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I Disturbi di Personalità nel DSM-5: Osservazioni e Livello di Funzionamento

 

 

PARTE 1

DSM-5_Osservazioni generali e livello di funzionmento della personalità

Per la prima volta il DSM descrive davvero cosa è un Disturbo di Personalità, non basandosi su sintomi e comportamenti, ma azzarda l’analisi dell’esperienza interna e di quelle funzioni psicologiche che permettono di comprendere gli stati mentali, dare senso agli stessi e utilizzarli per guidare la propria azione e regolare le relazioni sociali.

La diagnosi di Disturbo di Personalità (DP) nel DSM 5 è il frutto di conflitti e compromessi. I membri della task force incaricati di rivedere questa sezione sono andati incontro ad ogni sorta di disaccordo, privato e pubblico, non risparmiandosi commenti duri in sede congressuale.

Il risultato è inaudito: il manuale include due modi del tutto differenti di classificare i DP. Il primo, ufficiale, è identico a quello precedente: i disturbi sono rimasti gli stessi, i criteri anche, le descrizioni sono state aggiornate e approfondite. Chi ha familiarità con il DSM-IV-TR non avrà problemi a utilizzare il DSM 5 per diagnosticare i DP, mantenendo sicuramente gli stessi dubbi e insoddisfazioni del passato.

Nella sezione III, Proposte di nuovi modelli e strumenti di valutazione, è incluso però un “Modello alternativo del DSM-5 per i disturbi di personalità”. Si trattava in effetti del sistema di classificazione per i DP che l’American Psychiatric Association aveva intenzione di adottare tout court. Ma tali sono state le critiche e le pressioni della comunità scientifica che all’ultimo momento lo si è mantenuto solo come un’ipotesi che necessita di ulteriore studio.

Se il clinico cercava quindi nel manuale una risposta chiara, solida e definitiva a cos’è un DP e come si classifica, non la troverà e ne rimarrà anzi sconcertato. Due sistemi di classificazione? Così diversi? Quale adottare? Qual è il più utile? Quale descrive meglio i disturbi?

A dispetto di incertezza e confusione, molti aspetti di questa doppia classificazione sono stimolanti. Il primo su cui mi soffermo è l’introduzione nel modello alternativo del Criterio A: Livello di funzionamento della personalità. Non ci si lasci ingannare. Non si parla di gravità del disturbo. Si affrontano per la prima volta degli aspetti davvero centrali dei DP, divisi nel funzionamento del Sé e in quello Interpersonale.

Questi includono: l’autoriflessività; la capacità di avere un’esperienza di sé coerente e integrata; la capacità di riconoscere e regolare le emozioni; l’autodirezionalità ovvero avere obiettivi a lungo termine percepiti come propri e inseguiti con persistenza; la capacità di comprendere il punto di vista degli altri, accettare che sia diverso dal proprio (in termini metacognitivi: decentrare) ed essere empatici; la capacità di stabilire e mantenere relazioni interpersonali profonde e intime.

A pagina 900-903 del manuale si trova la Scala del Livello di funzionamento della personalità. La leggo incredulo.

Per la prima volta il DSM descrive davvero cosa è un DP, non basandosi su sintomi e comportamenti, ma azzarda l’analisi dell’esperienza interna e di quelle funzioni psicologiche che permettono di comprendere gli stati mentali, dare senso agli stessi e utilizzarli per guidare la propria azione e regolare le relazioni sociali.

A me sembra un mezzo miracolo. Si potrà avanzare qualsiasi critica al DSM 5, ne sono già arrivate tante (molte giustissime) e tante ne arriveranno. Ma queste quattro paginette da sole valgono la lettura.

Perché? Un solo esempio, la Scala è suddivisa in 5 livelli: 0 indica nessuna compromissione, 4 estrema compromissione. Il Livello 3 indica grave compromissione.

Come è fatta una persona che funziona a livello 3? Ha un senso di sé debole e non è autonomo; prova un senso di vuoto; i confini tra sé e gli altri sono labili, agli estremi di iperidentificazione ed eccessiva indipendenza. L’autostima è fragile, l’immagine di sé incoerente o priva di sfumature. Ha difficoltà a stabilire e conseguire obiettivi personali, e questo è uno dei marchi di fabbrica del DP, il problema nell’agency, nella capacità di farsi motore della propria azione grazie al riconoscimento, apprezzamento di uno slancio che viene dall’interno e che ci guida a formare piani per il futuro e perseguirli superando difficoltà e frustrazioni.

Che senso dà alla vita una persona a cui mancano gli obiettivi: la scala ci dà immediatamente una risposta coerente: la vita è priva di significato o pericolosa. E poi la sorpresa più grande, cito alla lettera: La capacità di riflettere sui propri processi mentali e di comprenderli (il manuale scrive “di non comprenderli” ahimè, un refuso) è compromessa in modo significativo.

Sì, sì, avete letto bene. Si tratta proprio di metacognizione, mentalizzazione, funzione riflessiva, teoria della (propria) mente. Indugio a pensare che gli psichiatri americani siano impazziti. Del tutto. Una sindrome che neanche loro riuscirebbero a classificare, o magari la introducono nei disturbi dello spettro della schizofrenia. Il fatto straordinario è che hanno introdotto tale criterio in presenza di limitatissimi dati empirici.

In altre parole: un criterio quasi completamente guidato dalla teoria e dalle osservazioni cliniche. Insomma, i modelli dei disturbi di personalità che fanno leva sulla difficoltà a riflettere sugli stati mentali, in particolare quelli basati sulla mentalizzazione e metacognizione ne ricevono una bella spinta in avanti.

Non posso certo dirmi dispiaciuto. Il livello di funzionamento 3 continua: sono pazienti che faticano a considerare e comprendere i pensieri e i sentimenti che guidano il comportamento degli altri e accettare il loro punto di vista, dal quale si sentono facilmente minacciati. Sono scarsamente consapevoli dell’impatto che le loro azioni hanno sugli altri, attribuendo loro intenzioni in modo erroneo. Non si può dire alla lettera che gli autori della scala abbiamo preso pari pari la Scala di Valutazione della Metacognizione o quella della Funzione Riflessiva… però siamo lì.

Non è finita qui: queste persone entrano in relazione basati su convinzioni di avere assolutamente bisogno dell’affetto degli altri e temono di essere abbandonati o maltrattati. Allora: o si parla del deficit di accudimento ipotizzato da Nanni Moretti (e non da Bowlby come si tende erroneamente a credere) oppure è stato introdotto il concetto di schema interpersonale patogeno. Direi, la seconda.

Anticipavo che il supporto empirico per questa sezione è scarso. Da scienziato dovrei essere critico. Da scienziato dico: bravi, coraggiosi! Ora si vada avanti con la ricerca. Donna Bender, la prima autrice della Scala del livello di funzionamento della personalità sta procedendo estesamente con la ricerca in vari paesi per garantire supporto empirico.

Un paio di lavori, svolti sul database del Terzo Centro Di Terapia Cognitiva, supportano la scala. Semerari e colleghi (2014) hanno trovato che la metacognizione è tanto più compromessa tanto più numerosi sono i criteri di DP soddisfatti. Dimaggio e colleghi (2013) hanno trovato che le rappresentazioni delle relazioni interpersonali erano più compromesse al crescere del numero di criteri di DP soddisfatti.

In sintesi: compromissione crescente di capacità riflessive e attribuzione di significato alle relazioni interpersonali all’aumentare della gravità del disturbo intesa come vastità delle aree patologiche della personalità .

Di sé naturalmente la scala non sarebbe sufficiente, è necessario poi comprendere gli elementi del contenuto, gli stili comportamentali, le modalità disfunzionali di regolazione delle emozioni e di coping preferite e le specificità dei vari disturbi. Per questo sarà necessario approfondire le altre sezioni.

Il tentativo fatto in questa sezione è di descrivere i singoli disturbi a partire dal modo in cui è organizzata la scala dei livelli di funzionamento. Per esempio: un paziente con disturbo narcisistico secondo questo inquadramento farebbe riferimento eccessivamente agli altri per la definizione di sé e la regolazione dell’autostima e oscilla tra estremi di grandiosità e autosvalutazione. Mi occupo di narcisismo da tanto tempo. È la prima volta che trovo le fluttuazioni dell’autoimmagine nella descrizione del disturbo del DSM. Una grande svolta.

Mi occuperò prossimamente della sezione dedicata ai disturbi specifici. Luci e ombre. Luci nelle descrizioni. Ombre nella scelta dei disturbi da conservare.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

L’Alleanza Terapeutica secondo la Prospettiva Cognitivo-Evoluzionista di Liotti e Monticelli

 

 RECENSIONE:

Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica

Una prospettiva cognitivo-evoluzionista

 A cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli

Raffaello Cortina Editore (2014)

Teoria e clinica dell'alleanza terapeutica di Liotti e Monticelli- recensioneNegli otto capitoli di cui è composto il libro, divisi tra teoria e pratica terapeutica, si enuclea dettagliatamente il concetto di alleanza terapeutica. Attraverso la presentazione di casi clinici e di ricerche scientifiche svolte nell’ambito, i concetti qui brevemente sintetizzati trovano maggiore spazio e dimensione.

Il libro di cui parleremo oggi, Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli edito da Raffaello Cortina, si sviluppa intorno al concetto di alleanza terapeutica, costrutto di cui si è sentito molto parlare e che risulta uno degli aspetti focali da considerare durante il percorso terapeutico. Esso si dipana e si consuma all’interno di una cornice cognitivo – evoluzionista, che funge da base teorica.

In primis, è necessario fare delle precisazioni: cosa si intende per relazione terapeutica? E per alleanza terapeutica? Solitamente, sono termini usati in maniera interscambiabile, ma, in realtà, sottendono significati gerarchicamente diversi.

Infatti, la relazione terapeutica è un concetto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. Quest’ultima rappresenta solo una delle variabili che possono portare alla costruzione della relazione terapeutica, malgrado potrebbe essere considerata la più importante da identificare per valutare l’efficacia della psicoterapia.

Il concetto di alleanza terapeutica, dunque, nasce in ambito psicoanalitico e riguarda la creazione della relazione terapeutica nel qui ed ora, ed è composta da tre parti: gli obiettivi terapeutici, i compiti reciproci durante il trattamento e il legame affettivo costituito da fiducia e da rispetto.

L’alleanza terapeutica raggiunge qualità ottimali quando entrambe i membri della diade terapeutica sono cooperativi nel perseguire i tre punti sopra citati. In questo caso, il sistema motivazionale che si attiva è quello cooperativo che manterrebbe salda l’alleanza terapeutica.

Nel caso in cui durante la terapia si attivasse il sistema dell’attaccamento, si assisterebbe ad un cambiamento, ovvero si passerebbe dal sistema cooperativo ad uno degli altri sistemi motivazionali. Questo passaggio porterebbe con molta probabilità al manifestarsi di una crisi all’interno dell’alleanza terapeutica.

Ogni crisi dell’alleanza terapeutica si definisce lungo un continuum di gravità, si parte, dunque, da una flessione, incrinazione senza rottura del rapporto, per arrivare ad una vera e propria rottura della stessa, fine della relazione.

Per ricostruire l’alleanza è necessario ripristinare il sistema della cooperazione attraverso due modalità: dirette o indirette. Quelle dirette consistono nell’analisi delle dinamiche motivazionali che si sono manifestate e utilizzate nella relazione terapeutica, mentre quelle indirette si basano sull’analisi degli stili interpersonali del paziente in relazioni diverse da quella terapeutica.

In sostanza, ripristinare l’alleanza terapeutica significa esaminare e correggere le distorsioni della percezione interpersonale che si generano tra terapeuta e paziente. Questo processo porta a dei cambiamenti cognitivo-interpersonali fino a far emergere il disturbo per il quale il paziente aveva avanzato la richiesta terapeutica. Per questo la riparazione della rottura dell’alleanza terapeutica diventa parte fondamentale del cambiamento terapeutico stesso.

Negli otto capitoli di cui è composto il libro, divisi tra teoria e pratica terapeutica, si enuclea dettagliatamente il concetto di alleanza terapeutica. Attraverso la presentazione di casi clinici e di ricerche scientifiche svolte nell’ambito, i concetti qui brevemente sintetizzati trovano maggiore spazio e dimensione.

 

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Teoria e Clinica dell’Alleanza Terapeutica (2014) di Liotti e Monticelli

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti G., & Monticelli F. (2014). Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista, Cortina Editore, Milano. ACQUISTA ONLINE

Allenare l’ Empatia con il neuroimaging funzionale – Neuroscienze

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Si può indurre la mente ad essere più empatica grazie all’ uso della fRMI.

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, i pensieri dell’altro, creando un forte legame interpersonale. Essa è alla base di tutti i comportamenti pro-sociali. Tuttavia non tutti gli individui riescono a provarla, non allo stesso modo almeno.

Un gruppo di neuroscienziati dell’istituto D’Or de Pesquisa e Ensino (IDOR) ha dimostrato che è possibile allenare le persone all’empatia. Scopo della ricerca era indagare se i partecipanti riuscissero ad avere un qualche controllo volontario sui pattern di attivazione cerebrale associati all’empatia e alle emozioni affiliative (ad esempio compassione e tenerezza).

Già altri studi hanno documentato che ricevere un feedback visivo relativo alle attivazioni cerebrali rilevate attraverso Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), potesse aumentare la capacità di modulazione volontaria dell’attivazione cerebrale stessa associata alle emozioni di base positive e negative. Tuttavia non c’erano ancora evidenze circa la possibilità che le persone potessero fare altrettanto anche con stati emotivi complessi come quelli che sottendono all’empatia.

 Il nuovo studio Moll e colleghi dimostra che la stessa tecnica si può utilizzare anche per facilitare l’induzione di stati mentali empatici. A 25 soggetti era stato chiesto, in fase preparatoria, di pensare a 3 eventi autobiografici in cui avessero vissuto sentimenti di tenerezza, orgoglio e uno emotivamente neutro. Si è cercato poi di  rievocare tali stati d’animo durante l’esperimento, attraverso la presentazione scritta di parole chiave prima delle sessioni di scanning di fMRI. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: al gruppo sperimentale veniva fornito un feedback in tempo reale della loro attività neurale durante i ricordi “empatici”, al gruppo di controllo invece non veniva fornito alcun feedback ma venivano sottoposti alla visione di stimoli random.

I risultati confermano l’ipotesi di partenza: comparando l’ultima sessione con la prima, il gruppo sperimentale aveva un incremento della percentuale di prove correttamente classificate come caratterizzate da tenerezza, al contrario del gruppo di controllo. Il feedback visivo delle proprie attivazioni cerebrali avrebbe dunque effetti significativi. Tale evidenza è importante perché apre la possibilità allo studio e allo sviluppo di interventi per potenziare stati psicologici sani e funzionali e contrastare così comportamenti maladattivi legati alla carenza di empatia, che sono spesso resistenti ad un approccio psicologico, farmacologico e sociale.

 

 

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La Valutazione della Personalità con la Shedler-Westen Assesment Procedure (SWAP-200)

 

Swap 200_Valutazione della personalità_Recensione Lo scopo degli autori (impegnati da oltre 15 anni in tale progetto) è stato quello di sviluppare una metodologia di valutazione della personalità che colmasse lo spazio concettuale che intercorre tra la necessità dei clinici di uno studio complesso del paziente – dove peculiari componenti strutturali e funzionali risultano embricate tra loro – e il rigore dei dati empirici derivati dalla ricerca.

La valutazione della personalità, nonchè dei suoi disturbi, costitituisce un argomento ampiamente dibattuto nella letteratura scientifica. Valutare la personalità di un individuo, infatti, può assumere significati e funzioni diverse a seconda delle finalità della valutazione stessa (i.e., misurazioni psicometriche, diagnosi descrittive o, in psicoterapia, formulazione del caso clinico).

In tal senso, lo scopo degli autori (impegnati da oltre 15 anni in tale progetto) è stato quello di sviluppare una metodologia di valutazione della personalità che colmasse lo spazio concettuale che intercorre tra la necessità dei clinici di uno studio complesso del paziente – dove peculiari componenti strutturali e funzionali risultano embricate tra loro – e il rigore dei dati empirici derivati dalla ricerca.

Gli item della SWAP (200 affermazioni relative a comportamenti osservabili o deducibili attraverso un’intervista specifica, derivati dai criteri del DSM e dalla letteratura scientifica sui Disturbi di Personalità) rappresentano la definizione operativa dei costrutti necessari a formulare un’adeguata diagnosi funzionale.

Nella procedura di valutazione, che può essere effettuata già dopo 3/5 incontri, il compito del clinico è quello di valutare (all’interno di una distribuzione fissa, per limitare eventuali bias) le affermazioni in relazione a quanto siano applicabili al paziente (da 0 a 7, da affermazioni non applicabili al soggetto ad affermazioni che ne colgono elementi centrali e pervasivi).

Il nuovo manuale della SWAP, più corposo e ricco di appendici rispetto alla prima versione del 2003, risulta suddiviso in tre parti principali.

Nella prima parte vengono illustrati i criteri di costruzione e validazione dello strumento, i principali contributi teorici di Drew Westen e le problematiche che si riscontrano nella ridefinizione dei costrutti, delle categorie e dei criteri diagnostici dell’Asse II del DSM. Ampio spazio, inoltre, è dedicato alla riflessione sulla diagnosi di personalità in adolescenza.

Nella seconda parte del manuale, invece, gli autori focalizzano la loro attenzione sull’ampia applicazione della SWAP nella ricerca in psicopatologia, prendendo in esame recenti studi su pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare (con particolare enfasi ai sottotipi di personalità presenti nei campioni esaminati), narcisisti e istrionici, fornendo un quadro maggiormente diversificato di tali patologie, oltre che interessanti spunti clinici.

Nella terza parte gli autori descrivono l’utilità dell’applicazione della SWAP nella misurazione del cambiamento di personalità nella psicoterapia (di orientamento psicodinamico e psicoanalitico) di due differenti pazienti (Melania, Disturbo Borderline di Personalità e Giovanna, una paziente con tratti ossessivi, ostili e paranoidi), sottolineando i limiti tipici degli studi single case ma, contestualmente, rimarcando l’utilità dell’utilizzo – sia nella ricerca clinica che nella formulazione del caso clinico – di strumenti clinician-rated affidabili. Inoltre, nell’ultimo capitolo del manuale vengono descritti due indici (Personality Health Index – PHI e RADIO), non presenti nella versione del 2003, deputati alla valutazione del buon funzionamento della personalità e utili nella valutazione dell’outcome della terapia.

In particolare, l’indice PHI, basandosi sui 200 item della SWAP, fornisce delle indicazioni globali relative agli aspetti sani della personalità del paziente mentre, l’indice RADIO, ne illustra i punti di forza e le difficoltà.

Nelle 7 appendici conclusive troviamo il manuale della SWAP-200 con le indicazioni per la compilazione della stessa, il confronto tra i prototipi SWAP (ricavati mediante l’analisi Q-Factor) degli stili di pers’onalità e i Disturbi di Personalità presenti nel DSM-5, la SWAP-200 nella sua versione per adolescenti, la SWAP-II, l’intervista Clinico-Diagnostica (CDI; CDI-A, nella sua versione per adolescenti; CDI-F, nella versione forense) ideata da Westen per la valutazione della personalità con la SWAP, una guida al contenuto degli item e una descrizione del metodo prototype matching (ovvero quanto gli aspetti clinici di un paziente si avvicinino al quadro complessivo di un certo disturbo).

Allegato al manuale, inoltre, è presente un CD-Rom contenente un utile software in grado di eseguire una diagnosi di Personalità sia categoriale (Personality Disorder – PD; legata ai disturbi di Personalità DSM) che dimensionale (attraverso i Q-factor della SWAP-200; categorie diagnostiche, empiricamente derivate, a cui è stata applicata la Q-factor analysis).

Ciò che piace di questo manuale, oltre alla rigida impalcatura teorica e alla generosa quantità di materiale fornito (sia in termini di software che di interviste cliniche), è il continuo tentativo di unire e combinare le caratteristiche peculiari dei clinici e dei ricercatori.

Tale ottica, che mira a massimizzare le competenze di ogni figura coinvolta nei numerosi studi condotti, è tesa a superare la vexata quaestio che vede la ricerca empirica sistematica contrapposta ai clinical case studies. Un argomento, quest’ultimo, molto attuale nel panorama internazionale, sia in ambito cognitivista che psicodinamico, soprattutto dopo le accuse – più o meno condivisibili – di eccessivo riduzionismo epistemiologico che il nuovo manuale diagnostico dell’APA ha attirato a sé.

Questa discussione, se orientata alla comprensione e al trattamento dei Disturbi di Personalità, può sicuramente trarre beneficio dal lavoro teorico svolto da Shedler e collaboratori; l’utilizzo della SWAP, infatti, offre al clinico, contestualmente, una lettura dimensionale della patologia, unitamente a un buon grado di affidabilità, di “ripetibilità” e di accuratezza predittiva dello strumento utilizzato.

 

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  •  Shedler J., Westen D., Lingiardi V. (2014). La valutazione della personalità con la SWAP-200: Nuova edizione. Milano: Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

 

AUTORE: Walter Sapuppo 

Psicologo, AAI Certified Coder, svolge la sua attività clinica tra Napoli e Roma. Socio della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR). E’ stato Professore a Contratto presso il CDL in “Psicologia Clinica” e Docente al Master di II Livello in “Psicodiagnostica clinica dell’individuo e delle istituzioni” presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. È docente presso le Scuole di Psicoterapia “Studi Cognitivi” ed è autore di pubblicazioni scientifiche su Disturbi del Comportamento Alimentare, Cicli Cognitivo-Interpersonali, “process” terapeutico e psicopatologia correlata ai traumi. 

Imparare a dire No: l’importanza di affermare se stessi e le proprie esigenze

 

 

imparare a dire no © Coloures-pic - Fotolia.com

Poter dire un no, corrisponde a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Quanti di vuoi faticano a dire NO?.

Come è possibile che una parola mosillaba possa creare così tanti problemi nel pronunciarla?

Eppure, dire un no crea molti problemi, soprattutto perché mette in gioco una serie di emozioni negative, difficili da tollerare.

Rispondere con un sì a tutto, anche quando si pensa l’esatto contrario di quello che si sta affermando, cela chiaramente la necessità di voler essere compiacenti nei confronti dell’altro, perché si teme possa accadere qualcosa di catastrofico, difficile da gestire.

Nel dettaglio, si dice si perché, tendenzialmente, si ha paura di non piacere all’altro e di conseguenza l’altro potrebbe avere un pessimo giudizio della nostra persona, oppure per paura del conflitto e delle conseguenze che potrebbe portare in futuro, o, ancora, paura di poter perdere un’occasione importante e che non possa ripresentarsi mai più.

Poter dire un no, corrisponde, invece, a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Le ricerche dimostrano che è più facile rispondere con un a una richiesta perché dire no mette a disagio e fa emergere emozioni negative, come la colpa, la vergogna, la paura. Ciò è particolarmente vero quando le persone si trovano a prendere una decisione vis a vis.

Nel remoto caso in cui si dovesse rispondere con un no, pare si diventi più propensi a dire alle richieste successive. Il senso di colpa che deriva dall’aver detto il no determina il bisogno di rimediare al danno arrecato per recuperare al presunto torto compiuto senza creare ulteriori disagi. La gente è addirittura d’accordo ad acconsentire a richieste immorali piuttosto che rischiare l’ imbarazzo di dire un  no.

Da un punto di vista neuroscientifico pare che i nostri cervelli abbiano una maggiore reazione al negativo che al positivo, tant’è che le informazioni negative producono una attivazione cerebrale più ampia e un’attività elettrica più rapida della corteccia, rispetto alla risposta positiva.

Sembra che i ricordi negativi siano più forti di quelli positivi, perché un ricordo di qualcosa di negativo ci dà memoria di quanto è stato e permette di evitare quella cosa in futuro, quindi ha una funzione adattiva e di apprendimento.

In uno studio pubblicato sulla rivista Personality e Social Psychology Bulletin, la dottoressa Bohns e il suo team avevano chiesto a un gruppo di studenti universitari di rovinare un libro della biblioteca scarabocchiandolo. La metà di loro ha accettato di deturpare il libro. Secondo la Bohns questo comportamento è determinato dal sentirsi appartenenti a un gruppo sociale. Quindi, dire no farebbe sentire in pericolo di espulsione dallo stesso e di conseguenza metterebbe a repentaglio le relazioni sociali.

Spesse volte, sentirsi dire un no lascia basiti, perché nell’immaginario collettivo questa parola assume connotazione negativa di rifiuto ogni qualvolta è usata. Ma le conseguenze del dire un no spesso sono sovrastimate da noi stessi, poiché non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Naturalmente , non tutti hanno problemi a dire no. Sembra che alcuni abbiano più difficoltà di altri, dipende dal carattere che si ha. La Bohns dice di non aver trovato differenze di genere nella sua ricerca, al contrario di alcuni esperti che sostengono che le donne possono avere più difficoltà a dire di no rispetto agli uomini , in quanto spesso sono condizionate a mantenere i rapporti e a preoccuparsi troppo dei bisogni degli altri al punto da fugare i propri.

Tutte queste persone col tempo, e a proprie spese, imparano ad apprezzare l’importanza di dire no, perché apprendono che così facendo proteggono la propria individualità e i propri bisogni, altrimenti tendono a soddisfare solo gli interessi degli altri e non i propri.

Insomma, dire no significa non rispondere e non adeguarsi alle pressioni cognitive e sociali dettate da terzi e questo serve a tutelare i propri valori.

Ma, allora, qual è il modo migliore per rifiutare una richiesta? Di seguito alcuni suggerimenti.

1. Essere semplici e diretti nel dare una risposta:

Ti ringrazio, ma non posso.

Grazie, ma non riesco.

2. Motivare la risposta riferendosi a circostanze esterne:

No, grazie. Ho preso un altro impegno.

Mi spiace, ma avevo promesso a mio figlio di passare del tempo con lui.

3. Essere convincente, ma educato:

Preferisco rifiutare, mi spiace;

No, grazie.

In sostanza, bisogna:

1. Allenarsi nel provare a dire di no per non rimanere senza parole nel caso si presentasse questa evenienza.

2. Costruire delle frasi pronte del tipo: “Ci penserò” da utilizzare all’occorrenza.

3. Rimandare una risposta aumenta la possibilità di dire no.

4. Addolcire il tono della voce per far si che il no detto non offenda troppo le persone.

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl senso comune ci suggerisce che di fronte a un obiettivo da raggiungere o a un problema da risolvere saremmo tentati di lasciar perdere, se ce ne venisse offerta la possibilità.

Ma in uno studio recentemente pubblicato su Psychological Science, due ricercatori americani hanno scoperto l’esatto contrario, cioè che quando abbiamo concretamente la possibilità di tirarci indietro o di indugiare, ci impegniamo di più.

Per testare la loro ipotesi i ricercatori hanno reclutato un campione online che doveva lavorare su un compito di ricerca di parole, ai partecipanti veniva detto che potevano vincere un bonus in base al  punteggio ottenuto. Il compito prevedeva che i giocatori trovassero quante più parole potevano su uno specifico argomento all’interno di un puzzle costituito da una matrice di lettere.

Ogni partecipante è stato assegnato a una di tre condizioni: la condizione di scelta forzata,  in cui doveva trovare i nomi di attori famosi e di capitali. La condizione scelta-rifiutabile, in cui poteva scegliere di non partecipare al compito. E una terza condizione di scelta-forzata, in cui aveva la possibilità di scegliere tra la ricerca di nomi di attori, di città, o di ballerini famosi (la più ostica). I risultati indicano che nella seconda condizione (scelta-rifiutabile), nessuno ha rinunciato a svolgere il compito e nella terza (scelta forzata multipla) nessuno ha scelto la strada più difficile, cioè il puzzle relativo a nomi di ballerini famosi. Inoltre, nelle due condizioni di scelta forzata, non ci sono state differenze nella quantità di impegno messo dai partecipanti. Ma i partecipanti nella condizione scelta-rifiutabile si impegnavano più a lungo sul compito rispetto a quelli nelle altre due condizioni .

Schrift e Parker hanno condotto altri due esperimenti per testare la loro ipotesi, impiegando alcune varianti rispetto alle opzioni disponibili e i risultati sono stati ancora una volta replicati: in ogni esperimento  chi era assegnato a condizioni di scelta-rifiutabile era più tenace nello svolgere il compito e aveva risultati migliori rispetto a chi si trovava in condizioni di scelta-forzata.

Insomma, se è la motivazione a cominciare che ti manca, concediti la possibilità di tirarti indietro sul serio;  se invece stai per cedere proprio quando il gioco si fa duro ricordati che quando hai iniziato eri libero di non cominciare neanche, ti aiuterà a non mollare!

 

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Gioia Negri
Psicologa Psicoterapeuta 

 Curriculum Vitae – Pagina Facebook

Smettere di fumare: indicatori prognostici nel trattamento del tabagismo

 

 

 

Smettere di fumare indicatori prognostici nel trattamento del tabagismo - © Serhiy Kobyakov - Fotolia.comNel trattamento del tabagismo sia il trattamento farmacologico sia l’approccio di tipo psicologico si sono rivelati efficaci. Quale che sia l’approccio psicologico, la fase diagnostica iniziale è determinante.

Nel trattamento del tabagismo non è ancora stata individuata una terapia che in assoluto si sia dimostrata migliore di altre. Lasciando da parte i metodi che non hanno mai dimostrato chiaramente di essere efficaci né tantomeno scientifici, pur avendone le sembianze (auricoloterapia, agopuntura), le terapie fai da te, i manuali di auto aiuto più o meno celebri, i guaritori mistici e i motivatori pseudoscientifici, sappiamo che qualche certezza esiste: sia il trattamento farmacologico sia l’approccio di tipo psicologico si sono rivelati efficaci, in più, l’intervento multidisciplinare integrato (medico e psicologo) incrementa l’efficacia della disassuefazione (Fiore, 2008).

Quale che sia l’approccio, la fase diagnostica iniziale è determinante. La diagnosi psicologica dovrebbe comprendere i seguenti aspetti:

  •  Storia tabaccologica
  •  Livello di dipendenza dalla nicotina
  •  Analisi della motivazione al cambiamento
  •  Stima della Self-efficacy
  •  Presenza di dipendenza/abuso di alcol o altre sostanze psicotrope
  •  Presenza di disturbi del comportamento alimentare
  •  Presenza di disturbi depressivi
  •  Presenza di disturbi d’ansia
  •  Altre patologie psichiatriche (MMPI, SCID, MAC-T, ecc.)

 

Questa analisi darà origine ad un “profilo del fumatore”; la terapia, che procede necessariamente per fasi prestabilite che gradualmente portano dalla dipendenza alla disassuefazione completa, deve garantire flessibilità ai cambiamenti che man mano il paziente dimostra. E’ bene che il clinico abbia a disposizione diversi strumenti psicodiagnostici dato che, per essere efficace, il trattamento prevalentemente “psicologico” della dipendenza tabagica implica una verifica continua degli effetti della terapia mediante la rilevazione di indici che orientano e correggono il tiro terapeutico.

   Esistono differenti criteri di valutazione pertinenti alla valutazione del fumatore. I due principali riguardano il livello di dipendenza fisica dalla nicotina e il livello motivazionale del paziente, ovvero la misura della volontà di cessare l’utilizzo della sostanza.

Il primo parametro si ottiene facilmente tramite somministrazione del “Fagerström Test for Nicotine Dependence” (Fagerström, 1996), che ad oggi risulta essere lo strumento più valido e utilizzato. Il livello motivazionale invece può essere misurato mediante l’applicazione del modello transteoretico di Prochaska e Di Clemente, tenendo conto che gli stadi motivazionali di Contemplazione, Determinazione o Azione costituiscono un antecedente progressivamente facilitante la riuscita dell’intervento. (Prochaska, Di Clemente, 1982).

L’incrocio di questi due parametri (livello di dipendenza fisica dalla nicotina – livello motivazionale al cambiamento) inquadra 4 differenti classi di fumatori:

AM-BD (alta motivazione-bassa dipendenza)

AM-AD (alta motivazione-alta dipendenza)

BM-BD (bassa motivazione-bassa dipendenza)

BM-AD (bassa motivazione-alta dipendenza)

In seguito, sarà necessario valutare il livello di autoefficacia (Bandura, 2000) e determinare l’orientamento del locus of control poiché uno stile di coping problem focused orienta funzionalmente le intenzioni del soggetto, i piani d’azione, il livello motivazionale e l’atteggiamento mentale. Vanno rilevate eventuali dipendenze in comorbidità (alcol, stupefacenti) e psicopatologie relative all’umore, allo spettro ansioso, ai disturbi psicotici e ai disturbi di personalità; ogni condizione psicopatologica aggiuntiva sia in Asse I che in Asse II (DSM-IV-Tr, APA, 2000) costituisce un indicatore prognostico sfavorevole. Nel caso di diagnosi aggiuntive starà al clinico valutarne la gravità, l’incidenza sulla terapia e quale condizione debba ricevere per prima attenzione.

Riguardo le funzioni esecutive, le terapie risultano più efficaci in assenza di deficit cognitivi o di memoria e ancora, quando il soggetto appare sufficientemente informato sui meccanismi dannosi provocati dal fumo. Tra i fattori anamnestici pertinenti con l’esito del trattamento troviamo l’età di inizio del fumo, la presenza o meno di patologie correlate agli apparati interessati (per es. broncopneumopatia cronica ostruttiva, infarto) e il numero di tentativi falliti di smettere: si smette di più tra il quarto-quinto tentativo, mentre le probabilità di una disassuefazione duratura calano drasticamente all’aumentare di questo numero (Tinghino, 2009).

Infine, la presenza o meno di una rete di supporto sociale è una variabile importante per la riuscita della terapia.

Riassumendo, i predittori di esito rilevabili precocemente nel soggetto che si appresta a smettere di fumare sono:

  •  Livello di dipendenza fisica dalla nicotina
  •  Polidipendenza (alcolismo – tossocodipendenza – controllo degli impulsi)
  •  Presenza di patologie in Asse I
  •  Presenza di patologie di personalità (Asse II DSM)
  •  Livello motivazionale
  •  Livello di autoefficacia
  •  Locus of control
  •  Età di inizio del fumo
  •  Numero di tentativi falliti di cessazione del fumo
  •  Rete sociale di sostegno
  •  Deficit di comprensione o memoria
  •  Livello culturale
  •  Patologie mediche fumo correlate

La procedura psicodiagnostica del fumatore è un processo piuttosto semplice ma fornisce il grande vantaggio di poter immediatamente individuare e in seguito discutere con il paziente variabili, spesso del tutto psicologiche, che svolgono un ruolo importante nel mantenimento della dipendenza.

Quello della disassuefazione tabagica è un campo stimolante e di importanza estrema perché il fumo rappresenta la prima causa di morte evitabile al mondo. Per chi sceglie di operare in questo campo implementare una terapia accurata e sensibile ai risultati di monitoraggio dei parametri garantisce ottimi tassi di successo, sia nel breve periodo che nei follow up.

 

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L’eco della violenza: l’ EMDR per il trattamento di vittima e aggressore

 

 

L’Associazione EMDR Italia si è recentemente dedicata all’importanza dell’EMDR nei casi di violenza, focalizzando l’interesse e l’opinione degli esperti che vi fanno parte, sugli interventi terapeutici efficaci non solo sulle vittime di violenza ma anche sui sex offenders.

Nell’ultimo Congresso Nazionale sull’EMDR “Labirinti Traumatici: il filo diretto dell’EMDR”, tenutosi a Milano dall’8 al 10 novembre 2013, Isabel Fernandez (Presidente dell’Associazione Italiana EMDR) ha esposto una presentazione volta a sottolineare come l’importanza dell’intervento terapeutico diretto all’elaborazione dei traumi pregressi aiuti a prevenire e ridurre i costi psicologici ed economici legati alla violenza. Dei 16,719 miliardi di euro spesi ogni anno a causa della violenza di genere, 2,377 sono costi diretti: sanitari, farmacologici, giudiziari, consulenze e trattamenti psicoterapici, centri antiviolenza, ecc.

Nel 2013 si sono contate 128 donne vittime di violenza domestica e fino a 17 miliardi spesi ogni anno in assistenza. Tale dato si ritiene sia sottostimato rispetto alla realtà.

Derek Farrel (Presidente del Comitato di accreditamento EMDR UK & Irlanda) ha invece focalizzato il suo intervento sull’importanza dell’EMDR per il trattamento di sopravvissuti ad abusi subiti da membri del clero o religiosi, sottolineando come tale tipologia di abuso si verifichi principalmente durate l’infanzia e come tali avvenimenti costituiscano un fattore di vulnerabilità per una possibile ri-traumatizzazione. L’autore ha sollecitato l’attenzione verso un’attenta diagnosi, capace di cogliere sintomi di PTSD non contemplati dal DSM-IV per queste persone, associati alla credenza che Dio abbia contribuito all’abuso attraverso strategie implicite/esplicite dell’obbligo al silenzio, attuato da preti perpetratori, oppure al timore del significato associato al suo non esser intervenuto. Sintomi, quindi, associati ad aspetti propri della rappresentazione di sé inerenti l’identità spirituale, temi religiosi e politici, che diventano target dell’intervento con EMDR.

Cosa dire invece di coloro che abusano e violentano? All’interno dello stesso convegfno, Julie Stowasser (Formatrice per l’Istituto Californiano EMDR e Consulente per i Programmi di Assistenza Umanitaria EMDR-HDA) si è soffermata sul trattamento dei perpetratori di violenze domestiche, sottolineando l’importanza di fare riferimento al background traumatico di coloro che agiscono la violenza e introduce tecniche specifiche, da affiancare al protocollo EMDR standard, per intervenire ad hoc su tali pazienti.

 Ronald Ricci (Ricercatore presso l’Istituto Politecnico in Virginia e in Pennsylvania) ha anche confermato come i traumi sessuali subiti in infanzia possano portare ad un arousal sessuale deviante e confuso, quindi fattori di rischio specifici per reati sessuali in età adulta, quindi riporta i dati di efficacia nel miglioramento con interventi EMDR a confronto con interventi standard rivolti ai sex offenders.

Attraverso l’alternarsi degli studi e delle ricerche esposte dai maggiori esperti dell’EMDR, riportate anche nel corso del Convegno Nazionale, sia sul trattamento della rabbia patologica (Mark Nickerson, formatore EMDR in Massachusetts) sia sugli effetti neurofisiopatologici delle violenze subite e dell’intervento con EMDR (Marco Pagani, Primo Ricercatore presso Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione CNR, Roma), si evince che la violenza, come manifestazione della mente, ha una base dimostrabile e dimostrata: i correlati neurobiologici dei comportamenti vilenti sono localizzabili in particolar modo nell’amigdala e nell’ippocampo, l’attivazione patologica di queste strutture comporta delle alterazioni del sistema limbico.

L’efficacia dimostrata dell’EMDR nel normalizzare l’attività limbica e i sintomi da essa derivanti rende quest’intervento uno dei miglior candidati nel trattamento sia dei disturbi traumatici sia delle sindromi comportanti violenza e aggressività.

 

Violenza sulle donne: EMDR, una terapia per la speranza anche in Italia. Guarire il trauma nelle vittime, interrompere la catena della rabbia negli aggressori.

 

L’impegno dell’Associzione Italiana EMDR verso il tema della violenza lo si può evincere dallo spazio riservato, all’interno del Congresso Nazionale di cui sopra, a una tavola rotondain cui si sono confrontate associazioni informali con professionisti esperti, tutti rivolti all’impegno attivo verso la ‘cura della violenza’.

In ambito nazionale, l’Emilia Romagna si è particolarmente distinta grazie al Programma di Trattamento della Violenza di Genere e Intrafamiliare, promosso dall’AUSL di Modena e presentato dalla Dr.ssa Daniela Rebecchi (Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica del Dipartimento Salute Mentale ).

Questo programma sperimentale ha risposto al Progetto Nazionale ‘Violenza alla donna’ 2008-2009 attraverso l’Istituzione del Centro ‘Liberiamoci dalla Violenza’, nato il 2 dicembre 2011, finanziato dai fondi pubblici della Regione Emilia-Romagna. Tra gli psicoterapeuti che lavorano al centro, il Dr. Paolo de Pascalis, presente al Convegno di Milano, ha sottolineato come il Consultorio Familiare rappresenti uno dei nodi della rete di servizi che deve esser capace di fronteggiare la richiesta d’aiuto per le donne vittime di maltrattamenti, per i minori che assistono e per gli aggressori che chiedono di esser aiutati a interrompere i comportamenti di violenza. Ad oggi il Centro ha accesso volontario ed è coordinato da un’équipe di professionisti esperti e formati nel trattamento della violenza. Ad Ottobre 2013 si contano circa 243 contatti totali, fra uomini, partner, figure professionali che hanno fatto riferimento al centro. Il dato permette di intuire la necessità sia di un intervento competente sugli autori di violenza e su coloro che la subiscono sia di una coordinazione in rete delle risorse del settore di psicologia clinica e di comunità, protagonista sensibile alla sofferenza.

 

 

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Ricerca: caratteristiche e qualità del rapporto di coppia nella famiglia omogenitoriale – LGBT

 

 

Lo scopo della ricerca è quello di esplorare le dinamiche delle coppie gay e lesbiche tramite un questionario strutturato che indaga il livello di soddisfazione/insoddisfazione dei/delle partner in vari ambiti, tra cui il rapporto con i figli e la loro educazione.

I risultati dei questionari verranno in seguito confrontati con quelli di coppie eterosessuali al fine di far emergere analogie e difformità tra le tre tipologie di coppia. Il presente studio potrà fornire spunti di riflessione per successive ricerche che hanno l’obiettivo di approfondire le tematiche dell’omogenitorialità e della qualità della relazione delle coppie gay e lesbiche.

Un’indagine della Scuola di Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze: un lavoro di ricerca che studia la qualità della relazione nelle coppie gay e lesbiche con figli. La ricerca sarà svolta in collaborazione con il Dott. Paolo Antonelli e il Prof. Davide Dèttore del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Firenze.

L’argomento della nostra ricerca supporta la tesi, condivisa e dimostrata dalla comunità scientifica internazionale, secondo la quale la capacità genitoriale delle persone omosessuali è totalmente sovrapponibile a quella delle persone eterosessuali.  L’adeguatezza e la competenza nell’accudire e crescere i propri figli non dipende dall’orientamento sessuale dei genitori, ma dalla loro capacità di offrire affetto e cure necessarie a garantire uno sviluppo psicologico ed emotivo equilibrato. Gli studi più recenti dimostrano che l’orientamento sessuale non compromette in nessun modo la salute mentale dei genitori, né influenza negativamente le abilità genitoriali.

 

Per qualsiasi dubbio o chiarimento relativo alla compilazione del questionario, Potete contattare la responsabile dello studio (Dott.ssa Vanessa Magazzini) al: 347-1271876 oppure all’indirizzo e-mail [email protected].

 PARTECIPA ALLA RICERCA!

ATTENZIONE! IL QUESTIONARIO E’ ANONIMO MA DEVE ESSERE COMPILATO DA ENTRAMBI I MEMBRI DELLA COPPIA

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Donne nella grande guerra. Presentazione del libro

 

Qual è stato il ruolo delle donne italiane nella Grande Guerra? In tutti i paesi belligeranti, il conflitto fu un’occasione di emancipazione per le donne, che si trovarono a rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte, e in qualche modo andarono in guerra anche loro: come crocerossine, in Carnia come portatrici, nelle retrovie come prostitute a sollievo delle truppe. Ma il libro ci racconta anche di una spia, di un’inviata di guerra, della regina Elena che trasformò il Quirinale in ospedale, delle intellettuali che militarono pro o contro la guerra: da Margherita Sarfatti a Eva Amendola e Angelica Balabanoff, alla dimenticata maestra antimilitarista Fanny Dal Ry, per finire con Rosa Genoni, pioniera della moda italiana, che abbandona il lavoro e si batte contro la guerra.
Le autrici del volume fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive hanno pubblicato anche Piccole italiane (Anabasi, 1994), Il Novecento delle italiane (Editori Riuniti, 2001), Amorosi assassini (Laterza, 2008) e, con il Mulino, Donne del Risorgimento (2011).

Donne nella grande guerra - Milano

Raccontare e definire se stessi: analisi dei temi di vita con l’Adult Attachment Interview

Alessia Ricci

 

 

 

Raccontare e definire se stessi: analisi dei temi di vita attraverso l'Adult Attachment Interview Nell’accingersi a raccontare e a raccontarsi la propria storia, ciascuno, contribuisce alla definizione di Sé, alla costruzione di un’identità individuale sollevando domande, ponendo questioni, azzardando ipotesi e provando ad impreziosire e personalizzare, con i propri sensi e significati, le esistenze.

 

La costruzione di storie, di intrecci narrativi e trame di vita, appartiene, in modo imprescindibile, a tutte le culture, popoli, etnie, nelle varie epoche, attraversando l’umanità intera.

Nell’accingersi a raccontare e a raccontarsi la propria storia, ciascuno, contribuisce alla definizione di Sé, alla costruzione di un’identità individuale sollevando domande, ponendo questioni, azzardando ipotesi e provando ad impreziosire e personalizzare, con i propri sensi e significati, le esistenze.

Sull’indicazione di cinque attrattori di significato, tra le tante storie, quelle riguardanti i racconti di attaccamento e accudimento tra bambino e caregivers nella prima infanzia, possono prestarsi a fungere da traccia per i temi critici dell’Amore, del Valore, del Potere, della Libertà e della Verità.

 Quesiti quali: “Esistono i temi di vita radicati nelle storie reali delle persone? Sono costrutti teorici indipendenti l’uno dall’altro? O si intrecciano semanticamente tra loro? Come è possibile ravvisare la loro presenza nei racconti?”, hanno ispirato e guidato uno studio descrittivo dalla natura squisitamente qualitativa nell’osservare l’emergere, implicitamente ed esplicitamente, delle tematiche narrative attraverso l’analisi metodica e sistematica delle parole scelte da 20 soggetti intervistati attraverso l’Adult Attachment Interview.

Coniugando una prima metodologia di stampo bottom up, coniata dalla Grounded Theory, ad un approccio top down, l’esame linguistico ha reso possibile una misurazione qualitativa, con la creazione di un vocabolario ad hoc, e una quantitativa, attraverso la rilevazione delle frequenze dei vocaboli, dei temi di vita. In questo modo, la descrizione, ha potuto avanzare da un’iniziale prospettiva lessicale ad un’ottica più semantica dove i temi si connettono, si sovrappongono e sono collegati da una linea sottile di sfumature di significato. L’analisi, con i suoi risultati, porta verso una validazione della teoria stessa e, nell’andamento ciclico e ricorsivo qualitativo, a nuove ipotesi esplorative che tengono conto di reti concettuali più ampie che fanno da sfondo narrativo ai temi di vita.

 

Abstract

Parole chiave: Temi di Vita, Adult Attachment Interview, analisi lessicale, approccio narrativo, semantica

Sullo sfondo dell’approccio narrativo e della teoria delle tematiche critiche di Veglia (1999) è stata condotta un’indagine qualitativa finalizzata ad esplorare criticamente, da un punto di vista squisitamente lessicale, cinque Temi di Vita: Amore, Valore, Potere, Libertà, Verità. Ai fini dello studio sono state passate in rassegna venti interviste di soggetti alle prese con la ricostruzione delle proprie esperienze di attaccamento con i caregivers; in queste storie di vita si è ipotizzato che tra le parole scelte dagli individui per allestire le loro narrazioni vi fossero vocaboli emblematici e concettualmente rappresentativi delle tematiche di vita. L’intento è stato quello di giungere alla realizzazione di un vocabolario di termini potenzialmente salienti ed indicativi della presenza dei temi all’interno di resoconti autobiografici analizzati e di confrontare la loro ricorrenza all’interno delle categorie degli state of mind per offrire spunti di riflessione utili a supportare, approfondire o eventualmente corroborare la teoria. Utilizzando una prima metodologia, di stampo deduttivo, sono state rintracciate nei testi, tra tutte le parole, quelle supposte come semanticamente più affini alla teoria proposta dall’Autore. In un secondo momento, è stata rilevata la loro frequenza mediante uno strumento di analisi testuale che ha permesso di stabilire confronti tra le varie ricorrenze e di istituire parallelismi con altre porzioni di testo in cui è stata inserita un’apposita domanda “tematica”. I risultati ottenuti hanno permesso di argomentare eventuali nessi semantici e avanzare l’ipotesi di reti concettuali in cui i Temi sono intimamente connessi e le categorie di significato inizialmente argomentate sfumano magistralmente l’una nell’altra.

 

Abstract

Keywords: Life Themes, Adult Attachment Interview, lexical analysis, narrative approach, semantic

In the background of the narrative approach and of the theory of critical themes (Veglia, 1999) was conducted a qualitative survey aimed to explore critically, from a purely lexical point of view, five life themes: Love, Value, Power, Freedom, Truth.

For the purposes of the study were reviewed twenty interviews with subjects grappling with the reconstruction of their own experiences of attachment with the caregivers; in these stories of life it is assumed that between the words chosen by individuals to establish their narratives there were emblematic words representative of the issues of life.

The aim was to achieve the implementation of a vocabulary of terms potentially salient and  indicative of the presence of the themes within autobiographical reports analyzed and compare their occurrence within the categories of state of mind to offer insights useful to support, deepen or possibly corroborate the theory. Using a first deductive methodology, were traced in the texts, between all the words, those suppositories as semantically more akin to the theory proposed by the Author. In a second time, it has been detected their frequency by means of an instrument of textual analysis that has allowed us to establish comparisons between the various frequencies of words and to establish parallels with other portions of text which has been inserted a special “thematic” question. The results obtained have allowed to argue any semantic links and hypothesis of conceptual networks in which Life Themes are intimately connected, and categories of significance initially argued soften masterfully one into the other.

 

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Autore dell’articolo:
Dott.ssa Alessia Ricci. Articolo tratto dalla tesi di laurea magistrale discussa il 13/11/2012 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino dal titolo “La lettura delle narrative personali attraverso la teoria dei Temi di Vita”, (relatore Prof. Fabio Veglia) durante l’anno accademico 2011/2012 del corso di Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità.
Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013

Oltre la Violenza: nasce a Napoli il primo sportello del Sud Italia per uomini violenti

 

 

Oltre la violenza: sportello uomini violentiIl servizio è rivolto a uomini autori di violenza o che esprimono difficoltà a vivere rapporti non conflittuali con l’altro sesso, parenti, familiari o conoscenti di autori di violenza e operatori di servizi che nella loro pratica professionale entrano in contatto con fenomeni di maltrattamento e di violenza.

‘Oltre la violenza’ (O.L.V.). Si chiama così lo sportello istituito dall’Asl Na1Centro e rivolto agli uomini responsabili di violenze di genere. Il servizio è completamente gratuito ed è il primo nel suo genere in Campania e tra i primi in tutto il sud Italia nell’ambito della sanita’ pubblica.

Lo sportello sarà inaugurato a maggio presso la sede del’Unità Operativa di Psicologia Clinica in Piazza Nazionale, sarà aperto il venerdì pomeriggio e si avvarrà della collaborazione volontaria dell’Ente di ricerca ‘Anima’ per lo svolgimento di consulenze on-line e dell’Associazione di promozione sociale ‘Pensare Più’ (i cui membri da molti anni collaborano in forma volontaria con l’Unità Operativa), che si occuperà di allestire spazi di riflessione attraverso gruppi di sostegno e di auto aiuto e si farà promotrice, attraverso diverse forme di progettualità, di una cultura della non violenza.

In attesa dell’inaugurazione, sarà possibile già prendere contatti telefonando al 3385004398 (attivo dal lunedì al venerdì dalle 13 alle 15, il mercoledì e venerdì dalle 16 alle 18), inviando un messaggio alla pagina Facebook ‘O.L.V.’ o scrivendo una mail all’indirizzo [email protected].

Il servizio è rivolto a uomini autori di violenza o che esprimono difficoltà a vivere rapporti non conflittuali con l’altro sesso, parenti, familiari o conoscenti di autori di violenza e operatori di servizi che nella loro pratica professionale entrano in contatto con fenomeni di maltrattamento e di violenza.

Oltre ai colloqui individuali e ai gruppi di sostegno e di auto aiuto, sarà possibile richiedere consulenze psicologiche on line attraverso il sito www.animaonline.org, anche per garantire un livello ancora maggiore di anonimato.

Psicologa referente del progetto è la vulcanica Antonella Bozzaotra, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania e didatta dell’IIPR (Istituto Italiano Psicoterapia Relazionale) presso la sede di Napoli, che abbiamo intervistato per meglio comprendere le ragioni che sottendono la creazione di questo nuovo Servizio.

Dottoressa Bozzaotra perché dedicare uno sportello agli uomini violenti?

Quello della violenza di genere è, a mio avviso, un fenomeno molto complesso che richiede una molteplicità di interventi di contrasto che abbraccino tutto il contesto sociale nel quale la violenza si esplica. Dedicare uno spazio agli uomini violenti, consapevoli delle proprie difficoltà, è a mio avviso assolutamente necessario per offrire loro la possibilità di ripensare la propria storia e poter così tentare di porre fine alla reiterazione del reato.

Non crede possa essere interpretato in modo sbagliato offrire un intervento di cura a chi è stato carnefice di brutali violenze?

Come ho già detto lo sportello si rivolge a uomini che sono già consapevoli della gravità del reato commesso e che hanno voglia di mettersi in discussione. Allargare la possibilità di intervento all’intero contesto socio-culturale comprendendo anche gli uomini maltrattanti sarà la risposta più efficace che si potrà mettere su contro la violenza di genere, non dimenticando nel frattempo di allestire contesti di promozione di una cultura della non-violenza: sono convinta che presto anche gli scettici se ne renderanno conto.

Ci parla dello staff dell’O.L.V.? Da chi è costituito?

Proprio per fornire risposte complesse che agiscano sull’intero contesto socio-culturale in cui la violenza di genere attecchisce, lo staff del nuovo sportello sarà multidisciplinare, costituito da psicologi, un’assistente sociale e un’infermiera professionale. L’O.L.V. è uno sportello innovativo sia perché attraverso esso la sanità pubblica si occuperà di qualcosa generalmente appannaggio del mondo delle associazioni e del privato sociale, sia perché stileremo un protocollo d’intesa con un ente di ricerca per osservare questo fenomeno, allargando lo sguardo. Siamo consapevoli che si tratta di una sfida complessa, perché è facile schierarsi a favore di chi subisce violenza, ma chi commette violenza è parte di questo fenomeno e non va dimenticato.

Simbolo dello sportello è un bagna asciuga, ci spiega la scelta di tale immagine?

Perché in materia di violenza i confini sono sempre molto sottili… quando si parla di violenza si parla anche di relazioni, contesti… tutti aspetti complessi che difficilmente possono essere circoscritti in modo lineare.

 

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Dimmi che musica ascolti e ti dirò quanti anni hai! La musica e le fasi della vita

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo studio suggerisce che, nonostante il nostro interesse per la musica possa diminuire con l’avanzare dell’età, i nostri gusti musicali cambiano negli anni, adattandosi alle varie fasi della vita e alle sfide, sempre diverse, che questa ci propone.

L’esplosione del consumo di musica nel corso dell’ultimo secolo ha trasformato ciò che ascoltiamo in qualcosa che ci descrive, che parla di noi, in poche parole in un costrutto di personalità.

Ora un nuovo studio suggerisce che, nonostante il nostro interesse per la musica possa diminuire con l’avanzare dell’età, i nostri gusti musicali cambiano negli anni, adattandosi alle varie fasi della vita e alle sfide, sempre diverse, che questa ci propone.

Una delle tesi sostenute dai ricercatori è che ci avviciniamo alla musica per mettere alla prova la nostra identità e definire noi stessi, poi la utilizziamo come veicolo sociale per stabilire l’appartenenza al gruppo e trovare un partner, infine la usiamo come solitaria espressione del nostro intelletto, del nostro status e per una maggiore comprensione emotiva.

Lo studio, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, è il primo a documentare il modo in cui le persone interagiscono con la musica dall’adolescenza alla mezza età.

Utilizzando i dati raccolti da più di un quarto di milione di persone per un periodo di dieci anni , i ricercatori hanno diviso i generi musicali in cinque grandi categorie che hanno chiamato MUSIC model – dolce, senza pretese , sofisticato , intenso , contemporaneo – e tracciato modelli di preferenza per fasce d’età .

Queste cinque categorie comprendono generi diversi che condividono tratti musicali e psicologici comuni, come ad esempio l’intensità e la complessità.

Lo studio ha scoperto che, ovviamente, la prima grande epoca musicale è l’adolescenza: definita da un breve picco di intenso (come il punk e il metal, che declina prima dell’età adulta, segna l’inizio di un costante aumento di contemporaneo – come il pop e rap) fino alla mezza età.

L’adolescenza è dominata dalla necessità di definire la propria identità e la musica è un modo economico ed efficace per farlo, sostiene Jason Rentfrow, ricercatore senior dello studio.

La rivendicazione dell’autonomia e dell’indipendenza è una delle sfide della vita che gli adolescenti affrontano anche grazie alla musica: la scelta di una musica intensa, aggressiva, caratterizzata da forti suoni distorti, ha quella connotazione ribelle che permette loro di sentire una contrapposizione con i genitori e l’istituzione.

La preferenza per l’intenso, nella prima età adulta, cede il passo alla crescente ondata di contemporaneo e all’introduzione del dolce (come l’elettronica e l’R & B). Queste due dimensioni privilegiate sono considerate romantiche, emotivamente positive e ballabili, scrivono i ricercatori.

Una volta superata la fase del bisogno di autonomia, la sfida successiva riguarda il trovare l’amore e di essere amati e più in generale coinvolge il tema dell’accettazione da parte degli altri: queste forme di musica rafforzano il desiderio di intimità e fanno da sfondo ai contesti in cui le persone si uniscono con l’obiettivo di stabilire rapporti stretti, come feste, bar, discoteche e così via.

L’ultima epoca musicale identificata dai ricercatori è quella dominata dalla musica sofisticata (come il jazz e classica) e senza pretese (come country, folk e blues), che comincia con la mezzà età.

Entrambe sono viste come positive e rilassanti. La sofisticata esprime gusto estetico, cultura e intelligenza, che potrebbero anche essere legati allo status sociale, mentre quella senza pretese riecheggia i sentimenti della famiglia, dell’amore e della perdita, cioè una musica, anche in questo caso, che parla delle esperienze salienti in questa fase della vita.

 

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Vittorio Lingiardi: Le neuroscienze sono oggi imprescindibili per capire la psiche

Un articolo di Vittorio Lingiardi, pubblicato sul Sole 24 Ore di Domenica 18 Maggio 2014

Le neuroscienze sono oggi imprescindibili per capire la psiche

 

Prof. Vittorio Lingiardi - Foto 2014
Vittorio Lingiardi, Psichiatra e Psicoterapeuta. Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Psicologia e Medicina – Università La Sapienza di Roma

Il dialogo con altri saperi disciplinari, in particolare le neuroscienze cognitive e l’infant research, si rivela necessario per qualunque ipotesi sul funzionamento psichico…

All’origine dell’esperienza psichica: divenire soggetti è il titolo del diciassettesimo congresso della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Si svolgerà presso l’Università degli Studi di Milano dal 22 al 25 maggio e a giudicare dal programma molte relazioni affronteranno il tema, che più freudiano non si può, della formazione delle strutture psichiche. Come sappiamo, le psicoanalisi sono molte, ma nessuna può sottrarsi all’arduo compito di definire che cosa intende per “struttura psichica”. Per questo ci sembra appropriata l’idea di inserire nel titolo quel “divenire soggetti” che sembra richiamare il complicato divenire se stessi in tempi di identità, psichiche e sociali, indefinite e a volte fragili. Ma, soprattutto, che sembra interrogarsi sugli ingredienti del processo di soggettivazione.

«L’incontro tra gli elementi idiomatici e le qualità dell’accudimento – dice Tiziana Bastianini, segretaria scientifica della SPI – dà luogo a una relazione in cui si sviluppa la nostra soggettività. Un processo che la teoria psicoanalitica ha raccontato con diverse metafore: contenimento, holding, riconoscimento, sintonizzazione affettiva». E che, aggiungerei, vive della tensione tra unico e molteplice e della capacità, direbbe Bromberg, di stare tra gli spazi. Infine, continuando a circumnavigare il titolo del convegno, nelle parole “origine” e “soggetto” ravvisiamo l’intenzione di riportare la psicoanalisi alla centralità della funzione materna senza consegnarsi alla nostalgia di un patriarcato perduto.

Temi che non possono più essere affrontati dalla posizione di «(non troppo) splendido isolamento», per usare la nota espressione di Fonagy, in cui a lungo parte della psicoanalisi si era rifugiata. Il dialogo con altri saperi disciplinari, in particolare le neuroscienze cognitive e l’infant research, si rivela necessario per qualunque ipotesi sul funzionamento psichico.

Sembra dunque intersoggettività la parola chiave di questo convegno, come anche dimostra la scelta di conferire il Premio Musatti a Vittorio Gallese, neuroscienziato dell’Università di Parma, autore, con Rizzolatti e altri, della scoperta dei “neuroni specchio” (una classe di neuroni che si attiva quando compiamo un’azione e anche quando solamente osserviamo un altro che compie quell’azione) e ideatore della teoria intersoggettiva della “simulazione incarnata” (uno specifico meccanismo mediante il quale il nostro sistema cervello/corpo modella le proprie interazioni con il mondo, processo non metarappresentazionale dove l’intercorporeità descrive un aspetto cruciale dell’intersoggettività). «Rispetto alle teorie dello sviluppo infantile – leggiamo nelle motivazioni al Premio – si comprende oggi che il processo di graduale riconoscimento dell’oggetto come soggetto indipendente, dotato di una propria realtà psichica, non passa solo per le vie della mentalizzazione e della rappresentazione simbolica, attraverso le quali egli formula inferenze cognitive sulle intenzioni proprie e altrui, ma anche attraverso accessi mimetici preriflessivi, molto più diretti e automatici, la cui mediazione è corporea».

La scelta di un esecutivo psicoanalitico di premiare l’ingegno scientifico di Gallese vuole sottolineare la centralità del dialogo tra discipline biologiche e psicologiche. «Un approccio neurobiologico alla comprensione dei processi mentali – scrive del resto Gallese – non può limitarsi a indagare la relazione tra i concetti con cui li descriviamo e le aree cerebrali che si attivano durante l’applicazione di tali concetti, ma deve studiare come dal sistema cervello-corpo nelle sue situate relazioni mondane scaturisca l’attività mentale e venga recepita quando espressa dagli altri. Detto altrimenti, il livello di descrizione offerto dalle neuroscienze cognitive è necessario ma non sufficiente. Dobbiamo partire dal tema dell’esperienza degli individui, decostruirla, naturalizzarla studiandola con l’indagine sub-personale propria delle neuroscienze, e utilizzare i risultati così ottenuti per ridiscutere il livello personale da cui eravamo partiti, instaurando così un virtuoso circolo conoscitivo».

In un momento in cui è forte il rischio di polarizzare il confronto (come la formula neuromania vs neurofobia ci vuole ricordare) è importante affermare, e questo premio sembra farlo, che discipline diverse possono e devono mantenere la loro autonomia senza per questo rinunciare a un’inevitabile interdipendenza. Evitiamo così di imboccare le scorciatoie che pretendono di utilizzare, spesso opportunisticamente, le grandi conquiste delle neuroscienze per spiegare ogni complessità della vita psicologica e psicopatologica. E di abbracciare semplificazioni pseudocliniche che pretendono di riassumere le vicissitudini del processo terapeutico (dall’incontro diagnostico al momento della separazione) nella comoda raccomandazione, suggellata dall’inevitabile riferimento ai mirror neurons, di essere “empatici e relazionali” (peraltro riesce difficile pensare a una relazione terapeutica senza empatia e senza relazione).

Quello intersoggettivo è un orientamento che vanta una lunga tradizione clinica e teorica e oggi informa, con sfumature diverse, molte correnti di pensiero psicoanalitico. Una tradizione che si è sviluppata e rinforzata grazie all’incontro tra teoria dell’attaccamento, studio dei sistemi motivazionali, infant research, neuroscienze cognitive e ricerca empirica sulle specifiche componenti della relazione psicoterapeutica (tra cui l’alleanza e il ritmo delle rotture e delle riparazioni). Grazie al contributo di autori come Daniel Stern e molti altri è stato finalmente messo a fuoco come le manifestazioni delle caratteristiche temperamentali del bambino interagiscano in processi di regolazione reciproca bambino-caregiver.

Sul piano clinico l’intersoggettività, può essere definita un processo in gran parte implicito di comunicazione e creazione di senso tra i due mondi intrapsichici di paziente e terapeuta. Un’esperienza che produce cambiamento in entrambi e nella loro relazione. E inevitabilmente ci porta a ridisegnare l’idea di psicoanalista.

Pensando al convegno SPI penso a Luciana Sica che ne avrebbe scritto su «Repubblica». Ma Luciana non è più con noi. Amava la psicoanalisi e proprio l’anno scorso aveva ricevuto il premio Musatti.

 

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Pensiero matematico & Linguaggio: cosa hanno in comune?

 

 

linguaggio e matematica © rendermax - Fotolia.com

I primi risultati di questo lavoro suggeriscono che il linguaggio e la matematica condividono delle rappresentazioni sintattiche e utilizzano processi di analisi simili.

Sappiamo che alcune proprietà sono condivise sia dal linguaggio verbale che da quello aritmetico. Pensiamo ad esempio alla possibilità di costruire delle parole a partire da lettere e delle frasi a partire da parole: allo stesso modo siamo in grado di generare e comprendere numeri composti da più cifre, proprio grazie all’assegnazione di un posto specifico alle unità, alle decine e via dicendo, e di risolvere delle espressioni aritmetiche sulla base di alcune regole che indicano quali operazioni vadano svolte per prime.

Sembra quindi che anche nella matematica ci sia la necessità di strutturare il materiale attraverso l’uso di regole sintattiche.

La difficoltà che si pone è come studiare le dimensioni comuni tra il linguaggio e la matematica.

Un paradigma che si è rivelato efficace per studiare l’esistenza di un qualche processo comune nell’analisi sintattica è quello del priming strutturale.

Gli esperimenti classici di priming lessicale dimostrano una riduzione del tempo di elaborazione di una parola come dottore se questa è preceduta da una parola come infermiera, che è semanticamente collegata alla prima.

In generale se due stimoli sono legati tra loro su una particolare dimensione, e l’elaborazione dell’uno influenza l’elaborazione dell’altro, possiamo attribuire la causa dell’effetto di facilitazione (o di inibizione) proprio alla dimensione condivisa (Branigan et al., 1995).

Questo principio si applica non solo alla dimensione lessicale e semantica, ma anche a quella strutturale o sintattica. In letteratura sono riportati numerosi esempi di facilitazione dell’elaborazione di una frase dopo aver elaborato già un’altra frase con la stessa struttura sintattica (Pickering & Ferreira, 2008).

Ci siamo chiesti però se questo assunto si possa applicare anche a due codici tanto diversi tra loro, come la matematica e il linguaggio. Scheepers et al. (2011) hanno dimostrato come la risoluzione di espressioni aritmetiche influenzi la produzione di frasi.

Abbiamo pensato di replicare lo studio nella lingua italiana, rendendo il paradigma di studio un po’ più complesso (Caruso et al., 2012). In un esperimento 54 soggetti dovevano risolvere delle semplici espressioni aritmetiche prima di leggere e comprendere delle frasi ambigue del tipo “Ho visto la figlia della signora che è andata in Egitto”.

I risultati hanno mostrato che la struttura sintattica delle espressioni aritmetiche influenzava l’interpretazione di questo tipo di frasi. Soprattutto quando si trattava di espressioni che contenevano parentesi, quindi gerarchicamente organizzate rispetto a espressioni lineari, si osservava una tendenza maggiore ad interpretare il primo nome della frase ambigua come soggetto della frase relativa.

I primi risultati di questo lavoro suggeriscono che il linguaggio e la matematica condividono delle rappresentazioni sintattiche e utilizzano processi di analisi simili.

Questi risultati però non sono interessanti solo per chi si occupa di linguistica, ma possono essere utilizzati nei protocolli di intervento clinico, come nel lavoro di Byrne e Varley (2011) in cui dei pazienti venivano aiutati a sviluppare delle nuove capacità sintattiche legate al linguaggio a partire dalle operazioni aritmetiche.

Questo potrebbe essere uno dei tanti esempi di come la ricerca sui processi cognitivi di base possa spiegare dei fenomeni mentali complessi ed essere d’aiuto alla pratica clinica.

 

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Decontestualizzare la sfera emotiva dal ricordo: una strategia di regolazione emotiva

 

 

 

regolazione emotiva - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.comIl ricordo è un traditore che ferisce alle spalle.

Nella memoria emotiva autobiografica sono immagazzinate le nostre emozioni riguardanti eventi di vita particolarmente significativi: ad esempio la nascita di un figlio, la vincita di un premio ad una competizione sportiva, o la bocciatura a un esame. Questo tipo di memoria gioca un ruolo importante nella costruzione dell’identità, nonché nella pianificazione di comportamenti, progetti, decisioni.

Tuttavia, il ricordo delle emozioni provate durante un’esperienza di vita negativa (quanto ci siamo sentiti tristi, spaventati, imbarazzati…) può indurre stati di stress emotivo, specialmente quando non si riesce più a smettere di ripensarci e il ricordo si traduce in ruminazione (Nolen-Hoeksema et al., 2008). Effettivamente, un’eccessiva focalizzazione sul ricordo delle emozioni sperimentate durante un evento di vita stressante, è associata a un maggior rischio d’insorgenza di disturbi psichiatrici, quali la depressione maggiore, o il disturbo post-traumatico da stress (Brewin et al., 1999; Rubin et al., 2008), entrambi caratterizzati da deficit nella Regolazione Emotiva. Quest’ultima può essere definita come la capacità individuale di regolare le proprie emozioni, sia positive che negative, attenuandole, intensificandole o semplicemente mantenendole (Gross, 2008). Il concetto di Regolazione Emotiva ha stimolato molte ricerche, poiché si ritiene che una buona capacità di adattarsi a eventi emozionalmente intensi abbia importanti ricadute, sia sulla salute fisica sia sulla salute mentale. Lo studio della Regolazione Emotiva è inoltre mirato al perfezionamento dei trattamenti psicoterapeutici dei disturbi affettivi (Gross, ibidem).

Un team di ricercatori afferenti all’università dell’Alberta e al Beckman Institute dell’Università dell’Illinois ha indagato i meccanismi neurali e comportamentali che avvengono durante il recupero di eventi autobiografici: secondo gli Autori (Denkova, Dolcos & Dolcos, 2014) l’impatto emotivo causato dal ricordo di un evento del passato può essere ridotto spostando l’attenzione sugli elementi contestuali del ricordo (una persona presente nella scena, il tempo atmosferico, o qualsiasi altro dettaglio non emotivo). Una volta che l’attenzione sarà rivolta su altri dettagli dell’evento, e continuerà a vagare su di essi, la concentrazione sul contenuto emozionale negativo sarà ridotta.

Questa semplice strategia sembrerebbe configurarsi come un’alternativa promettente ad altre strategie di regolazione emotiva, come la soppressione o il reappraisal.

La soppressione emotiva può essere metaforicamente immaginata come “imbottigliare un’emozione”, tentare di inscatolarla e metterla da parte: questa strategia, secondo gli Autori, può essere vantaggiosa nel breve termine, ma a lungo rischia di accrescere stati di ansia o depressione, configurandosi come una forma di evitamento. Il reappraisal consiste invece nel cercare una chiave di lettura alternativa agli eventi, cercando ad esempio di “vedere il bicchiere come mezzo pieno”, e non come mezzo vuoto.

Tuttavia il reappraisal, per quanto efficace, sembra essere una strategia molto più faticosa e richiede maggiori risorse cognitive rispetto alla focalizzazione sugli elementi contestuali.

Quest’ultima sembra non solo essere efficace nel breve-termine, ma potrebbe avere la capacità di ridurre il carico emozionale negativo qualora fosse ripetutamente esercitata; inoltre, la strategia potrebbe essere altrettanto efficace se impiegata con l’obiettivo di incrementare l’impatto positivo di ricordi piacevoli e gratificanti.

Allo studio di Denkova e coll. (2014) hanno partecipato 18 soggetti, ai quali è stato inizialmente richiesto di individuare e condividere un certo numero di ricordi, caratterizzati da una forte valenza emotiva, sia in negativo sia in positivo. Trascorse alcune settimane, i soggetti sono stati ricontattati e sottoposti a un esame di fRMI (Risonanza Magnetica Funzionale). Durante l’esame gli sperimentatori hanno chiesto ai soggetti di focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche emotive o contestuali del ricordo, per poi stimolare la rievocazione di ricordi mediante la proposizione di diversi indizi. Ad esempio, se l’indizio consisteva nel richiamare il ricordo del funerale di un caro amico, il contenuto emotivo poteva riguardare sentimenti di pena, afflizione, mentre il contenuto contestuale poteva riguardare l’abito che si era indossato, le persone presenti, o altro.

I risultati prodotti dalle scansioni fRMI indicano che la focalizzazione sul contesto è associata a un’attivazione della corteccia prefrontale ventro-mediale (un’area cerebrale che influisce sulla Regolazione Emotiva), e parallelamente a una riduzione nell’attività dell’amigdala (un’area cerebrale responsabile dell’attivazione emozionale).

Gli Autori ipotizzano infine la messa a punto di nuove ricerche su questa strategia, che potrebbero riguardare una valutazione dell’efficacia in uno studio longitudinale, valutandone l’efficacia in un orizzonte temporale di medio – lungo termine, nonché all’applicazione su popolazioni cliniche, quali soggetti con disturbi d’ansia o di depressione, valutandone le ricadute sulla sintomatologia emotiva.

 

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