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I disturbi dissociativi della coscienza (2013) di Giuseppe Miti – Psicologia

I disturbi dissociativi della coscienza (2013): l’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza.

Di Redazione

Pubblicato il 18 Feb. 2014

Paola Castelli Gattinara

 

 

I disturbi dissociativi della coscienza

 Giuseppe Miti (2013). Carocci, Roma

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I disturbi dissociativi della coscienza di Giuseppe Miti. -Immagine: copertina

I disturbi dissociativi della coscienza – Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization. 

Il libro di Giuseppe Miti ci propone uno dei temi più complessi e affascinanti della psicopatologia contemporanea: la dissociazione. La sua è una proposta sulla dissociazione rigorosa nell’analisi dei fondamenti scientifici, della descrizione nosografica e clinica ma, nello stesso tempo, anche una proposta storica e culturale che questo fenomeno ha assunto in epoche diverse.

L’esperienza del “dolore estremo”, così come la definisce nell’introduzione Giovanni Liotti, uno dei maggiori studiosi dei disturbi dissociativi, è declinata lungo diverse prospettive: quella relativa al suo inquadramento diagnostico, agli aspetti neurofisiologici che la sottendono, alle diverse modalità di cura e infine alla forma metaforica che ha assunto nel passato in diversi ambiti: religioso, filosofico, politico e antropologico.

Nella prima parte vengono definiti i concetti di dissociazione e coscienza, unitamente all’ampio dibattito e alle diverse concezioni proposte dagli studiosi per spiegare le variegate forme dissociative presenti nei pazienti.

Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization.  Entrambe queste ipotesi, pur implicando meccanismi sottostanti differenti, cercano di rendere conto della natura del rapporto fra trauma, memoria e dissociazione. 

Dal 1980 in poi, il rinnovato interesse clinico per la patologia post-traumatica ha portato a sottolineare il legame fra trauma e dissociazione, sviluppando moltissimo la ricerca in questo ambito.

La dissociazione, infatti, viene strettamente collegata al trauma, inteso come l’impossibilità per il soggetto di organizzare psicologicamente l’esperienza che si trova a vivere.

Questa esperienza inelaborabile rimane pertanto dissociata e si manifesta attraverso le vie espressive del corpo e della disregolazione affettiva.

Il progredire degli studi sull’attaccamento e in particolare sull’attaccamento disorganizzato, unitamente all’accento posto da molti studiosi sulla natura relazionale della coscienza, permettono all’Autore di introdurci all’importanza della storia di sviluppo quale variabile in gioco nel determinare un particolare predisposizione a produrre esperienze dissociative di fronte ad episodi traumatici.

Nella seconda parte, dopo aver descritto le problematiche connesse all’inquadramento nosografico dei sintomi dissociativi in ambito psichiatrico, Miti passa ad affrontare il tema della memoria prendendo in esame anche lo spinoso problema dei falsi ricordi che ha suscitato, negli anni ’90, un ampio dibattito critico negli Stati Uniti. In particolare l’Autore ci offre una utile panoramica delle ricerche sperimentali mirate a definire dei criteri che possano indicare il grado di attendibilità delle memorie ricostruite.

La complessità del trattamento dei fenomeni dissociativi, dove sono implicati disturbi della memoria, è ben illustrata dall’Autore che, riportando le parole dei suoi pazienti, afferma: “la cosa più drammatica che hanno vissuto non è il dramma di per sé (gli eventi traumatici), ma le conseguenze che ne sono scaturite, cioè l’esperienza stessa della dissociazione della coscienza. L’assoluta impossibilità di dare senso agli avvenimenti….la percezione di non potersi fidare neppure dei propri ricordi e delle proprie percezioni”.

Ne consegue necessariamente un approccio clinico articolato, orientato per fasi, che tenga conto del corpo e dell’esperienza fisica come luogo privilegiato d’intervento. Il corpo, infatti, è la sede del ricordo traumatico, il quale rimane attivo anche in contesti non pericolosi e questo è il motivo per cui sono necessarie tecniche e strategie fondate sul non verbale. Tecniche che risultano essere particolarmente utili nei disturbi dissociativi gravi in quanto sono in grado di produrre un cambiamento senso-motorio.

Nell’illustrare brevemente queste strategie cliniche buttom up, che mettono da parte il racconto e partono dal corpo per integrare solo in seguito i contenuti mentali, Miti propone un’interessante spiegazione del loro funzionamento utilizzando il modello neurofisiologico della gerarchia polivagale proposto da Porges. 

L’ultima parte del libro tratta il tema della dissociazione da un’angolatura particolare. Giuseppe Miti, sulle orme di Janet che nel 1929 tenne delle Lezioni al College de France proprio su Le Possessioni e sullo Spiritismo quali forme della disaggregazione psicologica, traccia una storia, lunga 500 anni, di come il fenomeno dissociativo fu usato dalla Sacra Inquisizione come forma di repressione e di controllo sociale.

E’ la storia di uno dei periodi più bui della Chiesa Cattolica, che mostra come il fantasma del diavolo o dei demoni si riveli una realtà da esorcizzare e combattere “quando il male s’incorpora nel corpo della persona”. La possessione incarnata stravolge completamente la personalità tanto che una persona diventa un’altra, ed è talmente incomprensibile e destabilizzante perché, questa altra personalità, si presenta quasi sempre nelle sembianze di un maligno o di una strega.

La possessione, di là dell’interpretazione religiosa, che tuttavia è durata fino al 2000, quando Papa Giovanni Paolo II ha ammesso gli errori della Chiesa, è oggi riconosciuta dalla comunità scientifica come un disturbo dissociativo strutturale.

Un traguardo che ha una sua storia nella psichiatria che parte dalle teorie di Mesmer di metà ‘800 sul ruolo sociale che queste manifestazioni ricoprivano, passando poi per la psichiatria fenomenologica di Jaspers del primo ‘900, fino alle attuali teorie corroborate dalla ricerca scientifica.

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