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Altruismo contaminato: quando fare del bene è peggio che non fare nessun bene

Una buona azione non conta se se chi la compie ne trae un qualche beneficio, e può addirittura danneggiare l'immagine sociale di chi la compie

Di Serena Mancioppi

Pubblicato il 28 Mag. 2014

Aggiornato il 12 Gen. 2024 14:25

L’altruismo contaminato

Una buona azione non conta se chi la compie ne trae un qualche beneficio, in questi casi si parla di altruismo contaminato. In questi casi non solo l’azione altruistica non viene apprezzata e valorizzata, ma può addirittura danneggiare l’immagine sociale di chi la compie.

Il caso di Daniel Pallotta

I ricercatori Newman e Cain della Yale University citano il caso di Daniel Pallotta, ex capo di una società che ha raccolto fondi per la ricerca sull’AIDS e altre cause e, nel corso nove anni, ha generato 305 milioni dollari in donazioni.

Pallotta, come capo della compagnia, ha guadagnato $ 400.000 all’anno. Questo dato non era molto conosciuto, ma una volta che è stato reso pubblico, Pallotta è stato colpito con una tempesta di critiche e la sua compagnia ha cessato l’attività: i ricavi provenienti dalle raccolte fondi sono crollati da 71 milioni di dollari ad appena 11 milioni di dollari.

Quattro esperimenti sull’altruismo contaminato

Per verificare quanto sia reale il fenomeno dell’altruismo contaminato e come potrebbe essere corretto, Newman e Cain hanno ideato quattro esperimenti.

1 – Volontariato e altruismo: tutte le motivazioni sono valide?

Nel primo, ai partecipanti sono stati mostrati due scenari in cui un uomo, sperando di impressionare una donna, si offriva di fare volontariato nel suo posto di lavoro: in una versione lei lavorava presso un bar, nell’altra in un ricovero per senzatetto.

Alcuni dei partecipanti leggono una versione, alcuni l’altra e altri ancora entrambe. Tutti hanno poi valutato, su una scala da 1 a 9 , quanto gli piacesse l’uomo e quanto pensavano fosse etico o morale il suo comportamento. Ai partecipanti veniva anche chiesto quanto le azioni dell’uomo portassero un beneficio alla società.

Sorprendentemente, nello scenario del rifugio l’uomo è stato valutato come meno morale (4.75 su 9.00) che nello scenario coffee shop (5,62).

Solo il gruppo che aveva letto entrambi gli scenari, e quindi ha avuto la possibilità di confrontare i tipi di bene che venivano fatti, ha avuto una visione più equilibrata delle cose: in questo caso l’uomo veniva visto come ugualmente morale in entrambi i casi e raggiungeva un punteggio più alto (6,46) nello scenario rifugio per senzatetto rispetto alla caffetteria (4.67).

È come se i partecipanti, sostengono Newman e Cain, avessero valutato l’inconsistenza del fare solo un po’ di bene come peggiore del non fare del bene per niente.

2 – Beneficienza: meglio un ricavo alto o un cachet basso?

Nel secondo esperimento, i soggetti si sono confrontati con quello che era essenzialmente il dilemma Pallotta. Alcuni sono stati invitati a scegliere tra due raccolte di fondi per gestire un evento di beneficenza (forfettaria vs a percentuale):

  • nella prima (forfettaria) colui che ha raccolto un milione dollari di donazioni è stato pagato $ 10.000. Il ricavato della beneficenza è dunque $ 990.000 (1.000.000 – 10.000); 
  • nella seconda (a percentuale) Daniel P., che ha raccolto $ 1,1 milioni e è stato pagato il 5% del ricavato, in questo caso 55 mila dollari, cioè più donazioni ma anche più ricavo personale. Il ricavato della beneficenza è dunque $ 1.045.000 (1.100.000 – 55.000) 

In entrambi i casi, i soggetti hanno scelto la raccolta fondi forfettaria e non Daniel P., anche se questo significava meno soldi per la loro causa.

3 e 4 – Immagine pubblica e beneficienza

L’interesse personale contamina non solo le valutazioni degli sforzi prosociali altrui, scrivono gli autori, ma guida anche le decisioni delle persone prendono per loro stesse.

Nel terzo e quarto esperimento i soggetti si confrontavano con due situazioni in cui un imprenditore, per migliorare la sua immagine pubblica e aumentare le vendite: a) donava milioni di dollari in beneficenza oppure b) spendeva la stessa quantità in pubblicità.

Uno di questi scenari era puramente ipotetico , l’altro era vero: la campagna RED di Gap in cui l’azienda ha donato il 50 % dei suoi profitti in beneficienza per l’AIDS e la malaria.

In entrambi i casi, uno scenario di beneficenza è stato visto come meno morale di uno scenario di pubblicità.

Tuttavia, a un terzo gruppo di soggetti in entrambi gli esperimenti è stato offerto ciò che i ricercatori hanno chiamato un dato controfattuale: al gruppo “scenario di beneficenza” è stato ricordato che l’imprenditore ha avuto la possibilità di scegliere se promuovere sé stesso con la pubblicità o con la beneficienza.

In questo caso il punteggio moralità è lievitato, come se i partecipanti si fossero ricordati, finalmente, che un po’ di beneficienza è meglio che niente.

Perché non apprezziamo l’altruismo quando contaminato?

Secondo i ricercatori, le persone apprezzano chi fa gesti altruistici perché questi vengono percepiti come predittivi di futuro altruismo: ci piace sperare che un donatore che ha dato oggi darà di nuovo. Tuttavia desideriamo che tali atti di altruismo siano puri… e, dai risultati dei loro studi, è chiaro che lo desideriamo a qualunque costo!

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Serena Mancioppi
Serena Mancioppi

Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Cognitivo-Evoluzionista

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