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Pensiero matematico & Linguaggio: cosa hanno in comune?

 

 

linguaggio e matematica © rendermax - Fotolia.com

I primi risultati di questo lavoro suggeriscono che il linguaggio e la matematica condividono delle rappresentazioni sintattiche e utilizzano processi di analisi simili.

Sappiamo che alcune proprietà sono condivise sia dal linguaggio verbale che da quello aritmetico. Pensiamo ad esempio alla possibilità di costruire delle parole a partire da lettere e delle frasi a partire da parole: allo stesso modo siamo in grado di generare e comprendere numeri composti da più cifre, proprio grazie all’assegnazione di un posto specifico alle unità, alle decine e via dicendo, e di risolvere delle espressioni aritmetiche sulla base di alcune regole che indicano quali operazioni vadano svolte per prime.

Sembra quindi che anche nella matematica ci sia la necessità di strutturare il materiale attraverso l’uso di regole sintattiche.

La difficoltà che si pone è come studiare le dimensioni comuni tra il linguaggio e la matematica.

Un paradigma che si è rivelato efficace per studiare l’esistenza di un qualche processo comune nell’analisi sintattica è quello del priming strutturale.

Gli esperimenti classici di priming lessicale dimostrano una riduzione del tempo di elaborazione di una parola come dottore se questa è preceduta da una parola come infermiera, che è semanticamente collegata alla prima.

In generale se due stimoli sono legati tra loro su una particolare dimensione, e l’elaborazione dell’uno influenza l’elaborazione dell’altro, possiamo attribuire la causa dell’effetto di facilitazione (o di inibizione) proprio alla dimensione condivisa (Branigan et al., 1995).

Questo principio si applica non solo alla dimensione lessicale e semantica, ma anche a quella strutturale o sintattica. In letteratura sono riportati numerosi esempi di facilitazione dell’elaborazione di una frase dopo aver elaborato già un’altra frase con la stessa struttura sintattica (Pickering & Ferreira, 2008).

Ci siamo chiesti però se questo assunto si possa applicare anche a due codici tanto diversi tra loro, come la matematica e il linguaggio. Scheepers et al. (2011) hanno dimostrato come la risoluzione di espressioni aritmetiche influenzi la produzione di frasi.

Abbiamo pensato di replicare lo studio nella lingua italiana, rendendo il paradigma di studio un po’ più complesso (Caruso et al., 2012). In un esperimento 54 soggetti dovevano risolvere delle semplici espressioni aritmetiche prima di leggere e comprendere delle frasi ambigue del tipo “Ho visto la figlia della signora che è andata in Egitto”.

I risultati hanno mostrato che la struttura sintattica delle espressioni aritmetiche influenzava l’interpretazione di questo tipo di frasi. Soprattutto quando si trattava di espressioni che contenevano parentesi, quindi gerarchicamente organizzate rispetto a espressioni lineari, si osservava una tendenza maggiore ad interpretare il primo nome della frase ambigua come soggetto della frase relativa.

I primi risultati di questo lavoro suggeriscono che il linguaggio e la matematica condividono delle rappresentazioni sintattiche e utilizzano processi di analisi simili.

Questi risultati però non sono interessanti solo per chi si occupa di linguistica, ma possono essere utilizzati nei protocolli di intervento clinico, come nel lavoro di Byrne e Varley (2011) in cui dei pazienti venivano aiutati a sviluppare delle nuove capacità sintattiche legate al linguaggio a partire dalle operazioni aritmetiche.

Questo potrebbe essere uno dei tanti esempi di come la ricerca sui processi cognitivi di base possa spiegare dei fenomeni mentali complessi ed essere d’aiuto alla pratica clinica.

 

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Decontestualizzare la sfera emotiva dal ricordo: una strategia di regolazione emotiva

 

 

 

regolazione emotiva - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.comIl ricordo è un traditore che ferisce alle spalle.

Nella memoria emotiva autobiografica sono immagazzinate le nostre emozioni riguardanti eventi di vita particolarmente significativi: ad esempio la nascita di un figlio, la vincita di un premio ad una competizione sportiva, o la bocciatura a un esame. Questo tipo di memoria gioca un ruolo importante nella costruzione dell’identità, nonché nella pianificazione di comportamenti, progetti, decisioni.

Tuttavia, il ricordo delle emozioni provate durante un’esperienza di vita negativa (quanto ci siamo sentiti tristi, spaventati, imbarazzati…) può indurre stati di stress emotivo, specialmente quando non si riesce più a smettere di ripensarci e il ricordo si traduce in ruminazione (Nolen-Hoeksema et al., 2008). Effettivamente, un’eccessiva focalizzazione sul ricordo delle emozioni sperimentate durante un evento di vita stressante, è associata a un maggior rischio d’insorgenza di disturbi psichiatrici, quali la depressione maggiore, o il disturbo post-traumatico da stress (Brewin et al., 1999; Rubin et al., 2008), entrambi caratterizzati da deficit nella Regolazione Emotiva. Quest’ultima può essere definita come la capacità individuale di regolare le proprie emozioni, sia positive che negative, attenuandole, intensificandole o semplicemente mantenendole (Gross, 2008). Il concetto di Regolazione Emotiva ha stimolato molte ricerche, poiché si ritiene che una buona capacità di adattarsi a eventi emozionalmente intensi abbia importanti ricadute, sia sulla salute fisica sia sulla salute mentale. Lo studio della Regolazione Emotiva è inoltre mirato al perfezionamento dei trattamenti psicoterapeutici dei disturbi affettivi (Gross, ibidem).

Un team di ricercatori afferenti all’università dell’Alberta e al Beckman Institute dell’Università dell’Illinois ha indagato i meccanismi neurali e comportamentali che avvengono durante il recupero di eventi autobiografici: secondo gli Autori (Denkova, Dolcos & Dolcos, 2014) l’impatto emotivo causato dal ricordo di un evento del passato può essere ridotto spostando l’attenzione sugli elementi contestuali del ricordo (una persona presente nella scena, il tempo atmosferico, o qualsiasi altro dettaglio non emotivo). Una volta che l’attenzione sarà rivolta su altri dettagli dell’evento, e continuerà a vagare su di essi, la concentrazione sul contenuto emozionale negativo sarà ridotta.

Questa semplice strategia sembrerebbe configurarsi come un’alternativa promettente ad altre strategie di regolazione emotiva, come la soppressione o il reappraisal.

La soppressione emotiva può essere metaforicamente immaginata come “imbottigliare un’emozione”, tentare di inscatolarla e metterla da parte: questa strategia, secondo gli Autori, può essere vantaggiosa nel breve termine, ma a lungo rischia di accrescere stati di ansia o depressione, configurandosi come una forma di evitamento. Il reappraisal consiste invece nel cercare una chiave di lettura alternativa agli eventi, cercando ad esempio di “vedere il bicchiere come mezzo pieno”, e non come mezzo vuoto.

Tuttavia il reappraisal, per quanto efficace, sembra essere una strategia molto più faticosa e richiede maggiori risorse cognitive rispetto alla focalizzazione sugli elementi contestuali.

Quest’ultima sembra non solo essere efficace nel breve-termine, ma potrebbe avere la capacità di ridurre il carico emozionale negativo qualora fosse ripetutamente esercitata; inoltre, la strategia potrebbe essere altrettanto efficace se impiegata con l’obiettivo di incrementare l’impatto positivo di ricordi piacevoli e gratificanti.

Allo studio di Denkova e coll. (2014) hanno partecipato 18 soggetti, ai quali è stato inizialmente richiesto di individuare e condividere un certo numero di ricordi, caratterizzati da una forte valenza emotiva, sia in negativo sia in positivo. Trascorse alcune settimane, i soggetti sono stati ricontattati e sottoposti a un esame di fRMI (Risonanza Magnetica Funzionale). Durante l’esame gli sperimentatori hanno chiesto ai soggetti di focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche emotive o contestuali del ricordo, per poi stimolare la rievocazione di ricordi mediante la proposizione di diversi indizi. Ad esempio, se l’indizio consisteva nel richiamare il ricordo del funerale di un caro amico, il contenuto emotivo poteva riguardare sentimenti di pena, afflizione, mentre il contenuto contestuale poteva riguardare l’abito che si era indossato, le persone presenti, o altro.

I risultati prodotti dalle scansioni fRMI indicano che la focalizzazione sul contesto è associata a un’attivazione della corteccia prefrontale ventro-mediale (un’area cerebrale che influisce sulla Regolazione Emotiva), e parallelamente a una riduzione nell’attività dell’amigdala (un’area cerebrale responsabile dell’attivazione emozionale).

Gli Autori ipotizzano infine la messa a punto di nuove ricerche su questa strategia, che potrebbero riguardare una valutazione dell’efficacia in uno studio longitudinale, valutandone l’efficacia in un orizzonte temporale di medio – lungo termine, nonché all’applicazione su popolazioni cliniche, quali soggetti con disturbi d’ansia o di depressione, valutandone le ricadute sulla sintomatologia emotiva.

 

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La tomografia a emissione di positroni (PET), una tecnica di imaging funzionale, sembra essere uno strumento promettente nella valutazione delle possibilità di recupero dello stato di coscienza in pazienti gravemente cerebrolesi.

Questi risultati sono importanti se pensiamo che con gli esami clinici tradizionali fino al 40 % dei pazienti cerebrolesi sono mal diagnosticati: gli esami clinici standard dovrebbero servire a discriminare se i pazienti sono in uno stato di coscienza minimo (MCS), in cui vi è qualche evidenza di consapevolezza e di risposta agli stimoli, o in stato vegetativo (VS), noto anche come unresponsive wakefulness syndrome, nel quale la possibilità di recupero è molto bassa.

Nei pazienti con edema cerebrale, però, la previsione di recupero sulla base di un esame clinico standard è poco più accurata del lancio di una moneta, sostengono i ricercatori che hanno condotto lo studio all’Università di Liegi.

Grazie alla PET sembra invece possibile rilevare processi cognitivi che non sono visibili attraverso i test tradizionali, e che possono essere usati per completare le valutazioni comportamentali standard, rendendole più accurate.

Lo studio ha valutato se due nuove tecniche di imaging funzionale del cervello – la PET con fluorodeossiglucosio come agente di imaging (FDG) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) eseguita durante compiti di immaginazione mentale – fossero in grado di distinguere tra VS e MCS in 126 pazienti con gravi lesioni cerebrali (81 MCS , 41 VS , e 4 con locked-in syndrome, un gruppo di controllo di pazienti che non rispondono a livello comportamentale ma che sono coscienti).

I ricercatori hanno poi confrontato i risultati ottenuti con quelli del Coma Recovery Scale- Revised ( CSR – R ), un test comportamentale standardizzato, considerato fino ad ora il metodo più sensibile per discriminare i livelli minimi di coscienza.

I risultati indicano che la FDG -PET è meglio della fMRI nel rilevare uno stato di coscienza in pazienti apparentemente incoscienti; in particolare l’accuratezza previsionale del grado di recupero entro l’anno successivo era circa del 74 % per la FDG -PET , rispetto al 56 % della fMRI.

 

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Io non mi piaccio! Body Image Modular Therapy per i disturbi dell’immagine Corporea

Emanuel Mian

La Body Image Modular Therapy

per trattare i disturbi dell’immagine corporea

 

 

Body Image Modular Therapy. - Immagine: © aleutie - Fotolia.comIo cosi’ non mi piaccio!…chissà cosa penseranno di me quando mi vedono gli altri…vorrei essere come lei/lui… etc etc

Quante volte avrete detto queste frasi o quante volte le avrete pensate o sentite dire da qualcuno accanto a voi? Beh, siete in buona compagnia.

Poche sono le persone che si accettano e approvano al 100% e molti, invece, coloro che modificherebbero qualcosa del proprio aspetto (Tantleff-Dunn et al., 2011).

Dal peso al colore degli occhi, dall’altezza sino al proprio sesso, l’immagine corporea non è solo ciò che percepiamo guardandoci allo specchio, sopratutto identifica una rappresentazione mentale del corpo da un punto di vista cognitivo, affettivo e meta-cognitivo (Mian, 2006).

In sostanza, come ci vediamo e “sentiamo” nel nostro corpo e come pensiamo che gli altri ci vedano, sono quesiti che ci poniamo quotidianamente, quasi senza accorgercene, e rappresentano le dimensioni che compongono questo costrutto (Mian & Gerbino, 2009).

La percezione, le emozioni e le convinzioni riguardo il nostro apparire orientano i progetti, le relazioni interpersonali, il nostro benessere quotidiano, l’autostima e la tendenza ad sviluppare disturbi di natura psicologica, non solo quindi un disturbo del comportamento alimentare.

Nella pratica clinica di qualsiasi psicoterapeuta, sempre più spesso giungono persone preoccupate per il proprio aspetto e che per questo si sentono a disagio in molte situazioni, siano essi adolescenti o adulti, maschi o femmine e questo, anche senza presentare reali difetti fisici (APA DSM 5, 2013; Kostanski & Gullone, 2003).

Molti hanno un tono dell’umore e stati d’ansia in grado di rendere difficile la vita quotidiana, comportamenti alimentari problematici e vivono lo specchio in maniera ossessiva o al contrario, scappano da qualsiasi superficie ne rifletta la loro immagine. Altri utilizzano lo sport e la cosmesi sino a desiderare (e spesso ottenere) numerosi interventi in chirurgia plastica al fine di correggere i supposti o amplificati difetti, rimanendo intrappolati nel giogo della propria insoddisfazione corporea.

Non lasciatevi trarre in inganno, perché questi sono i pazienti più esigenti e complessi da trattare.

Come detto, sono rare, le persone che si ritengono soddisfatte e non cambierebbero anche solo una parte del proprio corpo, ma la differenza per chi sviluppa una vera psicopatologia sta nel grado di insoddisfazione e, soprattutto, nel come questa interferisca sulla vita quotidiana e nel funzionamento generale dell’individuo.

L’importanza clinica dell’immagine corporea e la centralità di questa in una psicoterapia di successo è facilmente intuibile, ma la sua interdipendenza con il comportamento verso il cibo, la gestione dell’ansia, dell’umore e dei pensieri ossessivi rendono complessa anche l’alleanza terapeutica e la motivazione se non viene utilizzato un metodo strutturato ma flessibile che, modulandosi insieme alle esigenze e risorse del paziente, tenga conto della sua individualità.

Proprio per la peculiarità di queste persone, la terapia dell’immagine corporea dovrebbe prendere in considerazione e sfruttare gli sviluppi della ricerca scientifica e le nuove tecnologie con un approccio evidence-based, manualizzato, replicabile e che tenga conto della necessaria multidisciplinarietà nella cura di queste problematiche.

L’immagine corporea come abbiamo visto è un complesso costrutto multidimensionale, e l’utilizzo di un’unica tecnica terapeutica, risulta insufficiente; per questo nasce la terapia modulare dell’immagine corporea o Body Image Modular Therapy (BIMT-Mian, E., 2014).

La BIMT è una strategia d’intervento integrabile agli approcci psicoterapeutici standard, con moduli adatti e adattabili a tutte le problematiche che coloro con una immagine corporea deficitaria “portano in seduta”. Questo specifico approccio, in parte mutuato dalla CBT-BDD ovvero la psicoterapia cognitivo-comportamentale per il dismorfismo corporeo (Wilhelm, Phillips & Steketee, 2013) considera più economico ed efficace, rispetto alla pratica clinica corrente, individuare strategie specifiche per affrontare ciascuno dei processi che fanno parte del disagio del paziente relativo all’immagine corporea, permettendo una flessibilità ed una personalizzazione del trattamento psicoterapeutico al fine di affrontare le particolari sintomatologie che sono caratteristiche di alcuni ma non di tutti i pazienti (Chorpita, 2007; Eifert et al., 1997;).

Non solo il disturbo alimentare quindi, ma anche la gestione dello sport ossessivo, del pensiero ricorsivo verso il proprio corpo o alcune sue parti (thigh-gap, thinspiration, body teasing, body related internet addiction, pro/ana/mia site addicion etc etc) devono essere indirizzate con competenza del fenomeno ed il terapeuta dovrebbe sapere “dove mettere o non mettere il naso” in seduta.

Perché quindi la Body Image Modular Therapy?

Molti tipi di psicoterapia cognitivo comportamentale includono interventi basati sullo “skill-training” con sessioni che vengono presentate in modo sequenziale. Ogni sessione è costruita in modo da includere un training in una o più specifiche abilità come ad esempio, per la terapia della depressione negli adolescenti (Reinecke et al., 2006), nel Social Skills Training (Thase, 2012) o nella Dialectical Behavioural Therapy (Booth et al.,2014). Questi approcci, prevedono che ogni seduta abbia momenti dedicati al training in specifiche abilità e le sessioni siano correlate fra loro sequenzialmente. Per esempio, un approccio al rilassamento è trattato in una specifica sessione, seguita da altre che ne approfondiscono ulteriormente questa abilità. Dal punto di vista psicoeducativo la sequenza delle sessioni è settata ed ordinata in modo che quelle successive vengano gestite in base a quanto appreso nelle precedenti sessioni.

Nella Body image Modular Therapy, invece, non c’è bisogno che i moduli seguano una sequenza predefinita, proprio per aderire meglio alla storia di vita del paziente e del momento del “qui ed ora”. Inoltre, i vari moduli, non sono dei semplici “skill training”, ma veri e propri assetti di gestione terapeutica all’interno della sessione di seduta e fra le sedute stesse, indipendentemente dalla loro sequenzialità.

Una critica ai trattamenti manualizzati è che manchino di flessibilità sia nella gestione globale che all’interno di ogni singola seduta di psicoterapia e la domanda che ci si è posti nella creazione della struttura di sessione e dei vari moduli è stata di come poteva una terapia rispondere ai bisogni immediati di un paziente se il manuale di riferimento gli imponeva di gestire alcuni argomenti che potevano non essere aderenti al 100% ai bisogni specifici del momento. La risposta è l’utilizzo dell’approccio modulare della BIMT, un approccio che inoltre tiene conto delle nuove tecnologie per quanto riguarda l’esposizione guidata ed il “perceptual retraining” mediante videosimulazione come nell’uso del Body Image Revealer e tecniche mutuate dalla mindfulness e dall’acceptance and committment therapy (Pearson et al., 2011; Lillis et al., 2009) per la gestione della body avoidance e food phobia.

Body Image Revealer:

L’integrazione dei sedici moduli di cui attualmente la Body Image Modular Therapy si compone, permette inoltre di inserirla nella “cassetta degli attrezzi” di ogni professionista impegnato con i sempre piu’ numerosi pazienti che presentano problematiche a carico dell’immagine corporea.

 

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AUTORE DELL’ARTICOLO: 

Emanuel Mian. Psicoterapeuta, PhD in Neuroscienze.
Docente nel Master in “Dietistica e Nutrizione Clinica”- Università di Pavia

Pratiche erotiche estreme. E’ sempre lecito praticarle? Psiche e Legge #11

 

PSICHE E LEGGE #11

Quando la mente criminale “scrive” il processo penale

Pratiche erotiche estreme. E’ sempre lecito praticarle?

 

pratiche sessuali estreme - Immagine: © Dmitry Fisher - Fotolia.comIn chiusura della rubrica dedicata alla recensione del film “Tulpa” (regia di Federico Zampaglione) si anticipava al tema trattato nell’odierno appuntamento, rilevandone la stretta connessione con la realtà del sesso estremo attorno alla quale si snoda la pellicola.

Un legame a doppio filo, dunque, tra i racconti sui quali è tessuta la trama del lungometraggio, e le vicende giudiziarie che sempre più frequentemente vedono coinvolti amanti i cui giochi erotici finiscono, purtroppo, in tragedia.

Ma quale è il nesso con le vicende giudiziarie? Praticare sesso estremo, ci si chiederà, è forse reato? Certo che no. Anzi. La Costituzione – offrendo tutela, ai sensi dell’art. 2, ai diritti inviolabili dell’uomo – si rivolge anche al diritto alla libertà sessuale, inteso quale espressione dell’affettività e dimensione essenziale della persona. Va da sé, allora, che, elevandosi la sfera sessuale ad asse espressivo portante dell’essere umano, la libertà di disporne andrà protetta garantendo che ogni singola scelta inerente tale alveo sia assunta nella più totale consapevolezza e spontaneità.

Di qui, la punizione – da parte del Codice Penale – di ogni condotta a sfondo sessuale che sia imposta, con violenza fisica o psicologica, o comunque subdolamente indotta. Ecco che, qualora si attesti la perpetrazione di comportamenti che appaiano lesivi dell’altrui autodeterminazione sessuale, andrà posto, sul piatto della bilancia, sia l’oggettivo pregiudizio arrecato al bene protetto, che il legittimo esercizio del diritto ad abbracciare e seguire le proprie preferenze sessuali.

Saranno lecite, dunque, tutte quelle condotte che – seppur a primo impatto connotate da profili di costrizione o aggressività – siano, in realtà, desiderate da soggetti adulti la cui libido si soddisfi nell’infliggere sofferenza (sadismo) o nel subirla (masochismo). Ed è intuibile, come nell’esplicarsi di un tal genere di congiungimenti, si compiano, inevitabilmente, atti violenti o tesi ad umiliare l’altro. Modalità esplicative della sessualità – talora connotanti persino il classico ménage familiare – che gli studi di settore, invero, non collegano necessariamente a disfunzioni della sfera psicologica o a forme di psicopatologia.

Del resto, il DSM suole qualificare il sadomasochismo come “una sana forma di espressione sessuale fino a quando non danneggia la normale vita quotidiana del soggetto”. Ad ogni modo, se in un contesto ordinario tali azioni verrebbero senz’altro a delineare ipotesi di reato (lesioni, percosse, ingiurie, sequestro di persona, violenza privata, stupro), nell’ambito dei giochi erotici ad alto rischio, esse perderanno l’intrinseca valenza criminale, per divenire, invece, legittime, stante il consenso prestato dall’avente diritto.

Tutto lecito, allora, purché si tratti di un gioco di ruoli concordato e regolato nei minimi dettagli. Dato di estrema rilevanza, ove si pensi – e i casi mediatici di cui siamo informati lo confermano – alle non isolate ipotesi in cui da una cattiva o disattenta gestione delle regole del gioco derivi un serio pregiudizio alla salute degli amanti o, addirittura, il decesso. Conseguenze più che ipotizzabili, alla luce del concreto modularsi dei congiungimenti, in cui la sfida al dolore ed alla morte, induce i soggetti a perpetrare pratiche pericolosissime, quali lo shibari, la mummification, il breath play o la suspension.

Ma se il consenso è linea di confine tra il lecito e l’illecito, la questione, solo in apparenza lineare, si complica notevolmente ove – nello svolgersi di tali giochi – sarà proprio il consenso prestato da uno dei partecipanti a vacillare durante il rapporto o ad essere ritrattato. In altre parole, è come se le parti stipulassero un contratto di “schiavitù sessuale”, offrendosi disponibili a compiere o subire determinate azioni, nel rispetto delle regole stabilite, prima fra tutte, la parola d’ordine da pronunciare per bloccare il gioco.

Va sottolineato, però, che – al fine di scriminare la condotta e renderla lecita – il consenso dovrà innanzitutto riguardare diritti disponibili.

Ma cosa vuol significare esattamente questa espressione? Il riferimento, è al fatto che la legge – pur tutelando la libertà personale – non permetterà mai all’essere umano di consentire ad altri di ucciderlo o di procurargli menomazioni permanenti o contrarie alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.

Ebbene, tanto chiarito, interessa prender nota degli ulteriori requisiti di validità del consenso scriminante. Lo si riterrà valevole, in primo luogo, solo ove sia stato prestato con riferimento a quelle specifiche modalità dell’azione poste in essere dagli amanti.

Così, per recare un esempio, ove nel corso di un amplesso sadomaso si siano alternati atti violenti commessi nel concordato assenso delle parti (perciò leciti) ad episodi imposti solo da uno dei partecipanti, a carico dell’agente potrà scattare una condanna per violenza sessuale. Il consenso, poi, dovrà essere personale, fornito da un soggetto capace d’intendere e volere, nonché manifestato, nel senso che risponderà di stupro, anche chi abbia commesso un’azione repentina, senza previamente accertarsi dell’assenso del destinatario. Tuttavia, nei descritti contesti, non sarà sempre agevole distinguere il consenso solo apparentemente estorto – ma in realtà consapevolmente prestato – da un dissenso effettivo, dunque esulante dal copione concordato.

Sarà probabile, in effetti, che il dominato, pur desiderando quel violento trattamento, urli il suo dissenso o si divincoli, solo per restare fedele al suo ruolo e per soddisfare il partner.

Spetterà al giudice, allora, ricostruire – in caso di denuncia presentata dal partecipante che sostenga di non aver recitato nell’opporsi all’atto sessuale, ma di aver davvero espresso il suo dissenso a proseguire l’amplesso estremo – il concreto svolgersi degli eventi. Andrà accertato, in particolare, se il ripensamento della presunta vittima, sia stato percepito o fosse stato comunque percepibile dall’altro, cui sarà addebitata la responsabilità penale, solo ove si provi che abbia portato a termine il rapporto nella consapevolezza del sopravvenuto dissenso.

Si integrerà, pertanto, il reato di stupro nel caso in cui, durante la consumazione del rapporto, l’agente abbia appreso il dissenso della vittima la quale, seppur fisicamente bloccata, sia riuscita a manifestare una tempestiva reazione.

Ma cosa accade, invece, nell’ipotesi in cui una delle parti, nel subire l’atto violento, perda la vita per via di preesistenti patologie (cardiologiche o respiratorie) che lo abbiano reso vulnerabile? Il responso dipenderà dalle specifiche circostanze. Il dominatore, lo si annoti, potrebbe anche non rispondere affatto dell’accaduto, purché ignaro del cagionevole stato di salute del partner. Ciò, tuttavia, solo ove non sia ravvisabile alcuna probabilità che avesse potuto accettare il rischio del verificarsi dell’evento, o solo prefigurarsene la possibilità.

Andrà operato, poi, un puntuale raffronto tra l’azione da questi esigibile, secondo il metro dell’uomo modello, e quella concretamente posta in essere. Da valutare, inoltre, anche l’eventuale mancato soccorso alla vittima che abbia esternato difficoltà. Si valuti, infine, come l’esecuzione stessa della pratica sessuale possa aver cagionato l’evento, per mero errore nell’uso di corpi estranei, o per cattiva interpretazione dei segnali concordati. Ebbene, in tali evenienze, sarà il rinvio ai ben noti parametri dell’imperizia, della negligenza, dell’imprudenza, o della riconoscibilità del vizio, a dettare la colpevolezza del soggetto, o a liberalo da ogni responsabilità.

Nel tirare le fila del discorso, allora, potrà sostenersi come nello svolgersi delle pratiche sessuali estreme, l’eventuale conseguenza tragica del gioco sarà imputabile al soggetto che l’abbia procurata in via diretta ed immediata, nei soli casi in cui la lesione o la morte della vittima siano ricollegabili alla violazione, colposa (dunque non voluta) o intenzionale, delle regole pattuite, o dall’aver agito nonostante il dissenso espresso, o in costanza di un invalido consenso.

Questioni delicatissime, come si evince dai rilievi appena esposti, che meriteranno in sede processuale, un’attenta verifica sull’elemento psicologico proprio dell’imputato, sulle reali dinamiche dei fatti e su ogni altro elemento idoneo a ricostruire i fatti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Pascasi, S. (2014). Giochi erotici ad alto rischio. Responsabilità e scriminante del consenso in Il Sole 24 Ore, VENTIQUATTRORE AVVOCATO n. 1/14, 81-89.
  • Pascasi, S. (2013). Il consenso al congiungimento o ad altri atti deve perdurare senza soluzione di continuità in Guida al Diritto n. 21/13, 67-70
  • Pascasi, S. & Lusa, V. (2011). La persona oggetto di reato. Torino, Giappichelli Editore.

La psicopatia di Saverio in Senza pelle (1994) – Cinema & Psicoterapia #25

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #25

Senza pelle (1994)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Senza pelle (1994): Cinema e psicoterapia

Il film si chiude con un messaggio di speranza che le persone affet­te da patologie gravi possano avere una vita dignitosa e di qualità. Con Saverio possiamo dire: Perché ci sia qualcosa che si trova ci deve essere sempre qualcosa che si perde.

Diretto da Alessandro D’Alatri. Interpretato da Kim Rossi Stuart, Anna Galiena, Massimo Ghini. Italia 1994.

Trama

Saverio, un giovane psicopatico, si innamora di Gina, convivente di Riccardo e madre di un bimbo di quattro anni. Il corteggiamento fatto di lettere d’amore si fa insistente e indispone sia la donna che il convi­vente. Dopo un incontro con la madre del ragazzo i due decidono di aiutarlo. Gina convince un amico, proprietario di una serra, ad assume­re il giovane.

Ogni tanto passa dalla serra, e Saverio un giorno le chiede un bacio. La donna cede influenzata anche dalla bellezza, dalla dolcez­za e dalle splendide poesie che il giovane le dedica. Si pente subito, però, di fronte allo choc emotivo di Saverio.

Gina per sfuggire alla situazione incresciosa scompare e Saverio ha una grave crisi. Arrestato è ricoverato in ospedale e in seguito entra in una comunità terapeutica dove, dopo qualche tempo, un bigliettino gli cade accanto: è una ragazza del centro che gli lancia un messaggio di affetto e di speranza.

Motivi d’interesse

Saverio è un senza pelle, così lo definisce la psicologa che lo ha in cura: è cioè trasparente, subisce senza mediazioni gli stimoli dall’ester­no. Gina lo spinge a scrivere poesie bellissime e a mandare meravigliosi cesti di fiori.

L’avvenenza delle modelle delle riviste stimolano la sua sessualità negata dalla situazione psicologica e familiare. La madre aiuta Saverio, ma il trattamento farmacologico certo non è da solo sufficien­te. Il giovane ha bisogno di relazioni, di accettazione, di affetto, di acco­glienza. Il mondo invece è tutt’al più indifferente, se non ostile, intorno a lui.

Lo stigma segna la sua presenza e l’evitamento è l’atteggiamento diffuso e prevalente. Gina e Riccardo si rendono conto, entrando in contatto con Saverio, di quanto il pregiudizio caratterizzi le valutazioni e i rapporti con “il matto”, ma per un breve lasso di tempo il calore umano e la comprensione riescono a rompere il circolo vizioso.

Basta, però, un errore, un’involontaria spinta emotiva per rompere il sottile equilibrio e precipitare di nuovo il giovane nel vortice di sofferenza.

Il film si chiude però con un messaggio di speranza che le persone affet­te da patologie gravi possano avere una vita dignitosa e di qualità. Con Saverio possiamo dire: Perché ci sia qualcosa che si trova ci deve essere sempre qualcosa che si perde.

Indicazioni per l’utilizzo

Indicato per combattere lo stigma e per programmi di psicoeduca­zione con le famiglie di pazienti psicotici. Crea spazi e tempi non con­venzionali che aprono la speranza alla possibilità di poter curare e inclu­dere nella società anche pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche.

Trailer

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Ippoterapia e Alzheimer: quando gli animali aiutano i più anziani

Ioana Marchis

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’ ippoterapia, utilizzata soprattutto con bambini e adolescenti con disturbi emotivi e di apprendimento, può essere applicata anche nel lavoro con le persone adulte e fornire un modo unico per alleviare i sintomi della demenza senza utilizzo di farmaci.

Grazie ad una ricerca condotta in collaborazione tra l’Università di Stato dell’ Ohio, un centro d’ippoterapia e un centro di cura diurno per gli anziani, è emerso che le persone affette da Alzheimer sono in grado di curare i cavalli (dandogli da mangiare e facendoli camminare) sotto un’accurata supervisione. Questa esperienza, inoltre, sostengono i ricercatori, fa migliorare il loro umore rendendoli più collaborativi verso le cure che ricevono durante la giornata.

Dallo studio pilota, pubblicato sulla rivista Anthrozoös emerge che l’ippoterapia – utilizzata soprattutto con bambini e adolescenti con disturbi emotivi e di apprendimento – possa essere applicata anche nel lavoro con le persone adulte. Holly Dabelko-Schoeny, professore associato presso l’Università dell’Ohio, sostiene che l’ippoterapia potrebbe integrare forme più comuni di terapia assistita con gli animali come cani e gatti e fornire un modo unico per alleviare i sintomi della demenza senza utilizzo di farmaci.

 Le persone affette da Alzheimer, oltre alla perdita della memoria, spesso vanno incontro ai cambiamenti di personalità. Essi possono diventare depressi, solitari e finanche aggressivi. Per venire incontro a questi cambiamenti le terapie odierne si focalizzano di più su come alleviare il carico emotivo dei pazienti e delle loro famiglie. Il focus della terapia è cogliere l’attimo e far divertire le persone affette dalla demenza “in quel preciso momento” anche se poi non se la ricordano più, sostiene Holly Dabelko-Schoeny.

Al presente studio hanno partecipato 16 persone, in cura in un centro diurno per anziani di Columbus (Ohio) affette da Alzheimer, di cui 9 femmine e 7 maschi. Una volta alla settimana, per un mese, otto di loro (gruppo sperimentale) venivano accompagnati in un centro di ippoterapia dove, sotto la supervisione del personale, si prendevano cura dei cavalli dando loro da mangiare, da bere e facendoli camminare; gli altri otto (gruppo di controllo) rimanevano nel centro diurno dove partecipavano alle attività proposte dal centro.

Per monitorare il comportamento dei partecipanti, i ricercatori hanno utilizzato una scala “Modified Nursing Home Behavior Problem Scale” grazie alla quale il personale del centro poteva riportare da 1 a 4 la frequenza di comportamenti problematici come tristezza, agitazione, irritamento e resistenza alle cure sia nei giorni in cui gli ospiti venivano accompagnati al centro di ippoterapia che nei giorni in cui rimanevano nel centro diurno. Dai risultati è emerso che il punteggio dei partecipanti accompagnati al centro d’ippoterapia era inferiore di un punto rispetto a quelli che  rimanevano nel centro diurno. Inoltre, i ricercatori hanno misurato i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress, nella saliva dei partecipanti allo studio, riscontrando un aumento del livello di cortisolo nel gruppo sperimentale, probabilmente dovuto allo “stress positivo” collegato alla nuova esperienza vissuta.

Dallo studio è emerso anche un beneficio inatteso: l’ippoterapia potenziava l’attività fisica dei partecipanti. Le persone del gruppo sperimentale, tutte con delle limitazioni fisiche, nelle attività con i cavalli provavano a spingersi oltre questi limiti, chiedendo aiuto per alzarsi dalla sedia rotelle o prendendo fiducia nel camminare da soli (dove possibile). I familiari, i cui cari sono stati accompagnati al centro d’ippoterapia, riferivano nella maggior parte dei casi che rimanevano ancorati nella nuova esperienza riportandola a casa. La figlia di uno degli ospiti sostiene che sua madre non avrebbe mai ricordato quello che faceva nel centro durante il giorno, ma che ha sempre ricordato quello che ha fatto nel centro d’ippoterapia.

Dai risultati di questo studio sembrerebbe quindi che l’ippoterapia abbia degli effetti benefici non soltanto nel lavoro terapeutico con i bambini ma anche nelle persone affette di demenza.

 

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  •  Dabelko-Schoeny, H., Phillips, G., Darrough, E., DeAnna, S., Jarden, M., Johnson, D., Lorch, G. (2014). Equine-Assisted Intervention for People with Dementia. Anthrozoos: A Multidisciplinary Journal of The Interactions of People & Animals. DOI: 10.2752/175303714X13837396326611

Neurotipico, definizione

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Neurotipico è il termine convenzionalmente utilizzato per descrivere tutta la popolazione non autistica, con un organizzazione neurologica che non induce cioè le caratteristiche comportamentali che determinano una diagnosi di autismo.

In tale accezione per contrapposizione gli autistici vengono definiti neurodiversi. Il termine neurodiversità tuttavia non è sinonimo di disabilità in quanto esistono condizioni autistiche non patologiche.

Così come il termine neurotipico non può essere inteso come sinonimo di salute in quanto esistono condizioni neurotipiche patologiche.

In termini più generali e letterali neurodiversità indica del resto qualsiasi differenza neurologica tra gli individui, per esempio quella tra maschi e femmine.

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TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Dai contenuti ai processi mentali: la terza ondata della Terapia Cognitiva

 

 

La nuova sfiducia post-moderna nell’intelligenza può generare anche una nuova capacità di apprezzare l’attesa, l’attesa che la mente da sola elabori soluzioni senza che l’attenzione sia costantemente e ansiosamente focalizzata sui problemi, sulle difficoltà e sugli ostacoli. Ovvero, il saper pensare dopo, invece che prima. Il che, per Epimeteo, potrebbe essere una bella rivincita, dopo che per millenni lo abbiamo considerato il fratello scemo di Prometeo (Graves, 1955).

Credo che per molti di noi, cresciuti in un’atmosfera culturale differente, i nuovi paradigmi di terza ondata della terapia cognitiva pongano qualche difficoltà.

Nei nuovi trattamenti metacognitivi, nei nuovi interventi di mindfulness c’è minore fiducia nella terapia come comprensione.

L’attenzione si è spostata dai contenuti ai processi mentali, dagli interventi concettuali a quelli meditativi ed esperienziali. Tutto questo sembra suggerire una maggiore sfiducia nelle parole e nei significati logici e verbali.

Centrale diventa l’accettazione, che sta prevalendo sul paradigma precedente, che poneva al centro la conoscenza. La validazione emotiva ha svolto un ruolo intermedio, un interregno sentimentale tra la logica occidentale del comprendere che dominava un tempo e la nuova attitudine orientale dell’accettare e del non giudicare.

In realtà il seme era già piantato nei primi sviluppi della terapia cognitiva, ed era un seme non del tutto orientale. Anche il pragmatismo anglo-sassone non condivide da secoli la concezione mediterranea e platonica che privilegia il sapere esplicito e teorico, le idee, e lo fa coincidere con l’eudamonia, ovvero -semplificando- con la serenità del saggio e in qualche modo con il benessere del paziente. L’attitudine anglo-sassone ha sempre visto il benessere clinico come azione concreta da ottenere e non come frutto automatico del capire e del sapere.

Il luogo comune vuole che la centralità del conoscere e del contenuto del pensiero sia frutto di una mentalità soprattutto europea. È plausibile, però –a mio parere- non del tutto esatto.

Credo sia più corretto collegare questa mentalità a fenomeni storici più precisi e definiti. Per esempio, in Italia questa mentalità è nutrita dalla centralità degli studi classici e umanistici. In Europa non saprei se è davvero così. Forse è vero per la Francia o per altri paesi latini. Onestamente, in fondo non lo so. Sono però abbastanza sicuro che gli studi classici sono poco importanti nei paesi del nordeuropa. Almeno questa è la mia esperienza.

I colleghi nordeuropei che ho incontrato in occasioni di lavoro avevano per lo più frequentato scuole professionali dalla forte impronta pragmatica e parevano abbastanza a digiuno di studi umanistici e storici. Il che li portava a sviluppare una mentalità molto pratica, in cui i concetti e le parole hanno un valore funzionale e non sono portatori di una verità in sé.

Non è quindi un caso che le varie terapie cognitive, non solo negli Stati Uniti ma anche nel nordeuropa, abbiano in realtà sempre dato poca importanza al contenuto mentale e alla storia personale. È stata semmai la corrente costruttivista l’unica scuola cognitiva che davvero ha dato importanza centrale ai contenuti.

E questa corrente si è diffusa in Italia e in Spagna, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. A conferma che l’attenzione ai contenuti può essere a sua volta coltivata dagli anglo-sassoni e non è un fatto necessariamente solo europeo.

Credo che il costruttivismo in Italia abbia probabilmente soddisfatto una mentalità forgiata nell’atmosfera del Liceo Classico, dove si da grande importanza agli studi umanistici e dove vige la concezione greca della verità che libera.

Non penso che tutto questo sia destinato a finire. Certo però che questa mentalità deve integrarsi -ma anche ridimensionarsi- con la sempre maggiore influenza delle tradizioni filosofiche che accordano meno importanza al pensiero verbale, all’intelligenza e alla derivazione logica.

E, ancora una volta, questa sfiducia nell’intelligenza logica è -credo- non solo orientale (ma non mi pronuncio, dato che nulla so di filosofie orientali), ma anche del pragmatismo anglo-sassone, almeno da Charles Pierce in poi (1839-1914; 2003 ed. italiana).

Un’immagine mi viene in mente quando penso alle difficoltà dell’incontro tra una cultura che da importanza ai contenuti di pensiero e alle idee intelligenti -perfino a costo di continuare a rimuginare fino alla morte sulle proprie preoccupazioni- e una mentalità che invece tende all’economia del pensiero e alla non sopravvalutazione dell’intelligenza.

L’immagine è quella di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dei e lo donò agli uomini, dando inizio al progresso tecnologico. Prometeo è, letteralmente, colui che pensa prima. Ovvero la persona intelligente, che pensa (medomai) prima (pro). Con tutto il correlato di retorica che in Occidente ci portiamo dietro in favore dell’intelligenza.

Il guaio o la fortuna è che, da qualche decennio, o da qualche secolo, mi pare che anche in Occidente si sia diventati sempre meno disposti ad adorare la ragione e l’intelligenza. Si teme sempre più spesso che il “pensare prima” sia apparentato non solo con il nome greco Prometeo, ma anche con la parola di derivazione latina “preoccupazione”, a sua volta legata all’ansia. E i latini già erano meno legati dei greci al mito intellettualistico del primato del pensiero.

Prometeo, come tutte le persone intelligenti, aveva un gran bisogno di definirsi in relazione al suo opposto: le persone (supposte) stupide. E infatti Prometeo aveva un fratello: Epimeteo, colui che pensa dopo. Ovvero lo stupido. E tale è stato considerato nella tradizione occidentale. Almeno finora.

La nuova sfiducia post-moderna nell’intelligenza può generare anche una nuova capacità di apprezzare l’attesa, l’attesa che la mente da sola elabori soluzioni senza che l’attenzione sia costantemente e ansiosamente focalizzata sui problemi, sulle difficoltà e sugli ostacoli. Ovvero, il saper pensare dopo, invece che prima. Il che, per Epimeteo, potrebbe essere una bella rivincita, dopo che per millenni lo abbiamo considerato il fratello scemo di Prometeo (Graves, 1955).

 

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  • Graves, R. (1955). The Greek Myths. Harmondsworth: Penguin. Ed. Italiana I miti greci, Longanesi, 1954.
  • Peirce, C. (2003). Opere. Bompiani, Milano.

Bambini & Emozioni: parlarne aiuta a migliorare le capacità cognitive

Teresita Forlano

 

 

Il bambino e le emozioni: la capacità di comprensione emotiva - Immagine: © Kzenon - Fotolia.comUno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca dimostra che, se i bambini parlano delle emozioni a scuola, in piccoli gruppi e sotto la guida di un adulto, riescono ad essere più empatici e migliorano le loro capacità cognitive.

La ricerca, svolta in collaborazione con l’Università di Manitoba del Canada, ha coinvolto 110 bambini delle scuole elementari dell’hinterland milanese. I bambini, distribuiti in un gruppo sperimentale e in uno di controllo, avevano tra i 7 e gli 8 anni.

Quattro le fasi dello studio: pre-test, training, post-test e follow-up.

Nella fase di pre-test sono state proposte ai bambini prove individuali di comprensione delle emozioni, di empatia e di teoria della mente (prova cognitiva), per valutare il livello di partenza.

Nella fase di training che è durata circa due mesi, i bambini del gruppo sperimentale, dopo aver ascoltato delle storie a contenuto emotivo, venivano coinvolti nelle conversazioni sulla comprensione della natura, delle cause e della regolazione delle emozioni. Per promuovere la partecipazione attiva di tutti i bambini, il gruppo è stato a sua volta suddiviso in piccole classi di circa sei bambini.

Le attività si sono concentrate su cinque emozioni, di cui quattro di base (felicità, rabbia, paura e tristezza) e una complessa (senso di colpa).

Ciascuna di queste emozioni è stata oggetto di conversazione per tre incontri: il primo focalizzato sulla comprensione dell’espressione, il secondo sulla comprensione delle cause e il terzo sulla comprensione delle strategie di regolazione dell’emozione target. Ogni incontro è stato strutturato in quattro momenti: introduzione al tema da parte dell’adulto, un racconto di vita quotidiana, avvio della conversazione, e riflessione finale da parte dell’adulto.

I bambini del gruppo di controllo non partecipavano alla conversazione. Ascoltavano le storie e poi veniva chiesto loro di fare un disegno.

Nel post-test, ai bambini sono state nuovamente proposte le prove; dopo due mesi, a tutti i partecipanti è stata riproposta la prova di comprensione delle emozioni per verificare la persistenza degli effetti prodotti dall’intervento.

E’ emerso che il gruppo dei bambini sottoposti all’intervento migliora significativamente, rispetto al gruppo di controllo, in vari aspetti della comprensione delle emozioni: nella dimensione cognitiva dell’empatia, e nella prova cognitiva di teoria della mente.

La spiegazione dei risultati, secondo i ricercatori, sta nell’uso della conversazione in piccolo gruppo; essa ha favorito l’assunzione del punto di vista dell’altro, la consapevolezza delle differenze individuali e il collegamento da parte dei bambini tra mondo interno non visibile e azioni manifeste.

La novità dello studio consiste nell’avere scoperto che l’intervento sulle emozioni produce miglioramenti anche nella capacità cognitiva della teoria della mente, ossia nella capacità di prevedere i comportamenti degli altri sulla base dell’inferenza dei loro stati mentali (“se ha fatto questo, forse è perché desiderava qualcosa; “se ha agito in un certo modo doveva essere arrabbiato”).

Quindi dallo studio si evince che: all’interno della scuola primaria è possibile realizzare interventi che, oltre a potenziare le abilità socio-emotive, come la comprensione delle cause delle emozioni, l’empatia e l’aiuto nei confronti dell’altro, producono anche miglioramenti su capacità di tipo cognitivo, per esempio, rappresentarsi la mente dell’altro e prevederne i comportamenti, un’abilità indispensabile nella vita sociale.

 

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La terapia cognitivo-comportamentale rivolta alla famiglia risulta più vicina ai bisogni di sviluppo del bambino con disturbo ossessivo-compulsivo e del suo contesto familiare, fornendo ai genitori un supporto adeguato che consente di vivere il trattamento in modo più tollerabile e accettabile.

Un recente studio, condotto da Jennifer Freeman presso il Bradley Hasbro Children’s Research Center di Rhode Island, ha dimostrato come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) rivolta alla famiglia possa costituire un’importante risorsa nel trattamento di bambini con una diagnosi di disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD). Una terapia di questo tipo, che includa interventi di prevenzione ed esposizione alla risposta (EX/RP), è risultata, infatti, più efficace nella riduzione dei sintomi ossessivo-compulsivi e nel promuovere un miglioramento delle modalità di funzionamento rispetto ad una terapia con una struttura simile ma basata su di un programma di rilassamento.

Ricerche precedenti avevano già dimostrato l’efficacia di un approccio CBT nel lavoro con adolescenti, ma è grazie ai risultati ottenuti da Freeman che è stato possibile dare sostegno all’ipotesi che anche bambini più piccoli potessero trarre beneficio da questo tipo di trattamento.

Il campione oggetto dello studio è stato raccolto nell’arco di cinque anni presso tre centri medici del territorio e ha coinvolto 127 bambini di età compresa tra i cinque e gli otto anni con una diagnosi primaria di OCD. Ciascuno di loro ha poi ricevuto una terapia familiare CBT o una terapia sempre familiare ma di rilassamento.

Lo scopo della terapia familiare CBT era quello di fornire al bambino e ai genitori gli “strumenti” necessari per capire, gestire e ridurre i sintomi ossessivo-compulsivi. Questo approccio includeva pertanto interventi psicoeducativi, sulle strategie parentali e di rivelazione familiare. In questo modo, i bambini potevano gradualmente imparare a fronteggiare situazioni paurose e allo stesso tempo a tollerare i propri sentimenti ansiosi. La terapia familiare di rilassamento, invece, si concentrava sull’insegnamento ai genitori di strategie di distensione muscolare da proporre ai figli al fine di diminuire il loro livello di ansia.

Al termine del periodo sperimentale, il 72% dei bambini che avevano ricevuto un trattamento CBT con EX/RP venivano valutati come “migliorati” o “molto migliorati” alla Clinical Global Impression-Improvement Scale, contro il 41% dei bambini che avevano ricevuto una terapia familiare di rilassamento.Secondo Freeman, i risultati dello studio sostengono la maggiore efficacia del trattamento EX/RP familiare in bambini con una precoce manifestazione di sintomi ossessivo-compulsivi. Questo approccio risulterebbe, infatti, più vicino ai bisogni di sviluppo del bambino e del suo contesto familiare, fornendo ai genitori un supporto adeguato che consente di vivere il trattamento in modo più tollerabile e accettabile.

L’auspicio è che, quindi, anche altri comincino ad utilizzare questo modello di trattamento in bambini con un esordio precoce del disturbo, al fine di combattere gli aspetti di cronicità che sono spesso all’origine di un impatto debilitante dello stesso nel corso dell’intero percorso di crescita dell’individuo.

 

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Naruto: il cartone animato che aiuta a pensare le emozioni difficili

 

 

 

Naruto: il cartone che aiuta a pensare le emozioni difficiliNaruto dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

Un cartone animato che ha per tema principale la lotta e lo scontro fisico può essere considerato un buon prodotto? Possiamo inserirlo nella programmazione televisiva dei nostri figli? Potremmo per qualche ragione consigliarlo addirittura ai nostri giovani pazienti?

“Naruto” è un anime giapponese adatto alla visione di bambini e ragazzi a partire dai dieci anni.

Il personaggio principale è ben congegnato: orfano, escluso e allontanato da tutti a causa del suo essere diverso (sia dentro che fuori) e di un fantasma transgenerazionale che rimarrà sullo sfondo per le diverse centinaia di puntate realizzate fino ad ora: una presenza interiore fatta di istinti e di pura “malvagità”, un demone che costringe il protagonista ad una lotta per la mediazione dei propri impulsi distruttivi, tra pensiero e azione, in quella che risulta essere una metafora assolutamente lampante delle dinamiche intrapsichiche come ormai siamo abituati ad immaginarle.

Nonostante ciò il personaggio dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

E’ trasmesso da circa dieci anni in più di novanta Paesi nel mondo. L’elevato numero di episodi e l’evolversi della trama che sviluppa il protagonista dall’infanzia all’età adulta ne fanno un racconto d’azione e di formazione che cattura lo spettatore. Anche se il tema maggiormente rappresentato appare essere quello che riguarda l’antagonismo, l’affermazione, l’appartenenza e la dominanza, come è frequente e quasi esclusivo nei prodotti di intrattenimento commerciale dedicati al genere maschile, altri ambienti emotivi ed esperienziali non solo non vengono trascurati ma passano addirittura in primo piano: vengono affrontati in maniera molto evidente i temi della perdita, del lutto, della tristezza, del tradimento, della compassione, del perdono, del risarcimento, del rispecchiamento, dell’empatia, ma viene rappresentata ugualmente l’apprensione, l’ammirazione, la gratitudine, la solitudine, la devozione, l’invidia, la collera, il disprezzo, ed in particolar modo l’isolamento e l’emarginazione sociale.

Ed è innegabile che proprio questa sia quella costellazione di significazione dell’esperienza che preadolescenti e adolescenti fanno più fatica ad integrare e rappresentare nei rapporti con adulti e coetanei, rinunciando ad inflazioni negazioniste che sterilizzano i fisiologici vissuti di incertezza, debolezza e bisogno.

In questo senso, il contatto con rappresentazioni di sentimenti articolati, seppure in apparente finzione, diventa terreno di familiarizzazione e apprendimento.

 Dedicando ampio spazio alla tessitura psicologica di ogni personaggio implicato, specialmente ripercorrendo le esperienze emotive e affettive dell’infanzia, i traumi, le relazioni di attaccamento, e trascinando lo spettatore in un compito di ridefinizione dei legami interpersonali, oltre le apparenze, il processo rimanda idealmente all’utilizzo dell’Adult Attachement Interview (Main et al. 1992) nella pratica clinica, dove il parametro qualitativo delle relazioni primarie viene indagato nella capacità di ricordare e verbalizzare in maniera coerente il passato, rimaneggiare le esperienze e mentalizzarne le conseguenze.

I temi classici dell’eroe e dell’antieroe, pensiamo al periodo degli anni ’80 e ’90 con i cartoni giapponesi in cui ad essere inscenata era un’atmosfera di perenne allarme e difesa nei confronti di un invasore ostile ed alieno dalle motivazioni mai chiarite, vengono sostituiti da dinamiche che pur nella sostanza della continua contrapposizione tra “bene” e “male”, sono proposti in maniera più complessa e accurata.

Largo spazio, infatti, è lasciato a dialoghi e flashback introspettivi in cui si ricostruisce il passato dei numerosi personaggi per proporre allo spettatore opportunità di identificazione più ampie e raffinate che fanno coincidere la memoria semantica delle esperienze con quella episodica; in questo modo lo spettatore può svincolarsi dalla fissità e dalla ripetitività dei copioni tipici dei super eroi americani dove è prestabilito chi vince e chi perde.

In “Naruto”, buona parte della realizzazione risulta incardinata sulla progettuale ricerca di un mondo interno costruito su una emotività che è spesso il soggetto principale della rappresentazione, e su cui autori e sceneggiatori deliberatamente spostano l’accento.

Per completezza bisogna dire che così come in altri Paesi, anche in Italia il cartone è stato censurato in alcune scene in cui è presente del sangue o nei dialoghi, dove ad essere eliminate sono parole come “idiota” o “morire”, sostituite ad esempio con “testa quadra” e “lasciarci le penne”. In ogni caso l’opportunità di intervenire nel senso di una prevenzione del danno non sembra del tutto rilevante, soprattutto se paragonata al valore complessivo dell’opera. Non esiste alcuna controindicazione alla visione.

 

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  • Main, M., Hesse, E., (1992). Attaccamento disorganizzato/disorientato nell’infanzia e stati mentali dissociati nei genitori. In Ammaniti, M., Stern, D.N. (a cura di) , Attaccamento e Psicoanalisi. Laterza, Bari.

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia – Recensione

 

 

Tony Atwood - Esplorare i sentimenti - copertinaC’era indubbiamente bisogno che qualcuno iniziasse ad adattare la CBT (Cognitive and Behavioral Therapy) destinata alle persone Asperger o con autismo ad alto funzionamento, soprattutto da quando questo tipo di trattamento psicologico è stato segnalato come terapia elettiva per il trattamento di ansia e rabbia nelle Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2011.

Sono una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale che si occupa da diversi anni di bambini e ragazzi autistici e ho letto con molto interesse questo libro.

L’impressione è buona e in un certo senso rassicurante. Molte cose che negli anni ho improvvisato, guidata dalla mia formazione arricchita dal buon senso e soprattutto dai suggerimenti più o meno diretti dei miei pazienti, le ho ritrovate nero su bianco su questo testo.

C’era indubbiamente bisogno che qualcuno iniziasse ad adattare la CBT (Cognitive and Behavioral Therapy) destinata alle persone Asperger o con autismo ad alto funzionamento, soprattutto da quando questo tipo di trattamento psicologico è stato segnalato come terapia elettiva per il trattamento di ansia e rabbia nelle Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2011.

Ho apprezzato il tentativo di non normalizzare in termini neurotipici l’espressione e la regolazione emotiva, così come sottolineato dal suggerimento di coinvolgere anche la famiglia nella scelta degli attrezzi per riparare un’emozione spiacevole.

È infatti importante che chi attua il programma aiuti il paziente a scegliere un’attività che sia effettivamente capace di calmarlo e che i genitori siano aiutati ad accoglierla, anche se questa non è ciò che loro avrebbero scelto per lui. Quale genitore accetterebbe con naturalezza che un figlio preferisca perdersi in un’immagine per tranquillizarsi piuttosto che rifugiarsi tra le sue braccia?

Mi è piaciuto il seppur breve cenno alle espressioni emotive insolite manifestate spesso dagli autistici, fonte spesso di incomprensioni e fraintendimenti nella relazione con i tipici.

Ciò implica necessariamente che il ragazzo autistico impari non certo a rifiutarle nel tentativo di comportarsi da tipico ma a comprendere perché esse possano generare difficoltà nelle relazioni sociali e che chi fa parte della sua vita non si aspetti reazioni emotive sempre simili alle proprie.

In linea con l’introduzione teorica, la seconda parte del libro contiene numerose schede pratiche da presentare al paziente durante le sei sessioni di lavoro proposte, peccato che non ci sia nulla destinato ai familiari o al contesto scolastico, visto che, come evidenziato anche dall’autore, il successo del trattamento dipende anche dal coinvolgimento del contesto sociale che deve imparare a conoscere e rispettare la neurodiversità anche nella sua peculiare espressione e gestione emotiva.

Penso inoltre che ci sarebbero meno autistici arrabbiati o ansiosi se ciò avvenisse più spesso.

Ho un’ultima perplessità che riguarda chi, secondo l’autore, può utilizzare il programma esplorare i sentimenti. A me sembra un percorso che richiede numerose competenze, una profonda conoscenza dell’autismo al fine di garantire quella individualizzazione che ritengo fondamentale per ogni programma di intervento destinato a una popolazione con punti in comune ma molto eterogenea al suo interno come quella degli autistici. Mi sorprende quindi che insegnanti, logopedisti, terapisti occupazionali e gli stessi genitori vengano ritenuti in grado di svolgere il programma.

Ad ogni modo si tratta indubbiamente di un primo passo importante verso il riconoscimento di una neurodiversità che necessita di interventi psicologici che devono prendere le dovute distanze da quelli pensati per i neurotipici ma la strada è ancora lunga, soprattutto perché sono quasi esclusivamente solo professionisti tipici a percorrerla.

 

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Sindrome alcolica fetale e problemi di attenzione: è possible che vengano sovrastimati?

 

 

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I ricercatori della McGill University di Montréal, Canada, hanno suggerito che spesso i problemi attentivi dei bambini con Sindrome Alcolica Fetale (FASD) vengano riportati in modo eccessivo da genitori e insegnanti. Tale sovrastima sarebbe causata dall’utilizzo errato di comparazioni tra bambini di pari età cronologica. Sono stati quindi testati e comparati bambini con FASD con bambini di pari età cronologica o fisica e con bambini con la stessa età mentale, spesso più giovani.

 

“Siccome il collegamento tra sindrome alcolica fetale e ADHD è spesso descritto in letteratura, sia i genitori che gli insegnanti si aspettano spesso che tali bambini presentino anche problemi di attenzione”

Così afferma il Prof. Jacob Burack, docente del “Dept. of Educational and Counselling Psychology” della McGill’s.

“Quello che le insegnanti non riconoscono è che, sebbene un bambino abbia in termini cronologici 11 anni, attualmente agisca come un bambino pari a 8 anni di età mentale. Questa è una grande differenza. Quando usiamo l’età mentale come base per le nostre comparazioni, molti dei problemi attentivi descritti nei bambini con FASD non sembrano più tanto gravi”.

I ricercatori hanno reclutato bambini con FASD che avevano un’età cronologica media appena al di sotto dei 12 anni. L’età mentale media di tali bambini, determinata tramite test standardizzati, si attestava sui 9 anni e mezzo. Tali bambini sono stati comparati con altri con sviluppo tipico e che avevano un’età cronologica di circa 8 anni e mezzo e un’età mentale simile a quella del gruppo con FASD. Dopo aver misurato specifici aspetti dell’attenzione, i ricercatori hanno comparato la performance dei bambini con FASD con quella dei bambini di pari età mentale.

I risultati hanno evidenziato come i primi avessero difficoltà in alcuni compiti attentivi, come lo spostamento dell’attenzione da un oggetto all’altro, mentre vi erano altre aree, come il focus attentivo, in cui non mostravano difficoltà significative. Tali risultati indicherebbero la necessità di sviluppare una comprensione più dettagliata dei compiti attentivi.

Come affermato da Kimberly Lane, studentessa Phd che ha condotto la ricerca, quando utilizziamo il termine attenzione, dobbiamo tenere presente che stiamo parlando di un concetto complesso, di una funzione multifattoriale. “Usando delle tecniche di valutazione più complesse dei vari aspetti dell’attenzione, è possibile ottenere un quadro migliore e più preciso delle difficoltà attentive osservate nei bambini con FASD”, aggiunge Lane. Per concludere è importante ricordare a insegnanti e genitori che le difficoltà che i bambini mostrano con l’attenzione possono essere meno importanti dei loro problemi più generali e che è necessario lavorare con loro così come sono.

 

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Lucia dilammermoor di Gaetano Donizetti

La follia d’amore priva gli esseri umani del più elementare buon senso… eppure nessun clinico moderno si azzarderebbe a fare una diagnosi del genere, applicandola come entità clinica a sè stante, preferendo altrimenti trattarla come depressione, ansia o disturbo delirante. In fondo anche l’innamoramento cos’altro è se non un episodio psicotico acuto a carattere schizoaffettivo, a remissione spontanea e tuttavia recidivante?

Si manifesta con dei sintomi veri e propri, quasi sempre di tipo somatico, accompagnati da variazioni dell’umore e più o meno seri disturbi del pensiero che, da ossessivo, può arrivare perfino a piegare, a deformare la realtà in modo delirante.

Nel Medioevo in molti credevano che fosse una malattia mortale, perfino nell’antichità era conosciuta e temuta. Il mito ci racconta una storia, troppo lunga per essere riportata in questa sede, sui motivi per cui Amore non potè stare senza Follia.

Ricerche neurobiologiche anche recenti affermano che, quando si ama, cambiano la quantità e la qualità di alcuni neurotrasmettitori del cervello.

Ha suggestionato ed ispirato tutte le arti, contribuendo a realizzare le più commoventi opere.

Ha riempito i manicomi in anni in cui si veniva rinchiusi anche per futili motivi.

La follia d’amore priva gli esseri umani del più elementare buon senso… eppure nessun clinico moderno si azzarderebbe a fare una diagnosi del genere, applicandola come entità clinica a sè stante, preferendo altrimenti trattarla come depressione, ansia o disturbo delirante.

In fondo anche l’innamoramento cos’altro è se non un episodio psicotico acuto a carattere schizoaffettivo, a remissione spontanea e tuttavia recidivante?

( Il ricercatore che ne troverà la cura risparmierà tante sofferenze al genere umano)

Gaetano Donizetti scrisse Lucia di Lammermoor, la più celebre pazza della storia della musica lirica nel 1835, su libretto di Salvatore Cammarano tratto da un romanzo dell’ allora assai celebre scrittore inglese Walter Scott.

Siamo in Scozia, sul finire del 1500, nel contesto delle violente lotte tra cattolici e protestanti.

Edgardo è l’ultimo erede dell’aristocratica famiglia di Ravenswood, da sempre in lotta con l’altrettanto nobile, ma ormai impoverita, famiglia di Ashton composta da Enrico e Lucia.

Nonostante l’odio antico che separa le due famiglie, Edgardo e Lucia si amano segretamente e appassionatamente.

Enrico, molto in collera con la sorella dopo la scoperta di questo amore illecito, cerca di convincerla in tutti i modi possibili, subdola persuasione, inganni, fino a vere e proprie minacce, a sposare un nobile ricco e potente che potrà salvarli dalla rovina.

Lucia, docile, già molto fragile per il recente lutto della madre e piena di dubbi sulla fedeltà di Edgardo che, nel frattempo, è dovuto partire, si sente costretta ad accettare questo matrimonio.

Ma, durante le nozze, Edgardo ritorna e, furibondo, maledice la donna che ama e giura vendetta.

Lucia è sopraffatta, attonita, spaventata, talmente confusa da non riuscire a spiegarsi, a giustificare nè a sè, nè all’amato, cosa sia successo. E’ in questa mancanza di senso, nel non essere compresa dal suo Edgardo e non solo nella possibile perdita, che germoglia il delirio.

Impazzisce e uccide l’ uomo che ha appena sposato.

Non è più in sè, vaneggia, oscillando tra la convinzione che finalmente può sposare Edgardo e l’allucinazione del fantasma che è arrivato a separarli definitivamente.

Infine, muore di dolore.

Edgardo, cui finalmente viene rivelata la storia, incapace di vivere senza Lucia si uccide pugnalandosi.

La storia è questa, simile ad altre storie, anche più celebri, d’amore infelice, dove ricorre sempre il conflitto tra il singolo individuo e la famiglia, come per una fallita individuazione in senso junghiano: i parenti si mettono in mezzo.

L’atmosfera è cupa, la musica sottolinea costantemente l’ineluttabilità di un destino cui nessuno può sottrarsi, dove si è costretti a giocare la partita secondo ruoli che non lasciano speranza.

Questa famiglia è psicotica, pensa il clinico, il comando di fedeltà al modello familiare è talmente totalitario e acritico da non lasciare spazio al desiderio personale, “dobbiamo essere così perché è stato detto che deve essere così, anche se non ne conosciamo più i motivi o essi stessi sono diventati anacronistici”, con l’imposizione di un mondo di valori e di regole che non possono essere messe in discussione, al di fuori delle quali non c’è che la pazzia o la morte (i due grandi timori dei pazienti ansiosi), ovvero la perdità di sè.

C’è il totale pessimismo e l’impossibilità di pensare in modo creativo per uscire dalla strada tracciata, chissà quanto tempo prima, da chi si giurò odio per sempre.

Le famiglie trovano la loro identità nella reciproca contrapposizione per cui l’amore tra i due rappresenta una minaccia da eliminare ad ogni costo.

Su tutto aleggia una rigida fedeltà al copione e la colpa di non essere abbastanza conformi e schierati.

Un desiderio autonomo diventa alto tradimento e suscita terrore in chi l’ha solo immaginato.

Enrico rappresenta bene tutto questo: anche se a tratti ha dei dubbi sul sacrificio chiesto alla sorella, si giustifica (e giustifica la propria violenza) considerandolo un’azione morale, necessaria per recuperare la dignità della famiglia, bene superiore.

Forse è un po’ geloso del fatto che Lucia, pur se nei suoi modi sottomessi, stia cercando la libertà dai vincoli familiari e la realizzazione di un desiderio personale in contrasto con l’obbedienza cieca. La rabbia, rabbia invidiosa, lo spinge all’inganno, alle minacce; cerca di suscitare in lei, riuscendoci, il senso di colpa e la paura.

E Lucia?

Sin dalla Bibbia “lascerà il padre e la madre e i due saranno una carne sola” è l’amore e la sessualità che allontanano dalla famiglia d’origine per crearne una nuova (tranne che in alcuni pazienti psicotici). Lucia, dunque, racimolando il coraggio che le viene dalla passione, cerca di contrastare la sua sorte pur avendo il presentimento di una sciagura e sembra sapere, fin dall’inizio, che non ha speranza, in ciò intuendo la brutalità e la prepotenza del mito familiare.

Usa modi sottotono, cerca di suscitare compassione, si dibatte chiedendo pietà e non riesce veramente ad odiare questo fratello così poco comprensivo perché lei, invece, capisce che anche lui non ha alternative, entrambi vittime di un carnefice impersonale. Infine la resa, ma nello stesso momento in cui si arrende la realtà smette di essere tale e lei sprofonda nei suoi incubi.

E quando perfino l’uomo che ama non capisce ma la maledice, in questo manifestando la stessa poca fantasia del rivale, abbandona definitivamente la realtà e si sottrae, con la follia che la porterà a morire.

Ha appena ucciso l’incolpevole marito, i cortigiani stanno festeggiando le nozze e lei appare lugubre, sguardo fisso, sporca di sangue, assorta,”vede finalmente il suo matrimonio con Edgardo poi vede i fantasmi che lo impediranno, voce che rincorre altre voci, voce che racconta le allucinazioni, immagini contraddittorie ora di gioia ora di dolore e flauto che rinforza queste immagini rendendole ancora più vivide e ancora più inconciliabili.

Non può che rompersi, quel già precario equilibrio a malapena curato dai rari e piccoli momenti di speranza nel poter essere libera.

Che dolore, quell’alternarsi continuo e stremante di illusione e disillusione, tra il -forse ce la posso fare- e il -non c’è proprio niente da fare- che la musica rende ancora più drammatico, mentre l’ascoltatore partecipa, non ne può fare a meno, allo stesso movimento interiore della protagonista.

 

RIFERIMENTI:

 

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Elementi di psicologia clinica di Franco Del Corno e Margherita Lang – Recensione

Elementi di psicologia clinica di Franco Del Corno e Margherita LangCoprendo a 360 gradi il ruolo della psicologia clinica e la figura dello psicologo clinico all’interno del contesto di cura, il libro prende in considerazione sia la teoria di riferimento e l’ambito di applicazione, sia le tecniche di assessment, che le terapie ad oggi disponibili sulla scena italiana e internazionale, da un punto di vista teorico e di setting (individuale, famigliare o di gruppo).

Elementi di Psicologia Clinica è un libro curato da Franco del Corno e Margherita Lang, edito da FrancoAngeli e uscito in una seconda edizione riveduta e ampliata alla fine dello scorso anno, dopo la prima fortunata edizione del 2005.

Il volume si propone come un utile strumento di lavoro e di apprendimento, sia da parte di un pubblico studentesco, che può così acquisire i primi concetti e le basi della psicologia clinica, sia da parte di un pubblico già “operativo” di psicologi clinici e psicoterapeuti. Coprendo a 360 gradi il ruolo della psicologia clinica e la figura dello psicologo clinico all’interno del contesto di cura, prende infatti in considerazione sia la teoria di riferimento e l’ambito di applicazione, sia le tecniche di assessment, che le terapie ad oggi disponibili sulla scena italiana e internazionale, da un punto di vista teorico e di setting (individuale, famigliare o di gruppo).

Il fatto di mantenere un approccio essenziale, permette agli autori di costruire un libro di agevole consultazione e utilizzo, che possa in 500 pagine toccare tutti i temi di cui abbiamo detto, senza entrare eccessivamente nello specifico, ma riportando per ogni capitolo la bibliografia necessaria a chi volesse approfondire i diversi aspetti.

Il libro si apre con una prima sezione che introduce alla storia della psicologia clinica, raccontando come è nata a partire dalla filosofia e cercando un’applicazione più concreta delle teorie sull’uomo nella cura e nel trattamento dei disturbi, per poi passare attraverso i mutamenti storici e legislativi alla concezione della psicologia cinica odierna, che caratterizza una distinzione tra psicologi e psicoterapeuti, attraverso formazioni albi di riferimento differenti.

Infine, si apre un paragrafo ipotetico su come potrebbe svilupparsi in futuro la figura dello psicologo clinico, anche alla luce del calo di investimenti nella cura, prevenzione e riabilitazione di tutte le malattie, comprese quelle psichiche, sia per i professionisti singoli che per le strutture sanitarie, che devono scegliere in un modo sempre più mirato dove e quanto investire. Per questo, lo psicologo clinico di domani è una figura che per poter sopravvivere dovrà formarsi rapidamente su quelle che sono le first choice per i diversi problemi e ambiti di applicazione della psicologia clinica e del counselling. La parola chiave sembra essere l’approccio integrato di figure professionali, interventi e tecniche differenti, al fine di assicurare all’utenza l’ottimizzazione delle risorse e del denaro.

Sempre nella prima parte del volume, gli Autori forniscono informazioni circa l’inquadramento diagnostico e gli strumenti utilizzati e riconosciuti come validi anche dal servizio pubblico e dall’APA. Dopo aver introdotto il DSM e averne illustrato la nascita e l’evoluzione, si soffermano sulle modifiche che sono state introdotte negli ultimi anni, anche alla luce della recente edizione aggiornata del DSM-5 (2014).

La seconda parte del libro è dedicata ai procedimenti di indagine diagnostica, a tutte quelle buone prassi e agli strumenti specifici che permettono di approdare a un corretto inquadramento del singolo paziente. A questo scopo, vengono esposte le diverse fasi dell’accertamento, dall’incontro con il paziente alla restituzione finale di quanto emerso, dedicando anche un intero capitolo alle difficoltà che possono sorgere in questo delicato momento di assessment con i pazienti che vengono definiti “difficili” per diagnosi o per problemi nell’alleanza con lo psicologo stesso.

Gli Autori affrontano le diverse componenti del colloquio in psicologia clinica, a partire dalle informazioni basilari sulle buone prassi e sui possibili problemi nella fase di contatto iniziale (richiesta di appuntamento, tipo di invio, raccolta di informazioni di base), per poi approfondire meglio le modalità per condurre una prima raccolta dei dati del paziente attraverso il colloquio, anche sulla base della teoria a cui il clinico fa riferimento. In quest’ottica, si scorgono diversi metodi di raccolta di informazioni, dalle interviste strutturate e semi-strutturate ai riepiloghi da compilare a cura del clinico una volta terminato il primo colloquio.

Nella terza sezione vengono approfonditi gli strumenti diagnostici, scorrendo in circa 150 pagine le motivazioni per cui utilizzare o non utilizzare i test e le diverse tipologie di assessment disponibili per la valutazione dell’intelligenza e della personalità secondo le diverse teorie (test di Rorschach, test proiettivi, scale cliniche, MMPI e MCMI). Per ogni strumento vengono illustrate le motivazioni che possono portare a sceglierlo, il campo di utilizzo e le modalità di somministrazione e di lettura dei risultati. Viene inoltre affrontata in modo approfondito la modalità di restituzione di quanto emerso.

Infine, la quarta sezione è quella più consistente, sia da un punto di vista quantitativo (impiega quasi metà libro) che da un punto di vista tematico. È infatti la sezione in cui vengono illustrate, in ogni capitolo (15 in tutto) i diversi orientamenti ad oggi presenti sulla scena Italiana e mondiale. A partire dalla psicoanalisi e dagli approcci psicodinamici, gli autori riportano per ogni corrente i presupposti fondanti, la teoria della cura e della malattia che sottendono e le metodologie di intervento, seppur ovviamente non potendo approfondire in modo esaustivo ogni singolo indirizzo.

In questa seconda edizione, gli Autori hanno avuto la possibilità di aggiornare le diverse tecniche e i diversi approcci, aggiungendo quelli che fanno parte della cosiddetta terza ondata, come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Dialectical Behavior Therapy (DBT), oltre alla CBT standard (comportamentismo e cognitivismo). Inoltre, vengono riportate tecniche che combinano la componente cognitiva e la componente neuro-biologica, come l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) e la Sensorymotor Psychotherapy. Infine, vengono presentate terapie con setting non individuali, come la terapia famigliare e il lavoro con i gruppi clinico-terapeutici. Il capitolo che chiude il volume presenta altre psicoterapie diffuse e utilizzate come la Terapia della Gestalt e la Programmazione Neurolinguistica.

 

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  • Del Corno, F., Lang, M. (2013). Elementi di psicologia clinica. Franco Angeli Editore.  ACQUISTA ONLINE

Dipendenza da sostanze e neuroscienze: scoperto un gene coinvolto nello sviluppo della dipendenza

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Recentemente sulla rivista di neuroscienze Neuron, è stato pubblicato un lavoro effettuato presso l’Ospedale McLean di Belmont, Massachusetts, il quale dimostrerebbe che un gene essenziale per il normale sviluppo cerebrale e correlato ai disordini dello spettro autistico, giocherebbe anche un ruolo fondamentale nei comportamenti di dipendenza da sostanze.

 

Come affermato da Christopher Cowan, direttore del Laboratorio Integrato di Neurobiologia del McLean e professore associato di Psichiatria alla Harvard Medical School, l’esposizione cronica all’uso di droghe causa dei cambiamenti nel cervello, cambiamenti che sarebbero il substrato biologico del passaggio da uso sporadico alla dipendenza. Cowan sottolinea l’importanza dello studio di tali cambiamenti, i quali ci permetterebbero di individuare le molecole responsabili dello sviluppo della dipendenza e permettere, quindi, di identificare dei nuovi trattamenti terapeutici.

 

Il team del Laboratorio Integrato di Neurobiologia, guidato da Laura Smith, PhD, docente alla Harvard Medical School, ha utilizzato modelli animali per mostrare come la proteina correlata alla Sindrome dell’X Fragile, la FMRP, giochi un ruolo nello sviluppo dei comportamenti relati alla dipendenza da sostanze. La FMRP sarebbe la proteina mancante nella Sindrome dell’X Fragile: la mancanza di un singolo gene, quindi, sarebbe la causa di autismo e disabilità intellettiva. In accordo all’importanza giocata da tale proteina, il team di lavoro ha trovato come la cocaina la utilizzi per facilitare i cambiamenti cerebrali coinvolti nei comportamenti da abuso di sostanze.

 

Cowan sottolinea come la FMRP controlli la riorganizzazione e la forza delle connessioni cerebrali durante i processi sottesi al normale sviluppo del cervello. In accordo a tale funzione, essa giocherebbe un ruolo fondamentale anche nel cambiare le connessioni cerebrali che sottostanno all’assunzione ripetuta di cocaina.

“Sappiamo che l’esperienza può modificare il cervello in modo consistente. Alcuni di tali cambiamenti cerebrali ci aiutano, permettendoci di apprendere e ricordare. Altri cambiamenti sono dannosi, come quelli che avvengono negli individui con problemi di abuso di sostanze”, affermano Cowan e Smith. “Mentre FMRP permette agli individui di apprendere e ricordare in modo adeguato stimoli del loro ambiente circostante, essa controlla anche come il cervello risponde alla cocaina e finisce per rinforzare i comportamenti di dipendenza. Attraverso una migliore comprensione del ruolo di FMRP in tale processo, potremmo essere in grado di suggerire delle valide opzioni terapeutiche per prevenire o invertire tali cambiamenti cerebrali”.

 

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