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Fidati, sei intelligente! – Psicologia e relazioni interpersonali

 

 

Fidati, sei intelligente SQUARE - © bluedesign - Fotolia.comFidati, sei intelligente: una recente ricerca dell’Università di Oxford ha valutato la relazione che intercorre tra fiducia, intelligenza, felicità e salute. Nello specifico, Carl e Billari (2014) hanno utilizzato i dati del General Social Survey (GSS), una grande intervista che è stata somministrata a un campione di adulti americani ogni 1-2 anni a partire dal 1972, e si sono concentrati su quattro variabili.

L’intelligenza è stata valutata con due test di vocabolario.

La fiducia generale negli altri e nel genere umano è stata valutata con una semplice domanda, che chiedeva ai partecipanti “In generale, diresti che ti puoi fidare della maggior parte delle persone o che non si è mai troppo attenti quando si ha a che fare con gli altri?”; la domanda prevedeva tre possibili risposte: “mi posso fidare”, “non mi posso fidare” e “dipende”.

La salute generale è stata valutata con la risposta alla domanda “Diresti che la tua salute fisica in generale è eccellente, buona, discreta o scarsa?”, e anche in questo caso i partecipanti avevano le 4 opzioni di risposta proposte.

Anche la felicità, infine, è stata valutata con una domanda diretta al campione, che chiedeva “Nel complesso, come diresti che ti vanno le cose in questo periodo? Diresti che sei molto felice, abbastanza felice o infelice?”.

A questo punto, i ricercatori hanno indagato la relazione tra intelligenza, felicità, salute e fiducia negli altri, controllando anche per diverse variabili demografiche (come genere, età, etnia, lingua, istruzione, stato civile e introito economico).

Le analisi dei dati hanno evidenziato due risultati importanti.

Innanzitutto, sembra ci sia una forte correlazione tra intelligenza e fiducia, anche considerando nel modello i fattori sociodemografici. In altre parole, gli autori ci dicono che persone più intelligenti tendono a fidarsi più delle persone, considerate come un insieme; si affacciano al mondo, insomma, più fiduciosi e convinti che gli altri possano essere un elemento positivo anziché un pericolo da cui guardarsi. Carl e Billari si spiegano questo risultato alla luce della teoria Darwiniana, e sostengono che la capacità di valutare gli altri come persone degne di fiducia sia una sfaccettatura particolare dell’intelligenza umana che si è evoluta con la selezione naturale.

In secondo luogo, sembra che alti livelli di fiducia siano correlati a alti livelli di felicità e salute riportati, anche controllando per il livello di intelligenza. In sostanza, secondo Carl e Billari persone che si fidano del mondo, a prescindere da quanto sono intelligenti, sono anche più felici e più sane. In realtà questo dato in particolare è da valutare con cura, perché, vista la natura del tutto soggettiva dei dati (riportati dai soggetti con una sola domanda) e vista la contemporaneità della raccolta delle risposte, è possibile che in realtà la situazione sia rovesciata, cioè che persone in un periodo che valutano come particolarmente felice e buono da un punto di vista fisico, siano anche meglio predisposte verso le altre persone, risultando come più fiduciose nel confronti degli altri.

Il dato relativo al rapporto tra fiducia e intelligenza, invece, sembra essere corroborato anche da precedenti ricerche, che hanno sottolineato come l’intelligenza all’età di 10-11 anni predica la fiducia a 34 anni (anche controllando per numerosi fattori socio-economici) (Sturgis et al., 2010) e hanno spiegato la correlazione tra fiducia e livello di istruzione è alla luce delle abilità cognitive (Hooghe et al., 2012).

 

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Corporate Psychopath - Immagine: © bilderstoeckchen - Fotolia.com - SQUAREPsicopatia: lo psicopatico nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Un interessante articolo dell’Fbi suggerisce quali linee guida occorre tenere nel lavoro investigativo con soggetti psicopatici. La psicopatia è una struttura di personalità in cui prevalgono l’incapacità di provare senso di colpa, la tendenza sistematica a prevaricare e a manipolare gli altri, nonché la costruzione di un’immagine di Sé falsa e irrealistica che viene utilizzata nei contesti interpersonali.

Il soggetto psicopatico riesce spesso a farsi ammirare negli ambienti sociali che frequenta poiché nel primo impatto con le nuove conoscenze assume una maschera brillante, ricca di abilità e risorse.

Il suo obiettivo è in generale essere riconosciuto come individuo carismatico; più nello specifico, esercitare su alcune persone da lui designate un’influenza manipolatoria che gli permetta di ottenere vantaggi concreti, denaro, successo, potere. L’assenza di un sentimento di colpa lo rende freddo e strategico nel perseguire i propri scopi a danno del prossimo, mentre le doti che spesso effettivamente possiede – eloquio fluente, capacità di persuasione, slancio prorompente nel portare avanti le proprie posizioni – gli consentono di conquistare la suggestione e l’obbedienza dell’altro.

Il soggetto psicopatico ha una maschera diversa per ogni contesto in cui agisce, talvolta per ogni singola relazione di lavoro o di amicizia, penetra negli stati mentali dell’interlocutore riuscendo a individuarne le vulnerabilità per sfruttarle a proprio vantaggio.

Nel lavoro e negli affari mostra agli altri un volto ingannevole, il suo fascino superficiale viene scambiato per carisma e leadership, i suoi progetti grandiosi appaiono l’espressione di un’elevata consapevolezza di sé, gli atteggiamenti manipolatori vengono considerati in realtà una manifestazione delle sue abilità di persuasione.

Analogamente, la sua impulsività e la ricerca del rischio sono spesso intesi come dimostrazione di energia, capacità di azione, abilità nell’esecuzione di compiti complessi, mentre la natura irrealistica degli obiettivi che si pone viene facilmente confusa con un talento visionario; da ultimo, la mancanza di empatia finisce per essere valorizzata come segno inequivocabile di una predisposizione a guidare le operazioni con sangue freddo e pianificazione strategica. Quando un soggetto psicopatico si imbatte nella Polizia i rischi per gli investigatori sono molteplici; in primo luogo, la fascinazione con cui lo psicopatico è riuscito a manipolare i suoi collaboratori potrebbe riprodursi nella relazione con gli inquirenti, sui quali egli cerca di instaurare lo stesso dominio psicologico che l’ha sostenuto nei misfatti precedenti.

Diventa perciò indispensabile riconoscere queste dinamiche e possedere un’elevata consapevolezza delle proprie modalità di funzionamento relazionale, dei propri stati emotivi, così da identificare le interferenze che si producono nell’interazione con lo psicopatico. Quest’ultimo è solito isolare le vittime esattamente come un predatore e ciò richiede che il lavoro investigativo si sviluppi come un gioco di squadra, in modo che ogni soggetto impegnato nel rapporto con lo psicopatico si avvalga di un confronto e di un monitoraggio costante resi possibili dalla collaborazione coi colleghi.

Lo psicopatico, pur non riuscendo a creare un’intimità affettiva con nessuno – del resto non ne ha bisogno per realizzare i suoi scopi – è in grado di generare vincoli emotivi, relazionali, persino fisici con le sue vittime, osservando questi effetti dall’esterno, nella corazza della propria anaffettività ma facendoli percepire all’altro come conseguenze inevitabili di un’empatia reale, di un rapporto autentico.

L’investigatore deve quindi gestire i tentativi dello psicopatico di suscitare una complicità sottile; lo psicopatico può cercare di instaurare un legame fondato sulla possibilità esclusiva di comprendersi reciprocamente in virtù di un’intelligenza speciale condivisa, e se questa manipolazione ha successo le ripercussioni sono gravi.

Generalmente gli indicatori linguistici ed espressivi – l’enfasi con cui lo psicopatico racconta di sé – possono permettere all’inquirente di orientarsi in maniera corretta; la personalità psicopatica è riconoscibile per l’autocompiacimento che rivolge alle proprie gesta, per la sicurezza che ostenta anche quando viene messa con le spalle al muro, elementi che non sfuggono ad un poliziotto esperto.

Le vittime dello psicopatico temono le ritorsioni che potrebbero subire esponendosi, per questa ragione è fondamentale che gli investigatori sappiano costruire con loro una relazione di fiducia, così da ricavare informazioni preziose sulle azioni del colpevole.

Che dire, quindi? La realtà delle manipolazioni criminali supera l’immaginazione delle serie televisive, e la figura dello psicopatico rimane misteriosa, diabolica. Da studiare.

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Secondo uno studio recentemente pubblicato su The Journals of Gerontology i pensionati che utilizzano Internet hanno un terzo in meno di probabilità di andare incontro alla depressione dei loro coetanei non internauti.

Un dato rilevante, se si pensa che la depressione colpisce quasi l’8% degli americani di età superiore ai 50 anni, cioè tra i 5 e i 10 milioni di persone. Gli anziani, in altre parole, sono molto più vulnerabili alla depressione, alla solitudine e all’isolamento sociale rispetto alle persone più giovani.

E infatti l’uso di internet ha avuto un forte impatto nel ridurre la depressione sopratutto sulle persone che vivevano da sole; questo dato suggerisce che l’uso della rete sia davvero un mezzo di collegamento con gli altri, capace di ridurre il senso di isolamento e la solitudine.

Un team di ricercatori della Michigan State University ha analizzato le risposte di 3.075 uomini e donne che non vivevano in case di cura; i dati sono stati raccolti nell’arco di sei anni dalla U.S. Health and Retirement Survey, un ampio studio di popolazione che si è concentrato su come le persone affrontano la transizione al pensionamento.

I ricercatori hanno identificato la depressione attraverso le risposte ad un questionario di 8 items, inoltre ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto se facessero uso di Internet per la posta elettronica o per altri scopi.

Circa il 30% dei partecipanti alla ricerca usavano Internet: quando i ricercatori hanno confrontato i punteggi sulla depressione, hanno scoperto che chi aveva l’abitudine di andare on-line aveva un 33% in meno di probabilità di essere depresso rispetto a chi non usava internet.

Lo studio non ha esaminato quanto e come Internet venisse usato dagli utenti, ma sappiamo da studi precedenti che gli anziani sono per lo più interessati a comunicare con la famiglia e gli amici, di solito tramite e-mail.

Molti anziani hanno anche problemi di mobilità e di salute che gli impediscono di viaggiare e di fare visita alla famiglia, per questo motivo essere in grado di utilizzare l’e-mail per vedere le foto di figli e nipoti li aiuta a mantenere i contatti.

Cotten, il ricercatore a capo dello studio, sottolinea che imparare a usare internet per un anziano è sicuramente più difficile che per un bambino, ma i dati della sua ricerca mostrano che 80enni, 90enni e addirittura i centenari possono ancora imparare a usare il computer e Internet; inoltre gli anziani sembrano preferire i tablets ai computer tradizionali o ai portatili, più facili da usare e anche da trasportare.

 

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Laura D’Aniello

 

 

Trasmissione intergenerazionale violenza - Immagine:  ©drubig-photo - Fotolia.com Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con l’altro” appresa dai modelli genitoriali.

La trasmissione della violenza familiare di generazione in generazione è attualmente oggetto di studio, con particolare attenzione alla connessione con la regolazione emotiva e gli aspetti di relazionalità familiare che svolgono un ruolo fondamentale nello stabilire il benessere emotivo e lo sviluppo relazionale dei bambini.

Siegel (2013) sottolinea come i bambini che assistono a violenza all’interno della coppia genitoriale correrebbero un rischio maggiore di riviverla nelle relazioni intime da adulti.

Esplorando il contesto d’apprendimento delle famiglie d’origine, emerge quanto possano essere diversificate le situazioni in cui i bambini si trovano ad essere testimoni di violenza: essa può essere perpetrata sia dal padre che dalla madre e, nelle rispettive famiglie, uno o entrambi i genitori possono essere stati vittime di abuso (Barner & Carney, 2011). E spesso il maltrattamento fisico è accompagnato da quello emotivo, sebbene non tutte le relazioni emotivamente abusanti culminino poi in violenza fisica.

I bambini, crescendo in un ambiente familiare di questo tipo, sarebbero esposti a conflittualità e ostilità tra partner, che è stato dimostrato danneggiarli anche in assenza di abuso vero e proprio (Amato, Loomis & Booth, 1995; Gottman & Katz, 1989; McNeal & Amato, 1998). Inoltre, un clima di violenza familiare può causare triangolazione dei figli e loro coinvolgimento nella relazione di coppia, creazione di alleanze insane (ad esempio, madre-figlia e padre-figlio) e tendenza all’auto-colpevolizzazione da parte dei bambini che possono pensare di essere, in qualche modo, la causa del marasma familiare (Grych, Raynor, & Fosco, 2004; Kerig & Swanson, 2010); non è insolito, infine, che essi possano vivere rifiuto o aggressioni conseguenti al conflitto genitoriale da parte di uno dei genitori o da entrambi.

In questa cornice, una prospettiva sistemica che indaghi una possibile ereditarietà della violenza riconosce come tali dinamiche di coppia possano riverberarsi sui figli e come le riorganizzazioni e le ristrutturazioni dei ruoli familiari che ad esse fanno seguito possano innescare reazioni o collocazioni dei bambini in ruoli familiari che vanno contro uno sviluppo emotivo e cognitivo “ideale” e che potrebbero dare origine all’apprendimento della violenza (Gagne, Drapeau, Saint-Jacques, & Lepine, 2007; Struge-Apple, Skibo, & Davis, 2012).

Ciò accade, ad esempio, quando adulti che non sono capaci di consolarsi da soli (forse in virtù di un apprendimento a sua volta derivato dalla famiglia d’origine) si rivolgono inappropriatamente ai loro figli per avere conforto: possono crearsi così modalità relazionali in cui i bambini vengono collocati in ruoli con responsabilità non adeguate all’età e che, di conseguenza, precludono una risposta adeguata ai loro bisogni oppure vengono disillusi nell’aspettativa che le loro necessità d’affetto siano notate o soddisfatte dai genitori (Hooper, 2007).

In questi casi, i figli possono anche mettere in atto tentativi di protezione del genitore maltrattato o vittimizzato (Amato et al., 1995; Cummings & Davies, 2010) “perdendo di vista” se stessi: i bambini, traendo la conclusione che un genitore sia incapace di proteggersi, non crederanno facilmente che sia in grado di fornire loro protezione, per cui non solo “prenderebbero il suo posto”, amandolo e cercando di meritare il suo amore, ma apprenderebbero anche che la violenza perpetrata dall’altro genitore sia un modo per esprimere e dimostrare l’amore.

Alla luce di questa prospettiva, le donne si sentirebbero amate nella cornice di una relazione violenta perché questa, in qualche modo, ripropone le antiche modalità relazionali vissute nella famiglia d’origine dove l’amore ricevuto era in funzione di quello dato “nonostante tutto”, della sopportazione e dell’idea che una buona partner debba rimanere al suo posto anche “nella cattiva sorte”. È così che si instaurerebbe il circolo vizioso di desiderare intensamente di essere amata proprio da chi convalida quest’idea.

Siegel (2013) approfondisce, inoltre, l’apprendimento dei bambini che assistono alle aggressioni incontrollate di uno dei genitori (di solito il padre), sottolineando come possano sperimentare un’identificazione vicaria che cambi il loro livello di fiducia e sicurezza nei confronti del genitore aggressivo. Ciò significa che per poter tollerare e controllare la paura, diventerebbero a loro volta violenti.

La violenza, in questi termini, potrebbe essere intesa come un apprendimento del tipo “È così che papà controlla la paura, è così che ama, è così che si fa”, per cui, parallelamente all’apprendimento ipotizzato per la donna, questo potrebbe essere il versante maschile, dove l’uomo reitererebbe comportamenti violenti perché appresi dai modelli genitoriali.

Introducendo i contributi della ricerca neurobiologica (Briere, 2002; Gunnar & Fisher, 2006; Perry, 2009; Yates, 2007), Siegel collega, inoltre, la violenza perpetrata ad un danneggiamento nella funzione della regolazione emotiva: i maltrattanti sarebbero carenti nella capacità di osservare, comprendere e gestire l’escalation delle emozioni, così come nelle competenze necessarie per risolvere le divergenze ed i problemi in modi costruttivi e non violenti.

Un bambino o una bambina che abbiano vissuto un’infanzia caratterizzata da abusi e maltrattamenti, siano essi fisici, psicologici o entrambi, potrebbero reiterare o rivivere la violenza sperimentata in famiglia come modalità di “entrare in relazione con” appresa dai modelli genitoriali.

 

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LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Tutto bene signora. (2013) di Francesco Bricolo - Immagine: © Pragmata EdizioniDiciamolo subito, questo non è un libro per tutti, anche se i due protagonisti, Tiberio e Sabrina, sono invece una coppia come tante: lui ingegnere edile, lei insegnante, sposati da anni e con due figli: il ventenne  Tommaso e la diciassettenne Chiara. Vite comuni nella Milano dei nostri giorni; persino il cognome, Brambilla, è una garanzia di normalità.

Tiberio deve ritagliarsi del tempo dal lavoro per fare qualche accertamento: negli ultimi tempi è dimagrito, si sente stanco; Sabrina lo accompagna in ospedale per un controllo, il medico di famiglia ha prescritto una gastroscopia. Nell’attesa dei risultati un po’ di timore, certo, ma il quotidiano ha le sue scadenze, impossibile crogiolarsi nella preoccupazione. Il risultato arriva ed è quanto mai impietoso: un cancro all’esofago, in stadio già molto avanzato. Ma questo Sabrina non viene a saperlo; non lo sa perché Tiberio, semplicemente, non glielo dice. Anzi, dice che va tutto bene. La vita scorre come sempre, Sabrina è contenta e non ci pensa più: l’ansia dei giorni precedenti si volatilizza. Sta arrivando il Natale e Tiberio, che sa che quelle feste saranno le ultime, decide di regalare alla moglie un Capodanno in Norvegia, il viaggio sognato da anni, programmato nei minimi dettagli, e mai fatto.

Decide anche un’altra cosa: vuole ricorrere alla morte assistita, in Svizzera, la dolce morte per non soffrire, e anche questo lo decide da solo: non vuole essere un peso per chi gli sta intorno, essere trattato da “caso umano”, così dice a se stesso.

Con qualcuno, però, Tiberio parla: con la dottoressa che gli ha diagnosticato il tumore; con una suora, laureata in psicologia e che ha esperienza nell’accompagnamento dei malati terminali; con un religioso, padre Ernesto, dal quale vorrebbe avere dei perché.

Tiberio confida alla dottoressa le sue preoccupazioni e riversa sui religiosi tutta la sua incontenibile rabbia: perché Dio gli ha fatto questo? Dio deve dargli una giustificazione, lui è credente e si aspetta delle risposte.

E ancora perché Dio, come se ciò non fosse abbastanza, è contrario all’eutanasia? Si deve anche morire con dolore, non basta forse già dover morire? Perdere la dignità in un letto di ospedale è cosa necessaria per onorare la vita?

Sabrina, intanto, continua a non sapere nulla e pregusta tranquilla il suo Capodanno; proprio a Capodanno ci saranno nuovi, imprevedibili, eventi, che renderanno a Tiberio sempre più complicato condividere con gli altri la sua realtà di persona che si prepara alla morte.

Perché, in modo asciutto, senza mai cadere nel melodrammatico e nel patetico, proprio di questo il libro parla: della morte, sviscerando uno dopo l’altro, con precisione chirurgica, tanti temi difficilissimi che a giorno d’oggi sono tabù. Si parla apertamente, con un linguaggio quotidiano, di quello di cui nessuno vuole mai parlare: di malattia inguaribile, di paura della morte, di paura della sofferenza, di suicidio assistito, di diritto di scelta e, anche, di vergogna. La vergogna nello scoprirsi vulnerabili ed indifesi di fronte agli altri e di fronte ad una realtà che non possiamo assolutamente controllare.

Non si parla mai di queste cose; scrive in un blog, sul Corriere della Sera, Caterina Croce:

“Siamo impegnati a schivarla, a tacerla, a negarla, la morte. Ne parliamo se solletica il nostro senso del macabro: se c’è uno zio orco o una sorellastra invidiosa, se c’è una mamma Medea o un vicino squilibrato. Ne parliamo quando il suo avvento è così ingiusto, inatteso e incalcolabile che possiamo ascriverla alla dimensione remota e indistinta dell’eccezione: un terremoto, uno tsunami, un naufragio al largo delle coste di Lampedusa. Ne parliamo se segna una dismisura, un accidente che riguarda altri. Viceversa, parliamo poco – o quasi per nulla – della morte nella sua banalità: nel suo accadere ordinario e comunissimo”.

Tiberio è arrabbiato e anche lui non parla; scopre nel tenere il suo terribile segreto tutto per sé una dimensione di potere, l’unica possibile in una realtà che lo condanna ad essere, progressivamente, sempre più impotente. Si sente coraggioso  e contrasta con testardaggine, immerso in un delirio di autodeterminazione, i suoi interlocutori – la dottoressa, la suora psicologa e il frate- che su una cosa concordano tutti: deve parlare con moglie e figli  mettendo fine alla sua recita di normalità, smettendo di far finta che, come dichiara il titolo, vada “tutto bene”.

Perché leggere questo libro? Per deprimerci, per imparare la rassegnazione? No. Per imparare a trovare le parole. Tiberio lo capisce un po’ alla volta: non si può fare tutto da soli, condividere è un atto di enorme coraggio. Ed è, soprattutto, un atto vitale.

Sì, vitale, anche in situazioni che sembrano essere l’antitesi della vita. Vitale è questo libro, fino alla sua ultima pagina, con una conclusione che è come un inizio. E anche qui mi tornano in aiuto le parole di Caterina Croce:

 “Esercitarsi a pensare il limite è un’occasione per cambiare la propria vita, per guardare a come stiamo vivendo, per correggere il tiro, se ci pare di aver perso di vista il senso, e ritrovare la mira, per azzardare un bilancio che insieme sia un rilancio[…] E allora forse sì, se serve a cambiare e a riscoprire il gusto tondo della felicità, parlare di morte può essere una buona notizia”.

 

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Valentina Goduto

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una nuova ricerca ha scoperto che bambini che hanno avuto un trauma cranico possono avere delle conseguenze sulla vita sociale per gli anni a venire.

Maggiori difficoltà sono state riscontrate nella capacità di concentrazione e nel ricordare le cose con ovvie conseguenze sul modo di interagire.

Per il loro studio, i neuroscienziati presso la Brigham Young University (BYU) hanno esaminato un gruppo di bambini dopo tre anni da una lesione cerebrale traumatica, più comunemente causata da incidenti stradali. Hanno scoperto che una lesione persistente in una regione specifica del cervello poteva predire la salute della vita sociale dei bambini.

Per lo studio, pubblicato sul Journal of Head Trauma Rehabilitation, Gale e Ashley Levan hanno confrontato la vita sociale dei bambini e la capacità di pensiero con lo spessore dello strato esterno del cervello nel lobo frontale.

Le misurazioni cerebrali sono state effettuate con risonanza magnetica (MRI), mentre le informazioni sociali sono state raccolte dai genitori su una varietà di temi, come la partecipazione dei loro figli in gruppi, il numero di amici, e la quantità di tempo trascorso con gli amici.

Gli scienziati BYU hanno anche scoperto che lesioni fisiche e il ritiro sociale sono correlati con la competenza cognitiva”, definita come la combinazione di memoria a breve termine e velocità di elaborazione del cervello.

Nella interazioni sociali abbiamo bisogno di elaborare il contenuto di ciò che una persona sta dicendo oltre a quello dei segnali non verbali. Dobbiamo quindi possedere le informazioni nella nostra memoria di lavoro per essere in grado di rispondere in modo appropriato. Se si interrompe la memoria di lavoro o la velocità di elaborazione possono verificarsi difficoltà nelle interazioni sociali, afferma Levan.

Altri studi su bambini con ADHD, disturbo in cui sono interessati i lobi frontali, mostrano che la terapia può migliorare la memoria di lavoro.

I ricercatori sperano che gli studi futuri con MRI di BYU potranno valutare se i miglioramenti nella memoria di lavoro possono “curare” le difficoltà sociali causate da lesioni alla testa.

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Corpo Celeste (2011) di Alice Rohrwacher- Psicologia Film Festival

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

11° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Mercoledì 7 Maggio ore 21,00

presso il Cecchi Point, via Antonio Cecchi 17

con la proiezione del film

CORPO CELESTE

di Alice Rohrwacher (2011)

presenta il dott. Dario Consoli

Ingresso libero

SCARICA LA LOCANDINA

 PFF - corpo celeste - Locandina

 PFF PROGRAMMA 2013-2014

 

Il Film

Al centro della storia c’è Marta ed i corsi di catechismo che la stessa frequenta per accostarsi alla cresima. Con lei una famiglia in difficoltà e la comunità religiosa di una città meridionale. Persone disposte all’accoglienza a patto che ci si adegui ai rituali di una civiltà conservatrice e chiusa. L’ingenuità di Marta e il suo non riconoscersi nei comportamenti che le verranno imposti la faranno progressivamente distaccare da quel mondo.

Se l’alienazione in senso lato è il segno principale che percorre tutto il film, non solo nel girovagare e nello spaesamento di Marta m anche per la presenza di un umanità con cui è impossibile comunicare – il prete del paese dedicato agli affari della politica più che a quelli evangelici, ma anche l’insegnante di catechismo chiusa all’interno delle formule imparate a memoria ed impartite senza alcun spirito critico, e ancora il Vescovo e la sua curia intenti a soddisfare i propri bisogni nella scena che li vede attendere i preparativi della cerimonia chiusi in una stanza a mangiare ed incuranti dell’esistenza dei fedeli – il film della Rohrwacher è tutto giocato nella dialettica tra la rarefazione del suo personaggio principale, Marta, e la sovraesposizione delle persone che la circondano. Tanto lei è introspettiva e quasi stupita nella scoperta delle cose, quanto gli altri sono invadenti e rumorosi nell’occupazione dello spazio. Al corpo minuto della bambina si oppone l’opulenza sgangherata del corpo ecclesiastico in un alternanza di rumori fraudolenti e di vuoti siderali.
Girato con stile scarnificato e oggettivo, “Corpo celeste” è organizzato come un racconto di formazione, in cui l’apprendistato del personaggio procede di pari passo con la scoperta delle sovrastrutture che regolano la società dove egli si muove. Intimo ed allo stesso tempo sociale, il film costringe lo spettatore a sintonizzarsi sulle onde emotive della storia grazie ad una scrittura che preferisce suggerire più che esplicitare. I rumori di fondo e quelli sparati a tutto schermo, il contrasto tra la modernità del centro urbano e l’arcaicità del paesaggio naturale rendono la narrazione per lunghi tratti ipnotica e paradossalmente sospesa in un limbo di tragica attesa.

La regista

Alice si laurea a Torino in Lettere e Filosofia. Successivamente, ottiene un Master in sceneggiatura e linguaggio documentario presso la videoteca Municipal di Lisbona e un Master in tecniche narrative, sceneggiatura e drammaturgia presso la Scuola Holden di Torino.

La sua prima esperienza di lavoro cinematografico è nella direzione e nel montaggio del documentario Un piccolo spettacolo (2005), dove si occupa pure del soggetto, della sceneggiatura e della fotografia. La pellicola ottiene il primo premio alla Festa Internazionale del Cinema Documentario di Roma. A seguire, sempre all’interno dello stesso genere, c’è Vila Morena, diretto con Alexandra Loureiro e prodotto dalla Videoteca Minucipal di Lisbona.

Nel 2006 partecipa al film collettivo Checosamanca, presentato alla I edizione di Cinema – Festa Internazionale di Roma, nella sezione Extra. Fra il 2008 e il 2009 si occupa prevalentemente di montaggio di documentari altrui.

Il primo film a soggetto arriva nel 2011 con Corpo Celeste, presentato alla Quinzaine di Cannes, che le vale anche il Nastro d’argento al miglior regista esordiente. Nel 2014 sarà in concorso al Festival di Cannes con il suo terzo lungometraggio, Le meraviglie.

 

Dario Consoli

Dario Consoli (1985) è dottorando in Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e scienze dell’educazione dell’Università degli Studi di Torino e insegna presso la NABA di Milano. Dal 2009 è docente nelle scuole superiori per il progetto Questioni di bioetica. Nel 2013 è stato research fellow presso l’Institut für Kulturwissenschaft della Humboldt-Universität di Berlino. Ha pubblicato contributi in diversi volumi collettanei, su riviste italiane – tra cui Aut aut – ed è in uscita la sua prima monografia su Peter Sloterdijk per l’editore il Melangolo. I suoi temi di ricerca si collocano all’interno della filosofia sociale, concentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di soggettivazione nella società contemporanea. Si occupa inoltre di progettazione culturale e fa parte del direttivo dell’Associazione Laboratorio Corsaro e dell’Associazione Culturale Franco Antonicelli.

Vi aspettiamo numerosi

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Programma 2013-2014 del PFF

ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

Someone Beside You e l’approccio Windhorse alla malattia mentale

Matteo Bessone, Paola Parini

 

 

Someone beside youI racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi sintomi, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Someone Beside You – Qualcuno accanto a te è un roadmovie di Hedgar Hagen del 2006. Illustra il viaggio di alcuni psichiatri e dei “loro” pazienti attraverso Svizzera, Francia, USA e Italia. Lungo il viaggio i protagonisti evocheranno nuovi approcci alla malattia mentale e nuove rappresentazioni di questa, utilizzando alcuni concetti mutuati da approcci orientali, soprattutto in seno al buddismo.

Durante tutto il film i protagonisti sono in viaggio, in movimento, lo stesso movimento incessante la cui consapevolezza emerge tramite pratiche meditative e in cui è inevitabilmente immerso lo stesso percorso di continua conoscenza della psicologia. Lo scenario di tale movimento è il mondo esterno e non il setting clinico. Gli autori suggeriscono che la guarigione dalla psicosi, possibile, possa avvenire più facilmente nel naturale contesto ecologico.

Non ne emerge una critica diretta, rancorosa, agli approcci psichiatrici o psicologici dominanti, ma i protagonisti, seppur esperti (talvolta anche per esperienza vissuta in prima persona), si fanno portatori di un atteggiamento peculiare, tanto relazionalmente, con i pazienti, quanto di fronte al disagio di questi: traspare un’apertura amorevole, un’umanità compassionevole dei dottori nei confronti di quelli che una certa psichiatria preferisce identificare come propri oggetti (di studio), e che tende a catturare tramite una presunta conoscenza oggettiva e reificante.

Emerge in questi professionisti la consapevolezza dell’impermanenza dell’essere: di sè, come dei “propri pazienti; della “propria scienza”, come della sofferenza altrui: una capacità di dimorare nell’incertezza, del movimento incessante, tutte consapevolezze spesso misconosciute da un certo modo di intendere le scienze “ psi” che invece tendono comprensibilmente, e come qualsiasi altro sistema di significato, ad identificarsi in maniera irremovibile e ad ancorarsi alle proprie teorie e ai propri costrutti, che diventano in questo modo gli unici legittimi.

Durante il film si percorrono le fila della follia, tentando di seguirne le trame concettuali che vengono intessute dall’incontro di psicologia occidentale con le pratiche orientali. La follia viene evocata come un “Secondo Stato Umano”, uno stato in cui emerge il lato opposto della persona per come questa viene conosciuta da sé e definita dal mondo attorno a lei.

A tutti è possibile aver accesso a tale stato dal momento che avere una mente equivale già alla possibilità di perderla. La possibilità di far emergere tale lato opposto permette alla persona di lottare ostinatamente per il diritto di non essere capiti, mantenendo uno spazio di individualità che le permetta di andare oltre se stessa, trascendendosi, fino a fondersi con il mondo.

All’interno dell’approccio Windhorse un ruolo fondamentale è giocato dall’espressione “Isola di chiarezza” che sta ad indicare come anche nei momenti di maggior difficoltà, quando la mente corre via, alla folle velocità della psicosi, può accadere che in tutto quel folle impazzare di pensieri, improvvisamente, per un istante sospeso, tutto si fermi. Come nell’occhio di un ciclone, si crea una sorta di isola di calma dove la consapevolezza è possibile.

Accade allora che la persona si renda conto della “differenza di stato” rispetto all’impazzare di prima. E’ questo il processo che ha forse portato Podvoll, padre del “Progetto Windhorse”, a definire la psicosi come secondo stato.

Ed è proprio la possiblità di condivisione di tali illuminanti momenti di chiarezza (la psicologia occidentale li chiamerebbe insight, da cui “insight meditation”, uno dei sinonimi di mindfulness) che è alla base del progetto Windhorse:

Avere accanto qualcuno” che faccia da testimone, con la sua semplice presenza, con la qualità del suo essere, per ricordare quello che è successo poc’anzi, e insieme aiuti a ricostruire il processo, a capire come accade che la mente si perda… e poi ritorni.

“Riconoscere le isole di chiarezza” è uno dei dieci punti che illustrano le caratteristiche della “Basic Attendance”, il “modo”, l’Attitudine tipica dell’approccio Windhorse.

E’ difficile, quando non fuorviante, esplicitare un approccio basato sullo “stare con”, altamente esperienziale. Certamente vengono in aiuto alcuni suggerimenti di Kabat Zinn che concernono la Mindfulness:

[…]‘non è una tecnica, è una ‘modalità’, è un Modo di Essere, un Modo di Vivere, un Modo di Ascoltare, un Modo di Percorrere il cammino della vita, in armonia con le cose così come sono.

Le radici orientali dell’approccio Windhorse, lo rendono molto meno interventista di qualsiasi approccio occidentale. L’importanza del clima emotivo che viene a crearsi con l’intera équipe, contribuisce a far emergere un movimento trasformativo del paziente e della sua energia. Un movimento che va verso un equilibrio più armonico, maggiormante integrato rispetto a tutte le istanze presenti, interne ed esterne.

Si potrebbe forse provare ad utilizzare l’omeopatia come metafora, sia per la somiglianza dell’effetto del farmaco al sintomo che si vuol curare: il terapeuta/farmaco e il paziente/sintomo sono simili (omeo), entrambi umani, entrambi, direbbe Podvoll, con una mente che si può perdere. La funzione stimolante del farmaco omeopatico, simile a quella dei vaccini, sul sistema immunitario e sull’attivazione del corpo volta ad attivare tutti i meccanismi omeostatici nella direzione della guarigione, può ricordare la tendenza Windhorse a non risolvere i problemi al posto del paziente, ma a stargli accanto, il più possibile, a volte con un semplice rispecchiamento, più spesso con la propria semplice presenza, mentre egli cerca di trovare, autonomamente ma con un accompagnamento, le proprie soluzioni.

I racconti di Someone Beside You narrano di un viaggio verso la comprensione di ciò che accade negli spazi toccati dalla follia, di come convivere, in un certo modo e per un certo tempo, con certi “sintomi”, per comprenderli e trasformarli dopo averli accettati nella loro portata.

Karin, la prima paziente intorno alla quale è nato il primo progetto Windhorse, narra con stupore del rapporto con Podvoll: “Egli mi credette, di solito gli psichiatri non credono ai pazienti.”

La psichiatria sicuramente ha aperto le proprie porte negli ultimi decenni, sempre più tentata, anche solo per motivi di convenienza, da approcci basati sulla domiciliarietà più che non sul ricovero in strutture (esemplare è l’aumento del tasso di dimissioni del 1965 in USA quando la normativa relativa a Medicare e Medicaid, i due programmi di assistenza sanitaria pubblica, ha iniziato a prevedere fondi federali per l’assistenza in comunità alloggio mentre sussidi analoghi non erano previsti per le strutture ospedaliere).

Qual è allora la peculiarità di Windhorse? Cosa lo differenzia da un qualunque altro intervento integrato?

In primis, la pratica della meditazione, che accomuna i membri dell’équipe e che viene svolta sia singolarmente, che in gruppo. Questa crea un terreno comune, la “coltivazione”, appunto, di quell’atmosfera e quelle modalità di ascolto non giudicanti, fondamentali per un reale incontro con l’altro a partire da una profonda conoscenza di sè. La particolarità della meditazione windhorse si evince anche durante le riunioni d’equipe: il modo di discutere i problemi non può prescindere dalla posizione interna di “ascolto non giudicante”. Questo non significa però che non esista il conflitto, anzi, se è importante “stare con quello che c’è” (o che “non c’è”) nulla può essere lasciato fuori.

“L’attenzione all’ambiente” viene a configurarsi quindi come attenzione allo spazio interpersonale, dove può nascere, se coltivata da curiosità e benevolenza, un’autentica relazione. In questo spazio è fondamentale la real ” presenza” di tutti i presenti.

Da un punto di vista pratico, quello che avviene in un progetto Windhorse è la costituzione di un’équipe terapeutica formata da almeno due Basic Attenders, uno psicoterapeuta, in alcuni casi uno psichiatra e un medico di base. Tale équipe sarà tenuta a muoversi nella rete che è stata costruita attorno al paziente per integrare l’approccio Windhorse, che necessita di incontri regolari, con gli altri approcci in essere. Dopo una prima fase di indagine dei bisogni della persona e degli altri abitanti della casa (nel caso di un progetto domiciliare) si stabilisce quanti turni di Basic Attendance e quante sedute di psicoterapia possano essere ottimali per il paziente. Le riunioni d’équipe si tengono con cadenza quindicinale o settimanale, mentre a cadenza mensile è previsto un incontro con il paziente e gli abitanti della casa o altri familiari o persone coinvolte nel progetto e tutta l’equipe.

Questo significa prendere in carico anche altri eventuali componenti del nucleo familiare, occuparsi anche della sofferenza della famiglia. La sofferenza del paziente non è esclusivamente sua, ma trova spazio anche in quella famiglia stessa che è possibile abbia contribuito a generarla. Ancora una volta, nessuno può essere lasciato fuori.

Come scrive E. Podvoll in “Recovery Sanity”: “La Basic Attendance agisce oltre che sul paziente anche sull’ambiente che la persona abita e frequenta […]”. Si tratta di organizzare momenti di presenza al fianco del paziente presso la propria abitazione o presso i luoghi che via via si ritengono coerenti con i bisogni espressi dal percorso terapeutico. Ogni “turno” ha qui una durata di tre ore. Svolgere un “turno” di Basic Attendance non significa semplicemente “stare accanto” a qualcuno, ma prendersi carico di qualsiasi cosa abbia una diretta attinenza con lo stare vicini ad una persona che decide di intraprendere un percorso fragile, incerto e a volte drammatico verso la propria guarigione.

I principi sono detti “di base” (basic) in quanto sono riconducibili alla condizione basilare e fondamentale del sincronizzare corpo, mente e ambiente nelle normali attività della vita mantenendo l’attenzione al presente, momento per momento, e affinando le percezioni.

Questo tipo di servizio prende di volta in volta connotazioni pratiche diverse: fare l’accompagnatore, il tutore, la guida …”

Negli ultimi anni Windhorse si sta aprendo anche, per quanto riguarda i momenti di incontro allargato alle famiglie, alle esperienze di “Open Dialogue” portati avanti da Seikkula.

Quello che più stupisce del film è la posizione degli esperti. I protagonisti suggeriscono una conoscenza del folle e della sua follia, non tanto attraverso categorie psicologiche consolidate, ma tramite un gentile ed autentico incontro di diverse umanità.

Un incontro in cui si fa cruciale l’abbandono dell’arroccamento difensivo (identificazione) dietro i rispettivi ruoli di paziente-terapeuta. Guardando Someone Beside You, in certi momenti, soprattutto durante le prime scene, l’identificazione di chi sia paziente e chi terapeuta non è così facile. Il setting classico viene completamente scardinato in favore di quello che potrebbe essere chiamato un “controtransfert globale” che si avvicina molto ai concetti di “posizione terapeutica” della psicologia e psicoterapia di strada.  o alla necesssità di “interiorizzare il setting” espressa da Sergio Erba a proposito del setting psicoanalitico. (N.B. in questo testo, Sergio Erba utilizza i termini psicoanalisi e psicoterapia spesso come sinonimi).

“Senza setting, l’analisi non poteva aver luogo (…) si finiva con l’utilizzarlo solo nella sua forma nei suoi aspetti esteriori, fisici. E nel ruolo di custode dell’ortodossia che il setting si era ritrovato a ricoprire,esso si comportava come un ringhioso mastino che, non essendo stato addestrato a distinguere tra amici e nemici, finiva per abbaiare indistintamente contro tutti.

Per molto tempo infatti, coloro che si sono avventurati nel trattamento delle psicosi si sono visti squalificare la loro esperienza come non psicoanalitica solo perchè avevano dovuto apportare modifiche al setting tradizionale. Oggi che l’esigenza di allargare gli ambiti dell’applicazione psicoanalitica è particolarmente sentita e diffusa, il problema di questa rigidità si ripropone con forza. MI è capitato sovente di sentire affermare, da parte di colleghi, su questo argomento, che “bisognerebbe interiorizzare il setting” (…) in altri termini, l’esigenza di possedere una sostanza per essere liberi rispetto alla forma. Se so che il setting è essenziale, ma non dispongo di un convincente perchè, sono costretto ad attenermi a quella che è la forma in uso. Se invece posseggo un perchè, sono la sostanza, la funzionalità a diventare il mio punto di riferimento.”

E’ solo l’abbandono delle difese del ruolo da parte del terapeuta che può permettergli di recuperare l’abisso che lo separa dal paziente impededogli un autentico incontro.

Lo psicoterapeuta così facendo, per mezzo della curiosità e della fiducia che il paziente possa assumersi la piena responsabilità del proprio spirito, lo può aiutare a riprendere consapevolezza delle rappresentazioni di sé e del mondo trovando la giusta distanza dai propri pensieri.

Perchè questo possa realizzarsi occorre un luogo dove questo sia possibile: un luogo dove incontrarsi, uno spazio-tempo, un setting che si crei volta per volta, dove niente e nessuno venga lasciato fuori: il paziente, il terapeuta, i familiari, un luogo dove incontrare sè e l’altro. Come una tenda da nomadi, L’Ambiente Windhorse si “monta” là dove necessario, insieme a chi la abiterà e diventa luogo dell’incontro.

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Binge Drinking: le abbuffate di Alcool – Psicologia

 Teresita Forlano

 

 

Binge Drinking - Psicologia - Immagine: © creative soul - Fotolia.comIl binge drinking modalità di bere di origine nordeuropea che implica il consumo di numerose unità di alcol in un breve arco di tempo, si è ormai diffuso stabilmente in Italia, registrando dal 2013 un costante aumento in entrambi i sessi, soprattutto tra i giovani, ma sempre più tra gli adolescenti e in particolare tra i maschi.

La grande diffusione del fenomeno binge drinking, è una problematica psico-sociale emergente, questo è quanto si evince dalla ‘Relazione al Parlamento su alcol e problemi alcol correlati 2013′ pubblicata sul sito del Ministero della Salute.

Nel 2012 i binge drinkers rappresentano complessivamente il 6,9% della popolazione di 11 anni e più (l’11,1% tra i maschi e il 3,1% tra le femmine) ma tra i giovani maschi di 18-24 anni il fenomeno interessa ben il 20,1%; inoltre, il 14,8% ha ammesso comportamenti di binge drinking e, da quanto si legge nella Relazione, appare anche, nei giovani di entrambi i sessi, la correlazione, evidenziata dall’Istat, tra binge drinking e assidua frequentazione di discoteche, soprattutto nella fascia di età 18-24 anni”.

Tale correlazione, secondo il Ministero della Salute, può aggravare i pericoli derivanti dal bere e richiede pertanto un monitoraggio particolarmente attento, anche in considerazione del fatto che i giovani fra i 20 e i 24 anni continuano ad essere la classe di età più colpita dai danni per incidente stradale, uno dei più importanti indicatori di danno indirettamente causato dall’alcol. Nel 2012 sono stati 309 i morti e 31.305 i feriti in questa classe di età.

Che cos’è il Binge Drinking

Il binge drinking letteralmente significa abbuffata alcolica, e consiste nell’assunzione di 5 o più bevande alcoliche al di fuori dei pasti in un breve arco di tempo, con gravi rischi per la salute e la sicurezza. Nel binge drinking la persona ingerisce volutamente quantità ripetute di alcol in misura maggiore rispetto alle sue capacità psicologiche e fisiologiche e al contesto nel quale si trova; lo scopo patologico di queste abbuffate alcoliche è quello di provare ebbrezza fino ad arrivare alla ubriacatura completa con perdita di controllo e intossicazione. Il punto critico può essere raggiunto dopo molte ore o anche diversi giorni di assunzione. Gli episodi di Binge drinking sono contraddistinti da:

  • eccessivo consumo di alcol;
  • assunzione di alcol rapidamente in un breve arco di tempo;
  • bere fino ad ubriacarsi e a sentirsi male;
  • bere in compagnia in particolari eventi.

Si arguisce che esso è più probabile in situazioni sociali, piuttosto che, quando l’individuo è solo. I binge drinker bevono maggiormente cocktail, birra e vino mentre in misura minore i liquori. Sono attenti alla moda dell'”happy hour” proposta dai locali.

Disagi e rischi per la salute e il benessere dell’individuo

Nelle abbuffate alcoliche esiste sia la pericolosità indotta dalla quantità eccessiva di alcool, sia quella dovuta alla modalità di ingestione, la quale, amplifica l’impatto negativo sulle capacità e sulla salute psicologica, cognitiva e organica. Va sottolineato che le ripetute bevute possono avere carattere occasionale, ma purtroppo, alcune volte, si trasformano in atteggiamento frequente e poi in vera e propria patologia sia fisica che psichica, ovvero in dipendenza da alcool, con il possibile verificarsi di concomitanti sintomi di astinenza quali: depressione, disturbi del sonno, disturbi sessuali, irritabilità, problemi di performance cognitive, come problemi di concentrazione, apprendimento e memoria (sia a lungo, che a breve termine), con pericolosi sbandamenti dell’attenzione e vuoti mnemonici non solo nelle attività scolastiche o lavorative, ma anche nelle attività semplici e normali di tutti i giorni.

Fare esperienza del Binge drinking comporta problemi nelle attività quotidiane, nelle amicizie, nei rapporti affettivi, nelle dinamiche familiari, nelle aree sociali, personali, sessuali, l’individuo ha quasi sempre difficoltà a gestirsi dato lo stato di alterazione in cui si trova dopo un abbuffata alcolica.

Oltre la sfera interpersonale, lavorativa, familiare, affettiva, viene messa in serio pericolo la propria vita e salute con gravissimi rischi: incidenti, violenza, atti di vandalismo, rapporti sessuali non protetti con predisposizione al contagio di malattie virali e gravidanze indesiderate. A causa degli effetti a lungo termine sulla salute fisica con problemi e danni al sistema cardiaco, ormonale, neurologico, gastrointestinale, ematico, immunitario, muscolo- scheletrico, a livello fetale nelle donne in gravidanza, nell’attività circadiana, e sulla salute mentale con la riduzione della capacità di attenzione, concentrazione, e possibile stato confusionale, il binge drinking è considerato uno dei più grandi problemi di salute al giorno d’oggi.

Studi sul fenomeno

Recenti studi americani, dimostrano che l’alcol bevuto velocemente ha effetti maggiormente deleteri rispetto alla stessa quantità assunta con più dilazione temporale. Ulteriori studi hanno posto in evidenza il fatto che bere grosse quantità di alcol in tempi rapidi, in particolare durante il fine settimana o comunque in concomitanza di feste o ritrovi, e poi mantenere durante il resto dei giorni sobrietà dagli alcolici, è molto pericoloso in quanto, può aumentare gli effetti negativi dei momenti di Binge drinking.

Motivi che possono spingere alle abbuffate alcoliche

Le motivazioni che spingono i giovani ad avvicinarsi all’alcol possono essere: uniformarsi al gruppo , provare sensazioni piacevoli; la solitudine, evadere dai problemi, dal senso di vuoto, curarsi dalla depressione; alcuni giovani lo fanno per disinibirsi prima di un rapporto sessuale.

Prevenzione

Il binge drinking è nocivo, indipendentemente dall’età di una persona, gli operatori sanitari possono contribuire prestando maggiore attenzione alle proprie abitudini di consumo dei pazienti, soprattutto ex bevitori. Nel caso di adolescenti, interventi di tipo preventivo possono essere ad esempio: controlli periodici, riabilitazione psico-sociale e tutor coetanei che possono ridurre il livello di consumo critico. In alcuni casi si ricorre a sedute coinvolgendo i familiari del paziente.

In Italia i bevitori giovani sono aumentati, come evidenziato dal rapporto del Ministero della Salute, anche se, rispetto agli altri paesi la percentuale è minore (ma questo non deve tranquillizzare, il problema esiste comunque). I giovani sono prematuramente iniziati al consumo di alcolici, anche sotto forma di dolci con dirette ricadute sulla salute, sull’economia e sul lavoro. Efficaci strategie per ridurre il binge drinking potrebbero essere: oltre a leggi adeguate per il consumo di alcool, aumentare l’attenzione pubblica e diffondere informazioni sui rischi derivanti dal fenomeno, magari conducendo inchieste dai dipartimenti di emergenza sul comportamento pericoloso; investire nella ricerca, formare operatori sanitari e comunicare con il pubblico.

 

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Odori e memorie sono una sinfonia di onde cerebrali

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una fragranza, un profumo, scatenano ricordi. Ma come? Secondo il Kavli Institute for Systems Neuroscience la connessione è data da una sincronia di onde cerebrali.

Gli odori, dal nostro naso si traducono in e collegano ai ricordi in un’orchestra sinfonica di onde cerebrali. Ogni ricordo ha un suo luogo e una localizzazione ben precisa nella mappa interna di ognuno di noi.

 

Il legame tra odori e memoria è noto da tempo, uno studio ha recentemente scoperto il processo tramite il quale avviene questa associazione.

Sembrerebbe che le reti neurali siano collegate tramite onde cerebrali sincronizzate di 20-40Hz.

Questo processo associativo tra ricordi e profumi è stato indagato grazie allo studio di come un gruppo di ratti ai quali erano stati inseriti 16 elettrodi nell’ippocampo e in diverse aree della corteccia entorinale, sceglieva la strada in un labirinto avendo come unico indizio un odore e grazie all’associazione tra odore e luogo, i ricercatori hanno potuto ipotizzare un pattern di attività di onde cerebrali sincronizzate.

L’uso di onde cerebrali sincronizzate è presente anche nei processi di codifica e recupero dei ricordi, ma questo studio mostra per la prima volta la relazione tra lo sviluppo di uno specifico gruppo di oscillazioni nell’ippocampo alle prestazioni di memoria.

Le oscillazioni corticali potrebbero dunque essere un meccanismo generale che media le interazioni tra neuroni funzionali specializzati nei circuiti cerebrali.

 

 

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Psicoterapia Metacognitiva: efficace per ansia e depressione – Meta-analisi

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy, MCT) è un recente approccio psicoterapeutico che considera i disturbi psicologici come il risultato di uno stile di pensiero rigido che può ostacolare la naturale regolazione emotiva e rendere ansia e depressioni pervasive, intense e durature. Questo stile di pensiero consiste in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e comportamenti di gestione della sofferenza controproducenti.

La MCT ha sviluppato tecniche e protocolli di intervento per i Disturbi d’Ansia e la Depressione. La teoria e la terapia hanno avuto nel corso degli anni numerosi supporti scientifici di validità ed efficacia. Solo recentemente è stata pubblicata la prima meta-analisi che raccoglie tutti gli studi di efficacia della MCT anche confrontata con altre terapie come quella cognitivo-comportamentale.

Pur essendo solo all’inizio di questo lungo confronto è la prima volta che viene mostrata su un ampio insieme di studi la superiorità di una terapia su interventi cognitivo-comportamentali per disturbi d’ansia e depressione.

I punti forti di questo articolo sono: (1) gli autori sono indipendenti (l’analisi non è stata effettuata dagli autori della terapia), (2) le analisi sono state fatte sui dati originali, (3) sono stati inseriti tutti gli studi registrati anche quelli mai pubblicati.

On primary outcome measures the aggregate within-group pre- to posttreatment and pretreatment to follow-up effect sizes for MCT were large (Hedges’ g = 2.00 and 1.65, respectively). Within-group pre- to posttreatment changes in metacognitions were also large (Hedges’ g = 1.18) and maintained at follow-up (Hedges’ g = 1.31). Across the controlled trials, MCT was significantly more effective than both waitlist control groups (between-group Hedges’ g = 1.81) as well as cognitive behavior therapy (CBT; between-group Hedges’ g = 0.97).

 

THE EFFICACY OF METACOGNITIVE THERAPY FOR ANXIETY AND DEPRESSION: A META-ANALYTIC REVIEWConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Article first published online: 22 APR 2014 (…)

 

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Otto Kernberg: Amore e Aggressività tra Psicoanalisi e Ricerca empirica

Emanuele Preti

 

 

Amore e aggressività - Otto KernbergIn quest’ultimo volume, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui.

Amore e aggressività: Prospettive cliniche e teoriche, edito da Fioriti nel 2013, raccoglie alcuni dei contributi prodotti da O. Kernberg negli ultimi dieci anni.

Presentare O. Kernberg al pubblico italiano è un compito superfluo. Da diversi decenni, infatti, le sue opere sono un elemento imprescindibile in qualsiasi biblioteca di psicologi, psichiatri e psicoterapeuti.

In quest’ultimo volume, tuttavia, accanto ai più classici contributi teorico-tecnici per i quali Kernberg ha conquistato l’attenzione e l’apprezzamento di studiosi e clinici nel nostro Paese, emerge in maniera piuttosto evidente lo sforzo dell’autore di imprimere alla teoria e alla teoria della tecnica psicoanalitiche uno slancio nella direzione dell’irrinunciabile confronto con mondi contigui:

Questo volume raccoglie il mio lavoro degli ultimi anni con pazienti affetti da gravi disturbi di personalità, coppie in situazioni di conflitto e nell’ambito della ricerca e della formazione psicoanalitica. Tale contributo è stato sensibilmente influenzato dall’attività di ricerca e dal lavoro clinico del Personality Disorders Insitute presso il Weill Cornell Medical College (Westchester Division) del New York Presbyterian Hospital e riflette lo strenuo sforzo di abbattere i confini tra l’approccio psicoanalitico, la clinica psichiatrica e la neurobiologia.

(Kernberg, 2013, p VII)

“Abbattere i confini” richiede una visione laica degli accadimenti psichici normali e patologici. Appare evidente, via via che ci si addentra nei tanti e diversi temi trattati dai lavori raccolti nel volume, come tale visione sia il frutto di due caratteristiche che, a mio avviso, costituiscono l’unicità e la forza dell’approccio di Otto Kernberg. La prima, ovvia, è costituita dalla serietà e dallo spessore con cui l’autore si è sempre mosso all’interno della Teoria psicoanalitica, contribuendo in modo sostanziale alla sua sistematizzazione e aprendo, con la sua declinazione della teoria delle relazioni oggettuali, alla possibilità di navigare in acque nuove.

Il secondo aspetto caratterizzante è quello dell’apertura sincera e sistematica al confronto con la ricerca empirica. Visitando il Personality Disorders Institute della Cornell University e il Personality Studies Institute di Madison Avenue (New York) il livello di confronto tra gli aspetti teorico-clinici e quelli legati alla continua messa alla prova empirica dei modelli e dei presupposti teorici e tecnici appare evidente nei continui scambi tra i diversi componenti del gruppo (tra gli altri, John Clarkin, Frank Yeomans, Michael Stone).

E’ a partire da questi fili conduttori che si dipana la trattazione di temi di scottante interesse.

Il nucleo clinico del volume ruota attorno alla patologia dell’identità. A partire da questa pietra miliare, Kernberg approfondisce la clinica del paziente narcisista e, più in generale, riprende e approfondisce alcuni aspetti teorici e tecnici della Transference-Focused Psychotherapy.

Particolarmente interessante è, ad esempio, il tentativo di tracciare delle linee di demarcazione e dei confini chiari tra i concetti di mentalizzazione, mindfulness, insight, empatia e interpretazione. Kernberg dedica poi uno spazio particolare alla sessualità e alle “limitazioni alla capacità di amare” caratteristiche dell’area borderline.

Il capitolo che meglio rappresenta la tendenza all’apertura della teoria psicoanalitica ad altri campi e metodi di indagine è quello che affronta, passando in rassegna le più recenti linee di ricerca, il rapporto tra affetti intesi dal punto di vista psicoanalitico e aspetti neurobiologici.

Chiudono il volume alcuni contributi legati ad aspetti che potrebbero essere considerati marginali, ma che rappresentano probabilmente alcune tra le sfide più rilevanti nella società contemporanea: il tema della formazione in psicoanalisi e quello della religione.

Kernberg, past president dell’International Psychoanalytical Association dal 1997 al 2001, propone un’analisi attenta e critica delle difficoltà relative alla formazione psicoanalitica e alle dinamiche istituzionali degli istituti di formazione. La religione è infine trattata dall’autore sia nei suoi aspetti di costruzione socio-culturale che in relazione alla capacità di trascendere dal dominio interno delle relazioni oggettuali nella formazione di un’esperienza spirituale.

 

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I pensieri ingarbugliati – Immagine: © Costanza Prinetti 2014

 

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Silenzio e dialogo ai tempi di WhatsApp – Tecnologie e Psicologia

 

 

 

internet & whatsapp -  Immagine: © fotomek - Fotolia.comIl presente supera in velocità la nostra capacità di comprenderlo e questo è evidente per chi cerca di ragionare sulle modalità dell’ agire e dell’interagire nell’epoca post moderna,  soprattutto sul nostro divenire rispetto a spazi che si chiudono o si aprono nelle nuove tecnologie.

Da sempre, lo studio e la cura dei disturbi psicopatologici si sono occupati a fondo dell’incontro dialogico e del modo di entrare o di non entrare, in relazione con l’ altro. La crisi della comunicazione si evidenzia ormai ovunque, dentro e fuori lo spazio clinico e secondo Eugenio Borgna per approfondirla occorre affrontare “temi come quelli del silenzio e del dialogo, intesi come modalità di comunicazione, non solo linguistiche ma esistenziali”. Continua scrivendo: “Nel franare della comunicazione cambiano fatalmente l’immagine e la fisionomia del silenzio e del dialogo”.

Riporto questa citazione al tema della comunicazione, linguistica ed esistenziale, per porre un interrogativo su come sono cambiate le nostre vite da quando computer e telefonini sono diventati oggetti centrali e irrinunciabili.

Il fenomeno di questa diffusione è ambivalente, perchè si è integrato nelle abitudini socialmente predominanti, estendendosi a tutte le fasce della popolazione in un modo così rapido che risulta complesso già fin da ora prevederne gli effetti futuri.

In un breve lasso di tempo, infatti, l’avvento degli smartphone ha incrementato l’ uso d’ innumerevoli dispositivi con relative funzioni, fino a travalicare il confine netto che separa il passatempo dalla dipendenza: basta pensare al tempo che ciascuno di noi impiega su piccole e grandi piattaforme di social network.

Le ultime ricerche affermano che, indipendentemente dai vantaggi prodotti, trascorrere troppo tempo a contatto con il proprio telefono può portare ansia e paura, piccole e grandi alterazioni dell’umore che vengono indicate con il termine di nomophobia  (abbreviazione della frase non-mobile-phone fobia).

Sebbene apparentemente inappropriato, la denominazione “fobia” descrive al meglio la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo. Solo riconoscendo il vissuto relativo alla separazione da un oggetto che custodisce un mondo emozionale di desideri e sentimenti è possibile intravedere le forme ansiose tipiche di ogni separazione. Allenandoci a riconoscere quando la tendenza al controllo della comunicazione diventa controllo della relazione, possiamo aiutare le persone a vedere la pericolosità  dell’ imperativo che le costringe  a raggiungere in ogni momento e in ogni momento  ad essere raggiunte.

Una delle caratteristiche della nomofobia, ad esempio, è proprio quella sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili. Si accompagna a questo la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo, anche quelli più intimi come il bagno, la camera da letto o lo spazio di una seduta in terapia.

Senza entrare nell’area dei disturbi del comportamento presenti nelle dipendenze, il controllo eccessivo sull’oggetto telefono porterebbe così ad instabilità dell’ umore, aggressività e, non ultima,  difficoltà nella concentrazione, con maggiore vulnerabilità per i giovani.  Nella quinta e ultima edizione del DSM, le diagnosi di abuso da sostanze e dipendenza hanno ceduto il posto alla nuova categoria dipendenze e disturbi correlati; fra le dipendenze comportamentali è stato richiesto l’inserimento dell’Internet Addiction Disorder (IAD), condizione caratterizzata da un forte desiderio di connettersi al Web, con un tempo trascorso on line tale da compromettere la propria vita reale. Pur non avendo dati sufficienti per rendere ufficiale tale inserimento, questa diagnosi è stata inserita in appendice, con lo scopo di promuovere studi sull’argomento; è auspicabile raccogliere dati interessanti su nuovi e importanti fenomeni, sia normali che patologici.

Noi, dal canto nostro, possiamo osservare il fenomeno ed essere pronti a riconoscere da un lato la pericolosità di una dipendenza, dall’ altro il valore di un dialogo anche virtuale, se questo consente di uscire dal silenzio di una solitudine altrimenti incolmabile.

 

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In che modo l’autoritarismo dei genitori influenza la personalità dei figli?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il termine “autoritarismo” è usato nelle scienze sociali in rapporto a tre tipi di fenomeni: personalità, ideologie e regimi.

Per quanto riguarda la personalità autoritaria, il punto di riferimento fondamentale per ogni ulteriore riflessione è costituito dalla ricerca curata da Th.W. Adorno per la Scuola di Francoforte (1950).  Secondo i risultati i tratti della personalità autoritaria sono essenzialmente la sottomissione e l’aggressione, la ricerca esasperata dell’ordine e il rifiuto dell’ambiguità.

Gli studi svolti in tale ambito, suggeriscono come i livelli di autoritarismo di una persona siano correlati con il suo orientamento socio-politico. Nei giovani adulti, poi, interverrebbe un ulteriore fattore: il livello di autoritarismo dei propri genitori.

Il ricercatore di scienze sociali Michal Reifen Tagar dell’Università del Minnesota ha ipotizzato che tali differenze interindividuali nei livelli di autoritarismo emergano già nella prima infanzia. Tagar e colleghi hanno condotto 40 bambini di 3 e 4 anni di età all’interno del loro laboratorio e hanno mostrato loro dei video in cui degli adulti erano ripresi durante un compito di denominazione di oggetti. Un video mostrava un adulto intento ad utilizzare il nome convenzionalmente associato all’oggetto (“shoe” quando veniva presentata una scarpa, ad esempio); un altro video, invece, mostrava un altro adulto che utilizzava un’etichetta verbale insolita (“ball”). Un’ulteriore tipologia di video, poi, mostrava un soggetto intento a dare un’alternanza di risposte convenzionali e non convenzionali. Ai bambini venne successivamente mostrata un’altra serie di video in cui i soggetti introducevano e denominavano degli oggetti completamente nuovi.

Lo scopo degli autori era quello di valutare il livello di fiducia dei bambini in queste nuove denominazioni, sulla base dei video visti in precedenza.

I risultati hanno mostrato come essi riponessero maggiore fiducia verso l’adulto che nella prima serie di video aveva fornito una risposta convenzionale. Tale risultato sembrerebbe prevedibile, ma ad un’attenta analisi emerse un ulteriore fattore: il soggetto che aveva fornito risposte usuali aveva maggiore presa proprio sui bambini con genitori molto autoritari o socialmente conformisti, i quali, inoltre, riponevano maggiore fiducia nell’adulto che dava risposte ambigue rispetto ai compagni.

Come spiegare tale osservazione, apparentemente in contrasto con gli altri risultati? Gli autori suggeriscono che la scelta di tale sottogruppo di bambini potesse essere dettata dal fatto che il soggetto osservato nei video era un adulto e, come tale, degno di fiducia, indipendentemente dalla coerenza delle sue risposte.

In accordo con Tagar e collaboratori, tali risultati rivelerebbero un’emergente manifestazione di autoritarismo già in tenera età e tale tendenza sarebbe predetta dalle caratteristiche psicologiche dei genitori.

Non sarebbe ancora completamente chiaro, però, se in tale influenza giochino un ruolo maggiore i fattori genetici, la socializzazione o entrambi.

 

 

 

 

 

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The Fascinating World of Executive Functions

Elena Lo Sterzo

 

 

The Fascinating World of Executive Functions Executive function is an umbrella term, referring to those high-level processes that control and organise other mental processes, that facilitate new ways of behaving and optimise one’s approach to unfamiliar circumstances.

Years of observation at behavioural performances of patients with different type of lesions at frontal lobe, along with investigations with neuroimaging techniques, have led to confidently hypothesize that these processes are supported by structures within the frontal lobes on the brain.

Most theories of executive function are based on a distinction between automatic and controlled processing. Routine processing refers to mental operations that are overlearned, such as reading out a word. On the other hand, non-routine processing most commonly refers to mental operations that are used in situations when there is not a well-established stimulus-response association, or where a behavioural impasse occurred.

Flexible representations of goals and intentions are at an abstract level of processing. Such higher-level representations are often contrasted with lower-level cognitive processes involved in analysing specific perceptual inputs and generating specific motor outputs.

According to most theories, executive function involves the modulation of lower-level processes by those at a higher level, allowing us to behave flexibly, rather than being slaves to our environment. The executive system has been traditionally quite hard to define, since there is no single behaviour that can in itself be tied to executive function (or indeed executive dysfunction).

One of the most influential framework for understanding executive functions has been offered by Norman and Shallice (1986): they proposed that behaviour is governed by sets of thought or action schemas (a set of actions or cognitions that became very closely associated through practice.)

These schemas can be triggered by events in one’s environment and can be sufficient to behave appropriately in routine situations involving well-learned links between particular events in our environment and particular ways of behaving. However, in situations involving novelty or where well-learned responses need to be inhibited, environmental triggering is insufficient and a second system is required to modulate the activity level of schemas. Norman and Shallice called this the supervisory system and suggested that it is supported by the frontal lobes of the brain.

Another theoretical model for understanding executive functions has been put forward by Duncan (2001): according to its adaptive coding model, the prefrontal cortex (PFC) has a remarkable ability to adapt its function to the current task, thus PFC is viewed as “global workspace” that, rather than multiple executive processes, can adapt to many different cognitive operations.

Determining the relative contributions of different frontal subregions to different executive functions is a highly complex matter, but on current evidences, some suggestions can be put forward. Ventrolateral PFC (VLPFC) is thought to be involved in comparatively simple tasks, such as short-term maintenance of information that cannot currently be perceived in working memory. By contrast, dorsolateral PFC (DLPFC) has been most commonly implicated in manipulating that information. DLPFC has also been suggested to be involved in complex functions such as making plans for the future.

The largest and most mysterious, sub-region of prefrontal cortex is the rostral PFC (RPFC): patients with damage restricted to the RPFC often perform well on standard neuropsychological tests, including classical tests of executive function such as the Wisconsin card sorting test (Grant & Berg, 1948). Instead, patients with damage to this region seem to have particular difficulties in real-world multitasking situations (e.g. Multiple errands test, Shallice & Burgess, 1991), such as organizing a shopping trip when there are few strict constraints but also multiple instructions to be remembered, and potential distractions in the environment.

Recent accounts have focused on the role of RPFC in the most high-level human abilities, such as combining two distinct cognitive operations in order to perform a single task, trying to work out what other people are thinking (mentalizing), and reflecting on information we retrieve from long-term memory (source memory).

Interestingly, the gateway hypothesis proposed by Burgess et al. (2005) claims that RPFC is involved in modulating the attentional balance between stimulus-oriented and stimulus-independent information (i.e. information that we perceive in our environment and information that we represent internally).

Finally, although we now have a much greater understanding of the ways in which executive functions can be split into various discrete processes, and the ways in which PFC can be split into functionally discrete subregions, further researches are needed in order to deepen the functions of prefrontal cortex in explicit computational terms: not just knowing that a particular region of PFC supports a particular ability, but also clarifying how it happens.

 

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Genitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

 

Genitori in pratica.

Manuale di primo soccorso psicologico

per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

di Roberta Mariotti e Laura Pettenò

Edizione Erickson

 

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Genitori in praticaGenitori in pratica. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani: la relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino.

Care mamme e cari papà,

dopo aver trascorso l’ennesima notte insonne dico che fare il genitore è faticoso, impegnativo e a tratti demoralizzante, ma è una delle esperienze più belle della vita! Sono certa che molti di voi condividono questo punto di vista, malgrado gli stenti giornalieri fiaccano l’animo e il fisico.

Allora, ecco il libro che fa per noi: “Genitori in pratica” di Roberta Mariotti, Laura Pettenò, Edizione Erickson. Manuale di primo soccorso psicologico per aiutare i propri figli nei problemi quotidiani.

La relazione genitore-figlio potrebbe essere paragonata, come sostengono le autrici di questo libro, a un danza in cui il genitore funge da coach nelle situazioni facili e difficili che si manifestano durante la crescita del bambino. A volte si è complici dei propri pargoli, altre volte guide, altre ancora fermi sui propri principi. Quanto è difficile tutto questo! Come è complicato metterlo in pratica e soprattutto come è faticoso capire quando è il caso di comportarsi in un modo piuttosto che nell’altro! Il cambiamento di rotta, l’aggiustamento richiesto dai diversi eventi che si presentano durante la vita, richiedono sistemazioni in itinere nel modo di rapportarsi ai figli, poiché rimanere fermi sulle proprie convinzioni, spesso, porta a effetti negativi. Fondamentale e indispensabile, in questo caso, è la capacità di adattamento che vira dal prendersi cura dei figli, nei primi anni di vita, al renderli autonomi durante l’adolescenza. Ma tutto questo iter è una corsa a ostacoli, caratterizzata da molti intoppi e problemi da arginare e risolvere.

Per riuscire a trovare una soluzione alle difficoltà presentate dalla prole il presupposto, o meglio, la prerogativa richiesta ai genitori è di essere flessibili, che non significa assecondare tutti i comportamenti del bambino, ma nel sapersi modificare in relazione alle difficoltà presentate, cogliere prospettive diverse dalle proprie e adattarsi alle circostanze. 

E’ necessario, dunque, conoscere come “funziona il problema“, dove, come e quando nasce,  per poterlo spiegare al proprio figlio e trovare una soluzione allo stesso. Ed ecco presentate le quattro trappole mentali, comunicative, relazionale e comportamentali, nelle quali i genitori possono cadere quando i figli si trovano ad affrontare una situazione complicata:

 

1. difficoltà di messa a fuoco del problema e della situazione in cui si manifesta. Mettere a fuoco la soluzione al problema e non solo la sua causa porta il genitore a identificare una spiegazione all’evento sia in termini di pensieri sia di comportamenti.

2. reciproca influenza; la dinamica relazione che si presenta tra genitore figlio influenza il modo di comportarsi. Quindi, in alcuni casi è necessario entrare nel merito della relazione e modificarla.

3. convinzione che il nostro pensiero sia l’esatta rappresentazione della realtà; spesso non ci rendiamo conto che il pensiero si basa su convinzioni personali derivanti da esperienze precedenti, ma non sempre sovrapponibili alla realtà e che, tante volte, portano ad amplificare i comportamenti disadattivi del bambino. Quindi un cambio di rotta, con messa in discussione delle proprie credenze/convinzioni giova alla relazione.

4. abitudine a ripetere ciò che conosciamo, perché è più economico per la nostra mente, ma non sempre funziona. In questo caso si rinuncia a costruire una soluzione nuova e più efficacie alla situazione adducendo anche, in alcuni casi, a un peggioramento della stessa.

In aggiunta, sono largamente enucleate le trappole derivante da una cattiva gestione delle emozioni sia positive sia negative.

Con un linguaggio semplice e diretto e con il racconto di numerose testimonianze tratte dalla pratica clinica delle autrici, questo manuale suggerisce strategie e soluzioni per rendere i genitori inclini a risolvere i problemi presentati dai propri figli. Si tratta di facile strategie ed euristiche di pensiero utili per dialogare, sostenere e supportare i propri figli nel raggiungimento degli obiettivi quotidiani, grandi o piccoli che siano, insegnando il senso della vittoria e della sconfitta.

Per concludere, quello che spesso noi genitori facciamo è di farci influenzare dai nostri stessi pensieri senza metterli in discussione e senza pensare minimamente che possono essere modificati in relazione alla situazione attuale. La soluzione a tutto questo consiste nell’individuazione e contestualizzazione del problema, nello stabilire un obiettivo da raggiungere in relazione al problema, nell’ eliminazione della soluzione che non sortisce l’effetto voluto e nella creazione di nuove strategie funzionali alla situazione verificatasi.

Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto (Vincent  van Gogh).

 

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– FLASH NEWS-

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La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

Anche i giovani padri sarebbero a rischio di un significativo aumento di sintomi depressivi in co-occorrenza del cambiamento del loro ruolo familiare.

Uno studio longitudinale recentemente pubblicato sulla rivista Pediatrics lo riporta e sottolinea la necessità di guardare criticamente all’emergenza di tale fenomeno con adeguati e tempestivi interventi di screening e monitoraggio per poi rispondere al bisogno dei giovani padri.

Secondo i dati dello studio (che ha coinvolto un campione di padri americani diventati genitori per la prima volta nella fascia di età dai 24 ai 32 anni e che vivevano in casa con i figli), i sintomi depressivi aumentavano mediamente del 68% durante i primi cinque anni di paternità (da sottolineare che ciò non significa che si debba poi necessariamente sviluppare un conclamato episodio depressivo maggiore o disturbo dell’umore – aspetto non considerato dallo studio che utilizzando questionari self-report e non colloqui clinici/SCID-I).

La ricerca ha utilizzato dati raccolti da 10.623 giovani uomini coninvolti nello studio National Longitudinal Study of Adolescent Health (Add Health) monitorati e valutati durante l’adolescenza fino alla transizione nell’età adulta; in particolare sono state utilizzate come misure di outcome una batteria di scale per la valutazione della depressione con riferimento al Center for Epidemiologic Studies Depression Scale.

E’ interessante notare che lo studio mette in evidenza che sono proprio i giovani padri che vivono in casa insieme ai figli a sviluppare un aumento dei sintomi depressivi nei primi cinque anni di paternità; va sottolineato che coloro che invece non vivevano quotidianamente nella stessa casa con i figli presentavano maggiori sintomi depressivi prima della nascita del figlio che invece iniziano a diminuire durante gli anni della paternità ( da riconoscere che tale sottocampione è però minore in termini di numerosità rispetto al campione di padri che convivono con i loro figli).

La depressione genitoriale nei padri ha chiaramente anche un effetto negativo sui piccoli figli in termini di caratteristiche delle interazioni genitore-figlio tra cui maggiori punizioni corporali, minori interazioni e maggiore stress riportato anche nella relazione.

 

 

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