare la spesa e persino ad acquistare gli assorbenti per lei. Giorno e notte con la stessa tuta da ginnastica, aveva nel cibo il suo unico piacere, prese rapidamente 15 kg e la vergogna per il suo aspetto la relegò in casa.

Poi, al carnevale di cinque anni dopo, quando il paese aveva dimenticato la sua esistenza, si presentò alla grande festa mascherata del giovedì grasso.

Alla dottoressa Filata confidò che la madre le aveva parlato, assicurandola che avrebbe trovato in quella festa l’uomo della sua vita: la luce sinistra della follia già lampeggiava nei suoi occhioni da Lolita.

Il suo fare oltremodo disponibile fece si che quella notte incontrò non uno ma ben tre uomini della sua vita che, ubriachi, ne abusarono fino all’alba. Il padre preferì mettere tutto a tacere per non precludere un futuro matrimoniale alla figlia. Antonella tornò nella sua tuta bozzolo per altri cinque anni, quando fu un vero principe a risvegliarla.

Era estate, Antonella si avvicinava ai 30 anni e ai quasi 100 Kg, il padre chiamò il vecchio medico di famiglia per una dieta ma si presentò un giovane sostituto il dottor Alfonso neolaureato alla sua prima sostituzione.

Lui si interrogò a lungo per capire se avesse avuto responsabilità nello scatenamento di un delirio erotomanico di Antonella nei suoi confronti, ma la cosa più gentile che le aveva detto era stato “lei è ancora così giovane, non deve lasciarsi andare”.

Ancora non esisteva il reato di stalking, ma Alfonso si rivolse comunque ai carabinieri di Monticelli perché intimassero ad Antonella di cessare i comportamenti persecutori nei confronti suoi e della giovane moglie incinta.

Antonella, infatti, era convinta che Alfonso fosse perdutamente innamorato di lei e  impedito a realizzare la loro unione dalla macchinazione della moglie che lo tratteneva con una fattura magica che aveva anche provocato la gravidanza. 

A quel tempo nessuno si era premurato di segnalare la situazione al CIM, in paese tutti dicevano che Antonella era, come del resto la madre, strana ma innocua, ed anche un po’ mignotta senza scopo di lucro, per il piacere di ragazzi e anziani. Per la cattiva fama di cui godeva nessuno si avvicinava a lei con intenzioni serie, l’ultimo uomo lo aveva incontrato a Roma, Samyr, operaio cassaintegrato con un figlio di tre anni che le aveva giurato che l’avrebbe sposata e quando, per l’ennesima volta, aveva spostato la data del presunto divorzio, le mestruazioni erano scomparse, la pancia di Antonella aveva iniziato a lievitare ed il seno ad indurirsi e farsi scuro il capezzolo.

Non si capacitava che i test comprati in farmacia fossero negativi e per questo si presentò in pronto soccorso lamentando dolori e piccole perdite insomma un rischio di aborto.

Sei mesi più tardi in occasione di un altro rinvio dell’atteso divorzio ci fu una replica.

Un anno dopo Samyr scomparve definitivamente e Antonella fu nuovamente “incinta” e decisa a portare comunque avanti la gravidanza e a chiamare quel figlio con il nome del padre.

Solo durante questo ricovero e solo perché tramortì con una ginocchiata sui testicoli il tecnico ecografista che si ostinava a non vedere il delizioso piccolo Samyr annidato nel suo utero, fu chiamato il CIM.

I neurolettici e gli stabilizzatori dell’umore prescritti dalla dottoressa Mattiacci contenevano il vissuto emotivo di tristezza e rabbia.

Sedute settimanali con la dottoressa Filata cercavano di capire perché la sessualità e la maternità fossero così centrali e pericolose nei vissuti di Antonella. A tal proposito, la crescente ostilità del padre verso qualsiasi trattamento che non fosse esclusivamente farmacologico rinsaldò l’idea che ci fosse un oscuro segreto familiare.

Un primo inserimento lavorativo predisposto da Silvia Ciari in una cooperativa che gestiva l’asilo nido di Monticelli dovette essere interrotto: la presenza di bambini piccoli era troppo stressante per Antonella.

Un altro ramo della cooperativa si occupava di assistenza agli anziani e qui la sua opera fu molto apprezzata ed il contratto rinnovato.

Frequentato un corso al centro diurno si appassionò alla pittura e, nonostante i suoi quadri avessero qualcosa di profondamente inquietante, a 37 anni fece la sua prima collettiva nei locali del comune.

Non era una vera e propria collettiva, solo un altro artista esponeva ed era proprio quell’Omero che ho messo in stand by molte righe sopra.

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Psicoterapia Psicodinamica: Intervista con Vittorio Lingiardi

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Vittorio Lingiardi

Professore Ordinario di Psicologia Dinamica – Università La Sapienza di Roma

 

 

State of Mind intervista Vittorio Lingiardi, Psichiatra e Psicoterapeuta. Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Psicologia e Medicina – Università La Sapienza di Roma. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Menzogne: capite quando qualcuno sta mentendo? Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Menzogne: sei capace di capire quando qualcuno sta mentendo? Secondo una recente ricerca della University of California-Berkeley tutti possediamo questa abilità, almeno potenzialmente, perchè riuscire ad accedervi non è la stessa cosa che poterlo teoricamente fare.

In due esperimenti , il team di ricercatori ha scoperto che le persone tendono a percepire l’inganno utilizzando metodi indiretti, che attingono alla loro mente inconscia. La nostra mente conscia, invece, zoppicando su false credenze, rischia di farci inciampare continuamente.

Gli studi precedenti sugli esseri umani hanno evidenziato che la nostra capacità di discriminare tra ciò che è vero e ciò che è falso è tanto precisa quanto il lancio di una moneta; eppure i primati, come le scimmie e gli scimpanzè, sono in grado di individuare i comportamenti disonesti. Qual è allora il significato evolutivo del fatto che la nostra specie ignora questa preziosa abilità? I ricercatori sostengono che in realtà non ignoriamo affatto questa abilità; il problema starebbe piuttosto nel fatto che ci confondiamo con nozioni stereotipate, che i segnali non verbali ci segnalano come ingannevoli. Ad esempio, dicono i ricercatori, la credenza diffusa che i bugiardi distolgono lo sguardo e mostrano irrequietezza è falsa!

Per testare la loro ipotesi, i ricercatori hanno condotto un paio di esperimenti in cui la mente conscia e quella inconscia dei partecipanti hanno gareggiato per scovare l’inganno. I 72 soggetti hanno guardato per 90 secondi un “video interrogatorio” in cui 12 persone erano accusate di aver rubato 100 dollari dalla sala prove. La metà di queste aveva effettivamente preso i soldi, mentre gli altri erano ingiustamente accusati. Le domande a cui rispondevano le persone interrogate in video erano: “com’è il tempo fuori?” e “hai rubato tu i soldi?”; i partecipanti all’esperimento dovevano individuare i bugiardi (che sono stati identificati in appena il 44% dei casi).

Infine, i partecipanti hanno completato una versione del Implicit Association Test, che è progettato per misurare le associazioni inconsce e automatiche che facciamo tra le persone, gli oggetti e le idee . “In questo caso”, spiegano i ricercatori, “eravamo interessati a sapere se osservare qualcuno dire una bugia avrebbe, al di fuori della consapevolezza, attivato concetti mentali connessi con l’inganno“.

Grazie ai risultati hanno scoperto che i partecipanti erano più veloci nel categorizzare con precisione termini come ” disonesto ” e ” ingannevole ” quando la foto e il nome di uno dei ladri era visibile sullo schermo .

Sembra che la visualizzazione automatica di un bugiardo attiva concetti associati con l’inganno, e la visualizzazione di una persona che dice il vero attivi automaticamente concetti associati con la verità“, concludono i ricercatori.

Un altro risultato interessante è stato che le donne hanno dimostrato significativamente maggiore accuratezza nell’individuare i bugiardi rispetto ai partecipanti di sesso maschile.

Insomma, la nostra capacità di stanare i bugiardi sarebbe accurata se non ignorassimo continuamente le nostre valutazioni inconsce a causa di pregiudizi e false credenze.

 

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La gravidanza vista dall’interno di Joan Raphael-Leff – Recensione

 

 

La gravidanza vista dall’interno

di Joan Raphael-Leff

Astrolabio Ubaldini (2014)

 

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La gravidanza vista dall'interno. - Immagine: copertina

Oltre alla riattivazione di tematiche arcaiche, i genitori cominciano a fantasticare sul proprio bambino, sul suo aspetto fisico, sul genere, sul nome e, molto spesso, proiettano su di lui i propri desideri e i propri sogni. Talvolta, il bambino può assumere un ruolo specifico, quale quello di salvatore, riparatore, capro espiatorio, prova d’amore, ecc. 

Diventare madre: un evento comune a tante donne ma differente per ciascuna di esse, a causa dei molteplici parametri familiari, emotivi, subculturali ed etnici che influenzano la futura mamma, un’esperienza che comincia con il concepimento e che sconvolge la realtà interna ed esterna in primis della donna e in secundis del partner ed eventualmente degli altri figli.

Cosa accade nel mondo interno di una donna in attesa? Quali forze inconsce entrano in gioco? Come ci si sente ad avere dentro un’altra persona? Quali emozioni, sogni e fantasie accompagnano la donna durante il periodo della gravidanza? Quali sono le aspettative dei futuri genitori? Come si modifica la relazione coniugale? Questi sono solo alcuni dei quesiti ai quali Joan Raphael-Leff cerca di fornire una risposta in questo libro, adottando un approccio che, anziché assumere come punto di partenza lo sviluppo del sé psicologico del bambino, pone al centro l’esperienza psicologica dei genitori, l’interazione attuale col partner e con il bebè e gli eventuali interventi di supporto o psicoterapici che si possono richiedere nel periodo della gravidanza.

Le fonti cliniche alle quali l’autore ha fatto riferimento nella stesura del libro comprendono racconti diretti di futuri genitori, protocolli di psicoterapia, verbali di discussioni di gruppo, osservazioni dei bambini in casa, supervisioni di psicoterapie psicoanalitiche, fonti bibliografiche e discussioni con i colleghi o con gli allievi. Infatti, non mancano nel testo trascrizioni di colloqui individuali o di gruppo con donne in gravidanza o neo-mamme. 

La gravidanza è un periodo piuttosto delicato nella vita di ciascuna donna, in quanto comporta un’attivazione di sentimenti personali, ricordi, fantasie e immagini inconsce, legati molto spesso alle proprie relazioni infantili. Le esperienze passate e le relazioni primarie tendono ad essere evocate quando una donna scopre di essere in attesa e possono influenzare la qualità dell’interazione postnatale con il bambino.

La gravidanza può essere desiderata o non programmata, può arrivare troppo presto o troppo tardi, può essere cercata per colmare un lutto o un precedente aborto, può essere desiderata da entrambi i partner o solo da uno, può derivare da un’inseminazione artificiale o può essere la conseguenza di uno stupro o di un rapporto sessuale fortuito; da questo si comprende come non sempre la notizia della nascita di un bambino sia accolta con entusiasmo dai futuri genitori. Anche nei casi in cui la gravidanza sia cercata, quest’evento genera, comunque, una serie di cambiamenti nella donna: deve condividere il suo corpo con il feto e questo comporta anche una modifica della propria immagine corporea; deve cambiare le sue abitudini alimentari, di lavoro, il suo stile di vita.

Secondo Raphael-Leff, il periodo della gravidanza può essere suddiviso in 3 fasi: la prima è caratterizzata principalmente dalle nuove sensazioni corporee e dai sintomi fisici; la seconda fase comincia con i movimenti del feto e comporta la presa di coscienza che un nuovo essere cresce dentro di sé; l’ultima fase comincia quando la madre inizia a concepire il bambino un organismo capace di vivere autonomamente.

Durante queste fasi, oltre alla riattivazione di tematiche arcaiche, i genitori cominciano a fantasticare sul proprio bambino, sul suo aspetto fisico, sul genere, sul nome e, molto spesso, proiettano su di lui i propri desideri e i propri sogni. Talvolta, il bambino può assumere un ruolo specifico, quale quello di salvatore, riparatore, capro espiatorio, prova d’amore, ecc. 

Secondo l’autore, la gravidanza può generare dei cambiamenti anche nella relazione con il partner: in primis, l’attività sessuale in alcuni casi viene incentivata, in altri casi viene interrotta, in quanto si riattivano desideri infantili o si percepisce la propria privacy violata dalla presenza di un terzo; inoltre, il partner può sentirsi escluso dalla relazione privilegiata tra la madre e il feto, mentre la donna può sentirsi invasa o poco attraente.

Anche nel partner, durante questo periodo, possono attivarsi emozioni intense e ricordi legati al passato con i propri genitori o si possono sviluppare sintomi psicosomatici o difficoltà sessuali, sociali o lavorative. Inoltre, il padre può partecipare il più possibile alla gestazione, al parto e alla cura del neonato oppure può delegare alla donna qualsiasi responsabilità.

Anche le relazioni con i propri genitori possono modificarsi durante questa fase: alcuni futuri genitori tendono a rivendicare la propria indipendenza e a stabilire con i genitori relazioni più paritarie; altri diventano ancora più dipendenti e delegano, spesso, alcuni compiti ai nonni del bambino.

Il rapporto tra maternità e lavoro è un’altra questione trattata dall’autore del libro: alcune donne cercano di riprendere appena possibile l’impiego a tempo pieno, altre abbandonano l’attività lavorativa o rimandano la ripresa del lavoro nei primi due anni dopo il parto oppure optano per un impiego part-time. Inoltre, talvolta la gravidanza può generare delle difficoltà non indifferenti nello svolgimento di mansioni che richiedono un eccessivo sforzo fisico o la posizione seduta prolungata.

Un capitolo molto interessante del libro viene dedicato dall’autore ai diversi approcci alla genitorialità. Chi ha un orientamento definito Facilitazione considera la maternità un’esperienza completamente gratificante, ricerca continuamente la vicinanza del piccolo e tende a rimandare la ripresa dell’attività lavorativa. Al contrario, la donna che ha l’orientamento della Regolazione cerca di tornare il prima possibile alle sue attività quotidiane, affidando la cura del bambino anche ad altre figure significative. In una posizione intermedia si colloca l’orientamento della Reciprocità, che prevede un equilibrio tra le due posizioni precedenti. 

Tutti i cambiamenti succitati possono comportare nella donna lo sviluppo di disturbi psichici, quali il Maternity blues e la depressione post-partum. Il Maternity Blues si risolve nell’arco di un paio di settimane ed è caratterizzato da oscillazioni dell’umore e passeggere crisi di pianto, mentre la depressione generalmente è caratterizzata da ansia, pianto, irritabilità e, nei casi più gravi, può comportare disturbi del sonno, dell’appetito, idee suicidarie, inadeguatezza e disperazione.

Soprattutto in questi casi, può essere importante fornire alle donne un intervento di supporto o psicoterapico, talvolta associato ad un trattamento farmacologico. Gli ultimi due capitoli del libro sono, appunto, dedicati alla psicoterapia pre e perinatale e nei primi mesi di vita del bambino e rimarcano quanto, in questa fase così delicata, possa essere indispensabile mettere a disposizione delle donne interventi terapeutici individuali o di gruppo di diverso orientamento. Come sottolinea lo stesso Raphael-Leff, molto spesso, nei corsi di preparazione al parto si insegna alle mamme come cambiare i pannolini, fare il bagnetto, allattare, mentre non si preparano quasi mai i genitori ai cambiamenti emotivi e relazionali ai quali andranno incontro.

La lettura del libro è consigliata a studenti di psicologia, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e alle future mamme che intendono conoscere la gravidanza dall’interno e tutti i cambiamenti emotivi, affettivi, fisici, relazionali e sociali che la caratterizzano.

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Le capacità di metacognizione come focus per i trattamenti della schizofrenia

Luisa Buonocore

 

Deficit metacognitivi e schizofrenia. - Immagine: © fotodo - Fotolia.comLa capacità metacognitiva come focus per i trattamenti della schizofrenia: durante gli ultimi 15 anni è cresciuto l’interesse nell’idea che i deficit metacognitivi giochino un ruolo centrale nel corso e nei potenziali esiti della schizofrenia. La ricerca in questi anni ha confermato che molte persone affette da schizofrenia sperimentano difficoltà nel cogliere i propri pensieri e quelli degli altri.

Questi pazienti non riescono a descrivere i propri pensieri e i propri stati emotivi o a utilizzare le informazioni sugli stati mentali per formulare piani per superare i problemi psicologici. Inoltre, livelli più alti di tali difficoltà sono legati a livelli alti di paranoia, sintomi negativi, disturbi del pensiero e scarsi livelli di funzionamento sociale (Popolo, Salvatore & Lysaker, 2012; Dimaggio & Lysaker, 2011).

Nell’articolo “Metacognitive Capacities for Reflection in Schizophrenia: Implications for Developing Treatments” pubblicato su Schizophrenia Bulletin (Marzo 2014) gli autori Paul H. Lysaker e Giancarlo Dimaggio descrivono la base teorica e i risultati di un nuovo paradigma di ricerca che ha indagato il ruolo centrale dei deficit metacognitivi nella schizofrenia.

Gli autori descrivono la metodologia utilizzata per valutare le difficoltà nella capacità di riflettere sugli stati mentali, di formare idee complesse su se stessi e gli altri  e di usare queste informazioni per rispondere ai cambiamenti psicosociali e per la realizzazione dei propri obiettivi. Per superare le difficoltà nell’assessment della metacognizione con compiti di laboratorio, che utilizzano stimoli emozionalmente e personalmente neutri (ad esempio indovinare le emozioni di persone fotografate), gli autori propongono un’intervista semistrutturata l’Indiana Psychiatric Illness Interview che permette di valutare la metacognizione per come si manifesta durante un discorso generato spontaneamente.

Le narrazioni elicitate da questa intervista vengono valutate utilizzando le 4 scale della Metacognitive Assessment Scale Abbreviated (MAS-A). Diverse ricerche hanno evidenziato l’attendibilità e la validità di questo metodo. La presenza di deficit metacognitivi nella schizofrenia è rappresentata da punteggi più bassi alla MAS-A nei campioni di pazienti affetti da questa patologia. A livello descrittivo, i pazienti schizofrenici hanno difficoltà nel riconoscere la soggettività dei pensieri, nel riconoscere che gli altri hanno stati interni complessi, che gli eventi possono essere compresi da prospettive diverse e incapacità di utilizzare la conoscenza metacognitiva per gestire lo stress. Punteggi bassi alla MAS-A sono correlati a livelli più bassi di competenze funzionali e maggiori livelli di sintomi negativi.  Nei campioni di pazienti schizofrenici i punteggi della MAS-A hanno, inoltre, predetto i livelli di funzionamento lavorativo futuro e mediano l’impatto dei deficit metacognitivi sul funzionamento sociale. I dati di ricerca riportati suggeriscono che i pazienti con schizofrenia riportano gravi deficit nella capacità di integrare le informazioni in idee complesse su se stessi e gli altri e tali deficit predicono un peggior funzionamento psicosociale indipendentemente da sintomi e deficit neurocognitivi.

Secondo gli autori questi risultati suggeriscono qualcosa di nuovo: la ridotta capacità di costruire rappresentazioni complesse ed integrate di se stesso e degli altri potrebbe essere la caratteristica principale del disturbo; mentre i sintomi e i deficit neurocognitivi  possono rendere difficile capire come fare le cose, i deficit metacognitivi rendono impossibile capire perché seguire una certa linea d’azione.

Queste ricerche evidenziano la necessità di interventi che abbiano come bersaglio i deficit metacognitivi nella schizofrenia. In aggiunta a interventi volti a ridurre i sintomi, fornire supporto e aiutare a mettere da parte convinzioni disfunzionali, sembra estremamente importante cercare di promuovere le abilità di pensare in termini di stati mentali. Interventi che aiutino i pazienti a monitorare i propri stati interni, rinforzare la capacità di pensare a cosa pensano gli altri e di integrare i diversi elementi dell’attività mentale a dare senso a ciò che accade nella loro mente e in quella degli altri (Lysaker et al. 2013; Popolo, Salvatore & Lysaker, 2012; Salvatore et al. 2012a; Salvatore et al. 2012b; Lysaker et al. 2011)

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche“Dream: ON”un’app la cui funzione è monitorare il sonno e riproducendo uno specifico “scenario sonoro” (soundscape) di sottofondo.

Non sarebbe bello poter sognare ciò che vogliamo e quindi svegliarci ogni giorno felici? Secondo quando riportato da Richard Wiseman, professore  della University of Hertfordshire, si. Nel 2010 Wiseman  ha iniziato una collaborazione con YUZA, una compagnia specializzata nella creazione di app (variante delle applicazioni informatiche dedicate ai dispositivi di tipo mobile, tipo smartphone e tablet), per dar vita a “Dream: ON”, ovvero un app la cui funzione è monitorare il sonno e riproducendo uno specifico “scenario sonoro” (soundscape) di sottofondo.

L’obiettivo era verificare se e come questi  “scenari sonori” influenzassero il contenuto onirico dei soggetti  e ogni soundscape era stato creato a partire dall’ipotesi secondo cui è possibile evocare sogni  piacevoli e rilassanti, come per esempio camminare in un bosco o essere distesi su una spiaggia. Alla fine del sogno, l’app produceva poi un delicato suono dopo il quale veniva chiesto al soggetto di fornire una immediata descrizione del sogno.

L’app, una volta messa in commercio, è stata scaricata da oltre 500.000 persone, permettendo così al team di ricerca di ottenere un buono quantità di dati. Incrociando i dati forniti nelle descrizioni dei soggetti con il tipo di soundscape ascoltato, i risultati  sembrano confermare l’ipotesi di Wiseman e colleghi “Chi sceglieva un soundscape nel quel venivano riprodotti i suoni della natura, di solito sognava fiori e piante, chi invece sceglieva un soundscape da spiaggia tendeva a sognare il sole, e la sensazione di questo quando colpisce la pelle”.

Curiosamente, i ricercatori hanno poi osservato che i sogni fatti durante la fase lunare di luna piena tendevano a essere particolarmente bizzarri e particolari “In accordo con quanto scoperto dai ricercatori della University of Basel, ovvero che i pattern del sonno tendono a essere più disturbati quando c’è la luna piena, anche noi abbiamo identificato una relazione tra questo periodo del ciclo lunare e i sogni, che sembrano essere più curiosi e stravaganti”.

Infine, il team di Wiseman ha dimostrato che alcuni particolari soundscape conducono a fare sogni molto più piacevoli di altri.

Sognare qualcosa di bello aiuta le persone a svegliarsi di buono umore e a migliorare la loro perfomance quotidiana. Con questo studio abbiamo scoperto come possiamo avere sempre dei “sogni d’oro” e ciò potrebbe addirittura essere l’inizio di un nuovo tipo di terapia nella cura di alcuni disturbi, tra cui per esempio la depressione”.

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