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La psicopatia di Saverio in Senza pelle (1994) – Cinema & Psicoterapia #25

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #25

Senza pelle (1994)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

Senza pelle (1994): Cinema e psicoterapia

Il film si chiude con un messaggio di speranza che le persone affet­te da patologie gravi possano avere una vita dignitosa e di qualità. Con Saverio possiamo dire: Perché ci sia qualcosa che si trova ci deve essere sempre qualcosa che si perde.

Diretto da Alessandro D’Alatri. Interpretato da Kim Rossi Stuart, Anna Galiena, Massimo Ghini. Italia 1994.

Trama

Saverio, un giovane psicopatico, si innamora di Gina, convivente di Riccardo e madre di un bimbo di quattro anni. Il corteggiamento fatto di lettere d’amore si fa insistente e indispone sia la donna che il convi­vente. Dopo un incontro con la madre del ragazzo i due decidono di aiutarlo. Gina convince un amico, proprietario di una serra, ad assume­re il giovane.

Ogni tanto passa dalla serra, e Saverio un giorno le chiede un bacio. La donna cede influenzata anche dalla bellezza, dalla dolcez­za e dalle splendide poesie che il giovane le dedica. Si pente subito, però, di fronte allo choc emotivo di Saverio.

Gina per sfuggire alla situazione incresciosa scompare e Saverio ha una grave crisi. Arrestato è ricoverato in ospedale e in seguito entra in una comunità terapeutica dove, dopo qualche tempo, un bigliettino gli cade accanto: è una ragazza del centro che gli lancia un messaggio di affetto e di speranza.

Motivi d’interesse

Saverio è un senza pelle, così lo definisce la psicologa che lo ha in cura: è cioè trasparente, subisce senza mediazioni gli stimoli dall’ester­no. Gina lo spinge a scrivere poesie bellissime e a mandare meravigliosi cesti di fiori.

L’avvenenza delle modelle delle riviste stimolano la sua sessualità negata dalla situazione psicologica e familiare. La madre aiuta Saverio, ma il trattamento farmacologico certo non è da solo sufficien­te. Il giovane ha bisogno di relazioni, di accettazione, di affetto, di acco­glienza. Il mondo invece è tutt’al più indifferente, se non ostile, intorno a lui.

Lo stigma segna la sua presenza e l’evitamento è l’atteggiamento diffuso e prevalente. Gina e Riccardo si rendono conto, entrando in contatto con Saverio, di quanto il pregiudizio caratterizzi le valutazioni e i rapporti con “il matto”, ma per un breve lasso di tempo il calore umano e la comprensione riescono a rompere il circolo vizioso.

Basta, però, un errore, un’involontaria spinta emotiva per rompere il sottile equilibrio e precipitare di nuovo il giovane nel vortice di sofferenza.

Il film si chiude però con un messaggio di speranza che le persone affet­te da patologie gravi possano avere una vita dignitosa e di qualità. Con Saverio possiamo dire: Perché ci sia qualcosa che si trova ci deve essere sempre qualcosa che si perde.

Indicazioni per l’utilizzo

Indicato per combattere lo stigma e per programmi di psicoeduca­zione con le famiglie di pazienti psicotici. Crea spazi e tempi non con­venzionali che aprono la speranza alla possibilità di poter curare e inclu­dere nella società anche pazienti affetti da gravi patologie psichiatriche.

Trailer

 

LEGGI ANCHE:

PSICOPATIARUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coratti, B., Lorenzini, R., Scarinci, A., Segre, A., (2012). Territori dell’incontro. Strumenti psicoterapeutici, Alpes Italia, Roma. ACQUISTA ONLINE

Ippoterapia e Alzheimer: quando gli animali aiutano i più anziani

Ioana Marchis

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’ ippoterapia, utilizzata soprattutto con bambini e adolescenti con disturbi emotivi e di apprendimento, può essere applicata anche nel lavoro con le persone adulte e fornire un modo unico per alleviare i sintomi della demenza senza utilizzo di farmaci.

Grazie ad una ricerca condotta in collaborazione tra l’Università di Stato dell’ Ohio, un centro d’ippoterapia e un centro di cura diurno per gli anziani, è emerso che le persone affette da Alzheimer sono in grado di curare i cavalli (dandogli da mangiare e facendoli camminare) sotto un’accurata supervisione. Questa esperienza, inoltre, sostengono i ricercatori, fa migliorare il loro umore rendendoli più collaborativi verso le cure che ricevono durante la giornata.

Dallo studio pilota, pubblicato sulla rivista Anthrozoös emerge che l’ippoterapia – utilizzata soprattutto con bambini e adolescenti con disturbi emotivi e di apprendimento – possa essere applicata anche nel lavoro con le persone adulte. Holly Dabelko-Schoeny, professore associato presso l’Università dell’Ohio, sostiene che l’ippoterapia potrebbe integrare forme più comuni di terapia assistita con gli animali come cani e gatti e fornire un modo unico per alleviare i sintomi della demenza senza utilizzo di farmaci.

 Le persone affette da Alzheimer, oltre alla perdita della memoria, spesso vanno incontro ai cambiamenti di personalità. Essi possono diventare depressi, solitari e finanche aggressivi. Per venire incontro a questi cambiamenti le terapie odierne si focalizzano di più su come alleviare il carico emotivo dei pazienti e delle loro famiglie. Il focus della terapia è cogliere l’attimo e far divertire le persone affette dalla demenza “in quel preciso momento” anche se poi non se la ricordano più, sostiene Holly Dabelko-Schoeny.

Al presente studio hanno partecipato 16 persone, in cura in un centro diurno per anziani di Columbus (Ohio) affette da Alzheimer, di cui 9 femmine e 7 maschi. Una volta alla settimana, per un mese, otto di loro (gruppo sperimentale) venivano accompagnati in un centro di ippoterapia dove, sotto la supervisione del personale, si prendevano cura dei cavalli dando loro da mangiare, da bere e facendoli camminare; gli altri otto (gruppo di controllo) rimanevano nel centro diurno dove partecipavano alle attività proposte dal centro.

Per monitorare il comportamento dei partecipanti, i ricercatori hanno utilizzato una scala “Modified Nursing Home Behavior Problem Scale” grazie alla quale il personale del centro poteva riportare da 1 a 4 la frequenza di comportamenti problematici come tristezza, agitazione, irritamento e resistenza alle cure sia nei giorni in cui gli ospiti venivano accompagnati al centro di ippoterapia che nei giorni in cui rimanevano nel centro diurno. Dai risultati è emerso che il punteggio dei partecipanti accompagnati al centro d’ippoterapia era inferiore di un punto rispetto a quelli che  rimanevano nel centro diurno. Inoltre, i ricercatori hanno misurato i livelli del cortisolo, l’ormone dello stress, nella saliva dei partecipanti allo studio, riscontrando un aumento del livello di cortisolo nel gruppo sperimentale, probabilmente dovuto allo “stress positivo” collegato alla nuova esperienza vissuta.

Dallo studio è emerso anche un beneficio inatteso: l’ippoterapia potenziava l’attività fisica dei partecipanti. Le persone del gruppo sperimentale, tutte con delle limitazioni fisiche, nelle attività con i cavalli provavano a spingersi oltre questi limiti, chiedendo aiuto per alzarsi dalla sedia rotelle o prendendo fiducia nel camminare da soli (dove possibile). I familiari, i cui cari sono stati accompagnati al centro d’ippoterapia, riferivano nella maggior parte dei casi che rimanevano ancorati nella nuova esperienza riportandola a casa. La figlia di uno degli ospiti sostiene che sua madre non avrebbe mai ricordato quello che faceva nel centro durante il giorno, ma che ha sempre ricordato quello che ha fatto nel centro d’ippoterapia.

Dai risultati di questo studio sembrerebbe quindi che l’ippoterapia abbia degli effetti benefici non soltanto nel lavoro terapeutico con i bambini ma anche nelle persone affette di demenza.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

  •  Dabelko-Schoeny, H., Phillips, G., Darrough, E., DeAnna, S., Jarden, M., Johnson, D., Lorch, G. (2014). Equine-Assisted Intervention for People with Dementia. Anthrozoos: A Multidisciplinary Journal of The Interactions of People & Animals. DOI: 10.2752/175303714X13837396326611

Neurotipico, definizione

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Neurotipico è il termine convenzionalmente utilizzato per descrivere tutta la popolazione non autistica, con un organizzazione neurologica che non induce cioè le caratteristiche comportamentali che determinano una diagnosi di autismo.

In tale accezione per contrapposizione gli autistici vengono definiti neurodiversi. Il termine neurodiversità tuttavia non è sinonimo di disabilità in quanto esistono condizioni autistiche non patologiche.

Così come il termine neurotipico non può essere inteso come sinonimo di salute in quanto esistono condizioni neurotipiche patologiche.

In termini più generali e letterali neurodiversità indica del resto qualsiasi differenza neurologica tra gli individui, per esempio quella tra maschi e femmine.

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Dai contenuti ai processi mentali: la terza ondata della Terapia Cognitiva

 

 

La nuova sfiducia post-moderna nell’intelligenza può generare anche una nuova capacità di apprezzare l’attesa, l’attesa che la mente da sola elabori soluzioni senza che l’attenzione sia costantemente e ansiosamente focalizzata sui problemi, sulle difficoltà e sugli ostacoli. Ovvero, il saper pensare dopo, invece che prima. Il che, per Epimeteo, potrebbe essere una bella rivincita, dopo che per millenni lo abbiamo considerato il fratello scemo di Prometeo (Graves, 1955).

Credo che per molti di noi, cresciuti in un’atmosfera culturale differente, i nuovi paradigmi di terza ondata della terapia cognitiva pongano qualche difficoltà.

Nei nuovi trattamenti metacognitivi, nei nuovi interventi di mindfulness c’è minore fiducia nella terapia come comprensione.

L’attenzione si è spostata dai contenuti ai processi mentali, dagli interventi concettuali a quelli meditativi ed esperienziali. Tutto questo sembra suggerire una maggiore sfiducia nelle parole e nei significati logici e verbali.

Centrale diventa l’accettazione, che sta prevalendo sul paradigma precedente, che poneva al centro la conoscenza. La validazione emotiva ha svolto un ruolo intermedio, un interregno sentimentale tra la logica occidentale del comprendere che dominava un tempo e la nuova attitudine orientale dell’accettare e del non giudicare.

In realtà il seme era già piantato nei primi sviluppi della terapia cognitiva, ed era un seme non del tutto orientale. Anche il pragmatismo anglo-sassone non condivide da secoli la concezione mediterranea e platonica che privilegia il sapere esplicito e teorico, le idee, e lo fa coincidere con l’eudamonia, ovvero -semplificando- con la serenità del saggio e in qualche modo con il benessere del paziente. L’attitudine anglo-sassone ha sempre visto il benessere clinico come azione concreta da ottenere e non come frutto automatico del capire e del sapere.

Il luogo comune vuole che la centralità del conoscere e del contenuto del pensiero sia frutto di una mentalità soprattutto europea. È plausibile, però –a mio parere- non del tutto esatto.

Credo sia più corretto collegare questa mentalità a fenomeni storici più precisi e definiti. Per esempio, in Italia questa mentalità è nutrita dalla centralità degli studi classici e umanistici. In Europa non saprei se è davvero così. Forse è vero per la Francia o per altri paesi latini. Onestamente, in fondo non lo so. Sono però abbastanza sicuro che gli studi classici sono poco importanti nei paesi del nordeuropa. Almeno questa è la mia esperienza.

I colleghi nordeuropei che ho incontrato in occasioni di lavoro avevano per lo più frequentato scuole professionali dalla forte impronta pragmatica e parevano abbastanza a digiuno di studi umanistici e storici. Il che li portava a sviluppare una mentalità molto pratica, in cui i concetti e le parole hanno un valore funzionale e non sono portatori di una verità in sé.

Non è quindi un caso che le varie terapie cognitive, non solo negli Stati Uniti ma anche nel nordeuropa, abbiano in realtà sempre dato poca importanza al contenuto mentale e alla storia personale. È stata semmai la corrente costruttivista l’unica scuola cognitiva che davvero ha dato importanza centrale ai contenuti.

E questa corrente si è diffusa in Italia e in Spagna, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. A conferma che l’attenzione ai contenuti può essere a sua volta coltivata dagli anglo-sassoni e non è un fatto necessariamente solo europeo.

Credo che il costruttivismo in Italia abbia probabilmente soddisfatto una mentalità forgiata nell’atmosfera del Liceo Classico, dove si da grande importanza agli studi umanistici e dove vige la concezione greca della verità che libera.

Non penso che tutto questo sia destinato a finire. Certo però che questa mentalità deve integrarsi -ma anche ridimensionarsi- con la sempre maggiore influenza delle tradizioni filosofiche che accordano meno importanza al pensiero verbale, all’intelligenza e alla derivazione logica.

E, ancora una volta, questa sfiducia nell’intelligenza logica è -credo- non solo orientale (ma non mi pronuncio, dato che nulla so di filosofie orientali), ma anche del pragmatismo anglo-sassone, almeno da Charles Pierce in poi (1839-1914; 2003 ed. italiana).

Un’immagine mi viene in mente quando penso alle difficoltà dell’incontro tra una cultura che da importanza ai contenuti di pensiero e alle idee intelligenti -perfino a costo di continuare a rimuginare fino alla morte sulle proprie preoccupazioni- e una mentalità che invece tende all’economia del pensiero e alla non sopravvalutazione dell’intelligenza.

L’immagine è quella di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dei e lo donò agli uomini, dando inizio al progresso tecnologico. Prometeo è, letteralmente, colui che pensa prima. Ovvero la persona intelligente, che pensa (medomai) prima (pro). Con tutto il correlato di retorica che in Occidente ci portiamo dietro in favore dell’intelligenza.

Il guaio o la fortuna è che, da qualche decennio, o da qualche secolo, mi pare che anche in Occidente si sia diventati sempre meno disposti ad adorare la ragione e l’intelligenza. Si teme sempre più spesso che il “pensare prima” sia apparentato non solo con il nome greco Prometeo, ma anche con la parola di derivazione latina “preoccupazione”, a sua volta legata all’ansia. E i latini già erano meno legati dei greci al mito intellettualistico del primato del pensiero.

Prometeo, come tutte le persone intelligenti, aveva un gran bisogno di definirsi in relazione al suo opposto: le persone (supposte) stupide. E infatti Prometeo aveva un fratello: Epimeteo, colui che pensa dopo. Ovvero lo stupido. E tale è stato considerato nella tradizione occidentale. Almeno finora.

La nuova sfiducia post-moderna nell’intelligenza può generare anche una nuova capacità di apprezzare l’attesa, l’attesa che la mente da sola elabori soluzioni senza che l’attenzione sia costantemente e ansiosamente focalizzata sui problemi, sulle difficoltà e sugli ostacoli. Ovvero, il saper pensare dopo, invece che prima. Il che, per Epimeteo, potrebbe essere una bella rivincita, dopo che per millenni lo abbiamo considerato il fratello scemo di Prometeo (Graves, 1955).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Graves, R. (1955). The Greek Myths. Harmondsworth: Penguin. Ed. Italiana I miti greci, Longanesi, 1954.
  • Peirce, C. (2003). Opere. Bompiani, Milano.

Bambini & Emozioni: parlarne aiuta a migliorare le capacità cognitive

Teresita Forlano

 

 

Il bambino e le emozioni: la capacità di comprensione emotiva - Immagine: © Kzenon - Fotolia.comUno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca dimostra che, se i bambini parlano delle emozioni a scuola, in piccoli gruppi e sotto la guida di un adulto, riescono ad essere più empatici e migliorano le loro capacità cognitive.

La ricerca, svolta in collaborazione con l’Università di Manitoba del Canada, ha coinvolto 110 bambini delle scuole elementari dell’hinterland milanese. I bambini, distribuiti in un gruppo sperimentale e in uno di controllo, avevano tra i 7 e gli 8 anni.

Quattro le fasi dello studio: pre-test, training, post-test e follow-up.

Nella fase di pre-test sono state proposte ai bambini prove individuali di comprensione delle emozioni, di empatia e di teoria della mente (prova cognitiva), per valutare il livello di partenza.

Nella fase di training che è durata circa due mesi, i bambini del gruppo sperimentale, dopo aver ascoltato delle storie a contenuto emotivo, venivano coinvolti nelle conversazioni sulla comprensione della natura, delle cause e della regolazione delle emozioni. Per promuovere la partecipazione attiva di tutti i bambini, il gruppo è stato a sua volta suddiviso in piccole classi di circa sei bambini.

Le attività si sono concentrate su cinque emozioni, di cui quattro di base (felicità, rabbia, paura e tristezza) e una complessa (senso di colpa).

Ciascuna di queste emozioni è stata oggetto di conversazione per tre incontri: il primo focalizzato sulla comprensione dell’espressione, il secondo sulla comprensione delle cause e il terzo sulla comprensione delle strategie di regolazione dell’emozione target. Ogni incontro è stato strutturato in quattro momenti: introduzione al tema da parte dell’adulto, un racconto di vita quotidiana, avvio della conversazione, e riflessione finale da parte dell’adulto.

I bambini del gruppo di controllo non partecipavano alla conversazione. Ascoltavano le storie e poi veniva chiesto loro di fare un disegno.

Nel post-test, ai bambini sono state nuovamente proposte le prove; dopo due mesi, a tutti i partecipanti è stata riproposta la prova di comprensione delle emozioni per verificare la persistenza degli effetti prodotti dall’intervento.

E’ emerso che il gruppo dei bambini sottoposti all’intervento migliora significativamente, rispetto al gruppo di controllo, in vari aspetti della comprensione delle emozioni: nella dimensione cognitiva dell’empatia, e nella prova cognitiva di teoria della mente.

La spiegazione dei risultati, secondo i ricercatori, sta nell’uso della conversazione in piccolo gruppo; essa ha favorito l’assunzione del punto di vista dell’altro, la consapevolezza delle differenze individuali e il collegamento da parte dei bambini tra mondo interno non visibile e azioni manifeste.

La novità dello studio consiste nell’avere scoperto che l’intervento sulle emozioni produce miglioramenti anche nella capacità cognitiva della teoria della mente, ossia nella capacità di prevedere i comportamenti degli altri sulla base dell’inferenza dei loro stati mentali (“se ha fatto questo, forse è perché desiderava qualcosa; “se ha agito in un certo modo doveva essere arrabbiato”).

Quindi dallo studio si evince che: all’interno della scuola primaria è possibile realizzare interventi che, oltre a potenziare le abilità socio-emotive, come la comprensione delle cause delle emozioni, l’empatia e l’aiuto nei confronti dell’altro, producono anche miglioramenti su capacità di tipo cognitivo, per esempio, rappresentarsi la mente dell’altro e prevederne i comportamenti, un’abilità indispensabile nella vita sociale.

 

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La CBT per la famiglia nel trattamento di bambini con disturbo ossessivo-compulsivo

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La terapia cognitivo-comportamentale rivolta alla famiglia risulta più vicina ai bisogni di sviluppo del bambino con disturbo ossessivo-compulsivo e del suo contesto familiare, fornendo ai genitori un supporto adeguato che consente di vivere il trattamento in modo più tollerabile e accettabile.

Un recente studio, condotto da Jennifer Freeman presso il Bradley Hasbro Children’s Research Center di Rhode Island, ha dimostrato come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) rivolta alla famiglia possa costituire un’importante risorsa nel trattamento di bambini con una diagnosi di disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD). Una terapia di questo tipo, che includa interventi di prevenzione ed esposizione alla risposta (EX/RP), è risultata, infatti, più efficace nella riduzione dei sintomi ossessivo-compulsivi e nel promuovere un miglioramento delle modalità di funzionamento rispetto ad una terapia con una struttura simile ma basata su di un programma di rilassamento.

Ricerche precedenti avevano già dimostrato l’efficacia di un approccio CBT nel lavoro con adolescenti, ma è grazie ai risultati ottenuti da Freeman che è stato possibile dare sostegno all’ipotesi che anche bambini più piccoli potessero trarre beneficio da questo tipo di trattamento.

Il campione oggetto dello studio è stato raccolto nell’arco di cinque anni presso tre centri medici del territorio e ha coinvolto 127 bambini di età compresa tra i cinque e gli otto anni con una diagnosi primaria di OCD. Ciascuno di loro ha poi ricevuto una terapia familiare CBT o una terapia sempre familiare ma di rilassamento.

Lo scopo della terapia familiare CBT era quello di fornire al bambino e ai genitori gli “strumenti” necessari per capire, gestire e ridurre i sintomi ossessivo-compulsivi. Questo approccio includeva pertanto interventi psicoeducativi, sulle strategie parentali e di rivelazione familiare. In questo modo, i bambini potevano gradualmente imparare a fronteggiare situazioni paurose e allo stesso tempo a tollerare i propri sentimenti ansiosi. La terapia familiare di rilassamento, invece, si concentrava sull’insegnamento ai genitori di strategie di distensione muscolare da proporre ai figli al fine di diminuire il loro livello di ansia.

Al termine del periodo sperimentale, il 72% dei bambini che avevano ricevuto un trattamento CBT con EX/RP venivano valutati come “migliorati” o “molto migliorati” alla Clinical Global Impression-Improvement Scale, contro il 41% dei bambini che avevano ricevuto una terapia familiare di rilassamento.Secondo Freeman, i risultati dello studio sostengono la maggiore efficacia del trattamento EX/RP familiare in bambini con una precoce manifestazione di sintomi ossessivo-compulsivi. Questo approccio risulterebbe, infatti, più vicino ai bisogni di sviluppo del bambino e del suo contesto familiare, fornendo ai genitori un supporto adeguato che consente di vivere il trattamento in modo più tollerabile e accettabile.

L’auspicio è che, quindi, anche altri comincino ad utilizzare questo modello di trattamento in bambini con un esordio precoce del disturbo, al fine di combattere gli aspetti di cronicità che sono spesso all’origine di un impatto debilitante dello stesso nel corso dell’intero percorso di crescita dell’individuo.

 

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Il Karma in ricarica - Immagine:  © Costanza Prinetti 2014
Il Karma in ricarica – Immagine: © Costanza Prinetti 2014

Naruto: il cartone animato che aiuta a pensare le emozioni difficili

 

 

 

Naruto: il cartone che aiuta a pensare le emozioni difficiliNaruto dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

Un cartone animato che ha per tema principale la lotta e lo scontro fisico può essere considerato un buon prodotto? Possiamo inserirlo nella programmazione televisiva dei nostri figli? Potremmo per qualche ragione consigliarlo addirittura ai nostri giovani pazienti?

“Naruto” è un anime giapponese adatto alla visione di bambini e ragazzi a partire dai dieci anni.

Il personaggio principale è ben congegnato: orfano, escluso e allontanato da tutti a causa del suo essere diverso (sia dentro che fuori) e di un fantasma transgenerazionale che rimarrà sullo sfondo per le diverse centinaia di puntate realizzate fino ad ora: una presenza interiore fatta di istinti e di pura “malvagità”, un demone che costringe il protagonista ad una lotta per la mediazione dei propri impulsi distruttivi, tra pensiero e azione, in quella che risulta essere una metafora assolutamente lampante delle dinamiche intrapsichiche come ormai siamo abituati ad immaginarle.

Nonostante ciò il personaggio dimostra un senso di autoefficacia e una resilienza tale che l’antitesi tra l’iniziale posizione di svantaggio psicosociale e la grande sicurezza e forza di “spirito”, fornisce una particolare corposità psicologica a questo eroe che si dimostra tutt’altro che infallibile.

E’ trasmesso da circa dieci anni in più di novanta Paesi nel mondo. L’elevato numero di episodi e l’evolversi della trama che sviluppa il protagonista dall’infanzia all’età adulta ne fanno un racconto d’azione e di formazione che cattura lo spettatore. Anche se il tema maggiormente rappresentato appare essere quello che riguarda l’antagonismo, l’affermazione, l’appartenenza e la dominanza, come è frequente e quasi esclusivo nei prodotti di intrattenimento commerciale dedicati al genere maschile, altri ambienti emotivi ed esperienziali non solo non vengono trascurati ma passano addirittura in primo piano: vengono affrontati in maniera molto evidente i temi della perdita, del lutto, della tristezza, del tradimento, della compassione, del perdono, del risarcimento, del rispecchiamento, dell’empatia, ma viene rappresentata ugualmente l’apprensione, l’ammirazione, la gratitudine, la solitudine, la devozione, l’invidia, la collera, il disprezzo, ed in particolar modo l’isolamento e l’emarginazione sociale.

Ed è innegabile che proprio questa sia quella costellazione di significazione dell’esperienza che preadolescenti e adolescenti fanno più fatica ad integrare e rappresentare nei rapporti con adulti e coetanei, rinunciando ad inflazioni negazioniste che sterilizzano i fisiologici vissuti di incertezza, debolezza e bisogno.

In questo senso, il contatto con rappresentazioni di sentimenti articolati, seppure in apparente finzione, diventa terreno di familiarizzazione e apprendimento.

 Dedicando ampio spazio alla tessitura psicologica di ogni personaggio implicato, specialmente ripercorrendo le esperienze emotive e affettive dell’infanzia, i traumi, le relazioni di attaccamento, e trascinando lo spettatore in un compito di ridefinizione dei legami interpersonali, oltre le apparenze, il processo rimanda idealmente all’utilizzo dell’Adult Attachement Interview (Main et al. 1992) nella pratica clinica, dove il parametro qualitativo delle relazioni primarie viene indagato nella capacità di ricordare e verbalizzare in maniera coerente il passato, rimaneggiare le esperienze e mentalizzarne le conseguenze.

I temi classici dell’eroe e dell’antieroe, pensiamo al periodo degli anni ’80 e ’90 con i cartoni giapponesi in cui ad essere inscenata era un’atmosfera di perenne allarme e difesa nei confronti di un invasore ostile ed alieno dalle motivazioni mai chiarite, vengono sostituiti da dinamiche che pur nella sostanza della continua contrapposizione tra “bene” e “male”, sono proposti in maniera più complessa e accurata.

Largo spazio, infatti, è lasciato a dialoghi e flashback introspettivi in cui si ricostruisce il passato dei numerosi personaggi per proporre allo spettatore opportunità di identificazione più ampie e raffinate che fanno coincidere la memoria semantica delle esperienze con quella episodica; in questo modo lo spettatore può svincolarsi dalla fissità e dalla ripetitività dei copioni tipici dei super eroi americani dove è prestabilito chi vince e chi perde.

In “Naruto”, buona parte della realizzazione risulta incardinata sulla progettuale ricerca di un mondo interno costruito su una emotività che è spesso il soggetto principale della rappresentazione, e su cui autori e sceneggiatori deliberatamente spostano l’accento.

Per completezza bisogna dire che così come in altri Paesi, anche in Italia il cartone è stato censurato in alcune scene in cui è presente del sangue o nei dialoghi, dove ad essere eliminate sono parole come “idiota” o “morire”, sostituite ad esempio con “testa quadra” e “lasciarci le penne”. In ogni caso l’opportunità di intervenire nel senso di una prevenzione del danno non sembra del tutto rilevante, soprattutto se paragonata al valore complessivo dell’opera. Non esiste alcuna controindicazione alla visione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Main, M., Hesse, E., (1992). Attaccamento disorganizzato/disorientato nell’infanzia e stati mentali dissociati nei genitori. In Ammaniti, M., Stern, D.N. (a cura di) , Attaccamento e Psicoanalisi. Laterza, Bari.

Esplorare i sentimenti. Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia – Recensione

 

 

Tony Atwood - Esplorare i sentimenti - copertinaC’era indubbiamente bisogno che qualcuno iniziasse ad adattare la CBT (Cognitive and Behavioral Therapy) destinata alle persone Asperger o con autismo ad alto funzionamento, soprattutto da quando questo tipo di trattamento psicologico è stato segnalato come terapia elettiva per il trattamento di ansia e rabbia nelle Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2011.

Sono una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale che si occupa da diversi anni di bambini e ragazzi autistici e ho letto con molto interesse questo libro.

L’impressione è buona e in un certo senso rassicurante. Molte cose che negli anni ho improvvisato, guidata dalla mia formazione arricchita dal buon senso e soprattutto dai suggerimenti più o meno diretti dei miei pazienti, le ho ritrovate nero su bianco su questo testo.

C’era indubbiamente bisogno che qualcuno iniziasse ad adattare la CBT (Cognitive and Behavioral Therapy) destinata alle persone Asperger o con autismo ad alto funzionamento, soprattutto da quando questo tipo di trattamento psicologico è stato segnalato come terapia elettiva per il trattamento di ansia e rabbia nelle Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2011.

Ho apprezzato il tentativo di non normalizzare in termini neurotipici l’espressione e la regolazione emotiva, così come sottolineato dal suggerimento di coinvolgere anche la famiglia nella scelta degli attrezzi per riparare un’emozione spiacevole.

È infatti importante che chi attua il programma aiuti il paziente a scegliere un’attività che sia effettivamente capace di calmarlo e che i genitori siano aiutati ad accoglierla, anche se questa non è ciò che loro avrebbero scelto per lui. Quale genitore accetterebbe con naturalezza che un figlio preferisca perdersi in un’immagine per tranquillizarsi piuttosto che rifugiarsi tra le sue braccia?

Mi è piaciuto il seppur breve cenno alle espressioni emotive insolite manifestate spesso dagli autistici, fonte spesso di incomprensioni e fraintendimenti nella relazione con i tipici.

Ciò implica necessariamente che il ragazzo autistico impari non certo a rifiutarle nel tentativo di comportarsi da tipico ma a comprendere perché esse possano generare difficoltà nelle relazioni sociali e che chi fa parte della sua vita non si aspetti reazioni emotive sempre simili alle proprie.

In linea con l’introduzione teorica, la seconda parte del libro contiene numerose schede pratiche da presentare al paziente durante le sei sessioni di lavoro proposte, peccato che non ci sia nulla destinato ai familiari o al contesto scolastico, visto che, come evidenziato anche dall’autore, il successo del trattamento dipende anche dal coinvolgimento del contesto sociale che deve imparare a conoscere e rispettare la neurodiversità anche nella sua peculiare espressione e gestione emotiva.

Penso inoltre che ci sarebbero meno autistici arrabbiati o ansiosi se ciò avvenisse più spesso.

Ho un’ultima perplessità che riguarda chi, secondo l’autore, può utilizzare il programma esplorare i sentimenti. A me sembra un percorso che richiede numerose competenze, una profonda conoscenza dell’autismo al fine di garantire quella individualizzazione che ritengo fondamentale per ogni programma di intervento destinato a una popolazione con punti in comune ma molto eterogenea al suo interno come quella degli autistici. Mi sorprende quindi che insegnanti, logopedisti, terapisti occupazionali e gli stessi genitori vengano ritenuti in grado di svolgere il programma.

Ad ogni modo si tratta indubbiamente di un primo passo importante verso il riconoscimento di una neurodiversità che necessita di interventi psicologici che devono prendere le dovute distanze da quelli pensati per i neurotipici ma la strada è ancora lunga, soprattutto perché sono quasi esclusivamente solo professionisti tipici a percorrerla.

 

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Sindrome alcolica fetale e problemi di attenzione: è possible che vengano sovrastimati?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori della McGill University di Montréal, Canada, hanno suggerito che spesso i problemi attentivi dei bambini con Sindrome Alcolica Fetale (FASD) vengano riportati in modo eccessivo da genitori e insegnanti. Tale sovrastima sarebbe causata dall’utilizzo errato di comparazioni tra bambini di pari età cronologica. Sono stati quindi testati e comparati bambini con FASD con bambini di pari età cronologica o fisica e con bambini con la stessa età mentale, spesso più giovani.

 

“Siccome il collegamento tra sindrome alcolica fetale e ADHD è spesso descritto in letteratura, sia i genitori che gli insegnanti si aspettano spesso che tali bambini presentino anche problemi di attenzione”

Così afferma il Prof. Jacob Burack, docente del “Dept. of Educational and Counselling Psychology” della McGill’s.

“Quello che le insegnanti non riconoscono è che, sebbene un bambino abbia in termini cronologici 11 anni, attualmente agisca come un bambino pari a 8 anni di età mentale. Questa è una grande differenza. Quando usiamo l’età mentale come base per le nostre comparazioni, molti dei problemi attentivi descritti nei bambini con FASD non sembrano più tanto gravi”.

I ricercatori hanno reclutato bambini con FASD che avevano un’età cronologica media appena al di sotto dei 12 anni. L’età mentale media di tali bambini, determinata tramite test standardizzati, si attestava sui 9 anni e mezzo. Tali bambini sono stati comparati con altri con sviluppo tipico e che avevano un’età cronologica di circa 8 anni e mezzo e un’età mentale simile a quella del gruppo con FASD. Dopo aver misurato specifici aspetti dell’attenzione, i ricercatori hanno comparato la performance dei bambini con FASD con quella dei bambini di pari età mentale.

I risultati hanno evidenziato come i primi avessero difficoltà in alcuni compiti attentivi, come lo spostamento dell’attenzione da un oggetto all’altro, mentre vi erano altre aree, come il focus attentivo, in cui non mostravano difficoltà significative. Tali risultati indicherebbero la necessità di sviluppare una comprensione più dettagliata dei compiti attentivi.

Come affermato da Kimberly Lane, studentessa Phd che ha condotto la ricerca, quando utilizziamo il termine attenzione, dobbiamo tenere presente che stiamo parlando di un concetto complesso, di una funzione multifattoriale. “Usando delle tecniche di valutazione più complesse dei vari aspetti dell’attenzione, è possibile ottenere un quadro migliore e più preciso delle difficoltà attentive osservate nei bambini con FASD”, aggiunge Lane. Per concludere è importante ricordare a insegnanti e genitori che le difficoltà che i bambini mostrano con l’attenzione possono essere meno importanti dei loro problemi più generali e che è necessario lavorare con loro così come sono.

 

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La follia d’amore in Lucia di Lammermoor, l’opera lirica di Gaetano Donizetti – Psicologia a Teatro

 

 

Lucia dilammermoor di Gaetano Donizetti

La follia d’amore priva gli esseri umani del più elementare buon senso… eppure nessun clinico moderno si azzarderebbe a fare una diagnosi del genere, applicandola come entità clinica a sè stante, preferendo altrimenti trattarla come depressione, ansia o disturbo delirante. In fondo anche l’innamoramento cos’altro è se non un episodio psicotico acuto a carattere schizoaffettivo, a remissione spontanea e tuttavia recidivante?

Si manifesta con dei sintomi veri e propri, quasi sempre di tipo somatico, accompagnati da variazioni dell’umore e più o meno seri disturbi del pensiero che, da ossessivo, può arrivare perfino a piegare, a deformare la realtà in modo delirante.

Nel Medioevo in molti credevano che fosse una malattia mortale, perfino nell’antichità era conosciuta e temuta. Il mito ci racconta una storia, troppo lunga per essere riportata in questa sede, sui motivi per cui Amore non potè stare senza Follia.

Ricerche neurobiologiche anche recenti affermano che, quando si ama, cambiano la quantità e la qualità di alcuni neurotrasmettitori del cervello.

Ha suggestionato ed ispirato tutte le arti, contribuendo a realizzare le più commoventi opere.

Ha riempito i manicomi in anni in cui si veniva rinchiusi anche per futili motivi.

La follia d’amore priva gli esseri umani del più elementare buon senso… eppure nessun clinico moderno si azzarderebbe a fare una diagnosi del genere, applicandola come entità clinica a sè stante, preferendo altrimenti trattarla come depressione, ansia o disturbo delirante.

In fondo anche l’innamoramento cos’altro è se non un episodio psicotico acuto a carattere schizoaffettivo, a remissione spontanea e tuttavia recidivante?

( Il ricercatore che ne troverà la cura risparmierà tante sofferenze al genere umano)

Gaetano Donizetti scrisse Lucia di Lammermoor, la più celebre pazza della storia della musica lirica nel 1835, su libretto di Salvatore Cammarano tratto da un romanzo dell’ allora assai celebre scrittore inglese Walter Scott.

Siamo in Scozia, sul finire del 1500, nel contesto delle violente lotte tra cattolici e protestanti.

Edgardo è l’ultimo erede dell’aristocratica famiglia di Ravenswood, da sempre in lotta con l’altrettanto nobile, ma ormai impoverita, famiglia di Ashton composta da Enrico e Lucia.

Nonostante l’odio antico che separa le due famiglie, Edgardo e Lucia si amano segretamente e appassionatamente.

Enrico, molto in collera con la sorella dopo la scoperta di questo amore illecito, cerca di convincerla in tutti i modi possibili, subdola persuasione, inganni, fino a vere e proprie minacce, a sposare un nobile ricco e potente che potrà salvarli dalla rovina.

Lucia, docile, già molto fragile per il recente lutto della madre e piena di dubbi sulla fedeltà di Edgardo che, nel frattempo, è dovuto partire, si sente costretta ad accettare questo matrimonio.

Ma, durante le nozze, Edgardo ritorna e, furibondo, maledice la donna che ama e giura vendetta.

Lucia è sopraffatta, attonita, spaventata, talmente confusa da non riuscire a spiegarsi, a giustificare nè a sè, nè all’amato, cosa sia successo. E’ in questa mancanza di senso, nel non essere compresa dal suo Edgardo e non solo nella possibile perdita, che germoglia il delirio.

Impazzisce e uccide l’ uomo che ha appena sposato.

Non è più in sè, vaneggia, oscillando tra la convinzione che finalmente può sposare Edgardo e l’allucinazione del fantasma che è arrivato a separarli definitivamente.

Infine, muore di dolore.

Edgardo, cui finalmente viene rivelata la storia, incapace di vivere senza Lucia si uccide pugnalandosi.

La storia è questa, simile ad altre storie, anche più celebri, d’amore infelice, dove ricorre sempre il conflitto tra il singolo individuo e la famiglia, come per una fallita individuazione in senso junghiano: i parenti si mettono in mezzo.

L’atmosfera è cupa, la musica sottolinea costantemente l’ineluttabilità di un destino cui nessuno può sottrarsi, dove si è costretti a giocare la partita secondo ruoli che non lasciano speranza.

Questa famiglia è psicotica, pensa il clinico, il comando di fedeltà al modello familiare è talmente totalitario e acritico da non lasciare spazio al desiderio personale, “dobbiamo essere così perché è stato detto che deve essere così, anche se non ne conosciamo più i motivi o essi stessi sono diventati anacronistici”, con l’imposizione di un mondo di valori e di regole che non possono essere messe in discussione, al di fuori delle quali non c’è che la pazzia o la morte (i due grandi timori dei pazienti ansiosi), ovvero la perdità di sè.

C’è il totale pessimismo e l’impossibilità di pensare in modo creativo per uscire dalla strada tracciata, chissà quanto tempo prima, da chi si giurò odio per sempre.

Le famiglie trovano la loro identità nella reciproca contrapposizione per cui l’amore tra i due rappresenta una minaccia da eliminare ad ogni costo.

Su tutto aleggia una rigida fedeltà al copione e la colpa di non essere abbastanza conformi e schierati.

Un desiderio autonomo diventa alto tradimento e suscita terrore in chi l’ha solo immaginato.

Enrico rappresenta bene tutto questo: anche se a tratti ha dei dubbi sul sacrificio chiesto alla sorella, si giustifica (e giustifica la propria violenza) considerandolo un’azione morale, necessaria per recuperare la dignità della famiglia, bene superiore.

Forse è un po’ geloso del fatto che Lucia, pur se nei suoi modi sottomessi, stia cercando la libertà dai vincoli familiari e la realizzazione di un desiderio personale in contrasto con l’obbedienza cieca. La rabbia, rabbia invidiosa, lo spinge all’inganno, alle minacce; cerca di suscitare in lei, riuscendoci, il senso di colpa e la paura.

E Lucia?

Sin dalla Bibbia “lascerà il padre e la madre e i due saranno una carne sola” è l’amore e la sessualità che allontanano dalla famiglia d’origine per crearne una nuova (tranne che in alcuni pazienti psicotici). Lucia, dunque, racimolando il coraggio che le viene dalla passione, cerca di contrastare la sua sorte pur avendo il presentimento di una sciagura e sembra sapere, fin dall’inizio, che non ha speranza, in ciò intuendo la brutalità e la prepotenza del mito familiare.

Usa modi sottotono, cerca di suscitare compassione, si dibatte chiedendo pietà e non riesce veramente ad odiare questo fratello così poco comprensivo perché lei, invece, capisce che anche lui non ha alternative, entrambi vittime di un carnefice impersonale. Infine la resa, ma nello stesso momento in cui si arrende la realtà smette di essere tale e lei sprofonda nei suoi incubi.

E quando perfino l’uomo che ama non capisce ma la maledice, in questo manifestando la stessa poca fantasia del rivale, abbandona definitivamente la realtà e si sottrae, con la follia che la porterà a morire.

Ha appena ucciso l’incolpevole marito, i cortigiani stanno festeggiando le nozze e lei appare lugubre, sguardo fisso, sporca di sangue, assorta,”vede finalmente il suo matrimonio con Edgardo poi vede i fantasmi che lo impediranno, voce che rincorre altre voci, voce che racconta le allucinazioni, immagini contraddittorie ora di gioia ora di dolore e flauto che rinforza queste immagini rendendole ancora più vivide e ancora più inconciliabili.

Non può che rompersi, quel già precario equilibrio a malapena curato dai rari e piccoli momenti di speranza nel poter essere libera.

Che dolore, quell’alternarsi continuo e stremante di illusione e disillusione, tra il -forse ce la posso fare- e il -non c’è proprio niente da fare- che la musica rende ancora più drammatico, mentre l’ascoltatore partecipa, non ne può fare a meno, allo stesso movimento interiore della protagonista.

 

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Elementi di psicologia clinica di Franco Del Corno e Margherita Lang – Recensione

Elementi di psicologia clinica di Franco Del Corno e Margherita LangCoprendo a 360 gradi il ruolo della psicologia clinica e la figura dello psicologo clinico all’interno del contesto di cura, il libro prende in considerazione sia la teoria di riferimento e l’ambito di applicazione, sia le tecniche di assessment, che le terapie ad oggi disponibili sulla scena italiana e internazionale, da un punto di vista teorico e di setting (individuale, famigliare o di gruppo).

Elementi di Psicologia Clinica è un libro curato da Franco del Corno e Margherita Lang, edito da FrancoAngeli e uscito in una seconda edizione riveduta e ampliata alla fine dello scorso anno, dopo la prima fortunata edizione del 2005.

Il volume si propone come un utile strumento di lavoro e di apprendimento, sia da parte di un pubblico studentesco, che può così acquisire i primi concetti e le basi della psicologia clinica, sia da parte di un pubblico già “operativo” di psicologi clinici e psicoterapeuti. Coprendo a 360 gradi il ruolo della psicologia clinica e la figura dello psicologo clinico all’interno del contesto di cura, prende infatti in considerazione sia la teoria di riferimento e l’ambito di applicazione, sia le tecniche di assessment, che le terapie ad oggi disponibili sulla scena italiana e internazionale, da un punto di vista teorico e di setting (individuale, famigliare o di gruppo).

Il fatto di mantenere un approccio essenziale, permette agli autori di costruire un libro di agevole consultazione e utilizzo, che possa in 500 pagine toccare tutti i temi di cui abbiamo detto, senza entrare eccessivamente nello specifico, ma riportando per ogni capitolo la bibliografia necessaria a chi volesse approfondire i diversi aspetti.

Il libro si apre con una prima sezione che introduce alla storia della psicologia clinica, raccontando come è nata a partire dalla filosofia e cercando un’applicazione più concreta delle teorie sull’uomo nella cura e nel trattamento dei disturbi, per poi passare attraverso i mutamenti storici e legislativi alla concezione della psicologia cinica odierna, che caratterizza una distinzione tra psicologi e psicoterapeuti, attraverso formazioni albi di riferimento differenti.

Infine, si apre un paragrafo ipotetico su come potrebbe svilupparsi in futuro la figura dello psicologo clinico, anche alla luce del calo di investimenti nella cura, prevenzione e riabilitazione di tutte le malattie, comprese quelle psichiche, sia per i professionisti singoli che per le strutture sanitarie, che devono scegliere in un modo sempre più mirato dove e quanto investire. Per questo, lo psicologo clinico di domani è una figura che per poter sopravvivere dovrà formarsi rapidamente su quelle che sono le first choice per i diversi problemi e ambiti di applicazione della psicologia clinica e del counselling. La parola chiave sembra essere l’approccio integrato di figure professionali, interventi e tecniche differenti, al fine di assicurare all’utenza l’ottimizzazione delle risorse e del denaro.

Sempre nella prima parte del volume, gli Autori forniscono informazioni circa l’inquadramento diagnostico e gli strumenti utilizzati e riconosciuti come validi anche dal servizio pubblico e dall’APA. Dopo aver introdotto il DSM e averne illustrato la nascita e l’evoluzione, si soffermano sulle modifiche che sono state introdotte negli ultimi anni, anche alla luce della recente edizione aggiornata del DSM-5 (2014).

La seconda parte del libro è dedicata ai procedimenti di indagine diagnostica, a tutte quelle buone prassi e agli strumenti specifici che permettono di approdare a un corretto inquadramento del singolo paziente. A questo scopo, vengono esposte le diverse fasi dell’accertamento, dall’incontro con il paziente alla restituzione finale di quanto emerso, dedicando anche un intero capitolo alle difficoltà che possono sorgere in questo delicato momento di assessment con i pazienti che vengono definiti “difficili” per diagnosi o per problemi nell’alleanza con lo psicologo stesso.

Gli Autori affrontano le diverse componenti del colloquio in psicologia clinica, a partire dalle informazioni basilari sulle buone prassi e sui possibili problemi nella fase di contatto iniziale (richiesta di appuntamento, tipo di invio, raccolta di informazioni di base), per poi approfondire meglio le modalità per condurre una prima raccolta dei dati del paziente attraverso il colloquio, anche sulla base della teoria a cui il clinico fa riferimento. In quest’ottica, si scorgono diversi metodi di raccolta di informazioni, dalle interviste strutturate e semi-strutturate ai riepiloghi da compilare a cura del clinico una volta terminato il primo colloquio.

Nella terza sezione vengono approfonditi gli strumenti diagnostici, scorrendo in circa 150 pagine le motivazioni per cui utilizzare o non utilizzare i test e le diverse tipologie di assessment disponibili per la valutazione dell’intelligenza e della personalità secondo le diverse teorie (test di Rorschach, test proiettivi, scale cliniche, MMPI e MCMI). Per ogni strumento vengono illustrate le motivazioni che possono portare a sceglierlo, il campo di utilizzo e le modalità di somministrazione e di lettura dei risultati. Viene inoltre affrontata in modo approfondito la modalità di restituzione di quanto emerso.

Infine, la quarta sezione è quella più consistente, sia da un punto di vista quantitativo (impiega quasi metà libro) che da un punto di vista tematico. È infatti la sezione in cui vengono illustrate, in ogni capitolo (15 in tutto) i diversi orientamenti ad oggi presenti sulla scena Italiana e mondiale. A partire dalla psicoanalisi e dagli approcci psicodinamici, gli autori riportano per ogni corrente i presupposti fondanti, la teoria della cura e della malattia che sottendono e le metodologie di intervento, seppur ovviamente non potendo approfondire in modo esaustivo ogni singolo indirizzo.

In questa seconda edizione, gli Autori hanno avuto la possibilità di aggiornare le diverse tecniche e i diversi approcci, aggiungendo quelli che fanno parte della cosiddetta terza ondata, come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Dialectical Behavior Therapy (DBT), oltre alla CBT standard (comportamentismo e cognitivismo). Inoltre, vengono riportate tecniche che combinano la componente cognitiva e la componente neuro-biologica, come l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) e la Sensorymotor Psychotherapy. Infine, vengono presentate terapie con setting non individuali, come la terapia famigliare e il lavoro con i gruppi clinico-terapeutici. Il capitolo che chiude il volume presenta altre psicoterapie diffuse e utilizzate come la Terapia della Gestalt e la Programmazione Neurolinguistica.

 

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  • Del Corno, F., Lang, M. (2013). Elementi di psicologia clinica. Franco Angeli Editore.  ACQUISTA ONLINE

Dipendenza da sostanze e neuroscienze: scoperto un gene coinvolto nello sviluppo della dipendenza

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Recentemente sulla rivista di neuroscienze Neuron, è stato pubblicato un lavoro effettuato presso l’Ospedale McLean di Belmont, Massachusetts, il quale dimostrerebbe che un gene essenziale per il normale sviluppo cerebrale e correlato ai disordini dello spettro autistico, giocherebbe anche un ruolo fondamentale nei comportamenti di dipendenza da sostanze.

 

Come affermato da Christopher Cowan, direttore del Laboratorio Integrato di Neurobiologia del McLean e professore associato di Psichiatria alla Harvard Medical School, l’esposizione cronica all’uso di droghe causa dei cambiamenti nel cervello, cambiamenti che sarebbero il substrato biologico del passaggio da uso sporadico alla dipendenza. Cowan sottolinea l’importanza dello studio di tali cambiamenti, i quali ci permetterebbero di individuare le molecole responsabili dello sviluppo della dipendenza e permettere, quindi, di identificare dei nuovi trattamenti terapeutici.

 

Il team del Laboratorio Integrato di Neurobiologia, guidato da Laura Smith, PhD, docente alla Harvard Medical School, ha utilizzato modelli animali per mostrare come la proteina correlata alla Sindrome dell’X Fragile, la FMRP, giochi un ruolo nello sviluppo dei comportamenti relati alla dipendenza da sostanze. La FMRP sarebbe la proteina mancante nella Sindrome dell’X Fragile: la mancanza di un singolo gene, quindi, sarebbe la causa di autismo e disabilità intellettiva. In accordo all’importanza giocata da tale proteina, il team di lavoro ha trovato come la cocaina la utilizzi per facilitare i cambiamenti cerebrali coinvolti nei comportamenti da abuso di sostanze.

 

Cowan sottolinea come la FMRP controlli la riorganizzazione e la forza delle connessioni cerebrali durante i processi sottesi al normale sviluppo del cervello. In accordo a tale funzione, essa giocherebbe un ruolo fondamentale anche nel cambiare le connessioni cerebrali che sottostanno all’assunzione ripetuta di cocaina.

“Sappiamo che l’esperienza può modificare il cervello in modo consistente. Alcuni di tali cambiamenti cerebrali ci aiutano, permettendoci di apprendere e ricordare. Altri cambiamenti sono dannosi, come quelli che avvengono negli individui con problemi di abuso di sostanze”, affermano Cowan e Smith. “Mentre FMRP permette agli individui di apprendere e ricordare in modo adeguato stimoli del loro ambiente circostante, essa controlla anche come il cervello risponde alla cocaina e finisce per rinforzare i comportamenti di dipendenza. Attraverso una migliore comprensione del ruolo di FMRP in tale processo, potremmo essere in grado di suggerire delle valide opzioni terapeutiche per prevenire o invertire tali cambiamenti cerebrali”.

 

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Un ricordo di Franco Baldini

 

Il 19 maggio 2014 è mancato Franco Baldini, figura importante nella storia del cognitivismo clinico italiano.

Si laureò a Padova nel 1976, e potè partecipare alla vita della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) fin quasi dalla sua fondazione. Si specializzò in Italia nella SITCC e poi negli Stati Uniti dove ottenne il titolo di Supervisore dell’Institute for Rational-Emotive Therapy di New York. E’ stato direttore e responsabile del Centro Albert Ellis di Verona fino al 1991. Divenne socio didatta della SITCC e responsabile  della sede di Verona della Scuola di Specializzazione dell’APC (Associazione di Psicologia Cognitiva) e dell’SPC (Scuola di Psicoterapia Cognitiva).

Il suo principale interesse fu la diffusione della terapia razionale emotiva comportamentale di Albert Ellis (REBT) in Italia, unendo i suoi sforzi a quelli di Cesare De Silvestri e Carola Schimmelpfennig.

Baldini, con l’aiuto di De Silvestri, promosse la I-RET (la I sta per Italia e “RET” è il termine usato fin o agli anni ’90 per indicare la REBT), un organo volto a promuovere la terapia di Ellis in Italia. L’I-RET fu in grado di organizzare un seminario condotto da Albert Ellis in persona a Verona nel 1993 e nel periodo 1996-2006 organizzò molti corsi di training REBT. Baldini ha anche pubblicato un libro di compiti terapeutico che include alcuni interventi REBT (Baldini, 2004).

Come uomo, era cordiale e allegro, amante dei piaceri della vita e della compagnia di allievi, amici e colleghi. Ogni estate -curioso del mondo- viaggiava in continenti lontani, per lo più in Africa.

Grazie al suo impegno, non è possibile dimenticare che tutte le iniziative di promozione e diffusione della REBT in Italia sono una continuazione del lavoro iniziato da Franco Baldini.

 

 

 

 

Riferimenti:

Il piacere di essere se stessi. L’identità sociale tra essere e dover essere

 

 

 

il piacere di essere se stessi e identità sociale© Marek - Fotolia.comNel corso del ciclo vitale l’individuo costruisce l’identità sociale. Tale costrutto è composto da due dimensioni, una privata per se stessi e una pubblica per gli altri. Spesso l’identità per sé contiene le costrizioni che le agenzie formative hanno imposto durante l’età evolutiva. Nelle situazioni di stress capita, sovente, di percepire con più forza questi vincoli e allora non resta che riscoprire se stessi, in un’ottica liberatoria, per ristabilire l’equilibrio psicologico.

 

 

La microstoria dell’infante

Ognuno di noi è portatore di emozioni, di modi di pensare e di abitudini che sono stati acquisiti nel corso dell’intero ciclo di vita. Questo bagaglio costituisce la nostra ricchezza, ma talvolta in esso sono insiti i semi del disagio, nella misura in cui tale apparato non ci appartiene o meglio ci appartiene solo in parte.

Al momento della nascita l’infante già possiede una microstoria che è fatta dalle percezioni che i genitori proiettano sul nuovo nato. Nell’immaginario genitoriale subentrano una serie di attribuzioni che consentono di costruire un’intelaiatura concettuale su cui si adagerà la vita dell’infante.

In altre parole, i genitori percepiscono il proprio figlio in base a quella che è stata la loro storia nella propria famiglia di origine. Questo determina un’ipoteca nell’accostamento emozionale al piccolo che influirà successivamente, ovvero l’esperienza di figlio, nel vissuto genitoriale, ha difficoltà ad essere separata dall’esperienza di genitore.

Così in questa piccola istituzione sociale che è la famiglia il nuovo nato si trova ad avere due genitori che sono contemporaneamente ancora figli dei propri genitori e questo incide sulla mappa concettuale che successivamente si formerà.

La socializzazione primaria

La diade genitoriale è chiamata a far incamerare al nuovo nato quelli che sono i prodotti culturali della società in cui vive, attraverso quel processo che va sotto il nome di socializzazione primaria. Per mezzo di tale procedura l’infante viene colonizzato al vivere sociale, che è fatto di abitudini, routine e modi di essere che riflettono la cultura dominante e che sono egemoni in quel contesto di vita.

In altre parole, con la socializzazione primaria il bambino interiorizza il mondo dei genitori. In questo modo si pongono le basi per una costruzione della personalità che è sintonica con la cultura nella quale si vive (Benedict, 1960).

Con il concetto di cultura si definiscono le convinzioni, le abitudini e le istituzioni sociali che caratterizzano una società. Le istituzioni traggono origine dai comportamenti individuali che si ripetono nel corso dello scorrere del tempo e che si consolidano in modelli di comportamento, che sono adottati da tutti gli individui che fanno parte della stessa società (Kardiner, 1965).

In pratica, il bambino si trova a dover assimilare nei primi anni di vita quella che è la struttura culturale della società in cui vive. Che questo non sia un atto indolore è rappresentato dalle ribellioni a cui il piccolo sovente accede, quando, attraverso le crisi di opposizione, che caratterizzano la sua crescita, vuol affermare il proprio io in termini differenti da quello che la volontà genitoriale vorrebbe.

Uno strumento potente per la trasmissione di questo mondo culturale è rappresentato dal linguaggio. In altri termini, attraverso il linguaggio la diade genitoriale provvede a socializzare il proprio figlio, per mezzo degli aspetti semantici e pragmatici che sottendono al dato linguistico.

Essere e dover essere

La crescita dell’infante si struttura come una doppia storia, ovvero una storia di superficie fatta da tutti quei comportamenti, quelle abitudini e quei pensieri che privilegiano la sintonia con il mondo dei propri genitori, che è il mondo sociale, e una storia sotterranea, dove albergano le opposizione, ovvero quelle abitudini, quei comportamenti e quei pensieri che sono poco sintonici con i processi della socializzazione primaria.

In pratica, si crea una distanza fra quello che il bambino è e quello che in realtà deve essere se vuol continuare ad avere l’affetto dei propri genitori, la stima sociale dei suoi coetanei e di tutti quelli adulti con cui si interfaccia nel corso della suo ciclo di vita.

In questa maniera si sviluppa quello che Fromm, citato in Caprara e Gennaro (1994), definisce il carattere sociale, ovvero una struttura di personalità che è sintonica con l’ambiente nel quale il bambino vive. I due mondi, in realtà, procedono per percorsi paralleli.

Il primo si ipertrofizza e si implementa grazie ai riconoscimenti sociali che il piccolo riceve e che gli fanno adottare, in modo completo e profondo, le caratteristiche sociali del contesto in cui è immerso.

L’altro mondo, quello sotterraneo, vive di riverberi, che sono fatti di veri bisogni, di desideri ed di un’ideologia della vita che non collima con quella vigente nella cultura dominante. Man mano che la crescita procede si crea una discrepanza maggiore fra quello che Rogers, menzionato in Caprara e Gennaro (op. cit.), chiama vero sé e il mondo fittizio del sé condizionato dall’accettazione sociale.

Il bambino vorrebbe, ma non può. Deve adattarsi a quelle che sono le limitazioni dell’esserci, mentre la sua persona vorrebbe tutta la libertà dell’essere, ovvero una libertà incondizionata, come afferma Binswanger, riportato in Caprara e Gennaro (op. cit.).

In questo periodo la sua storia è fatta da due movimenti contrastanti, sintonici con i due mondi vissuti interiormente, che sono l’obbedienza e la disobbedienza. Il non perdere l’affetto dei propri genitori e delle altre figure carismatiche che entrano nella sua vita lo induce ad essere obbediente, l’amore per la libertà e per la sperimentazione lo spingono alla disobbedienza.

In questa fase, come Piaget (1972) segnala, la morale del bambino è eteronoma, ovvero deriva dai divieti posti dalla volontà genitoriale, che sono vissuti come norme imposte dai genitori e non come propri desideri e per questa ragione non sono ancora interiorizzati.

La socializzazione secondaria

La crescita, dal punto di vista sociale, si completa nel corso degli anni con quella che Berger e Luckmann (1969) chiamano socializzazione secondaria, ovvero quel processo che induce ad interiorizzare i saperi professionali e che determina il possesso di un lessico, di una metodologia e di una ideologia della realtà sintonica con la scelta lavorativa che si compie.

L’identità sociale

Attraverso questo lungo percorso l’individuo acquisisce la propria identità sociale, che come Dubar (2004) avverte, è costituita da due componenti, cioè l’identità per sé e l’identità per l’altro.

Entrambe si formano attraverso dei processi sociali, in quanto alla base di esse ci sono delle procedure che coinvolgono l’alterità o se stessi, in qualità di soggetto sociale.

In pratica, nel corso della storia individuale, le due identità, da cui è composta l’identità sociale, si strutturano attraverso due processi ben precisi:

  • il processo biografico;
  • il processo relazionale.

Nello specifico, attraverso la propria storia di vita o biografia si costruisce l’identità sociale per sé e attraverso le interazioni sociali si realizza l’identità per l’altro, che permette di essere percepiti dall’alterità.

L’identità per sé è costituita da i due mondi di cui si diceva. In pratica, l’individuo costruisce questa idea di sé, tramite quello che è, ma in tale identità sono contenuti anche i germogli di quello che non è e che, di fatto, vorrebbe essere. L’identità per l’altro si costituisce nel corso della propria storia mediante le varie esperienze che portano a stare con gli altri.

In tali circostanze, noi forniamo il materiale, attraverso il mostrarci, l’essere e il reagire, che consente agli altri di farsi un’idea di noi.

La liberazione dal dover essere

In alcune circostanze, specificatamente nelle situazioni di stress, l’identità per sé si sfibra nei due mondi, da cui è composta, ovvero quello palese che ha costituito l’immagine che si ha di sé e quello più intimo dove sono sepolti i veri bisogni e i desideri.

In questa circostanza tale realtà profonda reclama di uscire allo scoperto inviando segnali, che incrementano l’insoddisfazione e il senso di infelicità. In questo frangente diventa imperativo riscoprire se stessi, in pratica far emergere quello che per diverso tempo si è tenuto ai margini. Tale mondo è fatto di creatività, di cambiamenti, del dare un senso diverso alla propria vita, al proprio lavoro, ai rapporti con gli altri.

In altre parole, il mondo parallelo, che ha costituito l’altra faccia dell’identità, invita a cambiare vita, a riscoprire cose che nel corso degli anni sono state abbandonate per far posto ad una serie di doveri e responsabilità, il più delle volte non in sintonia con i veri bisogni.

Ecco allora riscoprire il vero sé, per mezzo di attività nuove, più gratificanti o semplicemente cambiando la maniera di percepire se stessi e la propria vita. È un modo per ritornare a provare il piacere di essere se stessi, in una prospettiva di liberazione, che, come Bauman (2011) osserva, presuppone il liberarsi da vincoli o catene, che il più delle volte sono solo nella mente.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Bauman, Z. (2011). Modernità liquida. Roma – Bari: Laterza.
  • Benedict, R. (1960). Modelli di cultura. Milano: Feltrinelli.
  • Berger, P. e Luckmann, T (1969). La realtà come costruzione sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Caprara, G.V. & Gennaro, A. (1994). Psicologia della personalità. Bologna: Il Mulino.
  • Dubar, C. (2004). La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale. Bologna: Il Mulino.
  • Kardiner, A. (1965). L’individuo e la sua società: psicodinamica dell’organizzazione sociale primitiva. Milano: Bompiani.
  • Piaget, J. (1972). Il giudizio morale nel fanciullo. Firenze: Giunti.

 

Autore: Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta, psicopedagogista. Insegna, come docente a contratto, Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Psicologia delle Diverse Abilità, Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche.

Storia dell’Autismo. Conversazioni con i pioneri: Evoluzione storica del disturbo e trattamenti

 

 

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

storia dell'autismo: recensione_Adam Feinstein“Nulla è completamente originale. Tutto è influenzato da ciò che è stato prima.” Con queste parole di Lorna Wing, psichiatra britannica e madre di un’autistica, si apre questo interessantissimo libro e le pagine a seguire danno prova di ciò, ricordandoci costantemente che non si può andare da nessuna parte se non si conosce la strada percorsa da chi ci ha preceduti.

I personaggi raccontati dall’autore sembrano infatti cedersi il testimone dopo aver dato il loro personale contributo nella scrittura della storia dell’autismo che ha inizio negli anni ‘30 e, fortunatamente, continua ad appassionare ancora oggi professionisti, parenti e le stesse persone autistiche.

Si tratta di personalità molto diverse tra loro, accomunate dal desiderio di conoscere meglio e trattare con efficacia le persone con questo disturbo. Il fatto che le storie delle loro vite siano racccontate attraverso le parole di chi li ha conosciuti di persona e la cura nel descrivere il contesto storico di riferimento, rendono la lettura di questo libro avvincente e a tratti commovente.

C’è chi si distingue per ambizione, chi per umanità e chi per coraggio ma in ogni caso si tratta di vite che hanno lasciato il segno, che hanno contribuito a far sì che l’autismo sia riconosciuto oggi come una sindrome neurobiologica per la quale non esiste alcun trattamento efficace che pretenda una guarigione in termini di adesione totale alla cultura neurotipica e che non chiami quindi in causa anche l’ambiente sociale in cui il soggetto autistico è inserito.

Molti sono gli insegnamenti che si possono trarre dalla lettura di queste pagine, soprattutto per noi professionisti che desideriamo contribuire a scrivere le pagine a venire di questa storia.

Primo fra tutti ho avvertito un grosso richiamo alla responsabilità personale.

Le idee di molti professionisti del passato hanno infatti condizionato anche drasticamente le vite di molti pazienti. Basti pensare all’enorme influenza che il libro di Bruno Bettelheim, The Empty Fortress (1967), in cui riconosceva nei disturbi emotivi delle madri la causa dell’autismo dei figli, ebbe sulle vite di molti autistici e delle loro famiglie.

Ci sono voluti più di trent’anni prima che questa pericolosa teoria venisse ufficialmente respinta e scientificamente screditata.

E se pensiamo di essere troppo piccoli per fare la differenza, forse dovremmo ricordarci di persone come Sybil Elgar, la prima insegnante inglese ad occuparsi di autismo nei primi anni ‘60, che mossa dallo sconcerto a seguito di una visita a un ospedale di Londra per bambini con gravi disturbi mentali,  ideò un metodo strutturato di insegnamento rivolto ai bambini autistici assolutamente controcorrente rispetto ai metodi tradizionali dell’epoca ma che permise ai suoi allievi di fare numerosi progressi e gettò le basi di molti degli attuali approcci all’insegnamento rivolti ai bambini con disturbi dello spettro autistico, come per esempio l’impiego di supporti visivi.

Questo ci insegna che umanità, buon senso, ascolto e coraggio dovrebbero indurci a sperimentare cose nuove, piuttosto che aderire senza spirito critico a ciò che ci viene insegnato.

Un’altra cosa che noi professionisti non dovremmo dimenticare dalla lettura di questo libro, è l’enorme influenza che le associazioni di genitori hanno avuto nel promuovere la ricerca e nel diffondere metodi di intervento ritenuti efficaci.

Le famiglie non prendono soltanto parte al trattamento rivolto ai loro membri autistici ma con loro hanno contribuito e contribuiranno sempre di più a scrivere l’autismo.Questo significa anche trattare con enorme considerazione e rispetto il loro punto di vista circa l’autismo e non smettere mai di confrontarlo con il nostro, nell’interesse dei loro figli e di tutta la popolazione autistica.

Insomma, se davvero tutto è influenzato da quel che viene prima e siete interesssati all’argomento, abbandonatevi a questo libro, non potrà che avere una buona influenza su di voi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Feinstein, A. (2014). Storia dell’autismo. Conversazione con i pioneri. Uovonero Editore. ACQUISTA ONLINE

 

Contagio da stress: quando lo stress altrui diventa nostro

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il contesto in cui viviamo- se (come è probabile che sia) popolato da persone stressate- può influenzare in qualche misura la nostra risposta allo stress e un’aumentata concentrazione del cortisolo.

Anche lo stress è contagioso: semplicemente guardare un’altra persona vivere una situazione stressante può essere sufficiente per far sì che il nostro corpo rilasci cortisolo, l’ ormone dello stress. Questi sono i risultati di uno studio del Max Planck Institute for Cognitive and Brain Sciences di Lipsia e dell’Università di Dresda. Tale forma empatica di stress sembra insorgere prima di tutto tra i partner di una coppia.

Tuttavia anche l’osservazione attraverso dei filmati di estranei esposti a situazioni stressanti può “allertare” alcune persone. Dunque il contesto in cui viviamo – se (come è probabile che sia) popolato da persone stressate- può influenzare in qualche misura la nostra risposta allo stress e un’aumentata concentrazione del cortisolo.

I ricercatori hanno chiesto ad alcuni soggetti (tra cui anche partners di una coppia) di sottoporsi a task stressanti (risolvere complessi compiti matematici e sostenere una sorta di colloquio), mentre altri soggetti avevano il compito di osservare attraverso uno specchio unidirezionale quello che accadeva al soggetto coinvolto nei task. In generale, il 30% degli osservatori ha dimostrato un significativo aumento dei livelli di cortisolo, e tale effetto era ampiamente più diffuso (40% degli osservatori) nel caso in cui si osservasse il proprio partner in una situazione stressante. Quindi, sembrerebbe che la vicinanza emotiva sia un facilitatore ma non una condizione necessaria affinchè si verifichi tale meccanismo di contagio dello stress.

 I risultati dello studio debellano anche un comune pregiudizio riguardante le differenze uomo e donna: uomini e donne presentano in eguale misura e con simile frequenza risposte stressanti “empatiche” a fronte dell’osservazione dello stress altrui; anche se nei self-report le donne tendono ad autovalutarsi come più empatiche rispetto alle autovalutazioni degli uomini. E’ interessante notare che tale autovalutazione attraverso self-report non venga poi supportata da misure fisiologiche oggettive della risposta stressante a livello fisiologico alla visione di consimili in situazioni stressanti.

Lo stress rappresenta un problema soprattutto nelle sue forme di cronicità, mentre una risposta di stress puntuale ha una sua funzione evolutiva: di fronte a un pericolo, il nostro corpo risponde con un aumento del cortisolo che ci consente di affrontare o fuggire dalla situazione. La cronicità di elevati livelli di cortisolo può però avere effetti negativi sul sistema immunitario a lungo a termine; e se la semplice osservazione dello stress altrui può “attivarci” in tale direzione, vale la pena considerare alcune modalità di regolazione emotiva che ci consentano di modulare la nostra risposta quando questa si presenta regolarmente sotto forme stressanti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Run & Jump (2013) di Steph Green – Psicologia Film Festival

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Serata di chiusura del V Psicologia Film Festival

Dedicata al ricordo di Ferdinando Rossi, preside della facoltà di Psicologia

Martedì 20 maggio Maggio

Cortile di Palazzo Badini, via Verdi 10, Torino

ingresso libero

ore 19,15 Apericena stile “Bellavita” porta un piatto da condividere

ore 21,15 proiezione del film

RUN & JUMP

di Steph Green (2013)

presentato dalla dott.ssa Patrizia Gindri

 …e a seguire dibattito

run & Jump 2013 Psicologia film festival Torino

Il Collettivo di Psicologia organizza la serata conclusiva della V edizione dello Psicologia Film Festival, martedì 20 maggio presso il cortile di Palazzo Badini (via Verdi 10, Torino), che sarà dedicata alla memoria di Ferdinando Rossi, Preside della Facoltà di Psicologia scomparso prematuramente ad inizio anno. L’appuntamento ad ingresso libero inizierà alle ore 19,15 con un aperitivo condiviso, e a seguire, alle ore 21,15, la proiezione di Run & Jump di Steph Green. Il film sarà presentato dalla dott.ssa Patrizia Gindri che condurrà anche il dibattito. La serata è organizzata in collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema e Videocommunity

 

Il film

Run & Jump, racconta una storia ambientata nella campagna irlandese dove Venetia, a seguito di un ictus, si ritrova a fare i conti con un marito, Conor, mutato nel carattere e nelle abitudini. L’estraneo è Ted, neuropsicologo venuto dagli Usa, presumibilmente più interessato alla disamina di un caso scientifico piuttosto che ai progressi dell’uomo, che (forse) non ha più fatto ritorno? Come andare avanti, superando lo spettro del confronto tra presente e passato? Le metamorfosi inattese e i tentativi di adattamento di una famiglia che deve imparare a crescere intorno alla figura di un nuovo marito, padre, figlio (e oggetto di studio).

 

L’opera prima di Steph Green, statunitense di nascita ma divisa tra Los Angeles e Dublino, ravviva una certa tradizione di cinema europeo, capace di fare i conti con sentimenti scricchiolanti e famiglie da ricomporre. Un cinema che mette a nudo le sfere più intime, accogliendo un estraneo – un ricercatore armato di videocamera, lo spettatore – tra le mura domestiche, senza bisogno di nascondere cocci e panni sporchi sotto il tappeto del pudore. Dramma dei sentimenti che si racconta, con spontaneità e leggerezza, a suon di sussurri e grida, che danza il ritmo di balli notturni e corse in bicicletta sotto la pioggia.

 

Ciò che mi ha attratto verso questo film è stato il punto di vista unico della sceneggiatura: questa non è la storia di un uomo che si riadatta alla vita dopo un infarto, ma di una donna che si adatta a un nuovo uomo. Questo aspetto della vicenda non è raccontato spesso e io non l’avevo mai trovato scritto in questo modo. La sceneggiatura di Aibhe rappresentava il classic triangolo amoroso in un modo nuovo, in un mondo diverso, in cui la relazione tra due persone si sviluppava in un modo riservato e realistico, mai autoreferenziale. Durante il nostro primo incontro Aibhe mi ha detto che voleva fare un film su come le cose non vadano sempre bene. –  Steph Green

 

La regista

Steph Green, selezionata come uno dei nuovi 25 volti del cinema indipendente da Filmmaker Magazine, è nata a San Francisco e passa il suo tempo tra Los Angeles e Dublino, in Irlanda. Il corto New Boy ha ricevuto una nomination per un Oscar nel 2009, e ha continuato a vincere premi incluso il Tribeca Film Festival nel 2009. La sua sceneggiatura per Run & Jump, scritta in collaborazione con Ailbhe Keogan, è stata selezionata per i Sundance Screenwriting labs e per la Berlinale Script Station. Run & Jump è il suo primo lungometraggio, ed ha avuto la sua première al Tribeca Film Festival nel 2013.

 

Patrizia Gindri

Psicologa e psicoterapeuta responsabile del servizio di Psicologia del Presidio Sanitario San Camillo; è docente del corso di Riabilitazione Neurocognitiva. Si occupa di disturbi pervasivi i dello sviluppo, in particolare di autismo e sindrome di Asperger, nonché di neuropsicologia dell’invecchiamento, dei fenomeni quali neglect e anosognosia. Infine, si dedica all’attività libero professionale di psicoterapeuta.

In caso di mal tempo la serata sarà rinviata a martedì 27 maggio. Seguiteci su facebook per rimanere aggiornati

 

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