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Un Alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera – CIM Nr.09 Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #09

Non vorrei rapporti con me stesso

 

 

– Leggi l’introduzione –

Non voglio rapporti con me stesso. - Immagine: ©-rolffimages-Fotolia.comAl CIM su ogni paziente grave si concentrano gli sforzi di molti operatori, anche se fatalmente è uno ad essere il principale care giver, colui che tiene in mente il paziente e le fila dei vari interventi per scongiurare la confusione.

Pur non essendo la prima ad averlo visto, la curatrice di Paolo era indubbiamente la dottoressa Maria Filata, la psicologa che più amava addentrarsi nei rompicapi dei casi più gravi, quella che veniva chiamata quando gli altri sentenziavano che non c’era nulla da fare se non i farmaci.

Lei non ci voleva stare che i suoi quindici anni di studi psicologici dovessero solo servire ad aumentare la compliance del paziente alla terapia farmacologica.

Paolo è un ragazzo (a lungo si chiederà perché lo percepisce come ragazzo,  considerato che a quell’età lei aveva due figli, ma tanto basterà a farle attivare l’accudimento) di trent’anni, con almeno 15 kg di troppo, vestito da prima comunione, capelli neri lisci ordinati con una riga a sinistra che Maria credeva estinta da almeno due generazioni, occhi sorpresi a scrutare un mondo che lo confonde, sorriso cordiale, simpatico.

Gli è stato inviato dal Dr. Irati che gli ha prescritto neurolettici a basso dosaggio.

Sa cosa sia una psicoterapia ed è molto motivato a capire cosa gli stia capitando.

Dice di sentirsi perfettamente rappresentato da una canzone di Battiato che parla di “un alieno che non vola e vive ai margini di una vita vera”.

Se non si fosse trovato di fronte la dottoressa Filata, che diffida delle categorie diagnostiche, sarebbe bastata questa citazione per ritrovarsi rinchiuso nel recinto degli evitanti. Dice di essere confuso e disorientato, la mente è avvolta da ovatta che la protegge dagli urti, ma la ottunde. Tra lui e gli altri un velo, un vetro, insomma una insuperabile separazione. Estraneo agli altri, anche da solo non sta in buona compagnia, ha l’angosciante sensazione di un andirivieni della consapevolezza, ripetuti black out dell’attenzione rendono frammentato il colloquio e spesso gli altri si spazientiscono per il suo esserci e andarsene.

Non certo Maria Filata che, anzi, è già conquistata dal ragazzo trentenne smarritosi nel mondo.

Nelle assenze è tormentato da tic complessi. Il principio aristotelico di non contraddizione non lo riguarda, a distanza di pochi minuti ribalta precedenti affermazioni e non mostra di avvedersene.

Personalità multipla? Deficit cognitivo? A distanza di poco, però, è capace di insight meritori della psicoanalisi viennese di inizio novecento.

In uno di questi momenti di lucidità introspettiva propone la sua spiegazione patogenetica, riferendosi a due episodi all’origine di tutto verificatisi sette anni prima.

Il primo episodio lo vede tradire il suo migliore amico mettendosi di nascosto con la sua ragazza. Sussiste anche l’aggravante dei futili motivi perché non era tanto interessato a lei ma, soprattutto voleva liberarsi di un’ ingombrante vergognosa verginità (a Maria non sembra un motivo futile ma tiene per sé il commento).

Nel secondo episodio abbandona il suo cane, che aveva fortemente voluto, in campagna da parenti della madre.

Di nuovo il demonietto diagnostico si fa avanti, il  tema ridondante è quello del tradimento e della colpa, potrebbe trattarsi di ossessioni e le discontinuità dovute ad un intenso rimuginio compulsivo. 

Paolo conferma che due anni prima trascorreva giornata intere a letto in preda all’ansia, a rimuginare su questi tradimenti e non vedeva più nessuno sentendosi indegno: esce solo per andare a giocare al bingo ed in una di queste occasioni si blocca per strada, è immobile e assente. 

Catatonico e dunque senza dubbio schizofrenico, conclude soddisfatto il demonietto semplificatorio.

Lo ricoverano a Villa della Quiete ed iniziano i tentativi farmacologici per fare diagnosi “ex adiuvantibus”, come è scritto sulla cartella.

Maria sa di cosa si tratti: di fatto si provano vari farmaci senza avere una diagnosi poi, se uno fa un po’ di effetto, si stabilisce che il paziente ha proprio la malattia per cui quel farmaco è efficace.

A far attenzione si possono udire i colpi delle testate di Popper sul coperchio della bara.

Maria ha deciso che, quando Irati le farà le sue tirate sul maggior rigore scientifico della medicina rispetto alla psicologia, gli darà una testata sul naso aquilino.

Rassicurata dalla raffazzonaggine della medicina decide di dare ascolto alle sue sensazioni.

L’impressione generale che ha è di trovarsi di fronte ad una persona che ha subito un trauma e che, per recuperare un minimo controllo emotivo, si autoinduce brevi dissociazioni, trance, per anestetizzare il possibile dolore del ricordo emergente. 

L’ipotesi nascente di un disturbo dello spettro dissociativo, che placa le ansie del signore infernale delle classificazioni, è sostenuta dalla presenza di sintomi psicosomatici, cefalee e coliche intestinali “sine causa”, abbondante uso di sostanze prima dei 18 anni ed esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione,  causa dei blocchi motori che lo hanno condotto al ricovero. 

La ricostruzione della storia di vita diventa ancora più importante e con il consenso di Paolo si decide di coinvolgere in alcuni incontri anche la madre.

L’impressione è di scoperchiare un termitaio pullulante di segreti dove è facile perdersi e protettivo confondersi.

Non c’è bisogno di prolungata ricerca per scoprire il trauma motivo della dissociazione, forse il più grave è seduto lì proprio a fianco a Paolo.

La madre è una donna spigolosa nell’aspetto, il viso sovrastato da un caschetto nero mostra solo angoli acuti.

Nei confronti del  figlio è critica e disprezzante. Pur impegnata nella conversazione con la dottoressa trova il tempo per ricordare al figlio che “puzza”, “è un assoluto cretino”, “con quella faccia non andrà da nessuna parte”, insomma supportiva e incoraggiante. La Filata esercita tutta la disciplina interiore di cui è capace, si dice che anche lei è certamente una persona sofferente, da capire e aiutare e che quello  è certamente il modo di fare migliore che ha trovato per sopravvivere. Il solito demonietto nosografico le propone sottovoce narci…, border…. ma lei lo mette a tacere definitivamente, sentenziando “stronza e cattiva” in comorbilità.

I genitori di Paolo erano entrambi divorziati quando si sono conosciuti già molto adulti.

Lei aveva già un figlio, ora sposato e padre a sua volta.

Il padre ha avuto 4 figli di cui uno morto per droga, forse sparato per questioni di spaccio ma tutto è avvolto dal segreto. Della esistenza di tutti questi fratelli molto più grandi di lui Paolo viene a conoscenza solo a 17 anni, invece  non ha mai saputo che lavoro facesse il padre che sembra gestire traffici loschi.

I segreti si infittiscono ulteriormente: presenza quotidiana nella loro casa di uno zio che zio però non è.

Mario è un vecchio collega di lavoro della madre, di lei innamorato sin dal liceo. Si è sempre occupato di questi “nipoti”, il primo figlio della donna e Paolo con soldi, regali di ogni genere, viaggi.

Le ipotesi che si susseguono in testa di Maria sono due: Mario è il vero padre dei ragazzi e lo proverebbe la sua dedizione a loro, oppure  Mario è un pedofilo che si è insinuato nella loro famiglia.

A sostegno della seconda ipotesi Paolo dice testualmente: “quando ero ricoverato lo cacciavo, avevo la sensazione che mi avesse fatto del male, mi ha rovinato con dei suoi comportamenti che non capivo o se ho capito ho dimenticato”.

(le parole di Paolo sembrano un protocollo programmatico della dissociazione da trauma).

La madre descrive Mario come un uomo depresso e cattivo, tossicodipendente e grosso spacciatore che si è sempre insinuato nelle sue due famiglie grazie al potere dei suoi soldi. 

La confusione contagia anche Maria che inizia a sperimentare gli stessi vissuti di Paolo.

Per non perdersi cerca di far chiarezza chiedendo perché abbia affidato i figli ad un uomo di cui parla così male e la madre, prima risponde che non può dirglielo (ciò resuscita la primigenia ipotesi che sia il padre vero), poi che i figli avevano bisogno di una figura maschile forte perché entrambi i padri sono dei falliti senza palle infine, cimentandosi anche lei in una dissociazione da manuale, cambia discorso e riferisce che uno psicoanalista cui chiese perché non le piacevano i luna park e il circo sentenziò che lei negava la maternità… e conclude con un gesto d’intesa dicendo a Maria “ci siamo capite vero dottoressa?”.

Paolo presente alla conversazioni è travolto dai tic e completamente assente, se ne è mentalmente andato come avrebbe fatto volentieri la stessa dottoressa Filata, ora però davvero convinta di quanto la madre stia male.

Il padre attualmente 82enne ha un’idea primitiva del maschile e della virilità. Regole di vita trasmesse a Paolo sono sintetizzabili in “le donne sono tutte mignotte”, “ogni lasciata è persa” “il valore di un uomo si misura dal suo pisello”, “meglio un figlio morto che un figlio frocio”.

Maria si era accorta da tempo che il tema della sessualità era per Paolo scivoloso, da un lato intrattiene idee grandiose quasi deliranti in linea con le attese paterne per cui pensa che tutte le donne lo desiderino sessualmente e lui se le farebbe tutte, cui seguono comportamenti goffamente seduttivi, dall’altro ammette a mezza bocca di non avere forti spinte erotiche verso le donne mentre ne prova di intense e inconfessabili verso i maschi.

Lo sforzo che Maria Filata chiede a tutti alla riunione clinica generale è di mettersi nei panni di Paolo per cercare insieme di capirlo meglio prima di risolvere il problema diagnostico e farmacologico.

Come poteva sentirsi un bambino allegro ed estroverso che, diventato  ragazzino adolescente in cerca della sua identità magari pure con dei dubbi, si trova in una famiglia in cui regna il non detto, l’inganno ed  è esaltata la forza e una virilità da spogliatoio e da caserma e dove ogni insicurezza è squalificata, negata o derisa?

Maria riporta testualmente una frase “la verità è che io non voglio più avere rapporti con me stesso” che riassume il vissuto di Paolo.

Irati sostiene che in ciò trova spiegazione la dissociazione come modo per non stare con se stesso.

Certamente è dissociata la parte omosessuale che sarebbe compito della psicoterapia esplorare e portare alla luce.

Silvia e Giovanni da assistenti sociali rivendicano una visione più complessa e meno intrapsichica del caso e sottolineano come si sappia poco del percorso scolastico e lavorativo di Paolo.

Sulla stessa linea intervengono Luisa e Maria lamentando la mancanza, almeno nel resoconto della dottoressa Filata, di un bilancio delle risorse di Paolo, strumento indispensabile per elaborare un progetto.

Come sempre decisa e priva di qualsiasi dubbio, la dottoressa Mattiacci propende per un immediato allontanamento di Paolo da casa con  un ricovero in una comunità terapeutica. Sostiene la necessità di un netto viraggio farmacologico verso i neurolettici, ma gli altri medici presenti storcono la bocca (il che avviene regolarmente quando uno dei tre si esprime su qualsiasi cosa).

La Filata integra il suo resoconto riferendo che, dopo scuole secondarie a carattere tecnico, Paolo ha svolto vari lavori sempre interrotti per mancanza di continuità nell’impegno, anche per l’abuso continuo di sostanze che faceva all’epoca e che oggi è contenuto.

Biagioli invita tutti per la settimana successiva ad un brainstorming su possibili interventi terapeutici che possibilmente utilizzino come punti di forza le naturali tendenze di Paolo, con lo spirito di assecondare l’onda sfruttandone la forza piuttosto che contrastarla.

Raccolte tutte le proposte, la dottoressa Filata le organizzerà in un progetto unitario che negozierà con Paolo e insieme presenteranno ai genitori che hanno da due mesi lasciato il gruppo di sostegno per familiari.

All’inizio della riunione successiva Biagioli esorta ad evitare il cosiddetto “tiro al piccione,” consistente nel mettere in atto tutta la propria intelligenza per evidenziare i difetti di qualsiasi proposta con il risultato di abbatterle tutte perché nessuna è perfetta e rimanere con un cielo privo di volatili. Non si tratta di un concorso a premi non ci sarà un’ idea vincente, ma un collage di idee che si supporteranno a vicenda. Con tono stentoreo, che scatena scomposta ilarità, afferma che o si vince insieme o si perde insieme e soprattutto che a vincere deve essere Paolo. Su questo proclama garibaldino tipo “o Roma o morte” si consumano gli ultimi caffè della colazione e si parte con le idee più bizzarre.

Irati ribadisce che, asse portante dell’intervento deve essere la psicoterapia individuale, con l’obiettivo di emanciparsi dalla famiglia esplorandone i numerosi segreti e  l’accettazione della propria omosessualità negata.

Silvia e Giovanni concordano con Lina sull’opportunità di un allontanamento dal patogeno nucleo familiare, ma sono nettamente contrari ad un ricovero in Comunità, ritenendo anzi che una caratteristica generale dell’intervento debba essere proprio la riduzione della psichiatrizzazione del caso con lo stigma che comporta, contribuendo a farlo sentire “un alieno che non vola”.

A loro avviso bisogna pensare ad un alloggio diverso anche chiedendo esplicitamente risorse ai genitori che si erano detti disponibili per una terapia privata.

Gli assistenti sociali ribadiscono poi che non c’è vera autonomia senza indipendenza economica (i soliti marxisti) e dunque la ricerca di formazione e di un lavoro è al primo posto della loro agenda.

Considerata l’abitudine di Paolo a vivere nella menzogna e a dissociarsi hanno pensato alla cooperativa “La maschera” che fa teatro a livello amatoriale e fornisce anche servizi a compagnie professionistiche.

Dal canto suo Biagioli propone un progressivo wash out da tutti i farmaci.

La Mattiacci lo incenerisce con uno sguardo di traverso e lui  si corregge dicendo che avrebbe lo scopo di vedere il quadro clinico allo stato puro per poter meglio fare diagnosi.

Gilda si offre di inserire Paolo in un corso di yoga che lei frequenta in modo da insegnargli tecniche di rilassamento che possano supplire all’eliminazione delle benzodiazepine.

La formazione sistemica della dottoressa Ficca emerge nel proporre un intervento terapeutico vero e proprio per la coppia dei genitori che sono anch’essi estremamente sofferenti e non pronti ad affrontare il distacco di Paolo.

L’incontro della dottoressa Filata con Paolo, che era previsto per il martedì successivo fu disdetto da Paolo per la prima volta: telefonò per chiedere di spostarlo di una settimana.

Lei si consultò con Biagioli e ipotizzarono che fosse un drop out motivato dall’intuizione di Paolo che  lo si volesse allontanare dalla famiglia.

Invece era solo il funerale di Mario, che un’auto aveva travolto proprio sotto casa (casusalmente o intenzionalmente sarà compito del magistrato stabilire).

Maria e Paolo al di là delle condoglianze di rito si scambiarono uno sguardo che intendeva “finalmente si inizia a far ordine”. La realizzazione dei vari progetti immaginati per Paolo fu facilitata da un lascito testamentario di Mario per Paolo di parecchi soldi.

Paolo andò a vivere per proprio conto in affitto e due anni dopo ereditò alcuni immobili per la morte del padre. Progressivamente, l’unico legame che restò con il CIM fu la psicoterapia con la dottoressa Filata, gli altri interventi furono progressivamente abbandonati tranne la cooperativa teatrale che divenne il suo hobby preferito.

Non ebbe mai  un lavoro stabile, viveva di numerose rendite immobiliari, si limitava all’uso moderato di canne e aveva saltuari compagni con i quali si sentiva meno alieno.

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

 

 

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Psicoterapia: Intervista a Franco Del Corno – I Grandi Clinici Italiani

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Franco Del Corno

Psicologo Psicoterapeuta, Presidente di SPR Italia

 

State of Mind intervista Franco Del Corno, Psicologo e Psicoterapeuta. Co-Fondatore dell’Associazione e la Ricerca in Psicologia ARP, Presidente di SPR, Society for Psychotherapy Research Italy Area group. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

VEDI IL PROFILO DI: Franco Del Corno 

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Alle radici della malattia di Parkinson

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un recente studio condotto dai ricercatori della Johns Hopkins su neuroni umani coltivati in laboratorio e sulle drosophilae ha portato all’identificazione di un processo che concorre ad una particolare condizione della malattia di Parkinson, riscontrata in un gran numero di pazienti.

La possibilità inoltre di intervenire su tale processo sembrerebbe aprire le porte ad una nuova speranza di trattamento.

Infatti, sebbene alcuni farmaci, come la L-dopa, consentano ai pazienti una più facile gestione dei sintomi, il disturbo non può essere arrestato e il peggioramento della malattia porta ad un aumento dei tremori fino all’immobilità e, in alcuni casi, alla demenza.

Il progetto di ricerca coordinato da Ted Dawson, professore di neurologia e direttore del dipartimento di ingegneria cellulare del Johns Hopkins, ha preso avvio dalle scoperte in merito all’origine della malattia di Parkinson, i cui sintomi sono legati alla degenerazione delle cellule nervose responsabili della produzione di dopamina.

Le evidenze circa l’implicazione di fattori genetici nell’origine del disturbo sono apparse una decina di anni fa, quando è stata identificata una mutazione chiave in un enzima conosciuto come leucine-rich-repeat-kinase 2 (LRRK2). È stato Dawson a riconoscere che si trattasse di una chinasi, cioè un tipo di enzima in grado di trasportare gruppi fosfato alle proteine, modulandone la loro attivazione o disattivazione.

Nonostante nel corso degli anni diversi studi abbiano mostrato che il blocco dell’attività dell’enzima mutato arrestasse la degenerazione neurale mentre un suo aumento ne provocasse un peggioramento, per circa un decennio gli scienziati non sono riusciti a capire quale fosse il legame tra la mutazione di LRRK2 e la malattia di Parkinson.

Lo studio di Dawson mostra un chiaro collegamento tra LRRK2 e i meccanismi patogenetici di questa patologia.

È stato grazie a lui che sono state identificate le proteine coinvolte nel disturbo sulle quali sembrava agire LRRK2. Al tempo, nessuno sospettava che LRRK2 fosse coinvolto in attività fondamentali come la produzione delle proteine.

Le proteine identificate sono poi state sottoposte ad una serie di test per capire quali di queste potessero essere fosforilate da LRRK2.

Studiando inizialmente i risultati della mutazione di tre proteine ribosomiali (s11, s15, s27), il team di Dawson è giunto alla conclusione che una mutazione della proteina s15 bloccasse la fosforilazione di LRRK2 in modo tale da proteggere le cellule nervose dalla morte.

Con la proteina ora identificata, il team di Dawson sta affrontando ulteriori esperimenti per verificare come un eccesso nella produzione della proteina possa causare la degenerazione neuronale. Vogliono inoltre vedere cosa succede bloccando l’azione dell’enzima LRRK2 su s15 nei topi.

 

 

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– FLASH NEWS-

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

Se per una famiglia prendere un cane è una decisione stimolante e allo stesso tempo di responsabilità, nel caso di famiglie con bambini autistici la stessa decisione risulta essere ancora più importante e impegnativa.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Missouri ha indagato se avere un cane all’interno di una famiglia con un bambino autistico comporta dei benefici. Indipendentemente dal possesso di un cane o meno, dalle risposte dei genitori sembrerebbe di si.

Avere un cane, dal punto di vista dei genitori, aiuterebbe a ridurre i livelli di stress all’interno della famiglia, responsabilizzerebbe il comportamento dei propri figli ma soprattutto li aiuterebbe a stare in compagnia.

I bambini con disturbi dello spettro autistico spesso hanno difficoltà nell’interagire con gli altri e di conseguenza nel formare amicizie. Avere ed interagire con un cane significa offrire a loro compagnia ed amore incondizionato senza pregiudizio alcuno, sostiene  Gretchen Carlisle, un ricercatore presso il Centro di Ricerca Interazione Uomo-Animale (ReCHAI) dell’Università di Medicina Veterinaria di Missouri.

Nello studio sono stati intervistati 70 genitori di bambini con autismo. Dei quasi due terzi in possesso di un cane, il 94% ha affermato che i loro figli sono inseparabili dai loro cani. Anche nelle famiglie senza cani, il 70% dei genitori ha affermato che ai loro figli piacciono i cani. I genitori che all’interno della famiglia avevano un cane hanno argomentato la loro scelta alla luce dei benefici percepiti per i loro figli.

Sempre Gretchen Carlisle sostiene che i cani possono aiutare i bambini con autismo, agendo come fattore facilitante all’interno del processo di interazione sociale.

Per esempio, i bambini con autismo possono avere difficoltà ad interagire con gli altri bambini del quartiere. Se i bambini con autismo invitano i loro coetanei a giocare con i loro cani, questi ultimi diventano un ponte comunicativo che consolida le interazioni fra i bambini.

Gli autori raccomandano ai genitori di coinvolgere attivamente i loro figli nella scelta del cane. Tanti bambini con autismo sanno già come preferirebbero il loro cane e se vengono coinvolti attivamente nella decisione si aumenta la probabilità di creare un’esperienza piacevole già dal momento dell’inserimento del nuovo membro della famiglia nella casa.

Sebbene questo studio indaghi esclusivamente i benefici che i cani portano nelle famiglie dei bambini con autismo, gli autori non escludono che gli stessi benefici si abbiano anche nel caso di animali di compagnia diversi dai cani.

I bambini sono unici e ognuno di essi sogna il suo animale di compagnia che può essere un gatto, un coniglio o come nel mio caso da bambina…un cavallo.

Quindi nella scelta dell’animale di compagnia un ruolo fondamentale deve essere attribuito ai propri interessi e alle proprie caratteristiche di personalità.

Se da un lato questa ricerca aggiunge credibilità scientifica ai benefici dati dall’interazione uomo-animale e ci aiuta a capire l’importanza e il ruolo dell’animale di compagnia nel migliorare la vita dei bambini con autismo, dall’altro lato aiuta i professionisti del settore sanitario ad insegnare come e perché indirizzare le famiglie con dei bambini autistici nella scelta dell’animale di compagnia più adatto.

 

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Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi – Report da Firenze 2014

Federico Calemme

 

 

Omogenitorialità & Scuola

Il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi affronta il tema della famiglia del 2014, in una scuola ancora non pronta a due papà o due mamme.

Mai spot con una famiglia gay, sono per la famiglia tradizionale. È il Settembre del 2013 quando Guido Barilla dichiara apertamente di essere contro le famiglie omogenitoriali, promuovendo un assetto familiare eterosessuale composto da padre, madre e uno o due figli.

Una famiglia, quella promossa da Barilla, che si rispecchia nelle rappresentazioni culturali, nelle immagini veicolate dai mass media, e nelle istituzioni di un Paese che ignora la realtà: nel 2014 siamo dinanzi ad una galassia di forme familiari in continuo movimento, in cui compaiono a pieno diritto anche le famiglie omogenitoriali.

Ma l’Italia del 2014 per quanto tempo ancora rimarrà ancorata ad una tradizione ormai tramontata? Per quanto tempo ancora il Bel Paese e le sue istituzioni potranno dire MAI ad una famiglia omogenitoriale?

È attorno a questi quesiti che lo scorso 5 Aprile, nella cornice di una Firenze uggiosa, si è svolto il seminario Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi, promosso dall’Istituto degli Innocenti e da Famiglie Arcobaleno, Associazione Genitori Omosessuali.

Tema centrale è stato il pregiudizio insito nel nostro contesto culturale che, a detta del Dott. Federico Ferrari, uno dei relatori del seminario, ha influenzato per troppo tempo anche le ipotesi di ricerca, ancorandole alle stesse premesse radicate.

Due padri o due madri potrebbero essere bravi genitori? I figli di famiglie omogenitoriali avranno problemi di identificazione sessuale? I figli di coppie gay o lesbiche saranno oggetto di stigma culturale? 40 anni di ricerca hanno dato risposte favorevoli alle famiglie omogenitoriali ma nonostante ciò le domande tornano, come se questa cultura eterocentrica non volesse e non potesse accettare la realtà.

I nuovi quesiti che dovrebbero affacciarsi sullo scenario della ricerca non fanno capo al se ma al COME: Come possono funzionare al meglio i nuclei omogenitoriali? A quali condizioni? Uno dei fattori di rischio più importanti si è rivelato essere l’Omofobia nel contesto scolastico, per cui assistiamo a situazioni di discriminazione nei confronti di figli di coppie LGBT (con una frequenza, secondo alcune ricerche, del 50%), nonostante i dati dicano anche che i figli di famiglie omogenitoriali non soffrano effettivamente più degli altri. Come spiegare questi dati contraddittori? L’elemento chiave, continua Ferrari, sembra essere il dialogo con la scuola, ossia il rapporto tra genitori LGBT, più attenti e competenti rispetto alle situazioni di discriminazione, e istituzione educativa. Un rapporto più trasparente e in cui l’obiettivo primario sembra proprio essere normalizzare le realtà omogenitoriali. La scuola ha gli strumenti per poter compiere questo processo di normalizzazione?

Irene Biemmi, assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Firenze, ha sottolineato come il cambiamento possa e debba partire proprio dal materiale didattico che viene fornito ai bambini all’interno della scuola. Ad oggi infatti nei libri di testo vengono ancora forniti modelli familiari di tradizione eterocentrica, in cui non solo viene meno la realtà omogenitoriale, ma vi è ancora una discriminazione di genere: il padre è il genitore che lavora e che si assenta da casa tutto il giorno, mentre la madre provvede alla casa e ai figli e, quando lavora, al massimo fa la segretaria o la maestra.

È ancora questo il messaggio che vogliamo veicolare ai nostri figli? Come possiamo pretendere che la scuola tenga il passo con la realtà se il modello fornito non corrisponde nemmeno alla generazione di genitori, quanto più a quella dei nonni? Inoltre, continua Giuseppina La Delfa, presidente di Famiglie Arcobaleno, sarebbe importante andare a modificare anche tutti gli aspetti burocratici che sono legati alla scuola in quanto non solo luogo educativo ma vera e propria istituzione, a partire ad esempio dai moduli di iscrizione in cui al posto delle voci padre e madre, sarebbe più corretto un documento con genitore 1, genitore 2.

Piccoli accorgimenti, assieme all’inserimento di tematiche omosessuali nelle attività curriculari, che si muovono verso una missione di integrazione che se in passato ha toccato altri tipi di realtà non tradizionali, come le famiglie extracomunitarie, ora deve dedicarsi alle famiglie composte da due papà o due mamme.

La scuola in quanto specchio e scultrice dell’Italia che sarà, deve essere pronta ad una realtà che sta abbandonando le fila dell’eccezionalità, a favore di una famiglia sganciata dagli orientamenti sessuali e dal genere, in cui la parola tradizionale possa corrispondere semplicemente ad un nucleo familiare armonico e funzionale.

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La Self-Mirroring Therapy: usare i Neuroni Specchio per comprendere se stessi

 

 

 

Neuroni specchio. - Immagine: ©-ktsdesign-Fotolia.comLa SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni e gli stati emotivi degli altri.

La self mirroring therapy ( SMT ), ideata e sviluppata da Piergiuseppe Vinai e Maurizio Speciale, nasce dall’esigenza di trovare un’applicazione psicoterapeutica alle recenti scoperte neurofisiologiche sul sistema dei neuroni specchio.

Se da una lato, infatti, tali scoperte hanno avuto un grande valore esplicativo incominciando a chiarire  i meccanismi  alla base delle  dinamiche emozionali che avvengono durante la relazione  paziente- terapeuta, dall’altro non hanno avuto un altrettanto valore applicativo nel facilitare il processo di cambiamento da parte del paziente.

La SMT  attraverso una particolare tecnica di videoregistrazione della seduta terapeutica, grazie alla quale il  paziente dapprima osserva il filmato di se stesso durante un momento emotivamente significativo (ad esempio mentre rievoca un episodio)  e poi ri-vede se stesso mentre osservava tale filmato,  permette di “sfruttare” verso se stessi (e quindi usarli a fini terapeutici) quei meccanismi  di risonanza empatica, mediati appunto dal sistema dei neuroni specchio, che normalmente usiamo per comprendere in modo intuitivo, automatico  e inconscio le intenzioni  e gli stati emotivi degli altri.

Attraverso tale procedura  il paziente osservandosi  come se fosse un “personaggio” di un film, riconosce le proprie emozioni  non a partire  dalle proprie capacità autoriflessive e introspettive (capacità alquanto limitate nella popolazione clinica in generale e, in particolare, nei pazienti alessitimici) ma dalla visione del proprio comportamento non verbale e, in particolare, dalla propria espressione mimico- facciale.

Inoltre l’osservarsi dall’esterno  facilita una maggior riflessione sui propri stati mentali incrementando cosi’ le proprie capacità metacognitive.

Nel setting, quindi, tale metodologia  “sfrutta”  come fattore terapeutico oltre che le “parole” soprattutto la visione di se stessi. A tal proposito  la ricerca neuroscientifica  mostra  sempre più chiaramente  l’importanza dell’esperienza visiva; essa, attivando il meccanismo dei neuroni specchio,  si configura come una processo multimodale che implica l’attivazione di circuiti cerebrali non solo “visivi” ma anche sensori-motori, viscero-motori e affettivi .

Quando, osserviamo un altro individuo esprimere un’espressione emotiva, si attivano gli stessi circuiti motori, viscero-motori ed affettivi che sono coinvolti quando noi stessi produciamo quella stessa espressione emotiva; la vista, ad esempio, di un individuo che provando l’emozione di  disgusto  è in in preda a conati di vomito, induce spesso nell’osservatore reazioni simili  a quelli che proverebbe lui stesso assaggiando un alimento disgustoso.

Questo meccanismo  definito da Vittorio Gallese “simulazione incarnata” (embodied simulation) ci permetterebbe non solo di “vedere” l’espressione emotiva altrui ma anche di “comprenderla” come se fossimo noi stessi a provare quella particolare emozione.

La SMT fa si che il paziente usi questo “potere” dell’immagine e, in particolare della propria immagine, (che, come confermano recenti studi  neuroscientifici, attiverebbe ancor più intensamente il sistema dei neuroni specchio) a  fini terapeutici per comprendere in modo più  “profondo” le proprie emozioni,  le proprie convinzioni  e più in generale il proprio modo di funzionare.

L’effetto terapeutico per il paziente è una sorta di insight  sulle convinzioni disfunzionali che nel tempo ha sviluppato su di se e sugli altri attivando, conseguentemente, stati emotivi di  accudimento, compassione  e di “perdono” verso se stesso. 

Tutto ciò gli  consente  di entrare più in sintonia e di  migliorare il rapporto  con quel “personaggio” che osserva nel video e, quindi, in ultima analisi, di raggiungere, in tempi relativamente brevi, un maggior  livello  di benessere psichico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • P.Vinai, M.Speciale ( 2013) “Il colloquio nella Video-Based cognitive Therapy” in G. Ruggiero, S.Sassaroli ” Il colloquio in psicoterapia cognitiva” Raffaello Cortina, Milano
  • M.Speciale, F.Tonello, P.Vinai (2014) “Incontro tra Tecnologia e Psicologia: esperienze italiane” in A. Cantagallo “Teleriabilitazione ed ausili: la tecnologia in aiuto delle persone con disturbi neuropsicologici” Franco Angeli, Milano
  • P. Vinai, M. Speciale, L.Vinai, C. Bruno, P. Vinai, M. Ambrosecchia, M. Ardizzi, G.M. Ruggiero, V. Gallese “Implementing the ABC framework of the Rational Emotive Behavior Therapy through the Self Mirroring technique: clinical implications and neurophysiological background”.  Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.   (submitted)

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Strategie per incrementare l’efficacia della regolazione emotiva

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

Una delle criticità nello studio dei processi di regolazione emotiva nell’ambito della psicologia generale consiste nella appropriazione di efficaci strategie nel medio e lungo periodo. Di fatto le ricerche sperimentali in tale ambito hanno dimostrato l’efficacia di alcune strategie regolatorie che i soggetti erano chiamati ad utilizzare durante la singola sessione sperimentale.

Un nuovo studio pubblicato su Emotion si è occupato di come incrementare l’efficacia della regolazione emotiva a medio termine in soggetti sani.

Focalizzandosi sulla strategia del reappraisal cognitivo, che implica il reframing cognitivo degli eventi emotigeni allo scopo di modulare l’emozione stessa, i ricercatori hanno utilizzato un task sperimentale di reppraisal già noto in letteratura e hanno misurato l’efficacia in termini di regolazione emotiva a seguito di 4 sessioni sperimentali consecutive ( a distanza di 3-5 ciascuna) di training e pratica guidata in due diverse strategie di reappraisal cognitivo.

Tutti i soggetti hanno compilato questionari self-report come misure di outcome tra cui Perceived Stress Scale e il Positive and Negative Affect Schedule.

Tre gruppi di soggetti sono stati randomicamente assegnati alle condizioni “distanziamento” (tecnica di reppraisal per cui al soggetto si chiede di vedere l’immagine emotigena come oggettiva, imparziale e secondo un’ottica scientifica distaccata), “reinterpretazione” (tecnica di reappraisal che prevede che i soggetti cerchino di raccontarsi una storia tale per cui l’immagine emotigena aversiva evolverà in modo più positivo oppure di focalizzarsi su dettagli non cosi terribili), “controllo” (assenza di strategie di regolazione emotiva).

I risultati dimostrano che sia nella condizione di “distanziamento” che “reinterpretazione” si ha una riduzione nei self-report dell’affettività negativa, anche se gli effetti più significativi e a lungo termine relativamente alla riduzione dello stress percepito nella quotidianità si riscontrano solo a carico del gruppo “Distanziamento” rispetto alla condizione di controllo (effetto dunque non attribuibile all’abituazione).

La ricerca rappresenta un contributo empirico sperimentale nell’ambito della psicologia generale che sostiene l’efficacia a medio termine dell’appropriazione di strategie di regolazione emotiva in un campione di soggetti non patologici.

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La simulazione di patologia in ambito giuridico – Psicologia

Cristina Fratini

 

 

La simulazione di patologia in ambito giuridico. -Immagine: © ra2 studio - Fotolia.comSimulare e dissimulare come due facce di una realtà nascosta e unica, due processi che compromettono il nucleo significativo della relazione medico-paziente.

Mettere in scena una malattia mentale, mostrare in modo esagerato dei sintomi psichici, fingere di non avere problemi quando invece si è afflitti da una condizione morbosa a carattere psichiatrico, sono tutti comportamenti accomunati dal fatto che il soggetto che li mette in atto, riferisce una menzogna rispetto alla malattia presentata, con motivazioni e finalità che possono essere completamente differenti.

La possibilità che un paziente manifesti un quadro clinico che non ha un’effettiva corrispondenza con la sua realtà psicologica, oppure presenti dei sintomi che non corrispondono alla sua esperienza sensoriale, è certamente più frequente di quanto il clinico ritenga di solito.

Il problema della simulazione va ben al di là del fenomeno in sé e per sé considerato e investe il nucleo significativo della relazione medico-paziente: il contratto basato su un rapporto di reciproca fiducia.

In un setting valutativo come quello peritale è normale che il periziando/vittima/convenuto faccia il suo gioco autotutelante e cerchi di ottenere il massimo vantaggio con il minimo rischio. Simulare una malattia psichiatrica è azione dai molti risvolti positivi per l’interessato: in ambito penale, non dover rispondere agli interrogatori; non dover partecipare al processo; invalidare la credibilità di testimonianze; godere di trasferimenti in reparti clinici o psichiatrici o di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere; vedersi riconosciuto un vizio di mente al momento del fatto e via dicendo.

In ambito civile i vantaggi possono essere il vedersi riconosciuto un danno biologico di natura psichica a varia genesi e dinamica; ottenere una pensione; godere di un favorevole riconoscimento del danno e via discorrendo. Porre un’ipotesi di simulazione crea facilmente una condizione di conflitto tale da far precipitare la relazione medico-paziente. Da questa situazione si generano le innumerevoli difficoltà che s’incontrano, sia sotto il profilo medico-legale sia sotto il profilo prettamente psichiatrico, quando ci si trova nella condizione di dovere differenziare una patologia vera da una patologia simulata (Ferracuti S., Parisi L. & Coppotelli A., 2007).

L’analisi psicopatologica è l’unica che può dimostrare se è per lo meno lecito dubitare del “significato di malattia” e discriminare i veri malati da quelli che tali non sono (Fornari, 2011). Una definizione di simulazione che tutt’oggi può essere ritenuta valida a livello operativo è quella di Callieri e Semerari (1959): “un processo psicologico caratterizzato dalla decisione cosciente di riprodurre, imitandoli, sintomi patologici, e di mantenere tale imitazione per un tempo più o meno lungo e con l’aiuto di uno sforzo continuo fino al conseguimento dello scopo, quando il simulatore non si renda conto dell’inutilità del suo atteggiamento”.

Il concetto di simulazione porta con sè il tema della dissimulazione in cui chi mente nasconde, minimizza certe informazioni senza dire effettivamente nulla di falso, fa trasparire solo in parte la propria sofferenza e i segni della malattia.

Come afferma Bruno (2000): “simulare e dissimulare possono essere considerati due facce di una realtà nascosta e unica, due soci che sono tutt’uno come la patologia e il benessere. Negare la realtà e affermare i desideri: non sempre illegale è la simulazione. Ottenere un beneficio e conservare un ruolo: non sempre immorale è la simulazione. Divenire quello che non si è, o che si pensa di non essere”.

Da un punto di vista pratico le difficoltà sono legate alla varietà di tipologie cliniche di simulazione messe in atto dal soggetto. Verranno di seguito elencate le patologie che maggiormente vengono simulate senza però entrare nello specifico dei comportamenti che il simulatore mette in atto.

La simulazione di schizofrenia è rara e la si osserva in contesti psichiatrico-forensi a carattere penale, di solito per reati gravi e ci si riferisce al simulatore cosciente, ossia alla persona che in piena lucidità attua una serie di comportamenti e riferisce dei sintomi che hanno come scopo quello di accreditare la presenza di una schizofrenia. Le motivazioni sono varie: valutazione di pericolosità sociale e, in ambito civile, evitare licenziamenti, cambi di ruolo lavorativo, mobbing. Molto frequente è la dissimulazione nei procedimenti di adozione o affidamento dei minori.

La sindrome di Ganser: stato crepuscolare isterico durante il quale il detenuto cerca di recitare la parte del malato di mente, in conformità con quello che egli ritiene essere la malattia mentale.

I quadri depressivi sono simulati per finalità medico-legali che rientrano prevalentemente nella possibilità di ottenere un beneficio in relazione alla detenzione o al riconoscimento di un danno biologico. In sedi civilistiche si osserva anche la dissimulazione di condizioni depressive in corso di perizie di affidamento di minori da parte di uno dei genitori.

La simulazione di amnesia la troviamo molto spesso negli indagati o imputati di fatti di sangue che affermano di essere amnesici del fatto oppure nei casi di valutazioni di danno biologico a seguito di traumi. 

Il Disturbo Post-traumatico da Stress è simulato maggiormente per ragioni economiche. I sintomi principali sono ben conosciuti per la loro frequente rappresentazione attraverso i media e sono facilmente simulabili perché non verificabili.

I disturbi fittizzi e la sindrome di Munchausen sono condizioni cliniche non direttamente determinate da agenti patogeni esterni o processi degenerativi interni; questi pazienti “scelgono” di rendersi malati per una “necessità psicologica” che appare slegata dall’idea di ottenere da tale scelta vantaggi materiali riconoscibili.

In conclusione, si evidenzia come la simulazione di patologia sia un campo che a tutt’oggi necessita di approfondimenti poichè ricco di fenomeni che non consentono una facile soluzione e che richiedono necessariamente l’interazione di diversi punti di vista. Alla luce di tutto ciò appare idonea la frase di Lunghi “il limite della simulazione è l’immaginazione umana”.

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L’Odissea di Omero – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.08 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #08

L’Odissea di Omero

 

– Leggi l’introduzione –

L’Odissea di Omero - Centro di Igiene Mentale - CIM Nr.07 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica. -Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

L’invito ad occuparsi di Omero era giunto dal dottor Rodolfo Torre, attuale direttore del Dipartimento di salute Mentale che, ponendosi con atteggiamento rimproverante aveva immediatamente irritato Biagioli che non riusciva ad avere un rapporto sereno col suo vecchio maestro.

A sua volta Torre aveva raccolto le segnalazioni del sindaco di Monticelli che aveva sentito dire alla gente “ tanti appresso a quella sgualdrinella (intendendo Antonella) e nessuno che si occupi di quel povero ragazzo”.

Il povero ragazzo, al secolo Omero Cogliati, 45 anni portati malissimo, spalle curve, capelli scuri lisci, forforosi e già molto radi, occhi che esprimevano il più assoluto disinteresse, viveva da solo nel garage della casa della madre vedova, Assunta.

Un letto singolo, un tavolo e due sedie di formica marrone, un lavandino con poggiato uno scolapiatti di plastica rossa ed una stufetta elettrica con la parabola tutta ammaccata, la moto Guzzi 350cc del padre.

Alle pareti, una sventagliata di quadri caotica. Per usare il gabinetto saliva in casa della madre. Lì lasciava il sacchetto della roba da lavare e tornava con quella pulita. Comunque il cambio vestiti era previsto mensilmente e la doccia ogni due mesi. Nel garage aleggiava dunque quel classico odore di psicotico, un  misto di fumo freddo di sigarette, cibo stantio, essere umano in macerazione e fluidi corporei evaporati.

Non  cucinava e la madre gli lasciava di ritorno dalla spesa frutta, affettati, formaggi e pane sulla finestrina del garage che lui prendeva quando non visto.

La vita per Omero si era presentata subito in salita.

La madre era al secondo mese della sua gravidanza nell’agosto del 1956 quando apprese dalla radio che il marito Giovanni era tra i 136 italiani che sarebbero rimasti per sempre in terra belga nelle profondità della miniera di carbone di Marcinelle dove, per un errore umano, morirono 262 minatori.

Il padre, emigrante morto eroicamente per dare un futuro alla famiglia, restò nella mente di Omero come un mito irraggiungibile.

La famiglia, di origini molisane, non aveva parenti nè la madre, sposatasi contro la volontà della famiglia, ebbe coraggio di tornare al suo paese d’origine. Trattata come una vedova di guerra, ottenne un posto alle poste con cui riusciva ad andare avanti galleggiando sopra il livello di povertà. Quel figlio molto intelligente avrebbe rappresentato il suo riscatto.

In effetti, Omero alle elementari e poi alle medie era sempre il primo della classe e si immusoniva se non raggiungeva il dieci in tutte le materie. Tutta la sua vita era la madre, che non lasciava un istante, la scuola e i libri. Non aveva amichetti. Quando gli altri lo cercavano per giocare insieme spariva per ore e salutava a stento gli adulti che venivano a far loro visita. Sembrava una timidezza sconfinata ma era qualcosa di più, Omero tanto era interessato alle cose ed al loro funzionamento tanto era disinteressato agli esseri umani. 

Torturava i piccoli animali che riusciva a catturare nel giardino di casa, mutilava i ragni zampa dopo zampa fino a che non ne rimaneva la rotonda immobile palletta del ventre, collezionava le code delle lucertole e le ali strappate alle farfalle.

A 10 anni bruciò con la benzina presa dal serbatoio del motorino delle poste il gatto siamese dei vicini.

Da quel momento le famiglie non gradirono più che i loro figli giocassero con Omero che restò sempre più solo.

Non ne provava alcun dolore e ancora di più si dedicò ai suoi amati libri di matematica.

Certi del suo talento i professori sollecitarono la madre a garantirgli le scuole superiori, possibilmente il liceo scientifico, in vista di ingegneria o matematica pura come lui diceva spesso.

Le astrazioni lo attraevano così come la concretezza e gli umani lo ripugnavano.

I soldi per prendere il pullman tutti i giorni per raggiungere il liceo scientifico di Vontano non c’erano.

La sua altissima media però consentiva una possibilità: l’accademia militare della Nunziatella di Napoli non comportava spese per le famiglie dei più meritevoli, che si assumevano l’unico impegno di non lasciare l’esercito almeno per i cinque anni successivi alla laurea.

Per i primi sei mesi giunsero all’ufficio postale, dove la mamma lavorava, rassicuranti cartoline postali con su scritto “tutto bene”, “ niente di nuovo”, “quando vieni a trovarmi”, “ cibo abbondante”.

Poi, silenzio assoluto per altri sei mesi.

Quando la madre, preoccupata, stava racimolando i soldi per andare a sincerarsi di come stessero le cose ecco arrivare un telegramma proprio per Assunta Ginestra vedova Cogliati: la si pregava di recarsi all’ospedale militare del Celio di Roma a ritirare, diceva proprio così, suo figlio Omero che era stato riformato per motivi psichiatrici.

Assunta potè vederlo per una mezz’ora, poi il colonnello medico la liquidò, sostenendo che il ragazzo poteva agitarsi. Vista la madre sprovveduta e spaventata sul da farsi la rassicurò, dicendole che sarebbe stato l’esercito a sistemare Omero in un luogo idoneo.

Dunque dai 17 ai 30 anni Omero stette al Manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma (il più grande d’Europa) dove ricevette le migliori cure dell’epoca.

Assunta temeva quanto poi effettivamente si verificò nel 1986.

Per via della legge Basaglia i matti non erano più tali e dovevano occuparsene le famiglie.

In paese quasi non lo ricordava più nessuno, lei stessa ne aveva paura, così gli attrezzò il garage e iniziò il loro menage fatto di panni che salivano e scendevano, di affettati, formaggi e frutta sul davanzale.

Omero non usciva mai dal suo garage ed il paese presto ne dimenticò  l’esistenza.

Il sindaco si avvide di lui controllando le liste elettorali, chiese notizie in paese e  convocò il dottor Torre: stava  al CIM riesumarlo.

In una riunione con Biagioli , il sindaco e la madre formularono le ipotesi più assurde: Biagioli avrebbe potuto  presentarsi come un incaricato del comune per verificare l’abitabilità, oppure un idraulico o un talent scout per nuovi talenti della pittura, oppure la madre avrebbe potuto sbriciolare i farmaci all’interno delle pagnottelle che gli comprava o diluirli nell’acqua minerale.

Giovanni e Biagioli, che si occuperanno del caso essendo quelli delle “mission impossible” per la capacità di non scoraggiarsi e di inventare soluzioni creative ma, soprattutto, perché si divertono a lavorare insieme intendendosi al volo, scartano tutte le ipotesi che prevedano un inganno e scrivono una lettera per Omero che affidano alla madre.

“ Caro Omero, non ci conosciamo e se mi arrivasse una lettera da uno sconosciuto la getterei immediatamente, tanto più se si trattasse di uno psichiatra che  vuol farsi i fatti miei. Nulla di strano, dunque, se a questo punto la strapperai in mille pezzi, ti garantisco che sei libero di farlo e non ci saranno conseguenze. 

Ti scrivo perché tua madre e il sindaco sembrano preoccupati per la tua salute, insomma si chiedono se tu sia matto. Penso che vivere isolati sia una delle possibili scelte di vita e mi vengono in mente “gli stiliti” o, più vicine, le suore di clausura del convento della Consolata. Che sia una scelta libera, o una costrizione a motivo di qualche paura, tu solo lo sai. Siccome una mamma preoccupata scassa, volevo chiederti se, quando e se tu vorrai, ci darai una mano a tranquillizzarla in modo che tutti si possa campare più tranquilli.

 Se ti andrà di farlo fai una chiamata allo 0578992233  e cerca di me,  Carlo, o di Giovanni che lavora con me. 

In verità anche io sono un po’ curioso di sapere se sei matto o un gran fico che ha capito tutto. 

Per comunicare con me puoi utilizzare quello che preferisci: oltre il numero di prima ti dò anche il cellulare mio 3309874356 e la mail [email protected]. Vedi tu!”

Alla riunione generale partirono le scommesse: la chiamata di Omero era data 1 a 5, in altri termini veniva stimata con una probabilità del 20%.

La dottoressa Mattiacci era per un TSO per ripartire daccapo con un caso troppo trascurato, la dottoressa Ficca, la cui meticolosità ossessiva per le procedure e la paranoia erano peggiorate dall’inizio della convivenza con l’ingegner Riccardo, era per garantirsi da un punto di vista medico legale dopo la segnalazione, e fare una domiciliare comunque. Luisa era comunque sempre d’accordo con Biagioli, sebbene indispettita di non essere stata scelta come compagna per questa nuova avventura che si prospettava lunga, ma il crescere dei pettegolezzi su di loro e l’attivazione del marito di Luisa avevano consigliato diversamente o forse Biagioli, superato l’apice stava scivolando lungo la parabola discendente dell’innamoramento.

Gilda, poi, sosteneva  di non dover intervenire in alcun modo accusando il CIM di essere strumento di normalizzazione di tutte le devianze al servizio del potere costituito. Le sue posizioni si erano ancor più radicalizzate dopo la morte del fratello, di cui sentiva colpevoli la società in generale ed il CIM in particolare.

Giuseppe Irati, impeccabile in un doppiopetto grigio che lo faceva diverso dal resto del popolo in jeans d’ordinanza,  ribadiva che l’unico intervento possibile e deontologicamente corretto fosse sui portatori della richiesta, vale a dire la madre.

La saggezza della dottoressa Filata ricordò a tutti che  la discussione si sarebbe potuta rimandare a un mese, dopo aver concesso ad Omero il tempo di eventualmente farsi vivo.

Non era una situazione d’urgenza, ma cronica da anni, che solo la compilazione delle liste elettorali aveva sollevato dall’oblio, dunque calma.

Un mese dopo, alla riunione successiva, si discusse a lungo se chi aveva scommesso 1 contro 5 sulla telefonata di Omero  avesse o meno vinto.

Per la Ficca, che non aveva intenzione di pagare non c’erano dubbi: non c’era stata nessuna chiamata.

Al contrario la Filata, sempre attenta alla sostanza delle cose e poca incline a dispute nominalistiche che chiamava con un brutto nome, sosteneva che la presenza nella stanza accanto di Omero in compagnia di Carlo e Giovanni fosse un successo, anche se non aveva chiamato e si era presentato direttamente due giorni prima al portoncino del CIM. Addirittura, a suo avviso, i perdenti avrebbero dovuto pagare il doppio.

Per soddisfare la curiosità dei lettori debbo chiarire subito che Omero era effettivamente matto e non semplicemente un signore riservato o tutt’al più evitante o schizoide.

L’accademia militare della Nunziatella non lo aveva riformato, ma gli aveva affidato in gran segretezza una missione speciale: altro che caccia militari , razzi e astronavi, il futuro del trasporto intergalattico era il teletrasporto. 

Mentre gli scienziati erano al lavoro per perfezionare la macchina, lui aveva il compito di raccogliere tutto quanto rappresentasse la nostra cultura in un luogo isolato, il suo garage, che sarebbe stata la prima capsula teletrasportata oltre i confini della galassia. Gli  spionaggi extraterrestri  che da secoli temevano un invasione degli umani avevano colonizzato molte menti di uomini.  

Durante il periodo del ricovero al Santa Maria della Pietà (noto centro di tortura interplanetario) avevano tentato in tutti i modi violenti possibili di estorcergli il suo segreto.  Ora lo facevano in modo più subdolo  con onde elettromagnetiche che gli leggevano il pensiero.  Le onde però non riuscivano a penetrare la saracinesca metallica del garage e, per le rare volte che usciva, si era fatto un passamontagna completamente rivestito di carta stagnola anch’essa schermante le onde.

Lui era stato scelto per la sua attitudine matematica, l’intelligenza superiore e, soprattutto, per la stupidità della madre che le impediva di accorgersi di cosa le accadesse intorno e, dunque, del vitale segreto del figlio.

Aveva accettato di incontrarli perché recentemente, tormentato dalle pressioni esterne sentiva la sua resistenza venir meno e Carlo e Giovanni avrebbero potuto essere due preziosi alleati contro lo stress, proprio a motivo della loro professione. Della selezione del materiale che testimoniasse la nostra civiltà avrebbe continuato ad occuparsene personalmente, essendo il suo compito specifico, loro sarebbero potuti essere dei personal trainer per metterlo in perfetta forma in vista della missione.

Ricevuta la loro lettera aveva chiesto ai suoi superiori il permesso di coinvolgerli  e questo era giunto inequivocabile con un servizio televisivo del giorno stesso sul fitness fisico e mentale che si chiudeva con la famosa frase latina “mens sana in corpore sano”.

Nella cosmografia di Omero intorno a lui c’erano degli schermi protettivi, il metallo e la stupidità della madre, dalle spie mentali al servizio dei terribili extraterrestri che impedivano la piena liberazione della cultura terrestre. Lui, solo ma ora con l’aiuto dei suoi due trainer avrebbe liberato l’umanità dall’oppressione galattica.

Carlo, in privato, tentò una interpretazione collegata al doppio soffocamento del padre nelle viscere della terra a Marcinelle e di lui da una madre che  vi aveva riversato tutte le sue attese.

Giovanni replicò che i matti erano in due e che piuttosto trovasse una buona idea per mollargli dei neurolettici altrimenti non se ne usciva.

Affascinante il fatto che dopo anni di lavoro in continua osmosi di ruoli quelli che meno credevano al potere dei farmaci fossero proprio i medici.

Si accordarono per due  incontri settimanali. Il primo avveniva nel garage dove Omero mostrava loro i reperti raccolti durante la settimana e discutevano di quali sarebbe stato opportuno procurare nella settimana a venire. I tre parlavano lungamente di quali fossero le cose importanti della vita,  gli obiettivi esistenziali,  i pericoli e come preservarsene. Queste lunghe chiacchierate a tre costituivano una sorta di psicoterapia finalizzata a ricostruire la vicenda interiore di Omero con lo scopo di renderlo più forte di fronte alle prove che lo attendevano. Carlo lo convinse anche a prendere tutte le sere un farmaco  che lo avrebbe aiutato a superare lo stress in cui la missione affidatagli lo costringeva a vivere. 

Il secondo incontro della settimana era dedicato al fare concretamente per la cura del corpo. Con Giovanni, Omero iniziò a fare lunghissime passeggiate nei boschi circostanti a Monticello, così da zone meno frequentate e più rassicuranti ci si avvicinò sempre di più al centro del paese.

Omero diceva che la presenza di Giovanni lo rendeva più impermeabile e resistente alle influenze negative degli altri, modo bizzarro e delirante per segnalare la positività della relazione terapeutica.

In una di queste passeggiate raggiunsero il centro diurno.

Era il periodo in cui  la Signora Cristina Forni, vedova dell’indimenticato medico condotto, meglio nota alle nostre cronache psichiatriche come catwoman, teneva un corso di pittura a tempera e ad olio per i pazienti che lo frequentavano. Omero mostrò un immediato interesse per le composizioni astratte e, a detta di Cristina, anche un notevole talento.

La settimana successiva Giovanni e Carlo bussarono alla saracinesca del garage portando un regalo inaspettato: tele di varie dimensioni, pennelli, tubietti di colore e una splendida tavolozza.

Omero poteva frequentare il corso di Cristina ed esercitarsi per proprio conto.

La sua produzione artistica era emotivamente toccante con un assoluto predominio dei colori scuri e di sprazzi luminosissimi di rosso vivo. I suoi quadri non lasciavano indifferenti e sul loro significato e l’attribuzione di possibili titoli si centravano le lunghe chiacchierate dei tre compari. I quadri figurativi venivano usati come una tavola del T.A.T. e quelli astratti come una del Roschach.

I due operatori entusiasti del loro lavoro con Omero che, pur continuando ad essere immerso nel suo delirio galattico, li aspettava con ansia e con loro usciva tranquillamente di casa, riferivano mensilmente alla riunione generale del servizio. La puntigliosa dottoressa Ficca, forse invidiosa degli innegabili successi di chi agiva senza  le pastoie dell’osservanza cieca delle regole, sollevò un problema: in fondo la loro relazione con Omero non si basava su un inganno analogo a quello che avevano sdegnosamente rifiutato quando era stato proposto dalla madre?  Effettivamente lui riteneva volessero davvero aiutarlo nella missione interplanetaria che non era mai stata messa in discussione.

Biagioli si produsse allora in una appassionata difesa che fu ricordata come “il diritto all’autoinganno”: Carlo sosteneva che non si dovesse nascondere nulla ai pazienti, fornendo loro tutti gli elementi di realtà possibili, ma che non si dovesse forzarli a rinunciare alle loro spiegazioni soggettive spesso a scopo antalgico. 

Del resto, diceva l’autoinganno è una delle attività tipica degli uomini impegnati a rendere meno dolorosa la loro realtà. In particolare, ribadiva, si pensi ai malati terminali che nonostante mille evidenze continuano a proiettarsi nel futuro. 

E’ corretto dir loro come stanno le cose, ma sarebbe crudele impedirgli la speranza. 

Omero aveva ricevuto una lettera in cui si dichiarava chiaramente che erano operatori del CIM che volevano interessarsi della sua dubbia salute mentale, Carlo gli prescriveva farmaci che comprava in farmacia, con Giovanni andavano al gruppo di pittura del centro diurno psichiatrico, nessuno lo ingannava, ma perché rompere la bella favola che si raccontava?  Ormai da mesi la sua vita procedeva secondo una routine decisamente ampliata e la missione di teletrasporto intergalattico sempre meno presente nella sua mente.

Oltre i due incontri settimanali, trascorreva ore a dipingere , usciva a farsi la spesa da solo,  aveva imparato a prepararsi un pranzo caldo, pasta o minestre che integravano i secondi freddi.

Mancavano pochi giorni al Natale e avevano intenzione di proporgli di esporre i suoi quadri ad una collettiva  dedicata ad artisti esordienti.

Omero li aspettava come sempre sulla porta del garage ma aveva una faccia lugubre.

Li fece accomodare e gli spiegò il suo dolore: la televisione la sera prima era stata chiarissima, per  un incolmabile ritardo degli aspetti tecnici e per colpa dell’incompetenza della squadra degli ingegneri spaziali, il progetto era stato accantonato almeno per i prossimi cinquant’anni.

Lui, encomiato per il lavoro svolto, era comunque posto in congedo permanente e definitivo.

Anche il loro ruolo di suoi trainer non aveva più senso. Li congedò in una gelida antivigilia di Natale, dicendo che comunque avrebbe avuto piacere di rivederli ogni tanto e di continuare a discutere delle sue opere d’arte che erano state molto apprezzate alla mostra. Prendendo atto della sua richiesta le visite assunsero cadenza mensile, a titolo di follow up.

A distanza di tre anni la situazione è stabile, Omero non è certo guarito e non lo farà mai ma la sua qualità di vita è migliorata e il sindaco conta su un voto in più.

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Autismo: il racconto dell’esperienza di Uta Frith in un documentario

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

 

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma.

La BBC2 dedica attraverso Horizon Program un video documentario a Uta Frith, una delle studiose chiave che ha trasformato la comprensione dell’autismo dal punto di vista psicologico.

Non si tratta solo di un’intervista ma di un vero e proprio film documentario in cui la psicologa ricercatrice presenta se stessa e stralci di vera vita professionale – tra cui anche filmati in bianco e nero degli albori fino al famosissimo task di Sally and Anne- per trasmettere al pubblico non solo ciò che ha studiato, ma anche come lo ha fatto, quali erano i presupposti e le conoscenze a partire dagli anni 60 alla base del suo lavoro clinico con i bambini e gli adulti autistici.

Uta Frith, ora professore di psicologia dello sviluppo alla University College London, inizia la sua carriera negli anni 60 e dedica la sua vita professionale a cercare di capire come funzionano le menti di persone con autismo.

Il documentario in lingua inglese si rivolge a un pubblico non specialistico mettendo in atto lo sforzo di presentare anzitutto come i bambini autistici percepiscono il mondo e gli altri, come interagiscono, come possano esperire particolari e straordinari talenti e capacità sopra la norma; durante tutto il corso del video documentario si rimanda poi a quali sono ad aggi e quali sono state negli anni passati le sfide cliniche e di ricerca rispetto a questo complesso tema.

 

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La testimonianza del minore. - Immagine: © TAGSTOCK2 - Fotolia.comCon il termine deposizione o testimonianza non si designa la  semplice fotografia di un evento, piuttosto una ricostruzione mnestica in cui si intercalano ritagli di realtà mai esperite o mai esistite.

La memoria è la capacità di conservare tracce di una esperienza passata a livello neuronale; le nostre esperienze, infatti, trasfigurano le sinapsi (le connessioni fra neuroni) e producono delle modifiche sia a livello di immagazzinamento delle informazioni sia a livello del recupero dei ricordi. La memoria non è, dunque, da considerare la capacità di ricordare gli eventi pregressi in maniera inattiva, essa in certe circostanze può diventare una produzione romanzesca densa di significati emozionali e affettivi, convalidate dall’interpretazione soggettiva e dalla singolarità individuale.

MEMORIA E SUGGESTIONABILITA’

1.LA MEMORIA

La memoria è un complesso costituito da diversi sottosistemi. La prima distinzione che bisogna fare è quella tra memoria a breve termine (MBT) o memoria primaria  e memoria a lungo termine (MLT) memoria secondaria. La funzione in cui si esprime la memoria è il ricordo. Cosa abbiamo mangiato oppure dove abbiamo lasciato un oggetto sono diversi tra loro, rispetto alla conoscenza che ho di un libro. I primi contenuti si  inseriscono nella memoria episodica, i secondi nella memoria semantica. La memoria episodica e la memoria semantica si inseriscono nella M.L.T., memoria a  lungo termine e rientrano nella memoria dichiarativa o esplicita. Quella che invece ci consente di andare sui pattini è la memoria procedurale che è una memoria implicita e non dichiarativa. In linea generale, la memoria è la capacità di  immagazzinare informazioni a cui possiamo attingere quando è necessario.

La memoria comprende due processi: l’apprendimento e il ricordo o memoria vera e propria. Durante l’apprendimento e la successiva rievocazione possiamo distinguere due fasi: la codifica che è l’elaborazione iniziale dell’informazione che consente di operare sui segnali di arrivo scelte in ordine agli input rilevanti per il soggetto, da discriminare da quelli inutili. Il consolidamento consente di immagazzinare l’informazione conservandone traccia nel tempo. Queste informazioni immagazzinate e conservate sotto forma di traccia vengono richiamate attraverso il ricordo. Il ricordo non è mai la riproduzione fedele, completa e completamente accurata di un evento. La memoria di un evento, quindi, non è mai la sua copia fotostatica, ma piuttosto il risultato dell’influenza di diversi fattori, frequentemente interagenti, che intervengono nelle diverse fasi del processo mnestico.

I ricordi, poi, non solo si modificano con il passare del tempo, ma la loro riproduzione più o meno corretta è legata a molteplici fattori, tra cui, principalmente, fattori emozionali e/o meccanismi di difesa, fattori cognitivi che possono ostacolare, o facilitare, il recupero dei ricordi stessi. La memoria è dunque molto malleabile e le distorsioni di essa relativamente alla testimonianza sono molto frequenti. Le distorsioni mnestiche, le cancellazioni o le diminuzioni della memoria a causa dell’ interferenza di stimoli sono frequenti; ciò accade maggiormente se questi stimoli si interpongono  tra  la fase dell’ apprendimento e la fase dei ricordo.

E’ ciò che potrebbe accadere, ad esempio, quando un minore è sottoposto a colloqui prolungati nel tempo, durante il quale ha potuto ricevere alcune informazioni su cui non vi era certezza assoluta. Appunto per questo, uno o più ascolti, non sempre ben condotti  in qualunque fase dell’iter processuale, caratterizzati da domande in cui sono contenuti suggerimenti e/o  informazioni false e inducenti, possono generare il fenomeno misinformazione, ovvero, la tendenza a peggiorare ed alterare il ricordo, sulla base di informazioni contenute nelle domande. Dall’età di 8-9 anni i minori sono suggestionabili; non solo possono modificare ricordi, eliminando o  aggiungendo particolari rilevanti, ma addirittura possono costruire falsi ricordi di realtà mai vissute. Diventa  fondamentale per lo psicologo giuridico prendere in considerazione il fatto che eventuali alterazioni nel menzionare qualcosa possono essere dovuti ad un difetto intervenuto in uno qualsiasi degli stadi di seguito riportati:

  • a livello dell’acquisizione, ad esempio a causa di un basso grado di attenzione al momento della registrazione del segnale;
  • al momento della ritenzione, se attività o segnali contemporanei si sono sovrapposti a quello iniziale e ne hanno impedito una corretta registrazione;
  • al tentativo di recupero dell’informazione che può fallire a causa dell’impiego di strategie inadatte o inefficaci.

Il focus attentivo poi  è un fattore determinante per l’accuratezza di un ricordo: ciò che viene elaborato e memorizzato corrisponde infatti a ciò che è stato oggetto di attenzione. Ciò che è stato oggetto di attenzione, infatti permette il passaggio dalla memoria a breve termine alla memoria a lungo termine. Se l’attenzione, però, da un lato incoraggia la memoria dall’altro lato la inibisce, come quando pensare a ciò che è  stato detto impedisce di fare attenzione a ciò che si sta dicendo. Si deduce chiaramente la non poca probabilità  di dire cose senza senso, non vere, proprio per il fatto stesso di non riflettere sui processi linguistici.

 1.2 LA SUGGESTIONABILITA’

Una possibile conseguenza dell’esposizione ad informazioni nuove ed ingannevoli, molto pericolosa per la validità della testimonianza, è la costruzione di falsi ricordi: i dettagli suggestivi a vario livello richiesti, suggeriti o imposti, se accettati ed integrati dal bambino nel proprio racconto, finiscono per trasformarsi in vere e proprie scene mnemoniche, al pari di un episodio realmente accaduto ed appartenente al passato. Il racconto rischia inoltre di essere breve, incompleto, incoerente e disorganizzato. E’ basilare che lo psicologo  durante l’intervista cognitiva segua i costrutti di seguito indicati:

1) non mostri preconcetti attraverso il linguaggio verbale e non nei confronti del presunto abusante;

2) non perdere il focus dell’intervista, spostando l’attenzione del minore da un argomento all’altro;

3) non anticipi il giudizio del minore, durante il colloquio.

Di solito i bambini molto piccoli riferiscono spontaneamente molto poco, soprattutto se è un evento traumatico da dimenticare. Si è costretti a chiedere per poter sapere, ma si può chiedere senza suggestionare. Per esempio, si possono proporre domande involontariamente tendenziose su un argomento irrilevante. Per esempio: Sei venuto in aereo? (sapendo che non è vero). L’aspetto della possibile suggestionabilità dei bambini è sicuramente uno dei nodi  più problematici. Si inserisce in tale quadro psicologico – giuridico la storia della psicologia della testimonianza che è ricca di studi relativi alla suggestionabilità rivolti all’età evolutiva. Si fa notare, poi, che quanto più l’adulto è rivestito di autorità (agli occhi di un bambino anche il solo potere di porre domande ne è un indice), tanto più il bambino risulterà influenzabile da domande suggestive, che talora egli può vivere anche come impositive.

Se poi vengono dati rinforzi positivi o negativi, l’intervistatore può influenzare e modificare grandemente il ricordo del minore testimone, tale da farlo spaziare tra ricordo e fantasia, tra gioco e realtà. E’ comunque necessario eludere:

invocazioni che  possono contenere informazioni utilizzabili per formulare la risposta. In questi casi, generalmente, le informazioni fornite nella domanda si ritrovano nella risposta. Così la domanda diventa specchio per la risposta.

Modi di dire tipici di un intercalare riconducibile ad un comportamento genitoriale come: stai attento! Ascolta bene quello che ti chiedo! Negli occhi! Puoi  giocare se rispondi alla domanda ecc.

Espressioni di assenso o dissenso altamente suggestive come per esempio: sei bravissimo!, Non dire bugie! Sei un ragazzo in gamba!

Espressioni dubitative: Ma cosa dici? Non mi dire?

Esclamazioni di sorpresa: Oh ,veramente!

E’ opportuno inoltre saggiare con il bambino il suo adeguamento alla realtà e verificare se riesce bene a distinguere quest’ultima dalla fantasia.

Abbiamo visto come l’ascolto del minore soprattutto se vittima di un trauma, sia tra le tecniche più complesse e delicate nell’ambito della psicologia giuridica. Bisogna fare in modo che il bambino si senta sicuro e rilassato e sia in grado di  rievocare liberamente, formulando solo  eventuali domande di approfondimento di quanto narrato, infine chiudere l’interrogatorio controllando con il bambino di aver compreso bene le parti essenziali del discorso. Le strategie d’ascolto devono garantire, dunque, una testimonianza spontanea, utilizzando  le tecniche di ascolto, la cui validità è condivisa dalla comunità scientifica.

Ciò naturalmente non deve prescindere da una predisposizione empatica da parte dell’intevistatore che deve mettersi nei panni dell’intervistato, accogliendo il suo racconto ed i violenti sentimenti ad esso associati, ponendosi in un ruolo di estrema neutralità e attualità scientifica.

 

 

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Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale

 Nicola Schirru

 

 

 

Analisi comportamentale al servizio della selezione del personale. -Immagine: © ryanking999 - Fotolia.com

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing.

In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Dai curricula ai test di abilità cognitive, dai test di personalità, alle interviste, i selezionatori del personale dispongono di diversi test psico­metrici per valutare i candidati. Gli ultimi due test presentano potenzialità fino ad oggi quasi inutilizzate, prime fra tutte le informazioni rilevabili attraverso la comunicazione (verbale e non verbale), manifestata parallelamente al momento delle risposte, verso stimoli specifici, e basata sul comportamento emozionale del soggetto, in cui è possibile rilevare scientificamente non solo la personalità ma anche la credibilità delle affermazioni dell’intervistato (es., DePaulo e colleghi, 2003; Vrij e colleghi, 2000); parafrasando, eventuali menzogne.

Un’indagine del Paul Ekman International (PEI) sostiene che ogni inganno non rilevato causi all’azienda un danno economico che oscilla dalle 4000 alle 7000 sterline. Potenziare le pratiche di recruiting attraverso l’introduzione di programmi di analisi comportamentale potrebbe condurre non solo a ridurre questi costi ma anche ad aumentare le predittività della futura performance lavorativa del singolo candidato.

Leader italiano in questo settore è il laboratorio di ricerca NeuroComScience, situato nel Parco scientifico AREA Science Park, sede Gorizia, in cui da anni vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione verbale e non verbale, sul comportamento emozionale, sull’analisi della personalità e sulla valutazione della credibilità.

Chung e Pennebaker (2007) affermano che le parole scelte per esprimere pensiero e stati d’animo possono indicare la nostra personalità, tuttavia il linguaggio è notevolmente dipendente e strettamente legato alla comunicazione non verbale, che ha come funzioni quelle di esprimere emozioni, accompagnare, sostenere il discorso, o realizzare la rappresentazione del sé, attraverso gestualità facciali, movimenti corporali, postura, distanza interpersonale, ecc.

Il viso è il canale possedente la più alta validità per il riconoscimento delle emozioni, in cui sono stati trovati indicatori di universalità in espressioni facciali di gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, paura, disgusto e disprezzo (Ekman, 1992; Matsumoto, 1992). Il Facial Action Coding System (FACS) sviluppato da Ekman e Friesen (1978) è lo strumento più utilizzato ed efficace per l’analisi delle contrazioni dei muscoli del viso che distinguono le espressioni facciali, evolutosi nella misurazione delle emozioni umane attraverso l’EMFACS (Emotion FACS) e l’ISFE (Interpretation System of Facial Expressions; Legiša, 2014b).

Secondo Hartland e Tosh (2001) il corpo umano è in grado di produrre circa 700.000 movimenti diversi. Diversi sono i sistemi di codifica e decodifica del motore gestuale presenti in letteratura. Ekman e Friesen (1969) descrivono diverse azioni che caratterizzano il comportamento non verbale gestuale: emblemi, (sostituti di parole e frasi, come il gesto del “ciao” quando salutiamo), illustratori (accompagnatori o rafforzanti dei messaggi verbali, come quando indichiamo l’oggetto di cui stiamo parlando), manipolatori (riflettenti nervosismo e allentanti la tensione fisica o emotiva, come quando ci mordiamo le labbra), regolatori (controllanti il flusso e il ritmo della comunicazione), “esibitori” affettivi (dimostrazioni di emozioni).

Jasna Legiša (2014a), direttrice di NeuroComScience, ha sviluppato il più completo sistema di codifica e decodifica del motore gestuale presente in letteratura chiamato Body Coding System (BCS), che scompone i movimenti corporei in unità d’azione classificandoli sulla base dell’osservazione dei cambiamenti momentanei d’aspetto che si presentano a seguito di un’attivazione muscolare.

Questo descrive diverse gestualità congruenti in culture molto diverse tra loro, come per esempio spalle innalzate in caso di rassegnazione o dubbio (SP 5), generale tendenza della gestualità verso il basso in caso di tristezza (es., SP 6), braccia e mani in contatto in caso di paura (AB/B 12), grattarsi una parte del corpo o mani in avanti in caso di disgusto o disprezzo (M 18).

La letteratura scientifica (es., Argyle, 1999; Christiansen e colleghi, 1994; Goffin & Boyd, 2009; Zickar & Drasgow, 1996) suggerisce che interviste e analisi della personalità possano risultare i test più efficaci nella combinazione analitica con il comportamento emozionale.

Ad esempio, la stabilità emotiva è associata al controllo delle emozioni e controllo degli impulsi, l’estroversione implica maggiori sguardi e sorrisi verso l’interlocutore, un tono più alto (soprattutto i maschi), con più intensità vocale, ritmo veloce e meno pause (maggiormente le femmine), sguardo fisso ed un’espressività spontanea (quindi meno asimmetrica), l’introversione può essere associata all’imbarazzo, manifestato principalmente nel volto attraverso rossore, da un’estremità rigidità di postura (pochissimi movimenti ma con variazioni di posizione continui), pochi sguardi generalmente verso il basso e tendenti a deviare gli sguardi dell’interlocutore verso punti non interessanti, frequenti manipolatori, voce stridula con tonalità irregolari, balbettii, insoliti errori di grammatica, esitazioni, false partenze e lunghe pausa tra una parola e l’altra.

Nelle assunzioni di livello top­manageriale e dirigenziale le interviste, ritenute più consone al livello gerarchico, vengono generalmente preferite ai test di personalità in forma di questionari o ai role playing. In casi come questi l’analisi del comportamento emozionale potrà divenire molto utile, se non fondamentale, per analizzare la personalità del candidato.

Codifica e decodifica dei canali verbali, para­verbali e non verbali vanno eseguite separatamente da due codificatori con un accordo minimo dell’80% (Legiša, 2014b). Reazioni e sensibilità dei candidati dovranno sempre essere prese in considerazione: cercando di far percepire l’intervista come equa e obiettiva, pertinente alle pratiche del lavoro e non invasiva della privacy (Anderson e colleghi, 2008). Lo sviluppo di tecnologie quali ad esempio Skype o Google Hangout, stanno venendo incontro a queste esigenze, abituando i candidati alla presenza di strumenti di videoregistrazione nelle interviste di recruiting, sempre più frequenti e sempre meno percepite come intrusive.

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Memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive

 

 

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memoria: le emozioni negative si affievoliscono prima di quelle positive - Immagine: ©Coloures-Pic - Fotolia.com

Secondo un nuovo studio pubblicato dalla rivista Memory la memoria umana avrebbe un bias pervasivo, universale e di carattere positivo: persone di diverse culture esperiscono quello che i ricercatori hanno chiamato

‘fading affect bias’ (FAB) e cioè la tendenza secondo cui le emozioni negative nella nostra memoria diminuirebbero di intensità più velocemente rispetto alle emozioni negative.

Se il bias del FAB era già noto in letteratura lo studio dimostra che questo fenomeno sarebbe universale a livello cross-culturale.

I ricercatori hanno coinvolto nello studio circa 500 individui appartenenti a diversi gruppi culturali, da studenti Ghanesi a cittadini tedeschi. Ai soggetti è stato richiesto di richiamare alla memoria un certo numero di eventi accaduti nella loro vita e di riferire le emozioni che provarono allora e al momento presente in cui stavano riportando l’evento alla memoria.

I risultati evidenziano che in ciascun gruppo culturale analizzato è presente il fenomeno del FAB, e cioè le emozioni negative associate ad eventi di vita tendono ad affievolirsi in termini di intensità in misura maggiore rispetto alle emozioni positive; questo sarebbe un bias universalmente presente in diverse culture.

Il maggior mantenimento dell’intensità di emozioni positive a discapito di quelle negative ha chiaramente una funzione adattiva in termini di regolazione emotiva.

Ciò non toglie che a certe condizioni esistano processi molto potenti – dal rimuginio alla ruminazione- in grado di mantenere le emozioni negative in tutta la loro intensità.

 

 

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Matrimonio: la felicità della coppia dipende dal marito (dopo una certa età)

 

La felicità in coppia dipende dal marito (dopo una certa età). -Immagine: © drubig-photo - Fotolia.comI risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Qual è la ricetta per una vita di coppia soddisfacente?

Nell’epoca dell’usa e getta, cosa rende davvero stabili le coppie e quale è il fattore che le porta a cercare di aggiustarsi, anziché buttare il bambino con l’acqua sporca?

Una recente ricerca dell’Università di Chicago ha cercato di rispondere a queste domande, analizzando le ricadute che la salute e le caratteristiche di personalità dei coniugi hanno sui conflitti di coppia in età avanzata.

Iveniuk e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti nel 2010-2011 dal National Social Life Health and Aging Project (NSHAP, Waite et al., 2003), uno studio condotto su 953 coppie eterosessuali conviventi o coniugate, con un’età compresa tra 63 e 90 anni e una media di anni di relazione pari a 39.

Entrando nel merito dello studio, i ricercatori hanno indagato la conflittualità di coppia ponendo a ogni partecipante tre domande relative alla frequenza con cui (1) il partner pretendeva troppo da loro, (2) il partner li criticava e (3) il partner li irritava. A ogni domanda, ogni partecipante intervistato poteva rispondere con “mai”, “raramente”, “qualche volta” e “spesso”.

La personalità di ogni componente della diade è stata valutata secondo il modello dei Big Five, utilizzando un questionario che oltre alle dimensioni canoniche di Apertura mentale, Coscienziosità, Estroversione, Amicalità e Neuroticismo (instabilità emotiva), aggiungeva la dimensione della Positività.

La salute fisica è stata indagata chiedendo ai partecipanti stessi di valutarla come eccellente, molto buona, buona, mediocre o scarsa, e lo stesso procedimento è stato utilizato per quanto riguarda il benessere psicologico.

I risultati hanno mostrato differenze di genere nella relazione tra lo stato di salute, i tratti di personalità e la conflittualità nella coppia. 

Le mogli con mariti che avevano una salute scarsa riportavano un maggiore livello di conflitto nella coppia, ma la stessa cosa non succedeva se erano le mogli a avere problemi fisici: in questo caso, non c’era nessuna differenza rispetto alla conflittualità riportata dai mariti.

Per quanto riguarda i tratti di personalità, le mogli di mariti con alti livelli di nevroticismo riportavano maggiori conflitti, mentre le stesse caratteristiche di personalità nelle mogli non spingevano i mariti a riportare una vita coniugale conflittuale.

Inoltre, le mogli di uomini più estroversi riportavano un rapporto più conflittuale rispetto alle mogli di uomini più introversi. Anche se questo può sembrare un risultato contro-intuitivo, ricordiamoci che l’estroversione, come concettualizzata dalla teoria dei big five, comprende dimensioni come l’impulsività e la carenza di autocontrollo; risulta quindi comprensibile che mogli di uomini più impulsivi e meno controllati riportino maggiori conflitti e maggiore difficoltà nella soluzione delle problematiche di coppia.

Infine, le mogli di uomini con maggiori punteggi nella scala Positività risultavano più soddisfatte del loro matrimonio, mentre ancora una volta la personalità delle mogli non sembrava influenzare il giudizio dei mariti rispetto alla propria soddisfazione di coppia.

Sembra quindi che il ruolo più importante per la soddisfazione di coppia sia da attribuire alle caratteristiche dei mariti, almeno considerando diadi con un’età avanzata.

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Arancia Meccanica (1971) – Cinema & Psicoterapia nr.23

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #23

Arancia Meccanica (1971)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

Recensione Arancia Meccanica (1971) - Cinema & Psicoterapia Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Info:

Un film di Stanley Kubrick. Interpretato da Malcolm McDowell, Warren Clarke, James Marcus, Michael Tarn. Usa 1971. Satirico. Vincitore di quattro premi Oscar.

Trama:

Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Anthony Burgess nel 1962, è considerato un film di culto. Presenta una società violenta in cui il pensiero è condizionato. Alex (Alexander DeLarge) è un eccentrico, antisociale e intelligente capo banda. Insieme a Georgie, Dim e Pete si dedicano al sesso, ai furti e a compiere violenze gratuite di ogni tipo. La banda dei drughi fa uso di droghe, indispensabili per compiere gli atti violenti a cui sono dediti.

Ascoltando la Nona di Beethoven Alex immagina esecuzioni, esplo­sioni, test nucleari ed eruzioni vulcaniche.

I genitori di Alex si dimostrano completamente impotenti e anche quando Georgie e Dim cercano di mettere in discussione la sua lea­dership, lui li picchia selvaggiamente e ristabilisce le posizioni di rango.

Durante una delle tante scorribande viene arrestato e condannato a 14 anni per omicidio. In carcere, si sente una preda tra predatori. La pre­senza di uomini più violenti e perversi di lui lo spinge a rigare dritto.

Viene a conoscenza di un programma di rieducazione del Governo che promette la libertà a chi vi si sottopone. Accetta il Programma Ludovico e viene costretto da uno stuolo di medici a vedere scene di violenza su uno schermo sotto l’effetto di una sostanza che gli procura dolore e nausea. Il condizionamento apparentemente funziona e Alex viene liberato. Quando torna libero trova molti cambiamenti: i suoi ex amici sono diventati poliziotti, le sue vittime si vendicano, i suoi geni­tori hanno affittato la sua stanza. Privo di libero arbitrio Alex vaga, fin­ché alcuni cospiratori che vogliono far cadere il Governo non gli chie­dono informazioni sul Programma Ludovico. Dopo aver avuto le rispo­ste desiderate lo inducono al suicidio costringendolo a gettarsi da una finestra.

Alex non muore, si risveglia da un sonno profondo, in un ospedale dove una psicanalista gli somministra un test di personalità. Alex è tor­nato alla fase pre-cura. Riferisce alla psicanalista un suo sogno ricor­rente: vede medici lavorare con la sua scatola cranica. La dottoressa gli dice che si tratta di un sogno normalissimo per chi è in via di guari­gione.

Il film si chiude con la visita ad Alex del Ministro dell’Interno, preoc­cupato per le ripercussioni politiche della vicenda. DeLarge inizia a ricat­tarlo e ha una improvvisa visione: la musica della Nona Sinfonia sale in un’orgia di sesso e violenza con una società plaudente che approva.

Motivi di interesse:

Se si prendono in considerazione i fatti di cronaca attuali il film assu­me toni profetici. La violenza gratuita sembra dilagare nella nostra socie­tà. Nella narrazione tra l’altro si embrica una violenza individuale e una violenza delle organizzazioni istituzionali, in un sottile e perverso gioco che richiama in continuazione un agonismo esasperato. È proprio il siste­ma di rango, sistema motivazionale a base innata, che è più frequente­mente attivo negli antisociali. Nella popolazione carceraria i disturbi di personalità di cluster B, arrivano a percentuali pari al 70%. L’incapacità di conformarsi alle norme sociali, la disonestà, l’impulsività, l’irritabilità e l’aggressività, la mancanza di rimorso sono elementi che definiscono gli antisociali e che vengono rappresentati nel film in modo magistrale. Ma oltre alla violenza dei “drughi” viene rappresentata la violenza della cura, la violenza del potere, la violenza delle istituzioni in un confronto che ci porta a riflettere su come certe patologie vengono influenzate e condi­zionate dal “pensiero unico” e dai modelli culturali dominanti.

Non possiamo sottrarci a questa riflessione nel vedere Alex sotto­posto al Trattamento del Programma Ludovico e non possiamo evitare di considerare l’intervento del Ministro dell’Interno e dell’organizzazio­ne che si contrappone al Governo un’utilizzazione strumentale degli elementi che caratterizzano la personalità del protagonista. Appunto l’utilizzazione strumentale come principio dominante e come scopo dell’agire delle istituzioni e degli individui: i corpi delle donne trattati come oggetti, gli stupefacenti per compiere gli atti violenti, l’aggressivi­tà per ottenere il denaro, e il dominio sugli altri, il ricatto per ottenere ciò che si desidera tutto recitato davanti ad un pubblico composto da spettatori plaudenti, come nella visione finale di Alex. Anche il sistema curante, medici e psicanalisti, utilizzano strumenti di cura violenti: Alex costretto a vedere sequenze filmate sotto l’effetto di sostanze che gli procurano dolore e nausea, legato ad una poltrona con due divaricato­ri tra le palpebre degli occhi. Violenza che genera violenza, antisociali che si contrappongono e che si offrono come modelli da imitare, quasi come in un’epidemia.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere molto utile a fini didattici, in quanto vengono rap­presentati tutti i criteri del DSMIV per la diagnosi di disturbo di perso­nalità antisociale. Può fornire, inoltre, una base di discussione anche con il paziente, in relazione alla consapevolezza delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni che si compiono, spesso svantaggiose per il benessere psicosociale e sugli effetti di eventi di vita violenti vissuti.

Trailer:

 

 

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ACHESS: un app in aiuto dei Disturbi da Uso di Alcool – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Addiction-Comprehensive Health Enhancement Support System (ACHESS), una app per smartphone, potrebbe aiutare i pazienti con Disturbi da Uso di Alcool (Abuso di Alcool e Alcool Dipendenza) a rimanere lontani dall’alcol e a gestire meglio il rischio di ricadute.

Centrale nell’alcolismo, e in generale nelle dipendenze, infatti, è il problema delle ricadute, tanto che la dipendenza da alcol ha tassi di recidiva simili ad altre malattie psichiatriche croniche.

Le ricadute riducono la qualità della vita delle persone, peggiorano i rapporti familiari e sono spesso associati alla criminalità, questo inoltre ha costi sanitari e sociali molto alti.

Sappiamo anche che la continuità nella cura per i pazienti che lasciano il trattamento residenziale è fondamentale a garantire esiti migliori a breve e lungo termine.

È in quest’ottica che è stata pensata ACHESS, un app che i pazienti possono imparare a usare nelle due settimane che precedono la dimissione dal centro per il trattamento residenziale, e che è stata pensata per permettergli di:

  • comunicare con gruppi di sostegno tra pari ed esperti di dipendenza;
  • monitorare tempestivamente per valutare il rischio di recidiva;
  • avere a disposizione un promemoria e avvisi per incoraggiare l’aderenza agli obiettivi terapeutici (per esempio avvisi che segnalano la vicinanza pericolosa di bar o locali);
  • usufruire di materiale didattico e strumenti di misurazione personalizzati sulle esigenze individuali
  • avere accesso in rete a risorse selezionate
  • disporre della comunicazione one-touch con il curante

Durante lo studio 349 pazienti con dipendenza da alcol sono stati assegnati, per un anno, in modo casuale a un programma di trattamento residenziale standard ( n = 179) o a un trattamento standard a cui era aggiunto l’uso di ACHESS ( n = 170 ).

I risultati indicano che i pazienti che hanno utilizzato l’applicazione hanno riferito un minor numero di giorni a rischio di consumo alcolico (quando il paziente beve nell’arco di due ore più di 4 bevande alcoliche standard, tre per le donne) rispetto ai controlli, con una media di 1,37 giorni a rischio in meno nel gruppo ACHESS. Una bevanda standard è una birra piccola, un bicchiere di vino o un misurino di distillato. I pazienti che hanno utilizzato ACHESS hanno anche avuto maggiori probabilità di rimanere lontani dall’alcol.

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Ordine degli Psicologi della Lombardia: risultati delle elezioni di rinnovo del Consiglio

 

Si sono appena concluse le elezioni 2014 per il rinnovo del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La tornata elettorale ha restituito una lieve maggioranza della lista Professione Psicologo con 8 consiglieri eletti, Altrapsicologia 7 consiglieri.

 

Professione Psicologo: Mazzucchelli, Parolin, Bettiga, Ratto, Bertani, Longo, Pasotti, Micalizzi.

AltraPsicologia: Grimoldi, La Via, Cacioppo, Bozzato, Campanini, Contini, Marabelli.

 

La lista completa:

OPL - Ordine Psicologi Lombardia - Elezioni Consiglio 2014 - RISULTATI ELEZIONI-

 

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Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

Maurizio Brasini

Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica

Una prospettiva cognitivo-evoluzionista

a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli

Raffaello Cortina Editore (2014)

 

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Teoria e Clinica dell'Alleanza Terapeutica - A Cura di Liotti e Monticelli - 2014Scopo dichiarato (ed efficacemente perseguito) di questo libro è fornire al lettore una cornice teorica, una chiave di lettura clinica e un metodo di lavoro sull’alleanza terapeutica.

Il libro si apre con tre capitoli di introduzione al tema centrale: il primo è una mirabile sintesi dei fondamenti teorici della prospettiva cognitivo-evoluzionista e del modello gerarchico dei sistemi motivazionali, con rinnovata attenzione all’interscambio tra i sistemi motivazionali interpersonali, i sottostanti sistemi motivazionali “arcaici”, e il livello sovraordinato dell’intersoggettività.

Il secondo è una rassegna sul costrutto di alleanza terapeutica e sulle ricerche più recenti in merito, con una apprezzabile inscrizione dell’alleanza nella più ampia cornice della relazione terapeutica.

Il terzo capitolo è dedicato ad illustrare come, a partire dalle vicissitudini dell’attaccamento, i deficit di organizzazione dell’assetto motivazionale si riflettono infine nelle alterne vicende della relazione terapeutica.

 

 

EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi. Meet the expert: Giovanni Liotti
Articolo consigliato: EABCT 2012 – Attaccamento & Traumi Complessi: Meet Giovanni Liotti

Una volta acquisiti questi strumenti di base, il lettore viene introdotto ad un metodo per la costruzione, il monitoraggio continuo ed il ripristino dell’alleanza terapeutica.

Di particolare interesse l’illustrazione di come trasformare il lavoro sulle rotture dell’alleanza nella pietra angolare dell’intervento con i pazienti più impegnativi. Il metodo si snoda lungo tutte le fasi del processo terapeutico, in modo sorprendentemente specifico e dettagliato. L’esposizione del metodo è corredata da numerose vignette cliniche esemplificative, e da un capitolo dedicato a un caso clinico presentato alla luce della prospettiva teorica e clinica illustrata.

 

 

C’è un aspetto in quest’opera che a mio avviso è di particolare pregio, e spero non sfugga al lettore attento.

Mi ha fatto riflettere l’insistenza con cui gli autori tornano su un principio di base: la necessità che il terapeuta si disciplini ad un’attitudine autenticamente collaborativa e paritetica.

Io non penso si tratti di una ridondanza o di un caso; secondo me è un modo di veicolare un insegnamento: bisogna ripetersi all’infinito di fare le cose facili per imparare a improvvisare e ad essere creativi. E un reiterato invito ad allenarsi alla collaborazione punta a creare le condizioni per riuscire a farlo in modo autentico quando le condizioni si presentano più avverse.

 

ARGOMENTI CORRELATI: 

PSICOTERAPIA COGNITIVO-EVOLUZIONISTAALLEANZA TERAPEUTICA – ATTACCAMENTO

VEDI IL PROFILO DI GIANNI LIOTTI 

 

BIBLIOGRAFIA:

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