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La diagnosi nei Disturbi Dissociativi – Intervista a Suzette Boon

Intervista a Suzette Boon: diagnosi nei Disturbi Dissociativi e trattamento del Trauma - Reportage dal Congresso Nuove Frontiere sulla cura del trauma

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 09 Giu. 2014

Aggiornato il 22 Ott. 2021 12:10

Reportage dal Congresso: NUOVE FRONTIERE NELLA CURA DEL TRAUMA
Venezia 30 Maggio-2 Giugno 2014

 

 

I Disturbi Dissociativi: cosa li rende difficili da diagnosticare?

Innanzitutto, spiega la Dott.ssa Boon, la mancanza di consenso su cosa sono i sintomi dissociativi, poi le differenze nei sistemi di classificazione (ICD-10 and DSM 5) e l’ampia comorbilità dei sintomi e delle sindromi trauma-correlate.

Inoltre in molte parti del mondo i sintomi Schneideriani (in particolare quelli legati ad allucinazioni uditive) sono principalmente associati a schizofrenia e le differenze di opinione sull’incidenza e sulla prevalenza dei disturbi dissociativi complessi, in particolare il disturbo dissociativo dell’identità, non aiutano a definire meglio tale diagnosi.

Un ultimo aspetto legato alla clinica, ma che incide molto sulla possibilità di diagnosticare bene questi disturbi, è il fatto che i pazienti non portano sintomi dissociativi in consultazione, ma sintomi comuni anche ad altre categorie dagnostiche, quali disturbi d’ansia, insonnia, abuso di sostanze, disturbi alimentari.

Il problema di base è tuttavia costituito dalla presenza di diversi orientamenti teorici nella comprensione dei disturbi dissociativi, poiché da qui si sono determinati i diversi modi di osservare gli stessi sintomi: da un lato ci sono i teorici del continuum, secondo i quali l’esperienza dissociativa va da una sensazione normale di straniamento, per poi passare da sintomi di assorbimento emotivo, derealizzazione e depersonalizzazione, fino ad arrivare ad una sintomatologia più grave e invalidante come il disturbo dissociativo dell’identità (Bernstein, Putnam 1986).

Dall’altro lato ci sono i teorici della dissociazione strutturale, che sottolineano invece la presenza di differenze qualitative tra i diversi tipi di esperienze dissociative e di caratteristiche tra loro non sovrapponibili. Secondo questi ultimi i sintomi legati ad un restringimento temporaneo della coscienza, quali l’assorbimento, il sognare ad occhi aperti, stati leggeri di trance, difficoltà di concentrazione, possono essere sintomi riferiti sia da pazienti dissociativi che da pazienti affetti da altri disturbi psichiatrici, così come dalla popolazione generale, ma non necessariamente indicare la presenza di un disturbo dissociativo.

I teorici della dissociazione strutturale (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) segnalano che queste esperienze non sono sempre il segno di un fallimento integrativo delle funzioni mentali, mentre nei disturbi dissociativi veri e propri c’è sempre invece una divisione del sé, con diversi modi di vedere se stessi e il mondo, diversi sentimenti e comportamenti.

I tre livelli di dissociazione strutturale secondo Van der Hart e colleghi (2000) sono: dissociazione primaria, caratterizzata dalla presenza di una personalità prevalente capace di portare avanti la vita quotidiana (ANP), mantenendo insieme i ruoli principali per la persona (es: madre, moglie, lavoratrice, figlia, amica…), e una sola parte emotiva (EP), che conserva nella forma primordiale la reazione emotiva legate al trauma, rimettendola in atto solo quando una situazione trigger lo rende necessario. Sono dissociazione primaria il PTSD Semplice, l’Amnesia Dissociativa, i Disturbi Somatoformi Semplici (Conversione).

 

Il secondo livello è la dissociazione secondaria, in cui è presente una sola personalità principale (ANP), ma diverse parti emotive (EP) ognuna delle quali conserva una diversa modalità difensiva (attacco, fuga, freezing, morte apparente) legata al trauma, e comporta invece il verificarsi di reazioni emotive e comportamentali diverse e talora contrastanti di fronte a situazioni percepite come pericolose. Sono dissociazione secondaria il PTSD Cronico, il PTSD complesso, Disturbo da stress estremo (DESNOS) e Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato (DDNAS).

Infine la dissociazione strutturale terziaria è caratterizzata dalla presenza di due o più personalità che agiscono e si muovono nella vita quotidiana (ANP), non consapevoli l’una dell’altra, e più EP che reagiscono istintivamente alle situazioni trigger, interne o esterne, ognuna mettendo in atto una modalità difensiva diversa. Questo livello corrisponde alla forma più grave, il Disturbo dissociativo dell’identità (DDI). In tutti e tre i livelli tra le ANP e le EP c’è una barriera di amnesia, un’impossibilità cioè per la ANP di riconoscere le diverse parti emotive come proprie e una impossibilità delle parti emotive di accedere alla vita quotidiana.

La presenza di amnesia e, più in generale, il funzionamento della memoria sono dunque i primi e più importanti aspetti sintomatici da approfondire per poter diagnosticare un disturbo dissociativo, che sia collocabile in uno dei tre livelli descritti.

La Dott.ssa Boon prosegue poi con una dettagliatissima rassegna di sintomi e categorie diagnostiche, aiutandoci a differenziare tra disturbi dissociativi e disturbi psicotici, bipolari, di personalità, sottolineando soprattutto la differenza qualitativa delle esperienze riportate dai pazienti nei confronti dei loro stessi sintomi.

Le principali scale utilizzate per lo screening dei disturbi dissociativi, anche se purtroppo non tutte tradotte in italiano, sono la DES (scala delle esperienze dissociative, Bernstein, Putnam;1986), la DIS-Q (questionario sulla dissociazione, Vanderlinden 1993), la SDQ-20 (questionario sulla dissociazione somatoforme, Nijenhuis et all, 1996) e la MID (repertorio multidimensionale della dissociazione, Dell. 2002, 2006).

Mentre le scale specifiche e più validate per la diagnosi di DD sono DDIS (Dissociative Disorders Interview Schedule, Ross, 1989, Ross et all, 1989), la SCID-D (Structured Clinical Interview for DSM-IV Dissociative Disorders, Steinberg, 1995, 2000) e la TADS-Q (Trauma and Dissociation Symptoms Questionaire, 2013; Boon, Mathess & Draijer, 2006).

In attesa che tutte le scale e le preziose interview dei colleghi olandesi vengano tradotte, due consigli utili e caldamente raccomandati per fare buone diagnosi: 1- considerare e verificare sempre la presenza l’intero cluster di sintomi dissociativi, e non solo di alcuni, e 2- chiedere sempre la descrizione di esempi, di episodi specifici, che possano spiegare meglio appunto la qualità delle esperienze descritte, variabile determinante per differenziare i disturbi dissociativi da tutti gli altri e soprattutto per non cadere nella trappola della iper o ipo-inclusione diagnostica!

 

Intervista con Suzette Boon

Suzette Boon - La diagnosi nei disturbi Dissociativi
Suzette Boon, Psicologa e Psicoterapetua

SoM – La prima cosa che vorrei chiederle, in relazione al suo importante intervento sulla diagnosi è: quali sono i principali rischi legati ad uno scorretto processo diagnostico nella sua esperienza clinica con pazienti dissociativi?
SB – Il primo rischio è che se non si fa una intervista diagnostica completa o se si sbaglia la diagnosi, le persone che vengono in consultazione e che presentano sintomi diversi da quelli dissociativi come ad esempio disturbi alimentari,  depressione, attacchi di panico, verranno trattate per i sintomi che presentano. Tuttavia se il disturbo dissociativo sottostante non viene colto e compreso, il trattamento difficilmente sarà efficace. Potrà esserci una remissione dei sintomi, ma poi il problema salterà fuori in qualche altra forma o talora con gli stessi sintomi. Il motivo è che se la depressione o i disturbi alimentari o l’insonnia sono correlati alla struttura dissociativa del paziente e alla sua storia traumatica e non si lavora su questo, non si lavora sul vero problema. Il secondo rischio è che se non si fa un buon assessment sul disturbo dissociativo complesso e non c’è una buona comprensione del funzionamento delle parti dissociative, ma emergono traumi nella storia del paziente, iniziare da subito a lavorare su questi – ad esempio con la tecnica dell’EMDR – può essere molto rischioso e portare il paziente a spostarsi da un ricordo traumatico all’altro, con un carico emotivo molto intenso, e a scompensarsi. Un altro rischio è quello della iper-inclusione diagnostica, per cui sia terapeuti che pazienti “cercano” questa diagnosi perché negli ultimi anni si sta parlando molto di questo, ma questo è forse un rischio che attualmente corriamo più noi in Olanda che voi in Italia.

SoM – In Olanda sono nati negli ultimi 10 anni molti Trauma Center specializzati su queste problematiche e in grado di occuparsi di questi pazienti nel lungo periodo. Come avete iniziato?

SB – In Olanda il trattamento del trauma è al centro dell’attenzione dei clinici da moltissimi anni, è iniziata 10 anni dopo la seconda guerra mondiale perché i clinici hanno iniziato ad accorgersi di sintomi trauma-correlati nelle vittime dell’olocausto. Dunque c’è una lunga tradizione nel riconoscimento e trattamento del trauma e inizialmente del PTSD semplice. Poi dalla fine degli anni ’80, io e Onno van der Hart abbiamo iniziato a scrivere di disturbi dissociativi, a formare molte persone e c’è stato un momento storico in cui in tutta l’Olanda c’erano persone interessate a questo tema. E’ cresciuto così il numero di colleghi che iniziavano a trattare pazienti in modo specialistico su questi problemi, sia in fase di ricovero che in ambulatorio, ma erano sparsi sul territorio e non coordinati tra loro. Poi circa 8 anni fa, c’è stata un’iniziativa per creare Trauma Center specializzati nel trattamento dei disturbi cronici correlati al trauma e così 7 grandi servizi di salute mentale, in cui c’erano persone e clinici già coinvolti attivamente nel “mondo del trauma”, come me ed altri, hanno avuto il permesso dalle istituzioni nazionali di avviare un dipartimento di salute mentale specializzato nella cura di pazienti con ricordi traumatici. Questo è quello che è successo.

SoM – Attualmente che servizi avete strutturato?

Sin dall’inizio e anche ora i trattamenti che offriamo sono per pazienti ambulatoriali, perché crediamo che la maggior parte dei trattamenti dovrebbero essere così e non in condizioni di ricovero prolungato. Questi pazienti spesso hanno disturbi di personalità oltre che un disturbo dissociativo complesso e ricoveri lunghi tendono a farli peggiorare e regredire, a sviluppare problemi di dipendenza eccessiva dagli altri e dal servizio, anche per bisogni che sarebbero in grado di soddisfare da soli. Ci avvaliamo della rete ospedaliera pubblica e dei servizi psichiatrici solo nei momenti di crisi acuta e solo se strettamente necessario. Abbiamo un contratto con questi servizi psichiatrici, un accordo di collaborazione, in cui è specificata la presa in carico ambulatoriale dei pazienti presso i nostri trauma center, ma che ci potrebbe essere bisogno di cure più intensive presso le loro strutture per periodi di crisi. Attualmente abbiamo 7 Trauma Center per adulti, per la presa in carico di pazienti che vanno dal PTSD complesso ai disturbi dissociativi complessi.

SoM – Quali step di cura sono previsti all’interno dei centri?

SB – Il primo step è la fase di assessment, che è molto intensa può prendere anche molti incontri poiché vengono indagati i problemi riferiti, la storia clinica, la presenza di eventi e situazioni traumatiche nel passato o nel presente; vengono poi somministrate le interviste strutturate per diagnosticare la presenza di disturbi dissociativi e, se il quadro clinico non è ancora chiaro, vengono somministrate interviste strutturate per PTSD e poi per PTSD complesso. Questi approfondimenti possono risultare moto difficili e stressanti per i pazienti, perciò in questa fase è prevista anche la possibilità di una valutazione psichiatrica per un supporto farmacologico. Il processo diagnostico può durare molto tempo e i pazienti si avvalgono nel frattempo del supporto della rete dei servizi di salute mentale “generali”, ma alla fine del processo i pazienti vengono inseriti in programmi di cura altamente specializzati.  Ci sono percorsi differenziati per pazienti con diagnosi di PTSD complesso o con diagnosi di disturbo dissociativo complesso: quella che chiamiamo Fase I di trattamento è la stessa per tutti e prevede l’inserimento in un percorso di gruppo intensivo settimanale focalizzato sulla psicoeducazione e sulla stabilizzazione dei sintomi; i pazienti con diagnosi di disturbo dissociativo complesso seguono in questa fase anche un gruppo specifico sulla comprensione del disturbo dissociativo basato sul libro che abbiamo appena scritto. Chi non vuole partecipare al gruppo terapeutico o non può perché ha, ad esempio, la tendenza a regredire o a peggiorare in gruppo, ovviamente non è obbligato a farlo e viene comunque seguito in psicoterapia individuale. I pazienti con disturbi dissociativi complessi o con disturbo dissociativo dell’identità (DDI) possono restare in questa fase fino 5 anni, mentre i pazienti con PTSD complesso in genere riescono a stabilizzare i sintomi in 3 anni circa. La Fase II è orientata al trattamento specifico dei ricordi traumatici, qui tutti i pazienti lavorano individualmente e in alcuni casi in gruppo con terapie espressive di diverso tipo, e infine la Fase III prevede la fine della terapia e gestione dei sintomi residui nella vita quotidiana. In quest’ultima fase di solito c’è una buona integrazione dei ricordi traumatici nella storia di vita della persona e una migliore integrazione delle parti del sé dissociate a causa delle esperienze di traumatizzazione. Per i pazienti con DDI complesso il percorso complessivo può durare circa 10 anni, con 5 anni in Fase I, altri 3-4 in Fase II  e altri 1-2 anni in Fase III, per potersi reinserire nella vita quotidiana senza il supporto settimanale del terapeuta. Per ora i pazienti in Olanda non pagano per questi trattamenti, è il sistema assicurativo che copre direttamente le spese e che paga i terapeuti e gli operatori che lavorano nei Trauma Center.

SoM – Quanti operatori sono coinvolti nel team di un Trauma Center?

SB – Si tratta di una presa in carico che comporta il lavoro di molte figure professionali, tutte necessarie per la buona riuscita del percorso. Non prenderei in carico da sola pazienti così dissociativi, se non nell’ultima fase di trattamento e nonostante il nostro team sia di circa 16 operatori, tra psicologi psicoterapeuti psichiatri e infermieri, avremmo bisogno di inserire sempre più persone nell’organico per riuscire a lavorare con meno pressione e senza le lunghe liste d’attesa che purtroppo ora ci sono, a volte fino a 5-6 mesi di attesa dopo la fine del processo diagnostico.  
L’unico svantaggio di un servizio così specializzato è che i servizi territoriali inviano molto e non prendono più in carico questi pazienti e al momento, nonostante qui l’organizzazione dei trauma center sia più avviata che in Italia, stiamo vivendo un periodo di forte pressione e di tagli alla spesa sanitaria, che rallenta i nostri tempi di presa in carico e di trattamento. Spero che in futuro avremo più risorse e potremo lavorare ancora meglio e su vasta scala, per garantire a tutto il territorio olandese la presenza di Trauma Center specializzati e di elevata qualità nelle cure offerte.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I Disturbi dissociativi della coscienza (2013) di Giuseppe Miti –  Psicologia

Intervista a Giovanni Tagliavini – Nuove Frontiere nella cura del Trauma 2014

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bernstein, E. M., Putnam F. W. (1986). Development, reliability, and validity of a dissociation scale. Journal of Nervous and Mental Disease, 174(12), pp. 727-735.
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Cortina, 2011. ACQUISTA ONLINE
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