Reportage dal Congresso: NUOVE FRONTIERE NELLA CURA DEL TRAUMA
Venezia 30 Maggio-2 Giugno 2014
Si è conclusa lunedì la Terza Edizione del Corso Internazionale “Nuove frontiere nella cura del trauma”, svoltosi nella consueta e meravigliosa cornice veneziana dal 30 maggio al 2 giugno. Il coordinamento del corso è come sempre a cura dell’Associazione Culturale Area Trauma per l’area scientifica, con Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina, e della S.P.A.D. – Scuola di Psicoterapia dell’Adolescenza a Indirizzo Psicodinamico di Roma, grazie all’attivo e centrale contributo di Eva Mazzotti.
Il tema di questa edizione ruota intorno all’importanza della diagnosi come aspetto centrale nella comprensione del funzionamento dissociativo.
Suzette Boon, esperta mondiale in questo campo, ha raccontato con dettaglio ed estrema chiarezza quali possono essere i confini esterni dei disturbi dissociativi e quali invece gli aspetti centrali da cogliere nel processo diagnostico, sottolineando i rischi di iper o ipo-inclusione delle situazioni cliniche in questa categoria di disturbi.
A seguire gli interventi di Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera, con la presentazione di casi clinici molto complessi, raccontati con estrema attenzione e con la sensibilità clinica e umana che le caratterizza. Centrale nel corso è stato poi il lavoro in piccoli gruppi, che ha permesso di sperimentarsi in prima persona e di “sentire” quali situazioni cliniche possono metterci “all’angolo” come terapeuti, con particolare attenzione al legame, forte nel lavoro con pazienti dissociativi, tra le emozioni del paziente e quelle del terapeuta.
Prima di presentare gli aspetti più importanti degli interventi nei prossimi contributi, lascerei alle parole del Dott. Tagliavini , “cuore pulsante” del corso, la descrizione delle scelte organizzative e scientifiche e soprattutto il legame importantissimo con il movimento europeo guidato dalla European Society for Trauma and Dissociation (ESTD).
Intervista con Giovanni Tagliavini
SoM – Dove è nata l’idea di questa occasione di formazione ormai alla terza edizione?
GT – L’avventura di Venezia, iniziata nel 2012 con Bessel van der Kolk, è nata dal lavoro di traduzione del libro “Fantasmi del sé” di Onno van der Hart, perché questa è stata un’occasione per conoscere Gianni Liotti e lavorare con Benedetto Farina, con cui era già iniziata un’amicizia poi è cresciuta negli anni. Proprio da lì è nata l’esigenza di creare insieme occasioni di formazione e di crescita di un gruppo italiano sul tema del trauma e della dissociazione. L’entusiasmo era legato anche al fatto di conoscere persone interessanti, oltre che esperte, come Onno van der Hart, Besser van der Kolk, Janina Fisher, e quest’anno Suzette Boon, e anche altre che non sono ancora venute in Italia ma che verranno, tutte spinte dalla volontà di condividere con i colleghi italiani l’esperienza e anche l’entusiasmo su questi argomenti.
SoM – L’obiettivo principale che guida l’organizzazione e i contenuti del corso?
GT – Io mi sono già dedicato in precedenza alla formazione in ambito sanitario e avevo conosciuto l’Istituto Canossiano qui a Venezia come un luogo intimo e molto accogliente. L’idea che ci guida è di tenere alti standard formativi, cioè di non fare adunate oceaniche che possono avere un importante ruolo informativo, ma difficilmente formare alla clinica in modo specifico. Credo che per formare sia necessario puntare sulla creazione di un gruppo basato su conoscenze reciproche, sulla creazione di una rete e tenere il più possibile un profilo interattivo e non solo di lezione frontale. Già il gruppo in plenaria di 70-75 persone è abbastanza grande e proprio per questo motivo quest’anno abbiamo proposto l’idea di lavorare in piccoli gruppi. Speriamo per il futuro di avere delle nuove idee sia in termini di occasioni di formazione che in termini di creazione di gruppi locali. In tanti posti d’Italia si fanno ottime cose sul trauma complesso e sui disturbi dissociativi, ma sono sparse sul territorio e poco collegate tra loro.
SoM – Rispetto alla realtà italiana. esistono del centri già attivi e dove?
GT – Non c’è ancora niente di ufficiale, ma diciamo che ci sono ad oggi colleghi validi a Roma, a Bologna e Modena, a Milano e Varese, a Torino e poi c’è soprattutto l’idea di collegarci a livello europeo. Abbiamo in Italia tre referenti della Società Europea Trauma e Dissociazione (ESTD): Fabio Furlani è referente per i soci ESTD italiani del Nord, Maria Paola Boldrini è la referente per Emilia-Romagna e Centro e poi c’è Costanzo Frau che è referente per Sud e Isole. In più abbiamo Gaia Apolloni che ci aiuta nelle comunicazioni con l’estero e nelle attività di traduzione su strumenti clinici e diagnostici.
SoM – Come va avanti il lavoro con il gruppo europeo invece?
GT – Siamo legati e in continuo contatto con la ESTD, dove c’è un clima molto attivo, di scambio di idee e di progetti. C’è l’idea che si possa creare un gruppo di italiani, che si occupi sistematicamente di tradurre testi per fare cultura su questi temi, e che questa partecipazione renda il nostro gruppo sempre più visibile. Oggi abbiamo l’occasione di creare un movimento che riuscirà da subito ad essere a livello internazionale, senza dover passare tappe ulteriori di crescita e senza dover affrontare ad esempio la tragica polemica delle “false memorie” che hanno dovuto affrontare invece i colleghi americani. Il problema credo sia iniziare a lavorare bene sui disturbi dissociativi e subito, capendo potenzialità e limiti delle nostre conoscenze, ma anche considerando quello che si conosce già e di cui possiamo avvalerci ora. I dati raccolti in Europa dai colleghi olandesi, ci fanno pensare che sicuramente possiamo essere efficaci dal punto di vista diagnostico e terapeutico, e questo è entusiasmante. Non c’è più bisogno di fare le “lotte tra le parrocchie”. L’ambito del trauma complesso è un ambito dove si sta bene insieme e le persone che hanno orientamenti diversi, ispirazioni diverse, background diversi possono trovare qui un ambito di vera integrazione. Ognuno può dire e aggiungere qualcosa di interessante a questa cornice, che sia cognitivista, che sia psicodinamico o sistemico, che segua una terapia orientata al corpo.
SoM – Questo è bello e si respira sia nel clima di questo corso che nei contenuti. In questi giorni con Suzette Boon abbiamo imparato i rischi dell’iper-inclusione e la necessità di differenziare, piuttosto che ricondurre tutto alla “dissociazione”, solo perché oggi ci è comoda questa cornice teorica. Cosa spinge a tenere attivo il dibattito?
GT – Sono contento che si senta e che siamo riusciti a portarlo anche in Italia. Su questo tema penso innanzitutto che sia un dovere quello di delimitare meglio perché la dissociazione è di per sé un concetto che ha dei confini frastagliati e sfuggenti. Inoltre lo stesso concetto di trauma, anzi sarebbe meglio di dire di meccanismo di traumatizzazione, è bene tenerlo il più possibile chiaro, perché già solo se partiamo da dei concetti molto delimitati di trauma, traumatizzazione e disturbi dissociativi avremo molto da fare. Iniziando subito a considerare zone grigie e confini più labili, corriamo invece il rischio di confonderci e soprattutto di non essere efficaci.
SoM – Quali situazioni cliniche restano le più indicate a questa cornice teorica?
GT – Purtroppo c’è una fetta di persone che hanno subito e purtroppo subiranno in futuro situazioni di traumatizzazione grave, la cui risposta di sopravvivenza è la dissociazione, così come la risposta di danno è la dissociazione. Nell’esperienza del trauma c’è da un lato il danno, come ci dice Gianni Liotti, cioè il crollo delle capacità integrative e delle funzioni mentali fondamentali, ma dall’altro lato c’è anche la risposta al trauma in termini di capacità di sopravvivenza. La struttura dissociativa è insomma anche il segno che la persona è riuscita a sopravvivere a cose insopportabili. Se riusciamo a chiarire, sia a livello teorico che diagnostico, meglio il campo avremo molto lavoro e con mezzi già a nostra disposizione e di provata efficacia. Questo vuol dire la possibilità di “salvare la vita delle persone”, questo senza voler essere retorici.
SoM – Rispetto a questi mezzi, una parte interessante per il futuro è l’opera di traduzione che state facendo. Che strumenti sono disponibili e quali sono in programma per il futuro?
GT – Il percorso fatto insieme alla ESTD e iniziato con Onno van der Hart nel 2005, ci permette oggi di avere a disposizione in meno di 10 anni strumenti bibliografici importantissimi che prima non c’erano e che hanno contribuito a far crescere il movimento italiano che ruota intorno al trauma complesso e ai disturbi dissociativi. Penso anche al filone della terapia senso motoria e al libro di Pat Ogden tradotto in Italia o al recente testo di Boon, Steele e Van der Hart su “La dissociazione traumatica”. Il prossimo passo sarebbe di andare avanti nella traduzione anche delle scale diagnostiche, come quelle presentate da Suzette Boon, scegliendo tra quelle già in uso. L’idea è di decidere insieme agli esperti europei, che se ne occupano da più di 20 anni, quali siano gli strumenti migliori e più efficaci. Poi li traduciamo, li validiamo e iniziamo ad usarli. Magari nei prossimi anni potremo fare le nostre proposte, ma ora è necessario partire con quello che di efficace già c’è. L’ambito è complesso e c’è molta discussione in corso, ma riuscire a partire almeno dagli strumenti principali forniti da Van der Kolk, Janina Fisher, Suzette Boon e Kathy Steele – che sarà qui a Venezia l’anno prossimo – ci può dare una bussola e questo significa poter imprimere una direzione molto efficace a tutto il movimento italiano.
SoM – Che percentuale di pazienti potrebbe avvalersi di questi strumenti?
GT – A questo punto del percorso abbiamo bisogno soprattutto di diagnosticare bene, perché i pazienti dissociativi sono messi in tutte le categorie del mondo, tranne che in quella dei disturbi dissociativi. I pazienti dissociativi non sono tanti e non sono pochi, nel senso che le stime più severe e restrittive dicono che all’interno di una popolazione di pazienti acuti psichiatrici un 2% ha un disturbo dissociativo dell’identità (DDI) , cioè la forma più grave e rara di PTSD Complesso, e probabilmente un 5-6% ha un disturbo dissociativo NAS che include sintomi del PTSD Complesso e della dissociazione strutturale secondaria. Stiamo parlando in totale di un 8% dei pazienti e anche volendo considerare una statistica più restrittiva del 4-5% stiamo parlando di un numero rilevante: se pensiamo che un Centro di Salute Mentale segue in media circa 1000-1200 pazienti, significa che almeno 40-50 di loro ha un disturbo dissociativo complesso. Il dato importante è che questi disturbi, se trattati correttamente, hanno una buona prognosi in termini di reinserimento nel mondo del lavoro e gestione dei sintomi, che restano in parte lifetime, ma con una riduzione significativa degli accessi al servizio, dei ricoveri e dei tentativi di suicidio.
SoM – Come inserire nei nostri servizi di salute mentale pubblici un trattamento di questo tipo?
GT – Il buono del nostro sistema psichiatrico, cioè la psichiatria italiana dal ’78 ad oggi è proprio quello che servirebbe a questo tipo di pazienti: la presa in carico nel lungo periodo, l’individualizzazione del trattamento, evitare le ospedalizzazione e lo stigma. Quello che a mio parere serve è di pensare che non tutto possa essere “psichiatria generale”: dovremmo tenere la struttura dei servizi, la nostra filosofia di cura territoriale, che di per sé è molto sana, e pensare di creare una “psichiatria specialistica”, perché non è possibile pensare che uno psichiatra sappia curare tutto dalla schizofrenia ai disturbi affettivi, dai disturbi psicotici ai disturbi d’ansia. Bisogna suddividere la specificità e pensare che non è così insolito avere una specializzazione ulteriore e aprire degli ambulatori specializzati, come già succede in Olanda dove hanno ottenuto dei servizi territoriali in grado di seguire a lungo questi pazienti e che utilizzano la rete ospedaliera solo per le crisi acute. Affiancare un modello di questo tipo significherebbe anche formare sui temi dell’efficacia dei trattamenti e rivedere il percorso di cura dei cosiddetti pazienti “resistenti” al trattamento, con l’idea che forse si tratti di pazienti che semplicemente non hanno ricevuto il trattamento per loro più efficace.
SoM – Cosa può spingere i clinici ad appassionarsi al trauma complesso?
GT – Non credo che a tutti debba piacere il campo del trauma complesso, però se si è un po’ curiosi di solito si resta abbastanza affascinati. Ci sono state e ci saranno delle fasi di evoluzione dei modelli teorici, delle onde che non sono solo delle mode, ma piuttosto dei momenti in cui matura un certo discorso. Così come poteva essere maturo per gli anni ’80 studiare meglio i disturbi affettivi e tanti pazienti schizofrenici sono stati diagnosticati e curati meglio come bipolari, così come c’è stato poi un interesse importante a diagnosticare precocemente le psicosi non affettive, io direi che adesso è veramente il turno di riuscire a ragionare di trauma e di trauma complesso, come di una locomotiva che può guidare alla comprensione di un grosso campo psicopatologico.
CONSIGLIATO:
I reportage dalle passate edizioni di Nuove Frontiere per la Cura del Trauma