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Report dal seminario: Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale

Milko Prati, Ilaria Merici

 

Report dal seminario:

Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale: Indici predittivi in infanzia e adolescenza

 

Comportamenti suicidari e Disturbi Borderline e Antisociale- Indici predittivi in infanzia e adolescenza - LOCANDINA -Lo scorso week end (9-10 maggio 2014) a Milano si è tenuto un convegno sul tema degli indici predittivi di comportamenti suicidari e borderline. Organizzato dall’Istituto ISIPSÉ (Istituto di Specializzazione in Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale) in collaborazione con il CSCP (Centro Studi per la Cultura Psicologica) e l’Università Bicocca, ha visto come relatrice una delle personalità di maggior rilievo della psicologia evolutiva internazionale, la Professoressa Karlen Lyons-Ruth.

Il Dott. Carlo Rodini ideatore dell’iniziativa, ha aperto il convegno presentando il prezioso contributo scientifico fornito dagli studi di Karlen Lyons-Ruth nel campo della psicologia dello sviluppo all’interno della matrice della Contemporary Psychoanalisys, in particolare rispetto al lavoro del Boston Change Process Study Group.

La relatrice si è focalizzata nel corso della prima giornata sull’infanzia e l’età scolare, per poi passare il giorno successivo all’adolescenza. La base di partenza è stato uno studio longitudinale realizzato con lo scopo di capire il ruolo a lungo termine delle esperienze precoci sullo sviluppo della psicopatologia dei bambini, attraverso valutazioni multimodali e multidisciplinari.

I risultati dello studio longitudinale hanno permesso di mostrare che ci sono fattori predittivi nell’infanzia, nell’età scolare (K. Lyons-Ruth 2013;15(5-6):562-82) e nell’adolescenza (K. Lyons-Ruth 2013 Apr 30;206(2-3):273-81) dell’espressione del disturbo borderline di personalità e di comportamenti autolesivi e suicidari.

Questi i fattori:

  • durante l’infanzia, è stato valutato lo stile di attaccamento con la Strange Situation ed è risultato statisticamente significativo il tipo disorganizzato e non il tipo evitante, come ci si poteva forse attendere;
  • in età scolare e in adolescenza, l’osservazione ha evidenziato che assumono particolare rilevanza statistica i comportamenti controllanti di tipo punitivo, quelli di tipo caregiving, i comportamenti disorganizzati, il ritiro materno e la confusione di ruoli. Con sorpresa è emerso che non è un fattore predittivo il comportamento ostile e/o intrusivo della madre.

K. Lyons-Ruth ha tenuto a precisare che i risultati dello studio non devono essere interpretati come un effetto domino, ha infatti affermato: “L’infanzia contribuisce ma non determina cosa succede dopo”. Lo stile di attaccamento disorganizzato pertanto non è conferma di per sé dell’espressione futura di un disturbo borderline di personalità.

I fattori predittivi sono stati mostrati anche attraverso la visione, con commento, di numerose sequenze filmate di interazioni madre-bambino e madre-adolescente. Questa modalità ha permesso un maggiore coinvolgimento da parte dell’audience che ha potuto apprezzare anche le possibili applicazioni dei risultati di una ricerca scientifica in ambito clinico.

In particolare, le evidenze cliniche di maggior rilievo riguardano la confusione di ruolo nell’interazione bambino-genitore che è:

  • osservabile chiaramente già dall’età di 3 anni;
  • predittiva dall’età di 8 anni di caratteristiche di disturbo borderline di personalità;
  • fortemente correlata in adolescenza all’ideazione suicidaria e a comportamenti autolesivi.

La discussione in plenaria è stata animata soprattutto per quanto riguarda le possibili ulteriori aree di indagine: quale ruolo gioca il padre? Quali possono essere i fattori preventivi ed eventualmente riparativi? Questioni ancora aperte che stimolano la ricerca e potranno essere oggetto di studio nel futuro.

 

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MMPI-2: Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo – Psicodiagnostica

 

 

MMPI-2: Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo_RecensioneUn manuale completo, chiaro e di immediato utilizzo: ogni capitolo è corredato di tabelle di riferimento per il corretto impiego delle scale, e di utili esempi; uno strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi sia per chi si appresta per le prime volte all’utilizzo del MMPI, sia per chi da anni ci lavora, senza mai dimenticare l’importanza dell’aggiornamento e la curiosità di comprendere, approfondire e integrare le informazioni che si possono ricavare dallo strumento, tenendo bene a mente l’unicità del cliente.

L’introduzione di Abbate, descrive in modo semplice e chiaro, utilizzando non meglio azzeccata metafora del vestito, le caratteristiche principali dello strumento, ponendo enfasi a quelle che lo rendono unico e al tempo stesso parte integrante e necessaria di una valutazione che voglia essere completa della persona che ci troviamo di fronte.

L’MMPI non è un questionario, come spesso viene trattato, ma è un Inventario, in quanto il soggetto ha il compito di scegliere tra tutta una serie di frasi quelle che meglio lo descrivono, e mentre lo fa è come se svolgesse un compito cognitivo: si trova di fronte ad un costrutto e deve decidere se appartiene o meno ad un gruppo (fai parte di quelli che ogni mattina leggono il giornale?). Per tornare alla metafora del vestito, se scegliere un paio di jeans piuttosto che un altro.

Il risultato è una fotografia che ci dice come la persona che abbiamo deciso di valutare sta adesso, come si vede in questo momento della sua vita.

Non ci dice niente sulle dinamiche interne, sulle Rappresentazioni interne di Sé e degli altri, evidenziando invece gli aspetti di stato e il grado di gravità di uno specifico disturbo; per questo motivo, se si volesse avere una buona Valutazione Diagnostica, soprattutto in ambito peritale, si dovrebbe far riferimento a altri strumenti, come il Rorschach, che consente invece una misurazione di tratto.

Viene offerta una panoramica partendo dall’MMPI-2 vicino all’MMPI per arrivare lentamente all’MMPI 2 –RF, passando attraverso le nuove scale PSY 5, le Restructured Clinical Scales, le Content Component Scales, per impadronirsi di uno strumento veramente nuovo, da inserire in un’ottica di assessment più attuale e senza nostalgia del buon vecchio MMPI, di cui non sentiremo la mancanza.

Nel primo capitolo si fa una disamina storica, partendo dalle origini, attraversando le diverse revisioni e i diversi sviluppi, fino alla versione attuale, l’MMPI-2 RF (Restructured Form) del 2008, con una totale revisione del questionario, tale da farlo essere uno strumento completamente diverso (Abbate, 2014).

Il seconda capitolo è dedicato alla Somministrazione ed è a mio parere molto utile, soprattutto per chi si avvicina allo strumento, in quanto merita (così come vengono descritti) tutta una serie di accorgimenti che mai dovrebbero essere trascurati, quali l’attenzione al contesto di somministrazione, i limiti di età, il quoziente intellettivo, le capacità di lettura e comprensione del testo, la capacità di tollerare un compito lungo, problemi uditivi e visivi, patologie psichiatriche e, infine, le modalità con cui congedare il soggetto.

Nel terzo capitolo vengono analizzate le scale di validità, che nello specifico fanno riferimento alla verifica del modo in cui il soggetto ha partecipato al test: con quale disponibilità si presenta, se e quanto è stato sincero e con quanta accuratezza ha risposto alle domande, consentendo inoltre di rilevare la tendenza a presentare un’immagine più negativa della realtà, esagerandola, oppure la tendenza a sottostimare le difficoltà, altri indici e diverse modalità di configurazione delle scale, che nell’insieme consentono una buona stima dei risultati e quindi dell’interpretabilità del profilo.

Il quarto capitolo è dedicato interamente alle scale cliniche (con anche l’introduzione delle scale cliniche ristrutturate), alla loro suddivisione in scale nevrotiche, psicotiche e di atteggiamento, e alle rispettive sottoscale; si evidenzia come la natura categoriale delle scale cliniche originali ci impone di “fidarci”principalmente delle inferenze basate sui punteggi estremi; ciò nonostante si sottolinea l’importanza e la necessità, per un buon clinico e testista, di non applicare in modo acritico e diffuso l’interpretazione del punteggio. È bene illustrato il significato dei punteggi bassi, l’utilizzo più utile delle sottoscale e infine la configurazione possibile delle triadi nevrotica e psicotica.

Il quinto capitolo è dedicato all’interpretazione del profilo con code-type, ovvero per “codice”, il cui risultato è dato dai numeri delle due o tre scale che presentano il punteggio più elevato e che sono combinate tra loro: in letteratura sono presenti le descrizioni dei codici che si presentano con maggiore frequenza, ma, come gli stessi autori precisano, Weiner e Greene (2008, p.150) sottolineano che ogni affermazione presente in un codice, va considerata come un ipotesi da verificare attraverso il colloquio e la storia clinica del soggetto. Di grande utilità sono a mio parere le tabelle che riportano le corrispondenze tra le scale cliniche dell’MMPI-2 e i criteri diagnostici asse I e asse II (disturbi clinici e disturbi di personalità) del DSM-IV.

Il sesto capitolo inizia con un excursus storico delle le scale di contenuto, che consentono di ampliare le interpretazioni e le implicazioni dei punteggi ottenuti dalle scale cliniche, e approfondisce la loro suddivisione in base a ciò che misurano: i comportamenti sintomatici interni, le tendenze aggressive esterne, l’autopercezione negativa e i problemi generali; si sottolinea inoltre come queste siano in realtà delle dirette affermazioni, cioè quanto il soggetto di vuole effettivamente riferire, e in tal senso andrebbero prudentemente considerate in una visione d’insieme.

Il settimo capitolo illustra in ultimo le scale supplementari, sempre con relativa suddivisione in gruppi in base ai costrutti che valutano, le scale PSY 5 per la valutazione dei tratti di personalità, quali Aggressività, Psicoticismo, Alterazione dell’autocontrollo, Nevroticismo e Introversione (rilevanti sia nel normale funzionamento della persona, sia in situazioni di difficoltà) mai da considerare in modo indipendente ma sempre all’interno dell’intero protocollo e, infine gli item critici e il loro utilizzo.

L’ottavo capitolo è dedicato ai dati normativi, mentre il nono capitolo illustra il sistema di scoring che può essere sia manuale che computerizzato e le procedure interpretative, rispetto alle quali, a mio parere, è ben sottolineato come non si possa trattare della “semplice messa insieme” degli elementi ricavati, ma bensì si debba tenere conto di tutti gli aspetti emersi e della loro integrazione armonica.

In tal senso viene presentata, tra i diversi metodi, quella che agli stessi autori sembra essere una strategia interpretativa corretta e utile, strategia ramificata o ad albero, che parte dalle scale cliniche di base con valori significativi e integra le altre scale.

Il decimo capitolo riguarda gli ultimi sviluppi dell’MMPI-2, dalle Scale Cliniche Ristrutturate nate, così come riferito dagli stessi autori, con l’intento di migliorarne l’interpretabilità e ampiamente descritte, fino alla versione dell’MMPI-2-RF, che si presenta come un questionario autonomo, un’alternativa, una sorta di versione ridotta, della quale vengono descritte le caratteristiche indicado i punti in comune e di differenza con MMPI-2, i punti di forza e di debolezza.

Nell’undicesimo capitolo vi è una breve introduzione dell’MMPI Structural Summary, uno schema per l’esame supplementare di scale e punteggi del test, che non intende soppiantare o sostituire la strategia tradizionale di interpretazione mediante code-type, ma di un utilizzo congiunto; viene illustrato il formato dell’MMPI-2 SS con a conclusione un esempio di caso e rispettivo Report.

L’ultimo capitolo è dedicato alla presentazione completa di un caso clinico, i cui punteggi sono ottenuti con il programma di scoring edito dal Giunti-OS e allegati in Appendice, con il confronto con l’MMPI-2-RF per lo stesso caso.

Un Manuale completo, chiaro e di immediato utilizzo: ogni capitolo è corredato di tabelle di riferimento per il corretto impiego delle scale, e di utili esempi; uno strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi sia per chi si appresta per le prime volte all’utilizzo del MMPI, sia per chi da anni ci lavora, senza mai dimenticare l’importanza dell’aggiornamento e la curiosità di comprendere, approfondire e integrare le informazioni che si possono ricavare dallo strumento, tenendo bene a mente l’unicità del cliente.

 

 

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  • Abbate, L. & Roma, P (2014). MMPI-2. Manuale per l’interpretazione e nuove prospettive di utilizzo. Milano: Cortina. ACQUISTA ONLINE

Il contagio dello sbadiglio: questione di empatia?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sbadigliare è uno dei comportamenti più primitivi, definito addirittura un fossile comportamentale e condiviso da diverse specie; persino in fase gestazionale il feto umano sbadiglia già dal suo primo trimestre.

In ambito psicologico ed etologico, è stato studiata la contagiosità dello sbadiglio: nel caso dei primati umani e non umani vedere consimili sbadigliare può facilmente portare a riprodurre lo sbadiglio. Ma come si spiega questo fenomeno? Diversi studiosi sostengono che l’effetto contagio dello sbadiglio sia uno dei modi di espressione dell’empatia: il livello di vicinanza affettiva (familiari vs. amici vs. sconosciuti) influenzerebbe la probabilità di incappare in involontari e contagiosi sbadigli. Tuttavia pochi studi si sono finora avventurati nello studio della variabilità individuale che modula la tendenza a farsi contagiare dallo sbadiglio. Come spesso accade lo studio delle differenze individuali può gettare nuova luce sul fenomeno in sé, sulle sue radici e funzioni.

 Secondo un nuovo studio della Duke University, l’empatia e la tendenza al contagio emotivo non sarebbero fattori esplicativi della variabilità individuale alla contagiosità dello sbadiglio. 328 soggetti sono stati reclutati per la ricerca ed è stato loro chiesto di guardare un video della durata di tre minuti di altre persone che sbadigliavano: a ciascuno di loro è stato indicato di fare un click sul PC ogni volta che si ritrovavano a sbadigliare guardando il video. Inoltre i ricercatori hanno misurato anche alcune funzioni cognitive, il livello di empatia e di contagio emotivo, di stanchezza e di sonnolenza.

Sorprendentemente, le variabili di empatia e intelligenza non hanno presentato alcuna correlazione significativa con la tendenza a farsi contagiare dallo sbadiglio. E’ invece, l’età a presentare correlazioni significative inversamente proporzionali con la propensione a farsi contagiare dallo sbadiglio: la maggior parte di soggetti più suscettibili al contagio erano soggetti di età inferiore ai 25 anni, mentre le persone più anziane hanno dimostrato meno probabilità di riprodurre spontaneamente sbadigli guardando consimili sbadigliare. Ad ogni modo, una gran quota di suscettibilità al contagio per tale comportamento ancestrale rimane ancora statisticamente non spiegata, altre ricerche sono necessarie per indagare quali fattori possono esplicare la complessità di tale variabilità individuale.

 

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Conchita Wurst: donna barbuta sempre… criticata! – LGBT

Emanuel Mian

 

 

CONCHITA WURST EUROVISION 2014DONNA BARBUTA SEMPRE….CRITICATA:

essere transgender non è solo sorrisi e paillettes.

Conchita Wurst ha rappresentato l’Austria a Copenhagen all’Eurovision Song Contest del 2014 ed ha vinto con il brano “Rise like a phoenix”.

Sin qui nulla di strano.

Conchita pero’ si è presentata sul palco, vestita come farebbe una giovane donna ad un gran galà, lunghi capelli castano scuro che adornano un viso aggraziato, occhi ammaliatori e…..una folta barba scura!

Conchita infatti è biologicamente un uomo e si chiama Thomas Neuwirth.

Prima della meritata vittoria, numerose sono state le polemiche da parte di politici ed opinionisti, critiche ed accuse che si susseguono tutt’ora, verso l’immagine particolare che l’artista ha portato sul palco in Mondovisione.  La partecipazione di questa cantante ha infatti  “scomodato” il parlamentare russo fautore della famigerata legge tacciata di omofobia il quale ha accusato Conchita di essere una pervertita e di rappresentare il futuro degrado dell’integrazione Europea. La proposta da parte della Bielorussia, invece, è stata di usare tecnologie digitali per oscurare l’esibizione della brava artista.

Fortunatamente entrambe le richieste sono state respinte.

L’esibizione e vittoria di Conchita, proprio per la sua particolarità, ha rimesso in luce un fenomeno sempre più in crescita rispetto al transgenderismo e le problematiche a questo legate: la transfobia.

Un recente studio ha rilevato su circa 152 soggetti transgender, numerosi episodi di stigma da parte persino dal personale sanitario (Kosenko et al.,2013). Le persone transgender devono affrontare una forte discriminazione nella vita di tutti i giorni e questo puo’ portare già ad un isolamento marcato in grado di aumentare il rischio di depressione e ansia , disturbo post-traumatico da stress e abuso di sostanze.

La ricerca ha rilevato che, nonostante ciò, molti individui transgender esitano comunque a cercare terapie adeguate per paura di essere maltrattati persino da chi dovrebbe averne cura. Non solo, in questi casi, i disturbi alimentari e dell’immagine corporea rischiano di acutizzarsi (Mian, 2006) e questo anche perché non vi è ancora una cultura fra i clinici di indirizzare le specifiche problematiche dei transgender con protocolli e metodiche adeguati a causa della poca conoscenza rispetto al mondo LGBT e la possibilità di incorrere nella stigma di cui sopra.

Interessante lo studio condotto su due soggetti transgender biologicamente di sesso maschile (si definiscono “male to female”) che soffrivano di un disturbo alimentare e dell’immagine corporea (Murray et al., 2013). Questi, avevano modificazioni del rapporto verso il proprio corpo ed il cibo in relazione all’identita’ di genere durante il corso della propria vita. Quando si trovavano ad orientarsi verso l’apparire femminile, erano presenti i tipici sintomi delle donne colpite da anoressia nervosa, quali il forte desiderio di magrezza, l’insoddisfazione corporea e la restrizione calorica. Al contrario, mentre incarnavano le fattezze biologicamente espresse dal proprio sesso, si ritrovavano a ossessivizzarsi verso un corpo muscoloso e ad essere maggiormente vulnerabili ad episodi di discontrollo orale (cio’ che comunemente definiamo come abbuffata).

Come il corpo veniva vissuto e “pensato” modificava il comportamento alimentare e la percezione corporea. Ma che significato aveva tutto questo per i singoli individui?

In particolare, per il primo, la magrezza serviva come una sorta di “strategia difensiva” per autogiustificare l’impossibilita’ a poter generare dei figli, mentre per il secondo, la muscolosità era funzionale a giustificare la propria sofferta omosessualità.

Quest’ultimo risultato sembra coincidere con uno studio che ha preso in esame piu’ di 400 uomini gay o bisessuali al Toronto LGBT Festival del 2008. Gli studiosi cercavano una correlazione fra il cosiddetto “drive for muscolarity” o desiderio di muscolosità ed altri parametri (età, peso, grado di educazione etc etc) riscontrando in estrema sintesi, che l’internalizzazione della omonegativita’ era proporzionale con il desiderio di avere un corpo eccessivamente muscoloso (Brennan et al., 2012).

Il termine “omonegatività interiorizzata” indica un conflitto tra la propria disposizione sessuale e la propria immagine di sé, caratterizzato da imbarazzo, vergogna, depressione e talvolta ideazione suicidaria.

Come aiutare quindi gli amici della comunità LGBT che spesso trovano negli psicologi l’unico punto di ascolto ai propri disagi? E come possono capire che stanno lavorando con il giusto approccio terapeutico?

Per i colleghi, consiglio di avvicinarsi con ancora maggiore sensibilita’ a questo mondo con approcci modulari che tengano conto che l’immagine corporea riveste un ruolo predominante e che fa da fil rouge sul resto (Wilhelm et al., 2011; Mian & Gerbino, 2009). Ai membri della comunità LGBT, consiglio di evitare qualsiasi approccio terapeutico o di supporto psicologico che miri a qualsiasi livello ed in qualsiasi modo ad accusarli o colpevolizzare le proprie scelte.

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Ritornando a Conchita, molti possono avere visto nella sua immagine un collegamento, ad esempio, con il discusso film del 1932 di Tod Browning intitolato “Freaks” ambientato in un circo dove era presente una donna barbuta.

Niente di piu’ lontano da qui.

L’immagine per i transgender è molto, ma l’immagine che vediamo non è tutto. L’utilizzo di queste fattezze aldilà delle facili polemiche o critiche, puo’ rappresentare un modo per Thomas/Conchita di comunicare all’ascoltatore di andare oltre cio’ che la vista gli pone dinanzi. Con il tempo, sarà dato piu’ spazio alle indubbie capacità di Conchita/Thomas e non, come troppi superficialmente fanno, al suo essere una donna con la barba.

 

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AUTORE DELL’ARTICOLO: 

Emanuel Mian. Psicoterapeuta, PhD in Neuroscienze.
Docente nel Master in “Dietistica e Nutrizione Clinica”- Università di Pavia

La Terapia nel Disturbo di Panico: confronto tra CBT e EMDR

 

 

 

disturbo di panico - Immagine: ©-almagami-Fotolia.comI risultati dello studio hanno mostrato che sia la CBT che l’EMDR sono risultati efficaci nella cura del disturbo, con un maggiore mantenimento dei risultati dell’EMDR a 1 anno di distanza.

La Terapia Cognitivo Comportamentale ha largamente dimostrato di essere la terapia più efficace per la cura del Disturbo da Attacchi di Panico con o senza Agorafobia. Tali risultati vengono anche mantenuti a 1 anno di distanza dal trattamento.

Ma ad oggi possiamo dire con certezza che tale primato appartenga ancora alla Terapia Cognitivo Comportamentale?

Un recente studio pilota di Faretta (2013) ha confrontato la CBT (Cognitive-Behavioral Therapy) con l’EMDR (Eye Movement Desensitization Reprocessing) per il trattamento del Disturbo di Panico.

Il razionale della scelta è stato il considerare l’Attacco di Panico alla stregua di un’esperienza traumatica per il soggetto che lo sperimenta. Il campione era costituito da 19 soggetti con diagnosi di attacco di panico con o senza agorafobia assegnati al trattamento CBT o EMDR.

I risultati sono stati valutati all’inizio, alla fine e a 1 anno dal trattamento attraverso alcune scale sintomatologiche.

Il trattamento EMDR ha seguito il protocollo delle 8 fasi della Shapiro (2001) con una differenza introdotta nella fase 2 dove è stata prevista una specifica fase di psicoeducazione sul disturbo da attacchi di panico e nella fase 3 dove la riprocessazione dei targets è stata condotta sugli eventi stressanti immediatamente precedenti l’insorgenza del disturbo, il primo attacco di panico, il più recente e il peggiore in assoluto.

Nel gruppo CBT è stato seguito il protocollo classico che prevede una fase di assessment e concettualizzazione del caso, psicoeducazione, tecniche di rilassamento e gestione dei sintomi ansiosi, esposizione immaginativa e homework.

I risultati dello studio hanno mostrato che sia la CBT che l’EMDR sono risultati efficaci nella cura del disturbo, con un maggiore mantenimento dei risultati dell’EMDR a 1 anno di distanza.

Tuttavia, pur avendo il merito di aver aperto una strada alternativa per la cura del disturbo, questo studio ha delle forti limitazioni metodologiche che non è possibile non prendere in considerazione: il campione troppo piccolo per la generalizzazione dei risultati, la non assegnazione casuale del campione nei gruppi di trattamento, uno sbilanciamento tra i due campioni rispetto alla percentuale dei soggetti agorafobici (CBT 56% vs EMDR 20%) e assenza di valutatori indipendenti.

Siamo quindi in attesa di uno studio che rimedi a tali lacune metodologiche e che ci permetta di chiarire se effettivamente l’EMDR abbia la stessa efficacia della CBT nella cura del disturbo da attacchi di panico.

 

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Le Nuvole di Picasso di Alberta Basaglia: nella storia del manicomio liberato

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le nuvole di picasso di alberta basaglia_recensioneAlberta Basaglia ci riporta agli anni di Gorizia dalla prospettiva di una bimba che, con l’alibi dell’ingenuità e della purezza tipici di quell’età, ci fa scoprire quel mondo di fermento rivoluzionario, di bizzarri personaggi con i quali si ritrovava a condividere la propria quotidianità anticonformista fatta di musica, disegni e un papà freneticamente appassionato del proprio lavoro e instancabilmente impegnato, quasi per una corsa contro il tempo, a raggiungere un traguardo importante che riesce a mettere a segno quasi al 90° minuto.

Un piccolo libro che arriva proprio al momento giusto se si pensa alla delicata situazione degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) che proprio di recente, con un’ulteriore proroga, hanno visto slittare la loro chiusura al 2015.

Sembra quasi paradossale, ma la storia si ripete forse con le stesse difficoltà, le stesse trafile burocratiche e lo stesso scetticismo che accompagnò la riforma della psichiatria italiana promossa da Franco Basaglia con la famosa legge 180.

Alberta, figlia del noto psichiatra italiano che agli inizi degli anni ’60 diede inizio, nel manicomio di Gorizia passando poi per quello di Trieste, alla rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi nel nostro Paese, ci regala Le nuvole di Picasso, edito da Feltrinelli, con il quale rivive le vicende di quel periodo con gli occhi protagonisti di chi, per sua fortuna, in quella rivoluzione ci è nata e cresciuta.

Gli occhi di Alberta, il suo grande problema, la sua menomazione che, malgrado tutto, le ha dato la possibilità di vivere sulla propria pelle il senso di diversità; un concetto molto a cuore a quei due genitori, Franco e Franca, per il quale giorno e notte lottavano affinché potesse essere accettata senza condizioni.

Alberta Basaglia ci riporta agli anni di Gorizia dalla prospettiva di una bimba che, con l’alibi dell’ingenuità e della purezza tipici di quell’età, ci fa scoprire quel mondo di fermento rivoluzionario, di bizzarri personaggi con i quali si ritrovava a condividere la propria quotidianità anticonformista fatta di musica, disegni e un papà freneticamente appassionato del proprio lavoro e instancabilmente impegnato, quasi per una corsa contro il tempo, a raggiungere un traguardo importante che riesce a mettere a segno quasi al 90° minuto.

Da adulta Alberta, psicologa per ironia della sorte ma forse anche per fisiologica e prematura formazione sul campo, deciderà di partire da quel mondo di colori per tornare indietro nel tempo e per scoprire l’orrore celato dietro alle notti insonni dei genitori, a quel via vai di professori e intellettuali e alle battaglie culturali di quegli anni, complici dell’avverarsi di quel sogno di libertà che Franco Basaglia per anni aveva inseguito, superando mille ostacoli e dando inizio, finalmente, ad un lungo e tortuoso nuovo percorso per la psichiatria italiana.

 

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Appunti sul tablet? Per l’apprendimento meglio usare carta e matita

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science prendere appunti a mano con carta e penna è meglio rispetto a scrivere appunti digitali se il nostro obiettivo è apprendere e fissare in memoria a lungo termine informazioni concettuali.

L’abitudine di scrivere appunti su laptop e altri dispositivi digitali è tanto più frequente quanto ampiamente controversa in relazione alle maggiori opportunità di distrazione che il digitale offre. Gli psicologi della Princeton University, dunque, si sono domandati se e quanto fossero efficaci gli appunti digitali in termini di performance accademiche, anche quando pc e tablet sono utilizzati unicamente allo scopo di prendere appunti durante le lezioni o sessioni di studio.

 

In un primo studio 65 studenti universitari hanno guardato in piccolo gruppo uno tra cinque TED Talks chiedendo loro di scegliere la modalità che solitamente utilizzavano per prendere appunti: laptop non connesso a internet oppure carta e penna. Dopo essere sottoposti a tre compiti distrattori, è stato loro chiesto di rispondere a una serie di domande sul talk precedentemente ascotato che andavano ad indagare sia la comprensione concettuale che il recupero mnestico di specifiche informazioni fornite. I risultati sono interessanti: se i due gruppi (appunti carta matita e appunti digitali) hanno avuto performances molto simili nel recupero mnestico di informazioni fattuali, il gruppo di studenti che ha preso appunti digitali ha dimostrato di avere prestazioni peggiori in termini di comprensione concettuale. Analizzando le caratteristiche delle note si è anche rilevato che gli appunti digitali contenevano una maggior quota di sovrapposizione e mera trascrizione delle parole del relatore rispetto agli appunti carta-matita: inoltre, all’interno del gruppo “appunti a mano” una migliore comprensione concettuale era associata a un minor numero di sovrapposizione di verbatim riguardo le parole del relatore.

 

E’ plausibile dunque inferire che i tradizionalisti che si appuntano note e concetti a mano su carta siano maggiormente coinvolti in un processo di elaborazione di ciò che ascoltano, mentre l’appunto digitale sarebbe più associato a un processo di trascrizione passiva di ciò che si ascolta.

 

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Manuale di felicità combriccoliana: recensione ed esperienza di lavoro

manuale di felicità combriccolianaPer gli adulti non sempre si rivela facile parlare di emozioni con i più piccoli e talvolta comprendere il loro mondo interno non sembra essere cosa da poco.

Nel lavoro di Sabrina Gasparini (edito Edicolors), tuttavia si può ritrovare un valido strumento per esplorare le emozioni dei bambini. Il suo racconto, Manuale di felicità combriccoliana, aiuta a riflettere su ciò che i più piccoli provano e sulle situazioni che per loro potrebbero rivelarsi difficili da affrontare. Di breve lunghezza ma di piacevole lettura (scappano sorrisi anche ai più grandi), il racconto si apre presentando i personaggi della Combriccola della Mezza Luna, animali o persone molto diversi tra loro ma legati da una grande amicizia, “salvaguardata” da un vero e proprio Codice di Comportamento Combriccoliano.

La storia centrale che viene presentata inizialmente è quella di Totino, un ragazzo che durante una partita di calcio è stato definito dal pubblico “incapace” per aver mancato un goal. È così che il protagonista inizia a provare

“un oggetto strano che gli adulti chiamano RABBIA”,

si sente male, vorrebbe piangere e star da solo ma qui intervengono gli amici della Combriccola che consentono a Totino di ritrovare la strada verso la felicità. A questo punto tocca agli altri protagonisti della Combriccola che, per consolare Totino, raccontano dei loro momenti difficili e di ciò che hanno fatto per sentirsi finalmente meglio. Si leggono così storie di tristezza, di cattiveria e rabbia, di delusione e paura, accompagnate però dalla morale che parlandone e contando sugli amici si riesce a superare il tutto e a ritrovare ciò che la Combriccola della Mezza Luna chiama Nontristezzaaltrimentichenoiauffastruffa, ovvero la felicità.

 Il ruolo che l’autrice dona all’ironia, al saper ridere anche quando ci si sente tristi, è un punto vincente del racconto, e credo si possa vedere come un insegnamento per i più piccoli a non lasciarsi abbattere perché è normale provare tristezza o rabbia o delusione, e a guardarsi invece attorno, dove c’è sempre qualcuno con cui ridere e superare certi momenti (e qui l’insegnamento è anche per i più grandi affinché si mostrino comunque pronti ad ascoltare e aiutare i bambini durante le loro difficoltà).

 L’autrice consiglia inoltre un lavoro da fare con i bambini di età dai 7 ai 10 anni, con gruppi che contano fino a 28 alunni, lavoro che potrebbe rivelarsi molto utile per i maestri e soprattutto per gli stessi bambini. A questo proposito, seppur il lavoro è pensato dall’autrice per bambini più piccoli, ho provato, in prima persona, a svolgere lo stesso lavoro con un gruppo di ragazzi disabili un po’ più grandi d’età. Anche in questo caso, infatti, si riscontra spesso una notevole difficoltà a parlare di emozioni, soprattutto di quelle negative.

L’indicazione dell’autrice di iniziare il lavoro con il gioco della risata (chiedere a qualcuno di ridere e osservarne la mimica per poi imitarlo) è stato molto utile: i ragazzi hanno cominciato a ridere e ciò ha consentito di lavorare in modo più rilassato. L’autrice presenta poi la seconda parte (dopo la lettura della fiaba) del lavoro: chiedere ai bambini di descriversi come un personaggio della Combriccola, chieder loro di scrivere in quale modo rallegrerebbero Totino e se si sono mai sentiti come lui. Durante questa parte, nel mio lavoro con i ragazzi disabili, ci sono state delle difficoltà, soprattutto nel parlare delle volte in cui si è provata rabbia. Tuttavia, attraverso una riflessione guidata, sono emersi finalmente i vissuti dei ragazzi, cosa li faccia sentire in collera o tristi e questo l’ho trovato davvero prezioso in quanto, condividendo con i compagni di classe tali racconti, si è potuto intervenire meglio anche sull’integrazione. Mi ha sorpreso osservare quanto sia stato invece facile, per i ragazzi con cui ho lavorato, trovare diversi modi per rallegrare Totino: da chi gli regalerebbe tanti palloncini colorati per farlo ridere, a chi lo porterebbe ad un raduno di auto da corsa per distrarlo da quanto accaduto, a chi invece gli direbbe “Guardati attorno, ci sono tanti amici, sono loro che ti rendono felice”.

Leggere questa fiaba si mostra particolarmente utile per tutti coloro che hanno bisogno di comprendere al meglio ciò che provano i bambini, in primis i genitori ed i maestri, ma anche a psicologi e chiunque lavori con i più piccoli.

In più, dopo averlo constatato in prima persona, suggerirei di cuore la lettura e il lavoro illustrato dall’autrice anche a tutti quegli educatori che spesso purtroppo non hanno facile accesso al mondo interno dei bambini. La lettura sarà piacevole e anche lavorare sul testo risulterà molto divertente e appagante, sia per i bambini che, naturalmente, per gli adulti.

 

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Il pregiudizio tra eziologia e modalità di espressione comportamentale

 

Il pregiudizo tra eziologia e comportamento - Immagine: tratto da American History XIl pregiudizio rappresenta un fenomeno complesso, a cavallo tra la dimensione sociale e quella individuale, spesso foriero di problemi e tensioni che si ripercuotono pesantemente sulle società multietniche dell’inizio del XXII° secolo.

E’ un fenomeno conosciuto e studiato da molti decenni: già nel 1954 lo psicologo statunitense Gordon Allport pubblicò un libro dal nome “La natura del pregiudizio” in cui teorizzava brillantemente le origini di tale fenomeno e delle linee guida per impostare interventi per abbassarne il livello.

La definizione data da Allport è la seguente:

Il pregiudizio (etnico) è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo.

Rupert Brown, professore di Psicologia Sociale all’Università del Kent, in parte contesta questa definizione: egli non ritiene che sia necessario presumere che siano credenze fasulle generalizzate in maniera arbitraria, ciò può corrispondere spesso a verità, ma talvolta risulta concretamente difficile da dimostrare. La definizione che lui dà di pregiudizio è:

Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro sola appartenenza ad esso.

In una prospettiva sociale di pregiudizio già Allport sosteneva che la categorizzazione è un processo cognitivo fondamentale nel costituirsi dello stesso; secondo Bruner (1957) essa è definibile come una caratteristica ineludibile dell’esperienza umana, un mezzo necessario per semplificare ed ordinare un mondo troppo complesso per la capacità computazionale del nostro cervello.

Campbell e Tajfel dimostrarono negli anni cinquanta che una conseguenza diretta della categorizzazione è l’accrescimento delle somiglianze intragruppo e delle differenze tra i diversi gruppi, ciò vale sia per stimoli fisici che per individui di diverse categorie sociali. Un’altra conseguenza della categorizzazione, altrettanto importante della precedente, fu dimostrata da Rabbie e Horwitz nel 1969 e da Tajfel et al. nel 1971: la semplice appartenenza ad un gruppo, anche creato a caso e senza alcuna conoscenza reciproca degli appartenenti ad esso, spingeva le persone a considerare le prestazioni dei membri del proprio gruppo superiori ed a favorire quando possibile i membri del proprio gruppo.

Un modo completamente diverso di considerare il pregiudizio è il non vederlo come un fenomeno sociale tra differenti gruppi, bensì come una caratteristica della personalità; il maggior rappresentante di tale filone di ricerca è Adorno, che nel 1950 teorizzò la personalità autoritaria: una personalità sensibile alle idee fasciste e razziste, iperdeferente ed ansiosa verso le figure d’autorità, che vede tutto o bianco o nero, senza sfumature intermedie, incapace o poco disposta a tollerare l’ambiguità in sé o negli altri e apertamente ostile verso chi è diverso e non si conforma.

Adorno e collaboratori teorizzarono l’eziologia di tale carattere in un’ottica freudiana: queste persone erano cresciute in famiglie in cui vigeva una educazione rigida, conservatrice, punitiva e fredda; tali bambini risultavano frustrati nei loro bisogni di autonomia e spontaneità e, non riuscendo ad esprimere la propria rabbia verso i genitori punitivi e terrorizzanti, trovavano più semplice spostare l’aggressività verso altri soggetti considerati come più deboli o inferiori.

Tale ipotesi ha evidenziato parziali riscontri positivi nella ricerca e ha sollevato parecchi dubbi.

Uno dei principali fu espresso da Rokeach nel 1956, il quale riteneva che la teoria e le scale utilizzate per misurare il pregiudizio da Adorno si riferissero esplicitamente ad un razzismo politicamente di destra rivolto alle classi normalmente discriminate negli U.S.A. in quegli anni; egli quindi teorizzò la mentalità chiusa, che, essendo scevra da contenuti, descriveva una forma mentis rigida, resistente alle informazioni contrastanti il suo sistema e facente largo uso del principio di autorità.

Altri autori hanno evidenziato ulteriori elementi alla base del pensiero pregiudiziale, quali la presenza di conflitti di interesse (reali o percepiti) tra gruppi – ben esemplificata da Sherif nei suoi studi sui campi estivi – piuttosto che la necessità di mantenere un’identità sociale positiva – intesa come insieme di aspetti dell’immagine individuale di sé che derivano dalle categorie sociali cui l’individuo sente di appartenere (Tajfel e Turner, 1986).

Oltre alle possibili eziologie, la ricerca, nel corso del tempo, ha preso in esame le modalità di espressione esteriori del pregiudizio, tanto in contesti di laboratorio (Augustinos, Ahrens e Innes, 1994) quanto in contesti di tipo ecologico ( Gaertner e Dovidio, 1986), riscontrando notevoli cambiamenti: se il pregiudizio “vecchio stampo” era caratterizzato da espressioni dirette di odio e intolleranza verso i membri di gruppi stigmatizzati, come cittadini americani di colore o portatori di handicap, quello moderno sembrerebbe invece più sfumato e sostenuto da temi relativi a differenze culturali, conflitti di valori e tradizioni e percezione di vantaggi immeritati ottenuti dagli outgroup in questione a discapito dei membri maggioritari (Pettingrew e Meertens, 1995); l’ansia e il disagio nel contatto reciproco sostituirebbero, inoltre, sentimenti di ostilità e rifiuto più tipici del razzismo classico.

Tale pregiudizio moderno non risulterebbe tuttavia completamente indipendente da quello vecchio stampo: entrambi presenterebbero una certa reciproca correlazione (Sniderman e Tetlock, 1986), recentemente dimostrata in uno studio relativo agli atteggiamenti nei confronti di persone con disabilità intellettiva (Akrami et al., 2006).

L’impressione generale è quella di una certa continuità di fondo del tema pregiudiziale, e di un assottigliamento delle modalità di espressione discriminatoria, fenomeni per i quali è necessario lo sviluppo di strumenti di rilevazione sufficientemente sensibili, nell’ottica dello sviluppo di interventi volti a favorire reciproca conoscenza, empatia e cooperazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Akrami, N., Ekehammar, B., Claesson, M., Sonnander, K. (2006). Classical and modern prejudice: attitudes toward people with intellectual disabilities. Research in Developmental Disabilities, 27 (6): 605-17.
  • Allport G., “La natura del pregiudizio”; 1976, la Nuova Italia.
  • Augustinos, M., Ahrens, C., Innes, M. (1994). Stereotypes and prejudice: The Australian Experience. British Journal of Social Psychology, 33, 125-141.
  • Brown R., “Psicologia sociale del pregiudizio”; 1997, il Mulino.
  • Gaertner, S.L., Dovidio, J.F. (1986). The aversive form of racism. In J.F. Dovidio e S.L. Gaertner ( Eds. ), Prejudice, Discrimination and Racism (pp. 61-89). San Diego: Academic Press.
  • Pettingrew, T.F., Meertens, R.W. (1995). Subtle and blatant prejudice in Western Europe. European Journal of Social Psychology, 25, 57-75.
  • Sherif, M., Harvey, O.J., White, B.J., Hood, W.R., Sherif, C.W. (1961). Intergroup conflict and co-operation: The robber’s cave experiment”. Norman: University of Oklahoma.
  • Sherif, M. e Sherif, C.W. (1953). Groups in harmony and tension: An integration of studies on intergroup relations. New York: Octagon.
  • Sherif, M., White, B.J. & Harvey, O.J. (1955). Status in experimentally produced groups. American Journal of Sociology, 60, 370-379.
  • Sniderman, P.M., Tetlock, P.E. (1986). Symbolic racism: Problems of motive attribution in political analysis. Journal of Social Issues, 42, 129-150.
  • Tajfel, H., Turner, J. (1986). The social identity theory of intergroup behaviour. In S. Worchel e W.G. Austin ( a cura di ), Psychology of Intergroup Relations. Chicago: Nelson.

Bias impliciti: quali interventi? – Psicoeducazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Un nuovo studio – che ha usato l’idea del contest tra ricercatori- mette a confronto diversi interventi per modificare i cosiddetti bias impliciti.

Il Test Implicit Association test (IAT) è un semplice task che è possibile completare online al seguente indirizzo Web Project Implicit.

Il test registra la velocità delle risposte del soggetto cui viene richiesto di selezionare determinati target (volti di diverse etnie) e assegnarli velocemente ad alcune categorie (per esempio buono o cattivo).

Anche le persone che consciamente e consapevolmente rinnegano e ripudiano qualsiasi tipo di pregiudizio possono avere punteggi al test IAT e cioè ad esempio dimostrano una maggiore facilità nell’associare volti bianchi a categorie positive (ad esempio, buono), fenomeno identificato come ‘bias implicito’.

La ricerca rispetto a questo tema è controversa, e ora un nuovo articolo, pubblicato su Journal of Experimental Psychology, riporta i risultati di una sorta di contest che ha voluto coinvolgere diversi riceratori per progettare brevi interventi finalizzati a modificare i bias impliciti degli individui.

I diversi interventi – ben 17!- progettati dai diversi gruppi di ricerca sono stati resi accessibili online e avevano una durata inferiore ai 5 minuti.

Campioni di circa 300-400 persone sono stati randomicamente assegnati a ciascun intervento in modo da poter assicurare un elevato potere statistico nel valutare l’effetto di ciascun mini protocollo di intervento sulla modificazione dei bias impliciti (attraverso appunto i punteggi allo IAT).

Dei 17 interventi testati, nove si sono dimostrati in qualche misura efficaci, mentre 8 assolutamente non influenti sulla modificazione dei bias impliciti: tra questi ad esempio, mini training per migliorare l’empatia, interventi incoraggianti l’assunzione di prospettiva dell’outgroup oppure immaginare interazioni positive tra diversi gruppi etnici sembrano non funzionare.

D’altro canto gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Ci sono però una serie di riflessioni. Primo, lo IAT è dunque considerabile una misura di un fenomeno cognitivo che va al di là dei self-report più espliciti in cui gioca un ruolo più forte la desiderabilità sociale.

In secondo luogo, qual è l’effetto a lungo termine di tali interventi brevi in termini di cambiamento degli atteggiamenti sia nella forma esplicita che implicita.

 

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  • Lai, C.K., Marini, M., Lehr, S.A., Cerruti, C., Shin, J.E., Joy-Gaba, J.A., Ho, A.K., Teachman, B.A., Wojcik, S.P., Koleva, S.P., Frazier, R.S., Heiphetz, L., Chen, E.E., Turner, R.N., Haidt, J., Kesebir, S., Hawkins, C.B., Schaefer, H.S., Rubichi, S., Sartori, G., Dial, C.M., Sriram, N., Banaji, M.R., & Nosek, B.A. (2014). Reducing Implicit Racial Preferences: I. A Comparative Investigation of 17 Interventions. Journal of experimental psychology. General PMID: 24661055

 

PROVA IL TEST:

Senza paura, senza pietà: Diagnosi e Trattamento di adolescenti devianti

 

Senza paura senza pietà di Alfio MaggioliniIl testo, a cura di Alfio Maggiolini e del gruppo di studio de Il Minotauro, si pone come una lettura completa ed esaustiva per la presa in carico, diagnosi e trattamento degli adolescenti che commettono reati o che hanno una condotta cosiddetta “deviante”.

 

La risposta degli adulti ai comportamenti devianti degli adolescenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e/o un atteggiamento repressivo. E’ inoltre difficile per l’operatore (psicologo, educatore etc) fornire un supporto a chi non desidera riceverlo, ossia il ragazzo che si trova inserito nel circuito penale minorile.

Ci si interroga diffusamente su quali possano essere le cause e i fattori che concorrono a tali comportamenti. La risposta del testo è quella di prendere in considerazione non solo il singolo, ma anche gli stili relazionali famigliari e sociali, senza perdere di vista il periodo/percorso evolutivo specifico dell’adolescenza.

 

Una corretta valutazione è la base per un intervento efficace, infatti la violazione delle regole può essere espressione di:

•          una crisi evolutiva fase-specifica;

•          il segnale di un vero e proprio squilibrio mentale (ad esempio un break down psicotico);

•          l’uso/abuso di sostanze;

•          una tendenza antisociale.

 

Gli adolescenti antisociali vanno visti innanzitutto per ciò che sono, ossia adolescenti che faticano a definire la propria identità, in particolar modo quella sociale.

In linea generale l’adolescenza è caratterizzata da comportamenti trasgressivi/aggressivi perché utili per crescere, mettendo in discussione le regole ricevute, nel tentativo di sperimentarsi e conoscersi.

Ciò che distingue gli adolescenti con condotta deviante è, dal punto di vista oggettivo/concreto, che tali comportamenti rappresentano un pericolo per sè e per gli altri.

Molto accento, nel testo, viene posto sul significato che il comportamento al limite riveste a livello comunicativo e metaforico. Spesso, infatti, il reato rappresenta la speranza/illusione che possa farli sentire o apparire adulti (la cosiddetta funzione adultizzante del reato) e protegga dalla frustrazione del non potere o del non riuscire (ancora).

Tali comportamenti, se ripetuti, possono risultare – invece – espressione di una vera e propria tendenza antisociale, che potrebbe cristallizzarsi, a lungo andare, in uno stile di personalità strutturato. Non è ancora possibile, infatti, definire una struttura di personalità stabile nell’adolescente, dal momento che la sua condizione essenziale è, per l’appunto, quella di una personalità in divenire.

Proprio in virtù di un soggetto in crescita e in stretta relazione con il mondo circostante, è di fondamentale importanza porre attenzione al senso soggettivo e comunicativo dell’atto deviante (ad es: cosa significa per quel ragazzo in particolare, con quella storia di vita e quel gruppo di amici aver rubato un motorino? Cosa significa se collochiamo questo reato all’interno del suo cammino evolutivo?). Questo è un passaggio di fondamentale importanza per non rischiare di etichettare un ragazzo, fornendogli una stampella negativa per l’identità, in cui rischia di rimanere incastrato.

 Particolare importanza è rivestita anche dalla cultura di appartenenza: il contesto, infatti, definisce la norma, ciò che è consentito e ciò che non lo è.

Uno dei compiti principali dell’adolescenza è sviluppare e riconoscersi in un ruolo sociale, anche in termini di maschile e femminile. Il comportamento antisociale, dunque, può essere visto come una modalità disfunzionale di acquisire un’identità sociale. I maschi antisociali enfatizzano la forza e la virilità, le femmine, invece, la propria spregiudicatezza sessuale.

 

Approcciando i disturbi antisociali in un’ottica evolutiva, la diagnosi dovrà tenere conto di tre fattori:

–           Comportamento (parte manifesta e visibile);

–           Personalità;

–           Intenzioni.

In tal modo il disturbo manifesto viene messo in relazione con un mondo interno che rimanda ad un processo di sviluppo in essere: a che punto di questo cammino è l’adolescente? Come si relaziona con la separazione dalle figure genitoriali, oppure, a che punto è della propria maturazione sessuale?

Bisogna inoltre interrelare anche le intenzioni (in termini di sviluppo), mezzi e risultati che ottiene l’adolescente con le proprie azioni. Il comportamento deviante può essere un mezzo alternativo per ottenere un risultato che stenta ad arrivare, una scorciatoia disfunzionale.

Non bisogna dimenticare, infine, l’importanza del terzo sociale, che nella valutazione di un adolescente con condotte devianti può essere particolarmente rilevante. Una volta compiuto il reato, infatti, l’adolescente dovrà affrontare un percorso non semplice di indagine e di valutazione, che può arrivare ad esporlo anche a livello mediatico. Senza scomodare televisioni o casi eclatanti, i ragazzi devianti debuttano in società con un marchio, un’etichetta che rischia – come detto- di poter essere difficilmente lavata via.

Quello che, in conclusione, è chiamato a fare l’operatore che si occupa di adolescenti di questo tipo, è capire le motivazioni sottostanti e soprattutto, in termini prognostici, comprendere che genere di progetto può essere funzionale al ragazzo (messa alla prova? Detenzione?).

Un peso e una valutazione non da poco, che questo bel testo cerca di rendere più chiaro possibile.

 

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  • Maggiolini, A. (2014). Senza paura, senza pietà. Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE

In rete o nella rete? Accompagnare gli adolescenti ad un uso responsabile di internet

 

 

giovani e internet © contrastwerkstatt - Fotolia.comRisulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

Internet risulta oggi il principale mezzo di comunicazione di massa, nelle vite sia degli adulti che dei ragazzi. L’avvento di internet e il suo utilizzo, che al giorno d’oggi spazia dall’ambito lavorativo a quello scolastico per arrivare a quello ludico-ricreativo, rappresenta una delle principali rivoluzioni dal punto di vista delle comunicazioni e quindi delle relazioni umane, costituendo una importante sfida dal punto di vista educativo nella relazione tra adulti e adolescenti.

Dal momento che comunicare è sempre e da sempre un bisogno essenziale degli esseri umani, anche i mezzi e i modi attraverso cui le persone intraprendono, costruiscono e mantengono scambi comunicativi si evolvono nel tempo.

Le comunicazioni mediate da internet hanno definitivamente interrotto la dicotomia tra comunicazione scritta e comunicazione orale, consentendo scambi interattivi scritti ma al tempo stesso diretti ed immediati come quelli orali, come avviene tramite chat, post sui social network, e-mail e messaggistica istantanea. Si tende quindi a parlare di oralità scritta (Pozzi e Toscani, 2008), intendendo una forma di comunicazione, rivoluzionaria e innovativa, che abbraccia contemporaneamente la struttura della comunicazione scritta e l’immediatezza della comunicazione orale, costruendo quindi nuovi linguaggi, nuove grammatiche e nuovi codici di comunicazione tra persone.

Un’altra essenziale trasformazione che internet ha portato nelle vite delle persone, è che, per la prima volta nella storia dell’uomo, le nuove generazioni padroneggiano questi strumenti e linguaggi con esperienza maggiore rispetto alle generazioni che le hanno precedute. Dal punto di vista educativo e pedagogico, questo dato di fatto rappresenta un’enorme e difficile sfida da affrontare, in quanto i nativi digitali (Prensky, 2001) sono ritenuti madrelingua dei linguaggi virtuali e multimediali mentre gli adulti risultano “immigrati digitali”, con lacune di apprendimento e di trasmissione dei codici stessi.

Emerge in modo sempre più evidente un gap generazionale e, soprattutto nei due contesti educativi per eccellenza (scuola e famiglia), si osserva la convivenza di più generazioni culturali, nate e cresciute con strumenti e linguaggi di comunicazione diversi, spesso in difficoltà nel costruire e condividere valori, norme, regole e identità.

Rimane quindi da chiedersi e, soprattutto, invitare gli adolescenti a chiedersi: quali sono le reali opportunità e punti di forza delle nuove tecnologie? Quali sono invece i rischi e le criticità di questi strumenti?

Se, da una parte gli adolescenti sono abbastanza sicuri nell’evidenziare le potenzialità della rete (divertimento, approfondimento di interessi e passioni, sviluppo della conoscenza e della creatività, contatto diretto e immediato con i pari, facilità e immediatezza dell’utilizzo), dall’altra appaiono spesso carenti di informazioni, ma soprattutto di consapevolezze, in merito alle criticità e ai rischi oggettivi (Couyoumdjian et al., 2006; Lancini, 2009).:

  • In rete, infatti, viene messo a rischio il contatto con Sé stessi, in quanto la dimensione corporea e del “faccia a faccia” è negata, mettendo a rischio le capacità e le competenze socio-relazionali dei ragazzi;
  • Inoltre, gli adolescenti vivono una forte pressione, da parte dei pari ma anche più in generale dalla società dei consumi (Bauman, 1999) all’omologazione e al possesso di strumenti sempre nuovi con ricadute importanti a livello della stima di Sé; spesso, e questi gli adolescenti lo riconoscono apertamente, si prova una forte fatica a tollerare la frustrazione di non avere il cellulare o la consolle uguale a quella dei compagni oppure di non ricevere in maniera immediata risposte a messaggi e chat.
  • Infine, l’utilizzo della rete da parte degli adolescenti manca di controllo, che, quando non può arrivare dall’interno, deve o dovrebbe giungere dall’esterno, da parte degli adulti di riferimento. E’ proprio nel mondo fluido, immenso e incontrollabile della rete che spesso gli adolescenti entrano in contatto con contenuti non adeguati alla loro giovane e fragile età, oppure, approfittando dello schermo del pc, che è al tempo stesso protezione e maschera, attivano modalità di comunicazione aggressive, denigratorie o prepotenti nei confronti dei pari.

Risulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

E’ essenziale avvicinare gli adolescenti al concetto di intimità, un valore importante che ci riporta alla consapevolezza della riservatezza di alcune informazioni private e personali per le quali è necessario un atteggiamento di grande attenzione e protezione, in quanto una volta immesse nell’universo virtuale non è più possibile cancellarle né avere pieno controllo del loro utilizzo da parte di altri utenti (Rivoltella, 2001).

E’ importante quindi ricordare alcuni semplici ma essenziali consigli di buona navigazione agli adolescenti (e anche agli adulti):

  • Mai comunicare o condividere informazioni personali, password oppure dettagli relativi alla propria famiglia e alla propria residenza;
  • Prestare attenzione alle impostazioni di privacy dei social network, dei blog e dei servizi di chat;
  • Ricordare che virtuale non fa rima con legale; alcuni comportamenti sono scorretti, per non dire illegali, offline così come online e non devono quindi essere messi in atto. L’atteggiamento di correttezza e rispetto favorisce un utilizzo responsabile della rete e una consapevolezza della propria cybercittadinanza;
  • Coltivare interessi paralleli, affiancando alle nuove tecnologie, gli interessi e le passioni fuori dalla rete;
  • Ricordare l’importanza della comunicazione interpersonale e del “faccia a faccia”, sia nei rapporti alla pari che nella relazione con gli adulti;

Richiedere l’ascolto e il sostegno da parte degli adulti non solo per tutelare la propria immagine e riservatezza sulla rete, ma anche e soprattutto per avere maggiori strumenti di gestione delle emozioni e legate all’uso delle tecnologie.

 

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Adolescenti internet 300 - Immagine:  © Romario Ien - Fotolia.comI ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

I miei amici, ormai tutti –ahimè- abbondantemente oltre gli anta, e quelli che incontro per motivi professionali, dichiarano, spesso, la loro impotenza nei confronti di figli che sembrano preferire l’hashtag all’associazione in parrocchia, la Play al calcetto, What’s app alla chiacchiera da bar.

E attribuiscono il disimpegno e il menefreghismo dei ragazzi (tutti: preadolescenti, adolescenti e giovani adulti), e la scarsa comunicazione tra loro e con gli adulti, soprattutto alla massiva frequentazione degli ambienti virtuali delineati da internet e dintorni.

Di primo acchitto sembra uno di quei moralistici mantra generazionali che hanno riguardato di volta in volta la musica rock, i jeans, la rivoluzione sessuale, i manga giapponesi…

Ma, cercando di scremare il bambino dall’acqua sporca, devo prendere per buone alcune percezioni relative a questi tempi complessi. Vedo anch’io adolescenti e giovani adulti isolati, evitanti rispetto alle difficoltà,  che non fanno sport, disinteressati alla politica, con ridotti consumi culturali –anche in presenza di lauree e master-, esibita crassa ignoranza per la storia del proprio paese.

Talvolta percepisco un vivere povero, di superficie, scarsamente impegnato e partecipato, privo di orizzonti che eccedano di un po’ il proprio ombelico… “Sono gli sdraiati, i figli adolescenti, i figli già ragazzi” (Serra, 2013). Per fortuna è una bieca generalizzazione, ma dando questa tendenza per vera, il colpevole è internet?

Butto lì due dati.

Primo. Le nuove generazioni, anche quelle del passato, non sono specializzate in innovazioni e salti in avanti, ma sono sismografi molto sensibili dell’esistente: colgono cioè quello che viene loro consegnato e anticipano le tendenze.

Secondo. I valori e le etiche non sono in contrasto ma, di solito, abbastanza in continuità con quelle del contesto (Meeus e Crocetti, 2009).

Dando per buoni questi dati, i valori e i comportamenti dei nostri figli sono una reinterpretazione di roba che è già nel mondo adulto e precorre il domani. E d’altra parte, se le tendenze sono quelle figurate nei nostri reality, Homer Simpson è alla porta. Il mondo adulto non è migliore di quello giovanile. Anzi.

John Medina (Medina, 2010) spiazzava i genitori che andavano da lui per lamentare le difficoltà dei figli chiedendo il report personale degli amici frequentati e degli scambi di visite, della frequenza ad associazioni e gruppi di volontariato, di hobby e sport. Come dire: i ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

E i nuovi media, come il televisore per gli anziani, sono, contemporaneamente, straordinarie opportunità di incontro e conoscenza, e facili riempitivi di vuoti; sostituti virtuali di comunità  inesistenti –o distratte-. Inutile lamentarsene: il nostro è un mondo bello, pieno di opportunità e potenzialità. Ma anche, e questo vale per qualunque età, competitivo, difficile, mutevole, con scarsa trasmissione di valori strutturati, con comunità frammentate e fluide…  Con proposte educative e modelli adulti  non sempre all’altezza della complessità e velocità delle nostre società, specie di quelle proprie del mondo occidentale.

Sommessamente: se vogliamo giovani impegnati e combattivi, ricchi di amore per la bellezza, rispettosi dei valori relazionali e comunitari, coltiviamo in tal senso le nostre esistenze adulte. Vivremo meglio e i ragazzi -forse- ci seguiranno.

 

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Giacomo De Caterina. Medico chirurgo, iscritto all’Ordine dei medici di Napoli n.22027. Psichiatra; Psicoterapeuta. Specialista in neurologia; Master in Disturbi del comportamento alimentare

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Come funziona l’ansia sociale nelle relazioni romantiche e sentimentali? In che modo può impattare sulla soddisfazione e sul livello di intimità di una relazione?

L’ansia sociale è da considerarsi un continuum nella popolazione, al cui estremo ritroviamo il disturbo vero e proprio (fobia sociale o in inglese social anxiety disorder (SAD)(Ruscio, 2010). Sia il disturbo vero e proprio che elevati livelli di ansia sociale sono chiaramente associati con difficoltà di funzionamento nelle relazioni interpersonali: gli ansiosi sociali hanno reti sociali più ristrette (Torgrud et al., 2004) ed è meno probabile che si sposino o convivano (Schneier, Johnson, Hornig, Liebowitz, & Weissman, 1992). Anche se è chiaro che l’ansia sociale non facilita le relazioni, poco si sa rispetto alla qualità delle relazioni sentimentali che si instaurano nel momento in cui si instaurano. L’obiettivo di un nuovo studio pubblicato sul Journal of Clinical Psychology è quello di indagare se l’ansia sociale possa variare con la soddisfazione di coppia, il supporto  e l’intimità nelle relazioni sentimentali. Circa 80 coppie eterosessuali di studenti sono state coinvolte nello studio completando, da parte di entrambi i partner , dei questionari self-report. Tra le misure utilizzate vi sono la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS) (Mattick & Clarke, 1998), la Relationship Assessment Scale (RAS) (Hendrick, 1988)e altre scale che misurano l’intimità e a percezione di supporto ricevuto e dato all’interno della coppia.

I risultati dimostrano che elevati livelli di ansia sociale nelle donne, ma non negli uomini, sarebbero associati alla percezione di minore supporto, e cioè la percezione del supporto ricevuto dal partner e la percezione di dare al partner supporto sarebbero inferiori in relazione a punteggi elevati di ansia sociale, ma solo nel genere femminile. Inoltre sempre solo le donne con maggiore ansia sociale riportavano una minore soddisfazione nelle relazioni romantiche con una minore quota di self-disclosure nei confronti del partner. Mentre in entrambi i generi, sia per gli uomini che per le donne, un’elevata ansia sociale è correlata a una percezione di intimità come maggiormente rischiosa, cioè si crede che avvicinarsi emotivamente e intimamente agli altri può essere pericoloso e avere conseguenze negative (Pilkington & Richardson, 1988).

Dunque lo studio supporta empiricamente l’idea che l’ansia sociale sia una difficoltà interpersonale  così rilevante da entrare in gioco in qualche misura anche  nella qualità delle relazioni sentimentali.

 

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Bluffare a poker contro Paul Ekman: missione impossibile?

Giochereste mai a poker contro Paul Ekman, il più grande esperto mondiale nel riconoscere le menzogne?

Nel gioco del poker si può vincere senza bluffare, ma non si può vincere se non si è in grado di riconoscere un bluff, ecco perché essere in grado di capire se un giocatore sta mentendo o meno è un fattore determinante per l’esito della partita, nonché dote indispensabile per diventare un campione di poker.

Quindi i grandi pokeristi sono degli abili lie detector? Niente affatto! Se non sono seduti al tavolo verde, se la cavano né più né meno della stragrande maggioranza delle persone: la loro performance nell’identificare una menzogna non è migliore che se tirassero ad indovinare!

Come Paul Ekman insegna, per poter capire se una persona sta mentendo è necessario saper riconoscere le micro e le mini espressioni facciali, i gesti fuori posto, i cambiamenti nel tono della voce, ecc. Sono questi i segni rivelatori su cui ci si basa per poter identificare una bugia.

Ma questi segni non emergono in una partita di poker, dove i giocatori non proferiscono parola, hanno il volto impassibile, parzialmente coperto da grandi occhiali scuri, indossano felpe con il cappuccio, e gli unici gesti concessi riguardano il movimento delle carte. I pokeristi per riconoscere un bluff non si basano sui classici segni rivelatori, ma in questo gioco silenzioso che è il poker sono abilissimi nell’interpretare un particolare limitato ventaglio di movimenti per scoprire un bluff.

Come facciano resta ancora un mistero, anche per Paul Ekman.

 

Spotting Poker BluffsConsigliato dalla Redazione

Two winners of the International Poker Tournament, in different years, sought my advice on calling bluffs, knowing that I am an expert in spotting liars. I told them I had not played poker since junior high and had never watched poker being played. T… (…)

 

Se volete approfondire le riflessioni di Paul Ekman sull’arte del bluff a poker, ecco il suo articolo pubblicato recentemente sull’Huffington Post: … Continua  >>

 


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Psicoterapia Sistemico – Relazionale: Intervista con Valeria Ugazio

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Valeria Ugazio

Professoressa Ordinaria all’Università di Bergamo

 

State of Mind intervista Valeria Ugazio, Psicologa Psicoterapeuta, Professoressa Ordinaria di Psicologia Clinica presso l’Università di Bergamo, Direttrice e Fondatrice della Scuola di Specializzazione EIST. 

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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VEDI IL PROFILO DI VALERIA UGAZIO

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Il Delirio di Ivan: Psicopatologia dei fratelli Karamazov – Psicologia & Letteratura

 Anna Angelillo  

 

 

Psicopatologia dei fratelli Karamazov - RecensioneÈ un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Proviamo ad immaginare, in un gioco di finzione, uno dei maggiori romanzieri di tutti i tempi che accompagna dallo psicoterapeuta tre dei suoi figli di penna. Quello che ci verrà consegnato alla fine di questo incontro sarà un libricino candido e minuto, firmato da uno dei maggiori psicoterapeuti italiani, Antonio Semerari, che racchiude un’analisi accurata e illuminante della psicologia (o meglio, della psicopatologia) dei tre pazienti dostoevskijani che si sono succeduti sulla sua poltrona: Dmitrij, Aleksej e Ivan, più famosi e noti come i fratelli Karamazòv.

Il delirio di Ivan è un invito a nozze per gli psicologi che amano la letteratura e uno stimolo intellettuale per i profani che hanno però da sempre amato il talento di Fëdor Dostoevskij nel dare vita a personaggi perfetti e coerenti dal punto di vista psichico, a tal punto da sembrare reali.

L’autore si propone di trattare le creazioni dello scrittore come se fossero realmente esistite, e quindi di analizzare le anime in scena, presentandone la psiche che, come avviene nella realtà, ha preso forma dalle vicende drammatiche e non che hanno visto susseguirsi nel corso della loro vita.

Alla luce dell’approccio clinico dello psicoterapeuta in gioco, gli strumenti utilizzati nella descrizione della loro personalità e dei disturbi saranno tratti dall’attuale psicologia dello sviluppo e dagli studi recenti sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione, come precisato dall’autore nell’introduzione.

E il tentativo sarà quello di proiettare sulla famiglia Karamazòv le conoscenze attuali sugli sviluppi traumatici della personalità (concetto introdotto da altri due noti psichiatri italiani, Giovanni Liotti e Benedetto Farina, e preso in prestito dall’autore), provando a dare un ordine al caos (che alla fine del trattato si dimostrerà essere solo apparente), in cui lo scrittore russo pone i suoi personaggi.

L’intento è quello di mostrare come, in fase di sviluppo, un contatto prolungato con condizioni traumatiche, abbandoni o continui cambiamenti di figure di attaccamento ed estesi momenti di neglect possano avere un effetto disgregante sul senso di identità che si strutturerà, anche in base ai tratti temperamentali e alle disposizioni innate che ciascuno sfodererà nel reagire a tali vicissitudini traumatiche.

Dopo una breve e chiara presentazione della teoria in pillole dei disturbi della coscienza e del loro rapporto coi traumi psicologici, il clinico-autore va quindi ad esporre il contesto familiare in cui si muovono i Karamazòv, collocando sullo sfondo un padre disinteressato e trascurante e poi, pennellata dopo pennellata, dà forma all’animo dei tre fratelli: ne ricostruisce, ripercorrendo i capitoli del romanzo, la storia, ci consegna informazioni sugli aspetti temperamentali e le modalità di reazione a quello che la vita romanzesca ha offerto loro e poi ci mostra come si delinea un itinerario di sviluppo – differente per ognuno – che trova appoggio (e quasi conferma – a sottolineare la bravura dello scrittore russo) nelle vicende tracciate da Dostoevskij.

Nelle conclusioni, infatti, si può leggere:

Posti di fronte ad un male che sovrasta la loro capacità di reazione, accade a questi personaggi quello che accade alla maggioranza degli esseri umani: la loro capacità di discriminare con chiarezza tra gli eventi del mondo interiore e la realtà esterna si indebolisce e la loro identità perde di coesione. A tutto questo reagiscono in modi molto diversi l’uno dall’altro, modi coerenti con l’indole e il temperamento di ciascuno, ognuno dei quali, però, rientra così tanto nell’infinità varietà delle reazioni umane da essere oggetto di indagine da parte degli studiosi della psiche.

(pag. 119).

Richiudendo il libro di Semerari, si avrà la sensazione che ogni cosa sia andata al suo posto e che ciascuna anima girovagante tra quelle pagine abbia trovato un suo senso e una sua coerenza.

È un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Il contributo dello psichiatra romano restituisce, senza dubbio, ancor più spessore ad un estremo esempio di grandezza letteraria, quale è l’opera dostoevskijana.

 

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Combattere la perdita di memoria con una risata

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione.

Troppo stress con l’avanzare dell’età può portare a una serie di problemi di salute, tra cui l’ipertensione, il diabete e le malattie cardiache. Recenti ricerche hanno dimostrato che il cortisolo, l’ormone dello stress, è in grado di danneggiare i neuroni nell’ippocampo e influenzare negativamente la memoria e l’apprendimento negli anziani . I ricercatori della Loma Linda University hanno scoperto che umorismo e sorrisi aiutano a ridurre i danni creati dal cortisolo.

 Due gruppi di anziani, sani e con il diabete, hanno guardato per 20 minuti un video divertente e poi hanno eseguito dei compiti per valutare capacità di apprendimento, rievocazione e riconoscimento visivo. La loro performance è stata confrontata con un gruppo di controllo che è stato testato nelle abilità cognitive ma che non ha visto il video umoristico.
I risultati, presentati recentemente all’Experimental Biology Meeting di San Diego, indicano nei due gruppi sperimentali una significativa diminuzione delle concentrazioni di cortisolo e un incremento nei punteggi di memoria rispetto al gruppo di controllo; in particolare nei diabetici si è osservata una drastica variazione del livello di cortisolo, mentre per gli anziani sani i cambiamenti più significativi sono stati nei punteggi dei test di memoria.

Lee Berk, da lungo tempo ricercatore in psiconeuroimmunologia dell’umorismo, dice:

“Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo; ridere aumenta il rilascio di endorfine e dopamina nel cervello, che forniscono un senso di piacere e di ricompensa. Questi cambiamenti neurochimici positivi a loro volta migliorano la funzione del sistema immunitario. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione. La risata, insomma, non è solo un buona medicina, ma anche un potenziatore della memoria che migliora la qualità della vita”.

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