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Il pregiudizio tra eziologia e modalità di espressione comportamentale

 

Il pregiudizo tra eziologia e comportamento - Immagine: tratto da American History XIl pregiudizio rappresenta un fenomeno complesso, a cavallo tra la dimensione sociale e quella individuale, spesso foriero di problemi e tensioni che si ripercuotono pesantemente sulle società multietniche dell’inizio del XXII° secolo.

E’ un fenomeno conosciuto e studiato da molti decenni: già nel 1954 lo psicologo statunitense Gordon Allport pubblicò un libro dal nome “La natura del pregiudizio” in cui teorizzava brillantemente le origini di tale fenomeno e delle linee guida per impostare interventi per abbassarne il livello.

La definizione data da Allport è la seguente:

Il pregiudizio (etnico) è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa e inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo.

Rupert Brown, professore di Psicologia Sociale all’Università del Kent, in parte contesta questa definizione: egli non ritiene che sia necessario presumere che siano credenze fasulle generalizzate in maniera arbitraria, ciò può corrispondere spesso a verità, ma talvolta risulta concretamente difficile da dimostrare. La definizione che lui dà di pregiudizio è:

Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro sola appartenenza ad esso.

In una prospettiva sociale di pregiudizio già Allport sosteneva che la categorizzazione è un processo cognitivo fondamentale nel costituirsi dello stesso; secondo Bruner (1957) essa è definibile come una caratteristica ineludibile dell’esperienza umana, un mezzo necessario per semplificare ed ordinare un mondo troppo complesso per la capacità computazionale del nostro cervello.

Campbell e Tajfel dimostrarono negli anni cinquanta che una conseguenza diretta della categorizzazione è l’accrescimento delle somiglianze intragruppo e delle differenze tra i diversi gruppi, ciò vale sia per stimoli fisici che per individui di diverse categorie sociali. Un’altra conseguenza della categorizzazione, altrettanto importante della precedente, fu dimostrata da Rabbie e Horwitz nel 1969 e da Tajfel et al. nel 1971: la semplice appartenenza ad un gruppo, anche creato a caso e senza alcuna conoscenza reciproca degli appartenenti ad esso, spingeva le persone a considerare le prestazioni dei membri del proprio gruppo superiori ed a favorire quando possibile i membri del proprio gruppo.

Un modo completamente diverso di considerare il pregiudizio è il non vederlo come un fenomeno sociale tra differenti gruppi, bensì come una caratteristica della personalità; il maggior rappresentante di tale filone di ricerca è Adorno, che nel 1950 teorizzò la personalità autoritaria: una personalità sensibile alle idee fasciste e razziste, iperdeferente ed ansiosa verso le figure d’autorità, che vede tutto o bianco o nero, senza sfumature intermedie, incapace o poco disposta a tollerare l’ambiguità in sé o negli altri e apertamente ostile verso chi è diverso e non si conforma.

Adorno e collaboratori teorizzarono l’eziologia di tale carattere in un’ottica freudiana: queste persone erano cresciute in famiglie in cui vigeva una educazione rigida, conservatrice, punitiva e fredda; tali bambini risultavano frustrati nei loro bisogni di autonomia e spontaneità e, non riuscendo ad esprimere la propria rabbia verso i genitori punitivi e terrorizzanti, trovavano più semplice spostare l’aggressività verso altri soggetti considerati come più deboli o inferiori.

Tale ipotesi ha evidenziato parziali riscontri positivi nella ricerca e ha sollevato parecchi dubbi.

Uno dei principali fu espresso da Rokeach nel 1956, il quale riteneva che la teoria e le scale utilizzate per misurare il pregiudizio da Adorno si riferissero esplicitamente ad un razzismo politicamente di destra rivolto alle classi normalmente discriminate negli U.S.A. in quegli anni; egli quindi teorizzò la mentalità chiusa, che, essendo scevra da contenuti, descriveva una forma mentis rigida, resistente alle informazioni contrastanti il suo sistema e facente largo uso del principio di autorità.

Altri autori hanno evidenziato ulteriori elementi alla base del pensiero pregiudiziale, quali la presenza di conflitti di interesse (reali o percepiti) tra gruppi – ben esemplificata da Sherif nei suoi studi sui campi estivi – piuttosto che la necessità di mantenere un’identità sociale positiva – intesa come insieme di aspetti dell’immagine individuale di sé che derivano dalle categorie sociali cui l’individuo sente di appartenere (Tajfel e Turner, 1986).

Oltre alle possibili eziologie, la ricerca, nel corso del tempo, ha preso in esame le modalità di espressione esteriori del pregiudizio, tanto in contesti di laboratorio (Augustinos, Ahrens e Innes, 1994) quanto in contesti di tipo ecologico ( Gaertner e Dovidio, 1986), riscontrando notevoli cambiamenti: se il pregiudizio “vecchio stampo” era caratterizzato da espressioni dirette di odio e intolleranza verso i membri di gruppi stigmatizzati, come cittadini americani di colore o portatori di handicap, quello moderno sembrerebbe invece più sfumato e sostenuto da temi relativi a differenze culturali, conflitti di valori e tradizioni e percezione di vantaggi immeritati ottenuti dagli outgroup in questione a discapito dei membri maggioritari (Pettingrew e Meertens, 1995); l’ansia e il disagio nel contatto reciproco sostituirebbero, inoltre, sentimenti di ostilità e rifiuto più tipici del razzismo classico.

Tale pregiudizio moderno non risulterebbe tuttavia completamente indipendente da quello vecchio stampo: entrambi presenterebbero una certa reciproca correlazione (Sniderman e Tetlock, 1986), recentemente dimostrata in uno studio relativo agli atteggiamenti nei confronti di persone con disabilità intellettiva (Akrami et al., 2006).

L’impressione generale è quella di una certa continuità di fondo del tema pregiudiziale, e di un assottigliamento delle modalità di espressione discriminatoria, fenomeni per i quali è necessario lo sviluppo di strumenti di rilevazione sufficientemente sensibili, nell’ottica dello sviluppo di interventi volti a favorire reciproca conoscenza, empatia e cooperazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Akrami, N., Ekehammar, B., Claesson, M., Sonnander, K. (2006). Classical and modern prejudice: attitudes toward people with intellectual disabilities. Research in Developmental Disabilities, 27 (6): 605-17.
  • Allport G., “La natura del pregiudizio”; 1976, la Nuova Italia.
  • Augustinos, M., Ahrens, C., Innes, M. (1994). Stereotypes and prejudice: The Australian Experience. British Journal of Social Psychology, 33, 125-141.
  • Brown R., “Psicologia sociale del pregiudizio”; 1997, il Mulino.
  • Gaertner, S.L., Dovidio, J.F. (1986). The aversive form of racism. In J.F. Dovidio e S.L. Gaertner ( Eds. ), Prejudice, Discrimination and Racism (pp. 61-89). San Diego: Academic Press.
  • Pettingrew, T.F., Meertens, R.W. (1995). Subtle and blatant prejudice in Western Europe. European Journal of Social Psychology, 25, 57-75.
  • Sherif, M., Harvey, O.J., White, B.J., Hood, W.R., Sherif, C.W. (1961). Intergroup conflict and co-operation: The robber’s cave experiment”. Norman: University of Oklahoma.
  • Sherif, M. e Sherif, C.W. (1953). Groups in harmony and tension: An integration of studies on intergroup relations. New York: Octagon.
  • Sherif, M., White, B.J. & Harvey, O.J. (1955). Status in experimentally produced groups. American Journal of Sociology, 60, 370-379.
  • Sniderman, P.M., Tetlock, P.E. (1986). Symbolic racism: Problems of motive attribution in political analysis. Journal of Social Issues, 42, 129-150.
  • Tajfel, H., Turner, J. (1986). The social identity theory of intergroup behaviour. In S. Worchel e W.G. Austin ( a cura di ), Psychology of Intergroup Relations. Chicago: Nelson.

Bias impliciti: quali interventi? – Psicoeducazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Un nuovo studio – che ha usato l’idea del contest tra ricercatori- mette a confronto diversi interventi per modificare i cosiddetti bias impliciti.

Il Test Implicit Association test (IAT) è un semplice task che è possibile completare online al seguente indirizzo Web Project Implicit.

Il test registra la velocità delle risposte del soggetto cui viene richiesto di selezionare determinati target (volti di diverse etnie) e assegnarli velocemente ad alcune categorie (per esempio buono o cattivo).

Anche le persone che consciamente e consapevolmente rinnegano e ripudiano qualsiasi tipo di pregiudizio possono avere punteggi al test IAT e cioè ad esempio dimostrano una maggiore facilità nell’associare volti bianchi a categorie positive (ad esempio, buono), fenomeno identificato come ‘bias implicito’.

La ricerca rispetto a questo tema è controversa, e ora un nuovo articolo, pubblicato su Journal of Experimental Psychology, riporta i risultati di una sorta di contest che ha voluto coinvolgere diversi riceratori per progettare brevi interventi finalizzati a modificare i bias impliciti degli individui.

I diversi interventi – ben 17!- progettati dai diversi gruppi di ricerca sono stati resi accessibili online e avevano una durata inferiore ai 5 minuti.

Campioni di circa 300-400 persone sono stati randomicamente assegnati a ciascun intervento in modo da poter assicurare un elevato potere statistico nel valutare l’effetto di ciascun mini protocollo di intervento sulla modificazione dei bias impliciti (attraverso appunto i punteggi allo IAT).

Dei 17 interventi testati, nove si sono dimostrati in qualche misura efficaci, mentre 8 assolutamente non influenti sulla modificazione dei bias impliciti: tra questi ad esempio, mini training per migliorare l’empatia, interventi incoraggianti l’assunzione di prospettiva dell’outgroup oppure immaginare interazioni positive tra diversi gruppi etnici sembrano non funzionare.

D’altro canto gli interventi più efficaci sono quelli focalizzati su psicoeducazioni relative al bias implicito e relativi training specifici sul fenomeno stesso.

Ci sono però una serie di riflessioni. Primo, lo IAT è dunque considerabile una misura di un fenomeno cognitivo che va al di là dei self-report più espliciti in cui gioca un ruolo più forte la desiderabilità sociale.

In secondo luogo, qual è l’effetto a lungo termine di tali interventi brevi in termini di cambiamento degli atteggiamenti sia nella forma esplicita che implicita.

 

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  • Lai, C.K., Marini, M., Lehr, S.A., Cerruti, C., Shin, J.E., Joy-Gaba, J.A., Ho, A.K., Teachman, B.A., Wojcik, S.P., Koleva, S.P., Frazier, R.S., Heiphetz, L., Chen, E.E., Turner, R.N., Haidt, J., Kesebir, S., Hawkins, C.B., Schaefer, H.S., Rubichi, S., Sartori, G., Dial, C.M., Sriram, N., Banaji, M.R., & Nosek, B.A. (2014). Reducing Implicit Racial Preferences: I. A Comparative Investigation of 17 Interventions. Journal of experimental psychology. General PMID: 24661055

 

PROVA IL TEST:

Senza paura, senza pietà: Diagnosi e Trattamento di adolescenti devianti

 

Senza paura senza pietà di Alfio MaggioliniIl testo, a cura di Alfio Maggiolini e del gruppo di studio de Il Minotauro, si pone come una lettura completa ed esaustiva per la presa in carico, diagnosi e trattamento degli adolescenti che commettono reati o che hanno una condotta cosiddetta “deviante”.

 

La risposta degli adulti ai comportamenti devianti degli adolescenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e/o un atteggiamento repressivo. E’ inoltre difficile per l’operatore (psicologo, educatore etc) fornire un supporto a chi non desidera riceverlo, ossia il ragazzo che si trova inserito nel circuito penale minorile.

Ci si interroga diffusamente su quali possano essere le cause e i fattori che concorrono a tali comportamenti. La risposta del testo è quella di prendere in considerazione non solo il singolo, ma anche gli stili relazionali famigliari e sociali, senza perdere di vista il periodo/percorso evolutivo specifico dell’adolescenza.

 

Una corretta valutazione è la base per un intervento efficace, infatti la violazione delle regole può essere espressione di:

•          una crisi evolutiva fase-specifica;

•          il segnale di un vero e proprio squilibrio mentale (ad esempio un break down psicotico);

•          l’uso/abuso di sostanze;

•          una tendenza antisociale.

 

Gli adolescenti antisociali vanno visti innanzitutto per ciò che sono, ossia adolescenti che faticano a definire la propria identità, in particolar modo quella sociale.

In linea generale l’adolescenza è caratterizzata da comportamenti trasgressivi/aggressivi perché utili per crescere, mettendo in discussione le regole ricevute, nel tentativo di sperimentarsi e conoscersi.

Ciò che distingue gli adolescenti con condotta deviante è, dal punto di vista oggettivo/concreto, che tali comportamenti rappresentano un pericolo per sè e per gli altri.

Molto accento, nel testo, viene posto sul significato che il comportamento al limite riveste a livello comunicativo e metaforico. Spesso, infatti, il reato rappresenta la speranza/illusione che possa farli sentire o apparire adulti (la cosiddetta funzione adultizzante del reato) e protegga dalla frustrazione del non potere o del non riuscire (ancora).

Tali comportamenti, se ripetuti, possono risultare – invece – espressione di una vera e propria tendenza antisociale, che potrebbe cristallizzarsi, a lungo andare, in uno stile di personalità strutturato. Non è ancora possibile, infatti, definire una struttura di personalità stabile nell’adolescente, dal momento che la sua condizione essenziale è, per l’appunto, quella di una personalità in divenire.

Proprio in virtù di un soggetto in crescita e in stretta relazione con il mondo circostante, è di fondamentale importanza porre attenzione al senso soggettivo e comunicativo dell’atto deviante (ad es: cosa significa per quel ragazzo in particolare, con quella storia di vita e quel gruppo di amici aver rubato un motorino? Cosa significa se collochiamo questo reato all’interno del suo cammino evolutivo?). Questo è un passaggio di fondamentale importanza per non rischiare di etichettare un ragazzo, fornendogli una stampella negativa per l’identità, in cui rischia di rimanere incastrato.

 Particolare importanza è rivestita anche dalla cultura di appartenenza: il contesto, infatti, definisce la norma, ciò che è consentito e ciò che non lo è.

Uno dei compiti principali dell’adolescenza è sviluppare e riconoscersi in un ruolo sociale, anche in termini di maschile e femminile. Il comportamento antisociale, dunque, può essere visto come una modalità disfunzionale di acquisire un’identità sociale. I maschi antisociali enfatizzano la forza e la virilità, le femmine, invece, la propria spregiudicatezza sessuale.

 

Approcciando i disturbi antisociali in un’ottica evolutiva, la diagnosi dovrà tenere conto di tre fattori:

–           Comportamento (parte manifesta e visibile);

–           Personalità;

–           Intenzioni.

In tal modo il disturbo manifesto viene messo in relazione con un mondo interno che rimanda ad un processo di sviluppo in essere: a che punto di questo cammino è l’adolescente? Come si relaziona con la separazione dalle figure genitoriali, oppure, a che punto è della propria maturazione sessuale?

Bisogna inoltre interrelare anche le intenzioni (in termini di sviluppo), mezzi e risultati che ottiene l’adolescente con le proprie azioni. Il comportamento deviante può essere un mezzo alternativo per ottenere un risultato che stenta ad arrivare, una scorciatoia disfunzionale.

Non bisogna dimenticare, infine, l’importanza del terzo sociale, che nella valutazione di un adolescente con condotte devianti può essere particolarmente rilevante. Una volta compiuto il reato, infatti, l’adolescente dovrà affrontare un percorso non semplice di indagine e di valutazione, che può arrivare ad esporlo anche a livello mediatico. Senza scomodare televisioni o casi eclatanti, i ragazzi devianti debuttano in società con un marchio, un’etichetta che rischia – come detto- di poter essere difficilmente lavata via.

Quello che, in conclusione, è chiamato a fare l’operatore che si occupa di adolescenti di questo tipo, è capire le motivazioni sottostanti e soprattutto, in termini prognostici, comprendere che genere di progetto può essere funzionale al ragazzo (messa alla prova? Detenzione?).

Un peso e una valutazione non da poco, che questo bel testo cerca di rendere più chiaro possibile.

 

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  • Maggiolini, A. (2014). Senza paura, senza pietà. Raffaello Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE

In rete o nella rete? Accompagnare gli adolescenti ad un uso responsabile di internet

 

 

giovani e internet © contrastwerkstatt - Fotolia.comRisulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

Internet risulta oggi il principale mezzo di comunicazione di massa, nelle vite sia degli adulti che dei ragazzi. L’avvento di internet e il suo utilizzo, che al giorno d’oggi spazia dall’ambito lavorativo a quello scolastico per arrivare a quello ludico-ricreativo, rappresenta una delle principali rivoluzioni dal punto di vista delle comunicazioni e quindi delle relazioni umane, costituendo una importante sfida dal punto di vista educativo nella relazione tra adulti e adolescenti.

Dal momento che comunicare è sempre e da sempre un bisogno essenziale degli esseri umani, anche i mezzi e i modi attraverso cui le persone intraprendono, costruiscono e mantengono scambi comunicativi si evolvono nel tempo.

Le comunicazioni mediate da internet hanno definitivamente interrotto la dicotomia tra comunicazione scritta e comunicazione orale, consentendo scambi interattivi scritti ma al tempo stesso diretti ed immediati come quelli orali, come avviene tramite chat, post sui social network, e-mail e messaggistica istantanea. Si tende quindi a parlare di oralità scritta (Pozzi e Toscani, 2008), intendendo una forma di comunicazione, rivoluzionaria e innovativa, che abbraccia contemporaneamente la struttura della comunicazione scritta e l’immediatezza della comunicazione orale, costruendo quindi nuovi linguaggi, nuove grammatiche e nuovi codici di comunicazione tra persone.

Un’altra essenziale trasformazione che internet ha portato nelle vite delle persone, è che, per la prima volta nella storia dell’uomo, le nuove generazioni padroneggiano questi strumenti e linguaggi con esperienza maggiore rispetto alle generazioni che le hanno precedute. Dal punto di vista educativo e pedagogico, questo dato di fatto rappresenta un’enorme e difficile sfida da affrontare, in quanto i nativi digitali (Prensky, 2001) sono ritenuti madrelingua dei linguaggi virtuali e multimediali mentre gli adulti risultano “immigrati digitali”, con lacune di apprendimento e di trasmissione dei codici stessi.

Emerge in modo sempre più evidente un gap generazionale e, soprattutto nei due contesti educativi per eccellenza (scuola e famiglia), si osserva la convivenza di più generazioni culturali, nate e cresciute con strumenti e linguaggi di comunicazione diversi, spesso in difficoltà nel costruire e condividere valori, norme, regole e identità.

Rimane quindi da chiedersi e, soprattutto, invitare gli adolescenti a chiedersi: quali sono le reali opportunità e punti di forza delle nuove tecnologie? Quali sono invece i rischi e le criticità di questi strumenti?

Se, da una parte gli adolescenti sono abbastanza sicuri nell’evidenziare le potenzialità della rete (divertimento, approfondimento di interessi e passioni, sviluppo della conoscenza e della creatività, contatto diretto e immediato con i pari, facilità e immediatezza dell’utilizzo), dall’altra appaiono spesso carenti di informazioni, ma soprattutto di consapevolezze, in merito alle criticità e ai rischi oggettivi (Couyoumdjian et al., 2006; Lancini, 2009).:

  • In rete, infatti, viene messo a rischio il contatto con Sé stessi, in quanto la dimensione corporea e del “faccia a faccia” è negata, mettendo a rischio le capacità e le competenze socio-relazionali dei ragazzi;
  • Inoltre, gli adolescenti vivono una forte pressione, da parte dei pari ma anche più in generale dalla società dei consumi (Bauman, 1999) all’omologazione e al possesso di strumenti sempre nuovi con ricadute importanti a livello della stima di Sé; spesso, e questi gli adolescenti lo riconoscono apertamente, si prova una forte fatica a tollerare la frustrazione di non avere il cellulare o la consolle uguale a quella dei compagni oppure di non ricevere in maniera immediata risposte a messaggi e chat.
  • Infine, l’utilizzo della rete da parte degli adolescenti manca di controllo, che, quando non può arrivare dall’interno, deve o dovrebbe giungere dall’esterno, da parte degli adulti di riferimento. E’ proprio nel mondo fluido, immenso e incontrollabile della rete che spesso gli adolescenti entrano in contatto con contenuti non adeguati alla loro giovane e fragile età, oppure, approfittando dello schermo del pc, che è al tempo stesso protezione e maschera, attivano modalità di comunicazione aggressive, denigratorie o prepotenti nei confronti dei pari.

Risulta sempre più importante accompagnare gli adolescenti a riconoscere che internet è come un oceano immenso da esplorare portando con sé consapevolezza, responsabilità e un atteggiamento di autotutela e protezione; se, infatti, la rete è un mondo di comunicazione piuttosto libero, onesto e di condivisione paritaria è anche un contesto in cui la protezione della propria privacy e della propria riservatezza è messa duramente alla prova.

E’ essenziale avvicinare gli adolescenti al concetto di intimità, un valore importante che ci riporta alla consapevolezza della riservatezza di alcune informazioni private e personali per le quali è necessario un atteggiamento di grande attenzione e protezione, in quanto una volta immesse nell’universo virtuale non è più possibile cancellarle né avere pieno controllo del loro utilizzo da parte di altri utenti (Rivoltella, 2001).

E’ importante quindi ricordare alcuni semplici ma essenziali consigli di buona navigazione agli adolescenti (e anche agli adulti):

  • Mai comunicare o condividere informazioni personali, password oppure dettagli relativi alla propria famiglia e alla propria residenza;
  • Prestare attenzione alle impostazioni di privacy dei social network, dei blog e dei servizi di chat;
  • Ricordare che virtuale non fa rima con legale; alcuni comportamenti sono scorretti, per non dire illegali, offline così come online e non devono quindi essere messi in atto. L’atteggiamento di correttezza e rispetto favorisce un utilizzo responsabile della rete e una consapevolezza della propria cybercittadinanza;
  • Coltivare interessi paralleli, affiancando alle nuove tecnologie, gli interessi e le passioni fuori dalla rete;
  • Ricordare l’importanza della comunicazione interpersonale e del “faccia a faccia”, sia nei rapporti alla pari che nella relazione con gli adulti;

Richiedere l’ascolto e il sostegno da parte degli adulti non solo per tutelare la propria immagine e riservatezza sulla rete, ma anche e soprattutto per avere maggiori strumenti di gestione delle emozioni e legate all’uso delle tecnologie.

 

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Adolescenti internet 300 - Immagine:  © Romario Ien - Fotolia.comI ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

I miei amici, ormai tutti –ahimè- abbondantemente oltre gli anta, e quelli che incontro per motivi professionali, dichiarano, spesso, la loro impotenza nei confronti di figli che sembrano preferire l’hashtag all’associazione in parrocchia, la Play al calcetto, What’s app alla chiacchiera da bar.

E attribuiscono il disimpegno e il menefreghismo dei ragazzi (tutti: preadolescenti, adolescenti e giovani adulti), e la scarsa comunicazione tra loro e con gli adulti, soprattutto alla massiva frequentazione degli ambienti virtuali delineati da internet e dintorni.

Di primo acchitto sembra uno di quei moralistici mantra generazionali che hanno riguardato di volta in volta la musica rock, i jeans, la rivoluzione sessuale, i manga giapponesi…

Ma, cercando di scremare il bambino dall’acqua sporca, devo prendere per buone alcune percezioni relative a questi tempi complessi. Vedo anch’io adolescenti e giovani adulti isolati, evitanti rispetto alle difficoltà,  che non fanno sport, disinteressati alla politica, con ridotti consumi culturali –anche in presenza di lauree e master-, esibita crassa ignoranza per la storia del proprio paese.

Talvolta percepisco un vivere povero, di superficie, scarsamente impegnato e partecipato, privo di orizzonti che eccedano di un po’ il proprio ombelico… “Sono gli sdraiati, i figli adolescenti, i figli già ragazzi” (Serra, 2013). Per fortuna è una bieca generalizzazione, ma dando questa tendenza per vera, il colpevole è internet?

Butto lì due dati.

Primo. Le nuove generazioni, anche quelle del passato, non sono specializzate in innovazioni e salti in avanti, ma sono sismografi molto sensibili dell’esistente: colgono cioè quello che viene loro consegnato e anticipano le tendenze.

Secondo. I valori e le etiche non sono in contrasto ma, di solito, abbastanza in continuità con quelle del contesto (Meeus e Crocetti, 2009).

Dando per buoni questi dati, i valori e i comportamenti dei nostri figli sono una reinterpretazione di roba che è già nel mondo adulto e precorre il domani. E d’altra parte, se le tendenze sono quelle figurate nei nostri reality, Homer Simpson è alla porta. Il mondo adulto non è migliore di quello giovanile. Anzi.

John Medina (Medina, 2010) spiazzava i genitori che andavano da lui per lamentare le difficoltà dei figli chiedendo il report personale degli amici frequentati e degli scambi di visite, della frequenza ad associazioni e gruppi di volontariato, di hobby e sport. Come dire: i ragazzi imparano da noi. E se non proponiamo loro benessere e soddisfazioni da un mondo vivace e partecipato, loro si arrangiano come possono.

E i nuovi media, come il televisore per gli anziani, sono, contemporaneamente, straordinarie opportunità di incontro e conoscenza, e facili riempitivi di vuoti; sostituti virtuali di comunità  inesistenti –o distratte-. Inutile lamentarsene: il nostro è un mondo bello, pieno di opportunità e potenzialità. Ma anche, e questo vale per qualunque età, competitivo, difficile, mutevole, con scarsa trasmissione di valori strutturati, con comunità frammentate e fluide…  Con proposte educative e modelli adulti  non sempre all’altezza della complessità e velocità delle nostre società, specie di quelle proprie del mondo occidentale.

Sommessamente: se vogliamo giovani impegnati e combattivi, ricchi di amore per la bellezza, rispettosi dei valori relazionali e comunitari, coltiviamo in tal senso le nostre esistenze adulte. Vivremo meglio e i ragazzi -forse- ci seguiranno.

 

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AUTORE: 

Giacomo De Caterina. Medico chirurgo, iscritto all’Ordine dei medici di Napoli n.22027. Psichiatra; Psicoterapeuta. Specialista in neurologia; Master in Disturbi del comportamento alimentare

L’ansia sociale può compromettere le relazioni sentimentali?

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Come funziona l’ansia sociale nelle relazioni romantiche e sentimentali? In che modo può impattare sulla soddisfazione e sul livello di intimità di una relazione?

L’ansia sociale è da considerarsi un continuum nella popolazione, al cui estremo ritroviamo il disturbo vero e proprio (fobia sociale o in inglese social anxiety disorder (SAD)(Ruscio, 2010). Sia il disturbo vero e proprio che elevati livelli di ansia sociale sono chiaramente associati con difficoltà di funzionamento nelle relazioni interpersonali: gli ansiosi sociali hanno reti sociali più ristrette (Torgrud et al., 2004) ed è meno probabile che si sposino o convivano (Schneier, Johnson, Hornig, Liebowitz, & Weissman, 1992). Anche se è chiaro che l’ansia sociale non facilita le relazioni, poco si sa rispetto alla qualità delle relazioni sentimentali che si instaurano nel momento in cui si instaurano. L’obiettivo di un nuovo studio pubblicato sul Journal of Clinical Psychology è quello di indagare se l’ansia sociale possa variare con la soddisfazione di coppia, il supporto  e l’intimità nelle relazioni sentimentali. Circa 80 coppie eterosessuali di studenti sono state coinvolte nello studio completando, da parte di entrambi i partner , dei questionari self-report. Tra le misure utilizzate vi sono la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS) (Mattick & Clarke, 1998), la Relationship Assessment Scale (RAS) (Hendrick, 1988)e altre scale che misurano l’intimità e a percezione di supporto ricevuto e dato all’interno della coppia.

I risultati dimostrano che elevati livelli di ansia sociale nelle donne, ma non negli uomini, sarebbero associati alla percezione di minore supporto, e cioè la percezione del supporto ricevuto dal partner e la percezione di dare al partner supporto sarebbero inferiori in relazione a punteggi elevati di ansia sociale, ma solo nel genere femminile. Inoltre sempre solo le donne con maggiore ansia sociale riportavano una minore soddisfazione nelle relazioni romantiche con una minore quota di self-disclosure nei confronti del partner. Mentre in entrambi i generi, sia per gli uomini che per le donne, un’elevata ansia sociale è correlata a una percezione di intimità come maggiormente rischiosa, cioè si crede che avvicinarsi emotivamente e intimamente agli altri può essere pericoloso e avere conseguenze negative (Pilkington & Richardson, 1988).

Dunque lo studio supporta empiricamente l’idea che l’ansia sociale sia una difficoltà interpersonale  così rilevante da entrare in gioco in qualche misura anche  nella qualità delle relazioni sentimentali.

 

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Bluffare a poker contro Paul Ekman: missione impossibile?

Giochereste mai a poker contro Paul Ekman, il più grande esperto mondiale nel riconoscere le menzogne?

Nel gioco del poker si può vincere senza bluffare, ma non si può vincere se non si è in grado di riconoscere un bluff, ecco perché essere in grado di capire se un giocatore sta mentendo o meno è un fattore determinante per l’esito della partita, nonché dote indispensabile per diventare un campione di poker.

Quindi i grandi pokeristi sono degli abili lie detector? Niente affatto! Se non sono seduti al tavolo verde, se la cavano né più né meno della stragrande maggioranza delle persone: la loro performance nell’identificare una menzogna non è migliore che se tirassero ad indovinare!

Come Paul Ekman insegna, per poter capire se una persona sta mentendo è necessario saper riconoscere le micro e le mini espressioni facciali, i gesti fuori posto, i cambiamenti nel tono della voce, ecc. Sono questi i segni rivelatori su cui ci si basa per poter identificare una bugia.

Ma questi segni non emergono in una partita di poker, dove i giocatori non proferiscono parola, hanno il volto impassibile, parzialmente coperto da grandi occhiali scuri, indossano felpe con il cappuccio, e gli unici gesti concessi riguardano il movimento delle carte. I pokeristi per riconoscere un bluff non si basano sui classici segni rivelatori, ma in questo gioco silenzioso che è il poker sono abilissimi nell’interpretare un particolare limitato ventaglio di movimenti per scoprire un bluff.

Come facciano resta ancora un mistero, anche per Paul Ekman.

 

Spotting Poker BluffsConsigliato dalla Redazione

Two winners of the International Poker Tournament, in different years, sought my advice on calling bluffs, knowing that I am an expert in spotting liars. I told them I had not played poker since junior high and had never watched poker being played. T… (…)

 

Se volete approfondire le riflessioni di Paul Ekman sull’arte del bluff a poker, ecco il suo articolo pubblicato recentemente sull’Huffington Post: … Continua  >>

 


Articoli di State of Mind sulle Espressioni Facciali
Intelligenza Artificiale e Diagnosi Psicologica – ECDP 2024
Report degli interventi su Intelligenza Artificiale e Diagnosi Psicologica presentati all'European Conference on Digital Psychology 2024
Quando la maschera tradisce Narciso: le espressioni facciali dei narcisisti in risposta alle critiche
La relazione tra narcisismo grandioso e reattività emotiva a valutazioni negative, che minacciano e possono invalidare l’idea di Sé
Espressioni facciali ed emozioni: il riconoscimento nei bambini adottati
Facial emotion recognition in bambini adottati
Un recente studio ha riscontrato nei bambini adottati minor precisione nella distinzione delle espressioni facciali di tristezza e paura rispetto ad altri
Nascondere le emozioni micro espressioni e comunicazione non verbale
Nascondere le emozioni
Cosa succede quando cerchiamo di nascondere le nostre emozioni e interveniamo per esempio sui gesti e le espressioni facciali?
Disturbo dell apprendimento non verbale le difficolta nelle abilità sociali
Le abilità sociali nei bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale
I bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno difficoltà di giudizio sociale e scarse capacità di riconoscere emozioni e stati d’animo altrui
Espressioni facciali: manifestare le emozioni attraverso la mimica facciale
Emozioni manifeste e latenti: comunicare con la mimica facciale
Alcune espressioni facciali possano manifestare più di una singola emozione sottostante, non è sempre immediato quindi distinguerle
Linguaggio del corpo ed espressioni facciali: quale dei due stimoli è più rilevante?
L’interezza dell’emozione provata da qualcuno può essere descritta solo prendendo in considerazione sia le espressioni facciali sia il linguaggio del corpo
Maltrattamento in età infantile: gli effetti sul riconoscimento delle emozioni
Maltrattamento in età infantile: come cambia il riconoscimento delle emozioni?
Il maltrattamento su minori, in particolare l’abuso sessuale, potrebbero influire significativamente sul riconoscimento delle espressioni emotive
Depressione e schizofrenia studi sull espressione delle emozioni
L’espressione delle emozioni nella depressione e schizofrenia
Numerosi sono gli studi che hanno preso in esame la gestualità e la modulazione espressiva delle emozioni in disturbi come depressione e schizofrenia
Cognizione sociale: le basi neurali nel disturbo depressivo maggiore
La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte II: le basi neurali della cognizione sociale nella depressione
Il disturbo depressivo maggiore è associato a una compromissione del funzinamento sociale, compromettendo la qualità di vita e il funzionamento globale
Cannabis: impatto sul riconoscimento emotivo dei volti - Psicologia
L’impatto che l’utilizzo della cannabis avrebbe sul riconoscimento emotivo dei volti
La capacità di elaborare le espressioni facciali, uno dei processi alla base dell’empatia, potrebbe essere influenzato e alterato dall'utilizzo di cannabis.
Disturbo Bipolare: le difficoltà nel riconoscimento delle emozioni altrui
La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte I: le basi neurali della cognizione sociale nel Disturbo Bipolare
Le difficoltà dei pazienti con disturbo bipolare nel riconoscere le emozioni altrui ha origine da un complesso substrato neurale.
Mindful Interbeing Mirror Therapy nuovo approccio terapeutico integrativo
Mindful Interbeing Mirror Therapy. Un metodo innovativo per un nuovo approccio terapeutico integrativo sulla personalità
La Mindful Interbeing Mirror Therapy fa parte delle psicoterapie di ultima generazione e lavora sull'asse integrazione/dissociazione della personalità.
Depressione e Disturbo Bipolare: quali conseguenze sulla maternità
Maternità e disturbi dell’umore: osservate differenze nel riconoscimento delle espressioni emotive infantili
I Disturbi dell'umore, depressione o disturbo bipolare, hanno una maggiore incidenza nella popolazione femminile. Tale dato, associato ad un'alterazione di questi soggetti nella valutazione degli stati emotivi altrui, potrebbe comportare una serie di difficoltà alle madri nell'interazione con il proprio bambino.
Psicopatia: le difficoltà nel riconoscere l'autenticità delle emozioni
Lacrime di coccodrillo o lacrime reali? Gli psicopatici potrebbero non riconoscere la differenza
Persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte. In particolare sembrerebbe che questi soggetti abbiano maggiori difficoltà nel discriminare l'autenticità delle emozioni di tristezza e paura.
Genitori critici: gli effetti sui figli e sulla loro capacità di leggere le emozioni
Genitori critici: il cervello dei bambini risponde diversamente agli stimoli emotivi
Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali. Ciò influenzerebbe le loro relazioni sociali e sembra essere legato a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici
Paul Ekman: biografia e contributi scientifici sullo studio delle emozioni
Paul Ekman e i suoi importanti studi sull’universalità delle emozioni e delle espressioni facciali- Introduzione alla Psicologia
Dopo un interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, Paul Ekman si è focalizzato sullo studio delle emozioni e delle espressioni facciali ad esse collegate. Il rigoroso approccio scientifico e sperimentale lo ha portato a ricevere numerosi riconoscimenti e a sviluppare strumenti all'avanguardia.
Postura e stili di attaccamento sono in stretta relazione tra loro
La nostra postura e i nostri gesti possono essere il risultato delle prime interazioni di attaccamento?
Le esperienze di attaccamento, secondo i diversi stili identificati e descritti in letteratura, influenzano lo sviluppo dell'individuo in numerosi aspetti: dalla propria identità, alla capacità di regolare le proprie emozioni, di interagire con gli altri e, non da ultimo, anche nella postura.
Cognizione sociale nella sclerosi multipla: i dati della ricerca
La cognizione sociale nella sclerosi multipla
Diversi studi hanno indagato la possibile compromissione delle abilità legate alla cognizione sociale nella sclerosi multipla.
Assunzione di droghe e riconoscimento delle immagini
Assunzione di droghe e compromissione del riconoscimento delle immagini
Uno studio ha dimostrato come l'assunzione di droghe, quali l'LSD alteri il riconoscimento delle espressioni facciali di paura e tristezza. 
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Psicoterapia Sistemico – Relazionale: Intervista con Valeria Ugazio

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Valeria Ugazio

Professoressa Ordinaria all’Università di Bergamo

 

State of Mind intervista Valeria Ugazio, Psicologa Psicoterapeuta, Professoressa Ordinaria di Psicologia Clinica presso l’Università di Bergamo, Direttrice e Fondatrice della Scuola di Specializzazione EIST. 

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

VEDI IL PROFILO DI VALERIA UGAZIO

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Psicoterapia Sistemico-Relazionale: Intervista con Matteo Selvini

Il Delirio di Ivan: Psicopatologia dei fratelli Karamazov – Psicologia & Letteratura

 Anna Angelillo  

 

 

Psicopatologia dei fratelli Karamazov - RecensioneÈ un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Proviamo ad immaginare, in un gioco di finzione, uno dei maggiori romanzieri di tutti i tempi che accompagna dallo psicoterapeuta tre dei suoi figli di penna. Quello che ci verrà consegnato alla fine di questo incontro sarà un libricino candido e minuto, firmato da uno dei maggiori psicoterapeuti italiani, Antonio Semerari, che racchiude un’analisi accurata e illuminante della psicologia (o meglio, della psicopatologia) dei tre pazienti dostoevskijani che si sono succeduti sulla sua poltrona: Dmitrij, Aleksej e Ivan, più famosi e noti come i fratelli Karamazòv.

Il delirio di Ivan è un invito a nozze per gli psicologi che amano la letteratura e uno stimolo intellettuale per i profani che hanno però da sempre amato il talento di Fëdor Dostoevskij nel dare vita a personaggi perfetti e coerenti dal punto di vista psichico, a tal punto da sembrare reali.

L’autore si propone di trattare le creazioni dello scrittore come se fossero realmente esistite, e quindi di analizzare le anime in scena, presentandone la psiche che, come avviene nella realtà, ha preso forma dalle vicende drammatiche e non che hanno visto susseguirsi nel corso della loro vita.

Alla luce dell’approccio clinico dello psicoterapeuta in gioco, gli strumenti utilizzati nella descrizione della loro personalità e dei disturbi saranno tratti dall’attuale psicologia dello sviluppo e dagli studi recenti sulla psicopatologia del trauma e della dissociazione, come precisato dall’autore nell’introduzione.

E il tentativo sarà quello di proiettare sulla famiglia Karamazòv le conoscenze attuali sugli sviluppi traumatici della personalità (concetto introdotto da altri due noti psichiatri italiani, Giovanni Liotti e Benedetto Farina, e preso in prestito dall’autore), provando a dare un ordine al caos (che alla fine del trattato si dimostrerà essere solo apparente), in cui lo scrittore russo pone i suoi personaggi.

L’intento è quello di mostrare come, in fase di sviluppo, un contatto prolungato con condizioni traumatiche, abbandoni o continui cambiamenti di figure di attaccamento ed estesi momenti di neglect possano avere un effetto disgregante sul senso di identità che si strutturerà, anche in base ai tratti temperamentali e alle disposizioni innate che ciascuno sfodererà nel reagire a tali vicissitudini traumatiche.

Dopo una breve e chiara presentazione della teoria in pillole dei disturbi della coscienza e del loro rapporto coi traumi psicologici, il clinico-autore va quindi ad esporre il contesto familiare in cui si muovono i Karamazòv, collocando sullo sfondo un padre disinteressato e trascurante e poi, pennellata dopo pennellata, dà forma all’animo dei tre fratelli: ne ricostruisce, ripercorrendo i capitoli del romanzo, la storia, ci consegna informazioni sugli aspetti temperamentali e le modalità di reazione a quello che la vita romanzesca ha offerto loro e poi ci mostra come si delinea un itinerario di sviluppo – differente per ognuno – che trova appoggio (e quasi conferma – a sottolineare la bravura dello scrittore russo) nelle vicende tracciate da Dostoevskij.

Nelle conclusioni, infatti, si può leggere:

Posti di fronte ad un male che sovrasta la loro capacità di reazione, accade a questi personaggi quello che accade alla maggioranza degli esseri umani: la loro capacità di discriminare con chiarezza tra gli eventi del mondo interiore e la realtà esterna si indebolisce e la loro identità perde di coesione. A tutto questo reagiscono in modi molto diversi l’uno dall’altro, modi coerenti con l’indole e il temperamento di ciascuno, ognuno dei quali, però, rientra così tanto nell’infinità varietà delle reazioni umane da essere oggetto di indagine da parte degli studiosi della psiche.

(pag. 119).

Richiudendo il libro di Semerari, si avrà la sensazione che ogni cosa sia andata al suo posto e che ciascuna anima girovagante tra quelle pagine abbia trovato un suo senso e una sua coerenza.

È un lavoro stimolante, curioso e gonfio di amore per la psicologia e anche per la letteratura d’autore. Incoraggerà chi già aveva incontrato i fratelli Karamazòv a volgere uno sguardo clinico verso di loro, magari aprendo spazio ad una diversa comprensione delle azioni degli stessi; sicuramente invoglierà chi non li ha ancora incontrati, ad andar a bussare alla loro porta.

Il contributo dello psichiatra romano restituisce, senza dubbio, ancor più spessore ad un estremo esempio di grandezza letteraria, quale è l’opera dostoevskijana.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Combattere la perdita di memoria con una risata

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione.

Troppo stress con l’avanzare dell’età può portare a una serie di problemi di salute, tra cui l’ipertensione, il diabete e le malattie cardiache. Recenti ricerche hanno dimostrato che il cortisolo, l’ormone dello stress, è in grado di danneggiare i neuroni nell’ippocampo e influenzare negativamente la memoria e l’apprendimento negli anziani . I ricercatori della Loma Linda University hanno scoperto che umorismo e sorrisi aiutano a ridurre i danni creati dal cortisolo.

 Due gruppi di anziani, sani e con il diabete, hanno guardato per 20 minuti un video divertente e poi hanno eseguito dei compiti per valutare capacità di apprendimento, rievocazione e riconoscimento visivo. La loro performance è stata confrontata con un gruppo di controllo che è stato testato nelle abilità cognitive ma che non ha visto il video umoristico.
I risultati, presentati recentemente all’Experimental Biology Meeting di San Diego, indicano nei due gruppi sperimentali una significativa diminuzione delle concentrazioni di cortisolo e un incremento nei punteggi di memoria rispetto al gruppo di controllo; in particolare nei diabetici si è osservata una drastica variazione del livello di cortisolo, mentre per gli anziani sani i cambiamenti più significativi sono stati nei punteggi dei test di memoria.

Lee Berk, da lungo tempo ricercatore in psiconeuroimmunologia dell’umorismo, dice:

“Meno stress consente una migliore funzione della nostra memoria. L’umorismo riduce gli ormoni dello stress, abbassa la pressione sanguigna, aumenta il flusso di sangue e innalza lo stato d’animo; ridere aumenta il rilascio di endorfine e dopamina nel cervello, che forniscono un senso di piacere e di ricompensa. Questi cambiamenti neurochimici positivi a loro volta migliorano la funzione del sistema immunitario. Cambia anche l’attività delle onde cerebrali verso la banda delle onde gamma, che amplifica la memoria e la rievocazione. La risata, insomma, non è solo un buona medicina, ma anche un potenziatore della memoria che migliora la qualità della vita”.

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Neuropsicologia

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Odori e memorie sono una sinfonia di onde cerebrali

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

The Wrestler (2009) – Tra grandiosità narcisistica e rifiuto del fallimento

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  Nr.24

The Wrestler (2009)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

 

The Wrestler (2009) - PosterUn film di Darren Aronofsky, con Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry. Drammatico. Francia-USA 2009.

 

Trama

The Ram, Randy Robinson, è un eroe del wrestling degli anni ottan­ta che venti anni più tardi, non balla più sul ring e deve confrontarsi con il fallimento. I fasti e i successi della sua carriera sono solo ricordi per­manenti nei segni della lotta che porta sul corpo. Lavora in un grande magazzino dove il proprietario lo tratta come uno schiavo, cerca di rico­struirsi una relazione affettiva partendo da un rapporto mercenario con una spogliarellista che per molti aspetti gli somiglia, anche lei in disfaci­mento, ha una figlia con la quale non riesce a riallacciare un filo che si è spezzato da troppo tempo.

Le luci si spostano dal ring all’animo di Randy, triste e terrificato dalla sconfitta che gli sbatte in faccia la vita. Lui, abituato a vincere ad essere il numero uno, si ritrova a fare i conti con un declino irreversibi­le e a riflettere sulla sua esistenza vuota.

 

Motivi di interesse

In Randy Robinson sono presenti alcuni tratti tipici di una persona­lità narcisista: ha un senso grandioso di importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore), è assorbi­to da fantasie di illimitati successo, potere e fascino, crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone speciali e richiede eccessiva ammirazione.

La sua storia mostra il passaggio da uno stato mentale grandioso che manifesta con atteggiamento di superiorità, dominio e diversità orgogliosa allo stato depresso-terrifico, con senso di fallimento, di sconfitta e di rifiuto e conseguente autosvalutazione.

Le emozioni di vergogna, tristezza e nostalgia segnano l’umore del protagonista fino a portarlo a uno stato di vuoto devitalizzato con esperienza emotiva spenta, che si legge nei suoi occhi dall’inizio alla fine.

L’anziano wrest­ler cerca di sopravvivere nel suo mito, imbottendosi di farmaci, ma ormai il fisico non lo sorregge e le luci intorno a lui si spengono, i fans si dimenticano di “The Ram”. Non ha altre risorse, se non quelle dei muscoli, non ha altre competenze se non quelle sportive e le vecchiet­te al banco sono avversari più difficili di quelli che incontrava sul ring. Questo colosso invincibile si mostra fragile, incapace, rifiutato, solo e disperato. Negli occhi di Randy è visibile la disperazione di chi sa di essere diventato un perdente.

 

Indicazioni per l’utilizzo

I contenuti del film possono essere utilizzati per il trattamento di pazienti con disturbo narcisistico di personalità. In particolare per:

  • connettere stati interni in relazione all’ambiente;
  • favorire l’accesso ai desideri che non riguardano la grandiosità;
  • incrementare la comprensione degli stati mentali propri e degli altri;
  • Individuare ed interrompere i circoli viziosi che si instaurano tra pensieri, emozioni e comportamenti;
  • identificare gli stati problematici (grandiosità, distacco, vuoto, depres­sione, vergogna, invidia, rabbia) e valutare strategie più funzionali per la gestione di essi;
  • regolare l’autostima mediante la promozione di modalità più funzio­nali.

 

TRAILER: 

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CINEMADISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Genitori omosessuali: penalizzati nonostante le ricerche a favore

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità.

Secondo una review della Drexel University le decisioni prese dalla Corte sulla custodia di figli a genitori omosessuali spesso non tengono in debita considerazione la ricerca scientifica sull’adeguatezza della genitorialità di gay e lesbiche.

Precedenti ricerche dimostrano, infatti, che gay e lesbiche sono genitori tanto efficaci quanto quelli eterosessuali e che i bambini allevati da genitori gay o lesbiche sono ben adattati, come i loro coetanei allevati da genitori etero.

 Nonostante questi dati l’orientamento sessuale del genitore è ancora un fattore decisivo nelle decisioni sull’affidamento dei minori. Questo significa che chi si dichiara gay o lesbica, e decide quindi la fine di una partnership eterosessuale, può vedersi negare l’affidamento dei figli o andare incontro a restrizioni nell’esercizio della genitorialità. Inoltre, per le coppie omosessuali con figli, la fine della relazione può significare difficoltà a stabilire diritti parentali per entrambi i genitori, quando uno dei partner non viene riconosciuto come un genitore legale da parte dello Stato e dal giudice, e pertanto non gli viene concessa la custodia o il diritto di visita.
I ricercatori della Drexel raccomandano che psicologi, giudici e legislatori tengono conto della ricerca sulla genitorialità gay. Essi ritengono che questa ricerca abbia il potenziale giusto per aiutarli nelle decisioni complesse in materia di affidamento e di diritto dei genitori e potrebbe contribuire a garantire che tali decisioni giuridiche riflettano effettivamente il migliore interesse del bambino .

 

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Adozioni e Affidamento

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Le Famiglie Omogenitoriali nella Scuola e nei Servizi Educativi – Report da Firenze 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

Dalla psicopatologia cantata alla Psicantria della vita quotidiana

 

 

In sintonia con la moda holliwoodiana dei sequel delle opere prime, anche noi “psicantrici” abbiamo sentito l’esigenza di dare un seguito a “La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata”, uscito nel 2011 per questo stesso editore, con un nuovo libro-CD intitolato “La Psicantria della vita quotidiana”.


Il titolo ha un chiaro riferimento alla celeberrima opera di Freud (1901), in quanto questa volta la nostra attenzione si è concentrata sugli scenari psicopatologici che si possono incontrare nel nostro vivere quotidiano, anche al di fuori dei luoghi di cura. L’aggressività all’interno dei gruppi, l’influenza delle tecnologie sul nostro modo di relazionarci all’altro, la difficoltà a costruirsi un’identità stabile sono alcuni dei temi che trattiamo in queste canzoni, nate dalle nostre osservazioni effettuate in contesti clinici e, più largamente, sociali.

Ma facciamo un passo indietro.

La Psicantria è andata oltre i confini della pubblicazione, diventando un progetto educativo e culturale, che ci ha dato la possibilità, attraverso le canzoni e i concerti di presentazione, di entrare in contatto con tantissime persone vicine e lontane dallo psicomondo. I contesti nei quali abbiamo presentato lo spettacolo di psicopatologia cantata sono stati molteplici: biblioteche, scuole superiori, teatri, università, congressi scientifici, festival legati salute mentale, eventi organizzati da associazioni di volontariato e cooperative sociali, centri di salute mentale.

Al nostro psicotour è stato riconosciuto nel 2012, con grandissima soddisfazione, il premio “Nessuno mi può giudicare” contro lo stigma in psichiatria, promosso dall’ASL di Lucca. Questo riconoscimento ci ha riempito di orgoglio in quanto crediamo fermamente che lo stigma nei confronti delle persone affette da disturbi psichiatrici sia ancora molto presente nella nostra società, con grandi ripercussioni sull’accesso alle cure e sulla riabilitazione. Più che le scoperte di nuovi recettori neuronali da parte dei neuroscienziati o di innovative tecniche psicoterapiche, siamo convinti che un atteggiamento più accogliente e meno giudicante nei confronti di coloro che vivono le difficoltà quotidiane della malattia mentale, sia il primo passo da fare per migliorare concretamente la loro qualità di vita, con ripercussioni positive sul disturbo stesso.

Ci sono tanti aneddoti di questi tre anni che ricordiamo con piacere e un po’ di incredulità. Non ci saremmo mai aspettati, ad esempio, di ascoltare una versione punk di Jessica l’anoressica, eseguita da una band di liceali di Belluno, di intervenire con la chitarra a congressi nazionali di psicoterapia e musicoterapia, di cantare un grande successo di Caterina Caselli con una psychiatric band a Capannori (LU), di esibirci al premio Lunezia 2012 insieme a Bobo Rondelli e Paolo Jannacci, di essere recensiti positivamente dall’ostico critico musicale Mario Luzzatto Fegiz, o di ritrovarci autori di una canzone nell’ultimo disco di Francesco Guccini.

Abbiamo avuto l’onore di suonare in diverse università italiane per il Segretariato Italiano Studenti in Medicina e uno studente di Ferrara, fino a quel momento avviato verso un futuro da anestesista, dopo aver assistito al concerto ha deciso di scegliere psichiatria. Che responsabilità! La cosa divertente è stata che a un successiva presentazione a Venezia si è presentato il padre dello studente che evidentemente voleva capire meglio il cambio di rotta del figlio. Per fortuna non sembrava arrabbiato!

L’aggettivo psicantrico è ormai entrato nello slang dei nostri social network, identificando un’attitudine alla sdrammatizzazione e all’uso dell’ autoironia come registro comunicativo per entrare in sintonia con l’altro.

L’obiettivo divulgativo e psicoeducativo di Psicantria è stato raggiunto pienamente, grazie soprattutto al potere dello strumento canzone, in grado di stimolare l’identificazione e la condivisione emotiva dei vissuti dei protagonisti dei brani.

In molti ci hanno chiesto se le canzoni psicantriche possano essere utilizzate come terapia. Fino ad oggi non le abbiamo mai sperimentate in prima persona perché non ci sembra opportuno presentarci ai pazienti nella doppia veste di cantautori e terapeuti, con il rischio di creare confusione. Abbiamo invece diverse testimonianze di colleghi che hanno utilizzato le nostre canzoni sia in percorsi terapeutici individuali, sia in gruppi di psicoeducazione con buoni risultati.

I feedback che abbiamo ricevuto sono positivi e le canzoni vengono generalmente apprezzate dalla gran parte dei pazienti che, riuscendo a riconoscersi nelle storie che  cantiamo, possono trovare l’occasione di distanziarsi dalla propria esperienza dolorosa, rileggendola da un’altra prospettiva. Ci sono stati pure riportati casi di pazienti con profili caratteriali di tipo paranoide per cui può essere sconsigliato l’uso dei brani, soprattutto quelli che trattano i temi in modo ironico. Riteniamo comunque che le potenzialità dell’utilizzo dei nostri brani in ambito clinico debbano essere ancora approfondite e meritino ulteriori sperimentazioni in diversi contesti terapeutici. A questo riguardo abbiamo iniziato a raccogliere materiale sull’uso della canzone come strumento di cura e speriamo in futuro di produrre una pubblicazione su questo argomento.

Crediamo sia importante segnalare che le canzoni della psicantria sono state molto apprezzate anche dagli operatori dello psicomondo (medici, psicologi, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione psichiatrica…), che forse si sono identificati con il messaggio di sdrammatizzazione contenuto in alcuni nostri brani. Un operatore di Cremona ci ha confidato che ogni mattina, recandosi al lavoro,  si “caricava” ascoltando il nostro CD in auto. Che soddisfazione!

Lavorare quotidianamente con la sofferenza psichica può essere davvero usurante, ma rappresentare il disagio in una prospettiva diversa e che stimoli la nostra curiosità ci salva dalla cosiddetta “cronificazione”, cioè il pensare che le malattie psichiatriche siano entità statiche e inguaribili. D’altra parte come scrive Saraceno (1995)

“la Salute Mentale è l’insieme delle azioni di promozione, prevenzione e cura riferite al miglioramento o al mantenimento o alla restituzione della Salute Mentale”.

Le canzoni, come altre forme artistiche, possono giocare un ruolo importante nella promozione e nella prevenzione, come potente veicolo di psicoeducazione. In certi contesti come la scuola, la canzone può avere più effetto di tanti discorsi e ce ne siamo resi conto di persona durante l’attività di prevenzione al disagio psichico negli istituti modenesi. Quando imbracciavamo la chitarra calava il silenzio sulla sala, quando iniziavamo a parlare ripartiva il brusio. Del resto per tanti ragazzi la canzone è ancora il principale mezzo di trasmissione culturale (Greenfield et al., 1987), molto più dei libri e dei film. Si pensi ad esempio alla diffusione tra gli adolescenti della musica rap, che in qualche modo rappresenta, per i contenuti di impegno e critica sociale, una forma attualizzata di musica cantautorale.

Nelle nuove canzoni, come accennato in precedenza, il nostro telescopio psicantrico è stato puntato sulle nuove famiglie, sul mondo della scuola, sul disagio giovanile. I temi sono un po’ cambiati rispetto al primo CD, ma l’uso dell’ironia e la modalità di comporre le canzoni a quattro mani sono rimaste le stesse. Per i contributi del libro ci siamo rivolti a bravissimi colleghi psicologi e psichiatri, opinion leaders a livello nazionale negli argomenti trattati, molti dei quali conosciuti proprio attraverso i concerti psicantrici, a cui abbiamo chiesto di produrre riflessioni partendo dai testi delle nostre canzoni. Per rendere il libro ancora più polifonico, per il brano La felicità abbiamo avuto l’onore di includere il commento di un monaco buddista, che visto l’argomento della canzone, ci sembrava il più esperto a riguardo. Buon ascolto e buona lettura!

 

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MUSICAMUSICOTERAPIA – NEUROMUSICOLOGIA

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BIBLIOGRAFIA:

Palmieri G., Grassilli C. (2014). Psicantria della vita quotidiana. Edizioni La Meridiana. Libro più CD audio.  SFOGLIA l’ANTEPRIMAACQUISTA ADESSO – ACQUISTA ALBUM MP3

 

Viaggio attraverso il Posto delle Fragole di Ingmar Bergman (1957) – Recensione

 

 

Viaggio attraverso il posto delle fragole_Bergman

Bergman ci lascia un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso, per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

In un frammento tratto dalla sua autobiografia “Lanterna magica” (1987) il regista svedese Ingmar Bergman scriveva: “Da piccolo per punizione ero spesso rinchiuso nell’armadio e qui, rannicchiato nel buio, grazie a una torcia, una sorta di lanterna magica che un giorno riuscii a portarmi dentro di nascosto, cominciai a immaginare, a sognare, a creare storie, altri mondi, personaggi, buffoni e marionette che finivano con il sostituirsi alla realtà e alleviavano il dolore della mia solitudine”.

Bergman, figlio di un pastore protestante, aveva ricevuto una rigida educazione improntata ai principi della religione luterana di “peccato, confessione, punizione, perdono e grazia”. Il dono, ricevuto a 12 anni, di un proiettore cinematografico fece sì che Bergman trovasse nel cinema la prosecuzione di quel gioco infantile di illusioni che riusciva a farlo evadere dall’oppressivo clima familiare. A 18 anni se ne andò di casa, si sottrasse alla volontà paterna che lo voleva sacerdote ed intraprese quel percorso che lo portò a diventare uno dei registi più talentuosi e in grado di scavare nell’animo umano.

Nella sua intera opera Bergman riporta i suoi temi di vita dolenti, i rapporti conflittuali con i suoi genitori, con le donne che gli sono state accanto, con i suoi figli e la sua continua interrogazione sulla fede e l’esistenza di Dio, come se cercasse di trovare nei suoi film una risoluzione ai nodi problematici che lo affliggevano.

Non si sottrae a ciò uno dei film più belli di Bergman “Il posto delle fragole” (1957).

Il film si apre con un monologo dell’anziano protagonista, Isak Borg, noto medico e professore prossimo a ritirare un prestigioso premio a coronamento di una illustre carriera:

I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda, deferente passione per la scienza. Ho un figlio anche lui medico che vive a Lund, è sposato da anni, ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva, molto vivace malgrado la sua tarda età. Mia moglie Karim è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me che alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale.

Si delinea quindi fin da subito il personaggio di Isak Borg (che in svedese letteralmente significa “fortezza di ghiaccio”). Borg è un professionista stimato da molta gente ma, per chi vive accanto a lui, dietro questa facciata di bonarietà e modi gentili si cela un uomo egoista, gelido e sordo al sentire degli altri (come emerge da uno dei dialoghi iniziali con la nuora Marianne). La mattina del giorno della cerimonia, Borg viene svegliato e scosso da un sogno angoscioso in cui da una bara vede il cadavere di se stesso afferrargli un braccio e trascinarlo a sé (il sogno in realtà è più esteso e ricco nel suo simbolismo ma per motivi di sintesi non lo tratterò). L’incubo rimanda a Isak una sensazione di morte imminente (interpretabile sia come morte interiore sia come effettivo fine percorso della vita). Al risveglio il professore decide di non prendere l’aereo ma di viaggiare in macchina verso Lund. In questo viaggio lo accompagna sua nuora Marianne che vuole incontrare il marito dopo essersi allontanata dal lui (in quanto, come si scoprirà poi, è incinta ma il marito non vuole che tenga il bambino).

Durante il tragitto, Borg fa una deviazione e si dirige verso la casa in cui da giovane passava le vacanze estive insieme ai sui famigliari, tra cui la cugina Sara, suo primo amore. La ragazza tuttavia preferì sposarsi con l’audace ed impetuoso fratello maggiore di Isak, molto diverso da quest’ultimo. Il giovane Isak infatti viene descritto da Sara in questo modo: “così buono, così nobile e premuroso, è pieno di attenzioni, sempre tanto sensibile, quando siamo insieme leggiamo le poesie e vuole che parliamo della vita e della morte, ci divertiamo a suonare il piano a quattro mani, e mi bacia solamente quando siamo allo scuro, e poi mi parla del peccato, ha un animo così elevato, a suo confronto io mi sento così tanto piccola e meschina…”. Da allora Isak sembra aver portato all’estremo la sua tendenza alla razionalizzazione, negando l’importanza ed il valore degli affetti e dedicando la sua vita al freddo lume della scienza e della ragione.

Rivisitando i posti della sua giovinezza (il posto delle fragole del titolo) e da vari incontri fatti lungo il tragitto, tra cui quello con degli autostoppisti, una ragazza e due ragazzi che se la contendono riproducendo la stessa dinamica che Isak ha avuto con la cugina (non a caso la stessa attrice interpreta la Sara-cugina e la Sara del viaggio) – in un’alternanza tra realtà, sogni e fantasie para-oniriche – l’anziano medico passa attraverso un processo di riflessione sulla sua vita e di presa di consapevolezza di quanto il suo atteggiamento di negazione della dimensione affettiva lo abbia portato a quella che è la sua paura-condanna maggiore, la solitudine.

Ciò lo condurrà ad una riacquisizione delle proprie potenzialità emotive. Il tempo ormai è agli sgoccioli (l’orologio senza lancette del sogno iniziale del film) ma qualcosa si può ancora fare per farsi voler bene da chi gli sta accanto e, soprattutto, per cercare di rompere la catena di trasmissione transgenerazionale della freddezza che da sua madre, è passata a lui ed al figlio Evald. Evald non vuole avere figli e pone la moglie incinta nel dilemma di scegliere tra il bambino e lui. In un flashback del film (quando Marianne racconta a Isak il motivo della conflittualità con il marito) Evald afferma: “…la vita è una cosa assurda ed è bestiale mettere al mondo dei figli con la sciocca speranza che potranno vivere meglio di noi (…). Io stesso fui un figlio non desiderato di un matrimonio che era la copia dell’inferno…un figlio di chissà quale padre”.

Evald è simile al padre, anche lui si sente morto pur essendo vivo ed è rigido nelle sue posizioni, mentre la dolce Marianne vorrebbe tenere questo bambino proprio per spezzare questa catena di freddezza, morte e solitudine. Non resta per Isak che tentare di facilitare la riconciliazione tra figlio e nuora e fare in modo che il cambiamento avvenuto in lui possa investire anche il figlio (in cui tuttavia già si nota un accenno di cambiamento quando rivede la moglie ed esprime al padre la sua paura di perderla).

Prove del mutamento avvenuto nel prof. Borg sono sia il modo con cui affrontra la cerimonia del suo giubileo cogliendone la formalità del apparato e dando più peso alla presenza dei sui affetti in platea e il dialogo con la governante alla fine del film a cui Isak riserva parole di autentico affetto. A questo punto il professore può riaddormentarsi tornando agli episodi della sua infanzia e sognando i suoi genitori ai tempi della sua govinezza che lo salutano sorridendo.

Riguardo questo film, Bergman scrive di aver proiettato la figura del padre distante nel personaggio dell’anziano professore ed anche il rapporto padre-figlio tratteggiato risulta autobiografico. Ma il film è autobiografico anche nella misura in cui le iniziali stesse di Isak Borg sono le stesse del regista (cosa di cui Bergman si accorse solo tempo dopo la stesura) e il film rappresenta quindi anche il bilancio della stessa vita di Bergman, quarantenne al momento della scrittura della sceneggiatura, che guarda alla sua esistenza con gli occhi del vecchio medico.

Lo stesso Bergman ha scritto: “Mi trovavo in lotta con i miei genitori. Non riuscivo a parlare a mio padre, e neppure ne avevo l’intenzione. Io e mia madre cercammo di riconciliarci almeno temporaneamente, ma c’erano troppi scheletri nei nostri armadi, troppe incomprensioni piene di veleno. Credo che i motivi più forti che stanno alla base de Il posto delle fragole si possano trovare in quelle situazioni. Cercavo di mettermi nei panni di mio padre, e cercavo spiegazioni per le amare discussioni con mia madre…Nel film cerco di supplicare i miei genitori; guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi.”

Seppure sia permeato dalla nostalgia per la giovinezza e per il tempo perduto, il film si chiude con una visione che può essere considerata positiva: presa consapevolezza, seppur molto tardi, dei suoi temi dolorosi, per il dottor Borg si è aperta la possibilità di uscire dalla ripetitività della sua condotta, a partire da una riconciliazione con il suo passato e con le figure genitoriali e da una comprensione della trasmissione intergenerazionale degli schemi (anche grazie alla nuora Marianne, capace di restituirgli in maniera chiara la dinamica che lei stessa aveva osservato nell’incontro tra Isak e la sua anziana madre).

Emergono quindi per Isak l’opportunità di vivere il tempo che gli resta proseguendo il recupero della dimensione affettiva dei suoi rapporti con gli altri, ma anche la possibilità di nuovo inizio per la famiglia Borg con la nascita di una nuova vita. E riguardo la possibile interpretazione del sogno finale come anticamera della morte, resta comunque la sensazione di serenità acquisita da Isak, che può chiudere gli occhi in uno stato emotivo completamente differente da quello dell’incubo con cui si è aperto il film.

Bergman ci lascia quindi un capolavoro sull’importanza fondamentale degli affetti e della disponibilità ed apertura verso l’altro, incoraggiandoci a conservare sempre dentro di noi il proprio “posto delle fragole” e magari a guardarci allo specchio più spesso (per citare una delle scene madri del film) per capire il tragitto che stiamo percorrendo.

 

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Stress coniugale cronico e depressione: esiste una relazione?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

 

Secondo diversi studi le persone sposate sono, in generale, più felici e più sane rispetto ai single. Ma il matrimonio, ahinoi, può anche essere una delle più significative fonte di stress sociale cronico, tanto da aumentare la vulnerabilità alla depressione.

È quanto emerge da un recente studio a lungo termine condotto alla University of Wisconsin, secondo il quale le persone che soffrono di stress coniugale cronico sono meno in grado di assaporare le esperienze positive, un segno tipico di depressione, e riferiscono un gran numero di altri sintomi depressivi.

Lo studio longitudinale – parte del National Institute on Aging-funded Midlife in the United States (MIDUS) study – ha utilizzato un ampio campione di adulti sposati che sono stati sottoposti alla somministrazione di test per valutare sia il loro livello di stress coniugale che di depressione. Le valutazioni sono state ripetute nove anni dopo.

I partecipanti hanno  poi eseguito, a distanza di undici anni, un test risposta emotiva, allo scopo di misurare la loro resilienza, cioè la capacità di recupero dopo un’esperienza negativa. Il test prevedeva la misurazione dell’attività elettrica nel muscolo corrugatore sopraciliare (il muscolo “accigliato”) in risposta a immagini negative, positive e neutre.

Come suggerisce il soprannome, il muscolo accigliato, aggrottando le sopracciglia, si attiva con più forza nel corso di una risposta negativa. A riposo, tale muscolo ha un livello di tensione basale, ma durante una risposta emotiva positiva si rilassa.

Misurare quanto questo muscolo si attiva o si rilassa e quanto tempo impiega a raggiungere nuovamente il livello basale, è un modo affidabile per misurare la risposta emotiva e questo strumento si è rivelato utile nell’assesment della depressione. Precedenti studi hanno dimostrato che gli individui depressi hanno una risposta fugace a stimoli emotivi positivi. Davidson, ricercatore a capo dello studio, era interessato non solo a quanto un muscolo si rilassa o si irrigidisce quando una persona guarda un’immagine, ma anche quanto tempo ci vuole perchè la risposta si plachi: il suo team ha scoperto una finestra di 5-8 secondi dopo l’esposizione alle immagini positive più significative.

I partecipanti allo studio che hanno riferito maggiore stress coniugale hanno avuto risposte più brevi alle immagini positive rispetto a quelli che si consideravano più soddisfatti. Non vi era invece alcuna differenza significativa nella tempistica delle risposte negative .

 Lo stress coniugale cronico potrebbe fornire un buon modello di come altri fattori di stress quotidiano possono portare alla depressione. I risultati sono importanti, dice Davidson, perché potrebbero aiutare i ricercatori a capire che cosa rende alcune persone più vulnerabili a problemi di salute mentale ed emotiva e come sviluppare strumenti per prevenirli.

Davidson è ora interessato a trovare gli strumenti per aiutare le persone ad essere più resilienti di fronte allo stress, che nella vita non può essere del tutto eliminato, ma che possiamo allenarci a gestire imparando a coltivare uno stile emotivo più resistente.

 

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Motivare con la Gamification – Tecnologia & Psicologia

 

 

Motivare con la Gamification © alphaspirit - Fotolia.comL’obiettivo della Gamification è quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

La capacità dei giochi di coinvolgere e motivare le persone è alla base del concetto di “gamification”, sempre più diffuso in vari ambiti della nostra società.

L’obiettivo della gamification è infatti quello di utilizzare il potere motivazionale proprio dei giochi (specialmente i videogiochi) per scopi che non siano prettamente di intrattenimento.

Questa idea è sorta e si è diffusa nel mondo del marketing, ma è arrivata a coinvolgere poi molti altri contesti, come quello aziendale, quello della formazione e dell’istruzione.

Più nello specifico, attività di gamification sono utilizzate per cercare di motivare il cambiamento comportamentale, a prescindere dall’ambito di riferimento: possono quindi riguardare la promozione di comportamenti eco-sostenibili, di attività fisiche contro la sedentarietà, di sensibilizzazione alla guida sicura, etc.

Nonostante la diffusione crescente di questi meccanismi, lo studio psicologico della spinta motivazionale derivante dalla gamification è piuttosto acerbo.

Sailer e colleghi hanno recentemente provato a mettere in relazione alcuni elementi tipici dei giochi con i meccanismi motivazionali su cui agiscono. Questo tipo di analisi oltre a rappresentare una base per ricerche future che vogliano approfondire queste tematiche, costituisce anche una guida per la progettazione di attività che, sfruttando le caratteristiche della gamification, mirino a motivare i propri utenti al cambiamento.

L’idea di applicare elementi tipici del gioco ad altri contesti e utilizzarli per altre finalità non è poi così nuova: basti pensare ai sistemi di fidelizzazione come i programmi frequent flyer per farsi un’idea di che cosa sia la gamification. Alcuni elementi tipici del gioco sono essenziali per comprendere questo concetto e capire come possa essere applicato.

Nello specifico, il gioco è caratterizzato da almeno un obiettivo da raggiungere; una serie di regole, che determinano come l’obiettivo si possa raggiungere; un sistema di feedback che restituisca al giocatore informazioni sui propri progressi; la partecipazione volontaria da parte dell’utente.

La motivazione è stata studiata in psicologia da varie prospettive (ad esempio le teorie del contenuto e quelle del processo) che hanno cercato di spiegare quali siano i motori in grado di dare avvio ad un comportamento e di orientarlo al raggiungimento di specifici obiettivi. Non solo: la motivazione regola anche la persistenza e l’intensità dei comportamenti.

Le diverse teorie psicologiche sulla motivazione non sono in contraddizione tra di loro, ma si concentrano su diverse componenti, che diventano più o meno rilevanti, a seconda del punto di vista.

Alcuni dei meccanismi motivazionali possono essere strettamente connessi ad alcuni elementi di gioco, in grado di innescare e mantenere alcuni specifici comportamenti. In particolare, alcune caratteristiche peculiari dei giochi riguardano:

Il punteggio. Anche se a prima vista i punti possono sembrare un ingrediente semplice, questi possono indirizzare i meccanismi motivazionali, specialmente in merito alla prospettiva comportamentista sull’apprendimento. Il punteggio, infatti, rappresenta un rinforzo positivo immediato e può essere visto come un premio virtuale dovuto a specifiche azioni eseguite.

I badge. Si tratta di rappresentazioni visive dei propri successi. I badge sono in grado di soddisfare il bisogno di successo dei giocatori. In un certo senso, i badge possono essere intesi come status symbol virtuali e funzionano inoltre come strumento di identificazione nel gruppo, al quale comunicare le proprie esperienze. Come strumento motivante, i badge svolgono anche la funzione di definizione degli obiettivi e possono favorire nel giocatore la sensazione di competenza.

Le classifiche. Esplicitando il successo dei diversi giocatori, le classifiche rappresentano un elemento critico rispetto alla funzione motivazionale dei giochi. Infatti, sono solo pochi i giocatori che riescono a raggiungere le posizioni più elevate della classifica.

Le altre persone, saranno per lo più nelle zone basse o intermedie, con frequente demotivazione. Tuttavia, le classifiche individuali favoriscono la competizione. I giocatori nella parte alta della classifica svilupperanno anche un certo senso di competenza. Infine, le classifiche a squadre possono sviluppare meccanismi di cooperazione e la condivisione di obiettivi e opportunità.

Le barre di avanzamento. I grafici che rispecchiano i progressi del giocatore rappresentano, anche simbolicamente, la distanza dal raggiungimento di un obiettivo o che permettono di confrontare la propria prestazione con quelle precedenti, sono in grado di fornire dei feedback importanti per la motivazione. Visualizzare il proprio percorso permette inoltre di rendere gli obiettivi, e i meccanismi per raggiungerli, chiari.

L’avatar. La possibilità di rappresentare visivamente il proprio personaggio sottende alcuni meccanismi motivazionali come un maggior senso di autonomia e un maggior legame di tipo affettivo con il gioco.

Concludendo, è possibile osservare come specifici elementi di gioco siano strettamente collegati ai meccanismi motivazionali che si ritrovano nelle principali teorie motivazionali.

Sono tre le componenti principali della gamification che sono messe in luce da questo tipo di analisi, che andrebbero prese in considerazione ogni volta che si progetta un’attività di gamification o che si desidera approfondire la ricerca in questo ambito.

Innanzitutto la persona: è importante indagare le caratteristiche del target per meglio tarare gli elementi di gioco. In secondo luogo occorre valutare l’ambiente di gioco, affinchè sia progettato seguendo le linee guida rappresentate dalle teorie motivazionali. Infine, la terza componente è il contesto, inteso come il contenuto o l’argomento principale di ogni singola attività di gioco.

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L’elaborazione del trauma infantile in Saving Mr. Banks (2013) – Recensione

 

Saving Mr BanksLa storia di una tata fantastica, ideale, che mette ordine, salva genitori non adeguati e salva anche i bambini dai vissuti dolorosi. Una tata a servizio di un piano di vita controllante, una tata a servizio della propria creatrice che vuole così allontanarsi dal proprio tema di vita doloroso.

“Vento dall’est. La nebbia è là, qualcosa di strano fra poco accadrà. Troppo difficile capire cos’è, ma penso che un ospite arrivi per me…”

Chi l’avrebbe detto che dietro ad uno dei produttori più celebri della storia del cinema, nonché fondatore dei più divertenti e spensierati cartoni animati del mondo, si nascondesse un’infanzia difficile e tutt’altro che felice? E chi avrebbe pensato che all’ombra di una dolce e incantevole tata si nascondesse una donna astiosa, sprezzante e diffidente? Ecco cosa ci svela “Saving Mr. Banks”, la recente produzione di Walt Disney, che narra di come il suo fondatore, dopo ventuno anni di tentativi ed attese, riesce a convincere Mrs. Pamela Lyndon Travers, creatrice di Mary Poppins, a cederne i diritti cinematografici.

Nei momenti cruciali della decisione della scrittrice di affidare a Disney la propria storia, personale e letteraria, si susseguono nel film flashback sugli eventi significativi della sua infanzia; in questo modo il regista svela al pubblico la chiave di lettura della personalità di Pamela, così egocentrica, inflessibile, paranoica, ma anche evidentemente fragile e vulnerabile.

John Lee Hancock ci rende partecipi del processo di elaborazione dei traumi dell’infanzia che l’autrice ha dovuto affrontare per superare la ritrosia verso la trasposizione cinematografica della sua opera (“Mary Poppins e i Banks sono la mia famiglia, signor Disney…”).

Inizialmente, si rimane affascinati, esattamente come la dolce bambina protagonista, dalla figura di un padre, all’apparenza fantasioso, affettuoso e attento. Presto tuttavia appare chiaro che quello stesso uomo, così appassionato e sognatore, cerca di nascondere alle figlie un animo fragile e immaturo, incapace di adattarsi a un mondo in cui non si rispecchia, che richiede di essere più responsabile e pragmatico.

Per superare il senso d’inadeguatezza e le emozioni negative che lo attanagliano, utilizza l’alcol e ne diviene ben presto dipendente. La figlia grande, Pamela, assiste alla trasformazione del padre, prima così vicino, ora così lontano, autocentrato e trascurante. Tuttavia una bambina così piccola non può perdere improvvisamente l’idealizzazione del padre, amato e ammirato, soprattutto quando non può affidarsi all’altra figura di riferimento, la madre, depressa e troppo assorta dalla sua sofferenza per accorgersi di quella della figlia. Quella di Pamela è davvero una ”tana distrutta”, dove anche il bisogno innato di sicurezza e protezione non viene più risolto dai genitori.

E quindi cosa rimane da fare per assicurarsi la vicinanza dei genitori e sopravvivere? Mettere in atto un accudimento invertito, sembra risponderci il regista. Quel tipo di accudimento che Bowlby aveva già descritto negli anni 50, in cui il bambino si “genitorializza”, comprende quali sono i bisogni del genitore, e realizza che andare incontro ad essi, prendendosi cura dell’altro, è l’unico modo per essere pensato dalla figura di attaccamento. Tuttavia il costo di tale strategia si presenta sempre, nel presente o nel futuro, poiché la rabbia, la paura, la tristezza, vengono dissociate o negate in nome di uno scopo più alto, la salvezza del legame di attaccamento. Questa forma di auto contenimento difensivo (Winnicot, 1988), fa affrontare ai bambini che l’hanno sperimentato tutte le emozioni più dolorose o difficili da soli e conferma che è bene non fidarsi degli altri.

Da piccola Pamela può aver pensato che raccontare le proprie emozioni avrebbe potuto ferire in qualche modo i genitori, in quanto era chiaro quanto essi non fossero in grado contenerle, e si è quindi sentita costretta all’autosufficienza, all’autonomia forzata, illudendosi o costringendosi a pensare di non avere bisogno degli altri.

A questo senso di onnipotenza ha contrapposto un modello operativo interno dell’altro non necessariamente malvagio, ma freddo e assente, poco affidabile e, soprattutto, immodificabile.

Ciò che all’inizio è stata soltanto una difesa, funzionale solo in quel periodo della sua vita, ben presto diviene un piano di vita: il piano di vita controllante, caratterizzato da ipermonitoraggio degli stati interni, rimuginio, perfezionismo, rigidità su regole di comportamento, controllo relazionale e diffidenza.

Questo ci spiega la modalità relazionale sospettosa e svalutante di Pamela nei confronti di Walt Disney e del suo staff.

Reprimere le emozioni è tuttavia un modo veramente inefficace di affrontarle, perché esse, come sosteneva Freud (1915), “proliferano nel buio”; inoltre non mostrando mai agli altri la confusione emotiva che si ha dentro, come afferma Segal, “non si riceve mai la rassicurazione di essere conosciuti o compresi e amati malgrado tutto”.

E’ su queste corde che sembra aver agito Walt Disney per aiutare l’adulta Pamela ad affrontare il suo passato: empatizza con lei, valida le sue paure e condivide con lei la sua storia, segnata dal rapporto difficile con un padre duro, severo e intransigente. Walt Disney comprende l’importanza di mantenere “un ricordo meraviglioso” del padre, appunto “Saving Mr. Banks”, ma la esorta a lasciare il passato (“La vita intera è una condanna troppo lunga per chiunque, Pamela!”) e la sprona a costruirsi una vita incentrata sulla consapevolezza delle emozioni negative e sull’accettazione del fatto che qualcuno di importante per noi ci ha in qualche modo ferito, seppure involontariamente.

Difendendo Mr. Banks Pamela difende se stessa dagli incubi della sua infanzia, dal vortice dei ricordi, dai modelli operativi interni che le sussurravano di salvare i suoi legami di attaccamento, minacciati dall’alcolismo del padre e dalla depressione della madre.

Ma non salviamo le persone imprigionandole in una rappresentazione idealizzata che non ci permette di arrabbiarci con loro o in un’immagine completamente svalutante che non ci permette di placare la nostra rabbia nei loro confronti; le salviamo solo quando riusciamo ad introiettare una visione unitaria e integrata della persona, resa possibile solo dalla comprensione dell’altro nei suoi aspetti positivi e negativi.

Durante la realizzazione del film di Mary Poppins si riattivano in Pamela i frammenti di vita più dolorosi e immergendosi nuovamente in essi, è costretta a cercare di comprendere le ragioni dei modi di agire dei suoi genitori, facendo suo anche parte del loro dolore. Occorre infatti passare del tempo a piangere il tema doloroso di vita per riprogettare piani di vita più funzionali. Solo in questo modo le è possibile perdonare in modo autentico il padre e la madre per la loro incompetenza genitoriale.

L’accettazione dei genitori e la formazione di rappresentazioni integrate di essi, è il solo passo che potrà permetterle di crearsi anche un’immagine di se stessa scevra dal senso di onnipotenza e piena della consapevolezza che tutti noi siamo umani imperfetti, ed in quanto tali, abbiamo bisogno degli altri.

C’è un momento nel film in cui ci accorgiamo che il processo di elaborazione degli eventi traumatici dell’infanzia di Pamela si sta ormai compiendo: le sue lacrime iniziano a scendere sentendo Mary Poppins affermare: “A volte una persona che amiamo, anche se non per colpa sua, non vede più in là del suo naso”. E’ in quell’istante che la scrittrice comprende completamente suo padre e lo salva, ma non da Walt Disney, dalla rigidità della sua idealizzazione, iniziando ad integrare una visione realistica del papà.

Saving Mr. Banks è in realtà un Saving Mrs. Travers: solo costruendosi nuove rappresentazioni dei genitori, e di loro stessi nel rapporto con lei, Pamela può salvare se stessa da una vita costellata di solitudine, freddezza emotiva, scoprendo il calore della condivisione e dell’accettazione autentica tra esseri umani.

Consigliato ai nostalgici, ai sognatori, ai figli, ai genitori e soprattutto a chi fatica a fare i conti con le sofferenze del passato.

 

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro: dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

Secondo un team di psicologi della San Francisco State University avere uno sbocco creativo fuori dall’ufficio può aiutarci a svolgere meglio il nostro lavoro: indipendentemente dal tipo di hobby, chi ne ha uno ha anche maggiori probabilità di trovare soluzioni creative a problemi di lavoro e di cambiare le proprie abitudini per dare una mano ai colleghi.

I ricercatori hanno esaminato circa 350 persone (con una varietà di posti di lavoro e una varietà di hobby) indagando su quello che facevano nel loro tempo libero e su come si comportavano al lavoro.

I risultati dell’indagine indicano che chi aveva un hobby aveva punteggi di performance tra il 15 e il 30 % più alti rispetto a chi si impegnava in attività creative solo occasionalmente.

I ricercatori hanno anche esaminato un secondo gruppo di 90 americani, capitani dell’Air Force.

Il loro obiettivo era verificare se un hobby avrebbe potuto fare la differenza anche in persone già bene addestrate a risolvere problemi difficili e ad aiutare gli altri. Anche in questo caso avere uno sbocco creativo ha potenziato le performance lavorative.

I risultati dello studio indicano che c’è una correlazione tra l’avere uno sbocco creativo, un hobby, e l’essere creativi al lavoro, ma non ci dice cosa influenzi cosa. Probabilmente i comportamenti si rinforzano a vicenda, concludono i ricercatori, in un circolo virtuoso di soddisfazione e voglia di fare che fa sentire più carichi di energia e di impegno, sia al lavoro che a casa.

Insomma d’ora in poi ricordiamoci che non bastano esercizio fisico e una corretta alimentazione per sentirsi in buona forma fisica e mentale sul lavoro, ma che dobbiamo anche riuscire a ritagliarci regolarmente spazi di riposo in cui dare sfogo alla nostra creatività.

 

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