Gentlecare: un nuovo modello di assistenza nella cura della Demenza
Morena Peggi
Nella cura della persona affetta da Demenza, accanto ai servizi basati sul modello Biomedico, si stanno affacciando, con sempre maggiore insistenza, servizi del tutto alternativi basati su modelli bio-psico-sociali di cura alla persona come l’approccio Gentlecare.
La Demenza è la più comune causa di perdita di memoria che conduce ad una progressiva disgregazione delle capacità cognitive (quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, l’attenzione, il pensiero) tali da pregiudicare la possibilità di una vita autonoma con conseguente perdita della propria identità personale e sociale.
La demenza è considerata una sindrome, ossia un insieme di sintomi, che può essere provocata da un lungo elenco di malattie, alcune molto frequenti, altre invece più rare.
Erroneamente a quanto si pensa, avere una diagnosi di Demenza non necessariamente significa avere la malattia di Alzheimer. In effetti, la demenza fa riferimento a più di 100 forme diverse le cui cause possono essere riconducibili a carenza di vitamina B12, iporitoidismo, utilizzo eccessivo di droghe, infezioni, deficit nella vista e nell’udito, inadeguata ossigenazione del cervello riconducibili a problematiche cardiache, anemia, fibrillazione atriale, Sindrome delle apnee ostruttuve del sonno ecc.
Tra queste forme la più comune risulta essere la malattia di Alzheimer che, a sua volta, può essere suddivisa in due forme; a esordio precoce (si manifesta tra i 45-60 anni) e a esordio tardivo (si manifesta dopo i 60 anni).
La Demenza non è solo malattia dell’individuo ma anche malattia della collettività in quanto la famiglia, il personale assistenziale nelle strutture, il Comune, le ASL sono parti in causa nella gestione della patologia e si trovano a fronteggiare un problema complesso di cura, di relazione, di adattamento psicologico e comportamentale.
Negli ultimi anni si è passati da un modello biomedico di approccio alla malattia incentrata sul mal funzionamento a livello bio-molecolare ad un modello bio-psico-sociale. Un modello del tutto rivoluzionario che tiene conto di fattori biologici, psicologici e sociali nel valutare lo stato di salute.
Così, anche nei servizi per la cura degli anziani (Case di Cura, Centri diurni, Residenze, Servizi domiciliari, Reparti di Lungodegenza negli Ospedali ecc) le offerte sono diversificate.
Accanto ai servizi basati sul modello biomedico incentrati sui sintomi della malattia e della cura, dove gli interventi primari sono costituiti da strategie invasive, dove il personale è incoraggiato a rimanere emozionalmente neutro, dove il corpo e la mente vengono considerate entità distinte, dove gli ambienti sono di carattere istituzionale, dove viene incoraggiata nel paziente la dipendenza e l’aderenza al trattamento medico, dove il lavoro viene ripartito secondo settori professionali e dove l’accento viene posto sull’efficienza, si stanno facendo strada nuovi programmi basati su modelli del tutto alternativi che utilizzano nuovi approcci teorici; è il caso del modello Gentlecare di Moyra Jones.
Gentlecare fornisce un modello di assistenza definita dalla stessa autrice protesica in cui le tre componenti – persone, programmi e spazio fisico – lavorano in armonia per produrre un sostegno, o protesi, per la persona affetta da demenza.
Tale modello è orientato nel preparare il personale assistenziale e i caregiver familiari alla cura della persona affetta da demenza primaria progressiva. Il sistema è applicabile nelle strutture di assistenza per acuti, nelle strutture di lungodegenza e nei programmi dei centri diurni; cambia il modo in cui i caregiver familiari.
Gentlecare promuove un orientamento che, piuttosto che concentrarsi sul comportamento della persona colpita, incoraggia un adattamento dell’ambiente fisico e sociale in cui la persona deve operare. Ciò comporta un cambiamento significativo del modo in cui pensiamo e agiamo nell’assistenza alla persona affetta da demenza.
Si aiutano le famiglie e il personale di assistenza a identificare e rimuovere i fattori di stress dell’ambiente che circonda la persona affetta da demenza. Sono incoraggiati a fornire strategie e programmi efficaci, che aiuteranno l’individuo a vivere più confortevolmente nel proprio ambiente.
Gentlecare crea un ambiente armonico tra persone dementi e costituito da:
– lo spazio fisico
– le loro attività quotidiane
– le persone significative con le quali interagiscono
Le componenti dell’assistenza protesica- persone,programmi e spazio fisico- non sono aggiunte costose a programmi esistenti; fanno parte dei servizi sanitari di base esistenti. Gentlecare organizza semplicemente queste componenti in modo differente, affinchè possano sostenere, piuttosto che sfidare, le persone con danno cerebrale.
Com’è cambiata la nostra vita con lo sviluppo dei Social Network?
RECENSIONE DE: La solitudine del social Networker (2014)
L’evoluzione tecnologica ha cambiato le dinamiche delle nostre vite, comprese quelle delle nostre relazioni sociali e affettive facendoci vivere realtà virtuali e parallele che hanno invaso e sono ormai indistinguibili da quelle reali e che ci portano a rappresentarci in modalità idealizzate e poco coerenti con quello che realmente siamo.
Un libro dai contenuti molto attuali, che ben descrive l’influenza della tecnologia sulla persona. Il testo è scorrevole ed ordinato, ricco di riferimenti alla letteratura scientifica e ai testi classici.
La solitudine ai tempi di internet, come fenomeno sociale contemporaneo che riguarda ogni fascia d’età, è ormai indagata da scienziati, sociologi e psicologi con approcci e metodologie sempre più innovative.
Il bisogno di solitudine è una caratteristica fondamentale e imprescindibile del benessere personale individuale e lo è ancor più oggi, in un mondo tecnologico fatto di connessioni globali e di relazioni virtuali. E’ un bisogno utile a riflettere su se stessi, a sperimentare l’intimità e a vivere esperienze affettive profonde. il saper stare con se stessi aiuta a stare con gli altri e favorisce la conoscenza e la relazione.
Grazie alle nuove tecnologie sono aumentate le opportunità di comunicare e relazione sociale, di conoscenza, di informazione e di partecipazione. Al tempo stesso è aumentato il rischio di appiattimento, omologazione, frammentazione e di individualismo. Alla base delle motivazioni a frequentare i social c’è un forte bisogno di autorganizzazione e protagonismo, alla ricerca di stati armonici nei quali poter dar sfogo alle proprie capacità creative, passioni e abilità.
[blockquote style=”1″]Per affrontare il malessere determinato da cause oggettive esterne come la crisi economica, l’inaffidabilità della politica e la precarietà del lavoro, e da cause interne come il bisogno di comunità ci siamo rivolti alla tecnologia come un malato fa con una medicina. [/blockquote]
Studi recenti hanno mostrato l’esistenza di nuove dipendenze da eccessiva vita digitale online. Dipendenze che non prevedono l’uso di sostanza ma che si traducono in malesseri fisici e psicologici come depressione, ansia, tremori e nausee. Molti di questi effetti nascono dall’uso che del media viene fatto, spesso come meta di fuga emotiva e rifugio mentale.
L’evoluzione tecnologica ha cambiato le dinamiche delle nostre vite, comprese quelle delle nostre relazioni sociali e affettive facendoci vivere realtà virtuali e parallele che hanno invaso e sono ormai indistinguibili da quelle reali e che ci portano a rappresentarci in modalità idealizzate e poco coerenti con quello che realmente siamo.
Gli scienziati descrivono il bizzarro fenomeno della sinestesia come l’”unione dei sensi” in cui due o più dei cinque sensi che sono normalmente esperiti e percepiti in modo distinto e separato sono involontariamente e automaticamente combinati in combinazioni bizzarre.
I ricercatori Ramachandran e Seckel della University San Diego in California hanno analizzato quattro individui “sinestetici” che erano soliti esperire dei colori nel momento in cui vedevano lettere scritte dell’alfabeto in bianco e nero. Primariamente l’obiettivo dei ricercatori era comprendere il quale momento dell’esperienza percettiva effettivamente comparivano i colori nella mente dei soggetti.
Uno specifico task sperimentale chiedeva ai partecipanti – sia ai “sinestetici” che a un piccolo gruppo di controllo – di completare tre puzzle in cui vi erano alcune parole stampate al contrario e che non erano immediatamente visibili.
I ricercatori hanno scoperto che gli individui sinestetici erano in grado di finire i puzzle con una velocità di tre volte maggiore e con minori errori rispetto ai soggetti di controllo, dichiarando di avere identificato anche le lettere nascoste avendole visualizzate con dei colori specifici, e dunque agevolandoli nel compito rispetto ai soggetti di controllo.
Il case study pubblicato sul numero attuale di Neurocase, supporta l’interpretazione secondo cui i colori nell’esperienza sinestetica siano processati preconsciamente e in stadi molto precoci dell’esperienza sensoriale: durante il completamento dei puzzle l’informazione sinestetica aggiuntiva nel visualizzare le lettere è stata inviata a più elevati livelli di elaborazione sensoriale, fornendo un ulteriore e aggiuntivo insight per identificare le parole nascoste e distorte.
Chiaramente studi con campioni più estesi sono raccomandabili per approfondire al meglio le caratteristiche delle esperienze di sinestesia.
Etnopsicoanalisi complementarista di George Devereux – Recensione
Un libro fondamentale per gli esperti di etnopsichiatria, ma anche affascinante per la logica e il rigore delle argomentazioni esposte.
Un testo altresì difficile e denso, fortemente stimolante e di indubbia attualità nella società multietnica contemporanea in cui il concetto di decentramento dal proprio punto di vista e di costellazione di visioni complementari e non gerarchicamente organizzate non può che essere oltre che di grande interesse anche di auspicio.
Nella collana “Scienze e Salute” di Franco Angeli Editore esce, a 40 anni dalla prima pubblicazione, una riedizione di un’ interessante e complessa raccolta di saggi ed articoli di George Devereux curata dallo psichiatra ed etnopsichiatra Alfredo Ancora dell’Università di Siena che ha conosciuto personalmente Devereux e ha potuto arricchire questo libro di commenti e osservazioni, non solo sui contenuti, ma anche sull’autore stesso.
Un aspetto affascinante di questa edizione, dotata di un’interessantissima introduzione, risiede proprio nella lettura dei testi collocati in un contesto di appartenenza che li arricchisce di elementi inerenti l’autore, come uomo storico e studioso eclettico, ed il suo tempo e l’ambiente ricchissimo di contatti e influenze, stimoli e contaminazioni che l’hanno accompagnato nello sviluppo del suo pensiero.
Nato in Ungheria, Devereux ha cambiato nome e nazionalità in un periodo storico ed in un assetto politico di grande trasformazione. Inoltre psicanalista non medico, grecista ed etnologo aveva studiato anche fisica con Bohr e chimica con Marie Curie, arrivando ad utilizzare schemi di ragionamento e persino teoremi mutuati dalle scienze matematiche applicandoli alla psicanalisi ed allo studio dell’uomo.
I testi sono quindi intessuti di riflessioni e analisi ottenute con l’ausilio e l’arricchimento di spunti provenienti dal ricchissimo patrimonio culturale e di saperi dell’autore.
Devereux cercò di sviluppare i rapporti tra psicoanalisi ed etnopsicanalisi sostenendo con forza il concetto di complementarietà in contrapposizione ad una visione dicotomica.
L’etnopsichiatria complementarista ha come obiettivo la formulazione di ipotesi su un dato fenomeno secondo prospettive esterne ( la cultura e la società di appartenenza) e interne (il soggetto) in cui la società e l’individuo sono due approcci di studio della realtà che offrono due prospettive con cui costruire dei quadri di riferimento esplicativi autonomi e validi.
Da un approfondimento sul nucleo centrale del concetto di etnopsicoanalisi complementarista l’autore esplora poi concetti di cultura e personalità, aspetti clinici e aspetti etnici, ma sempre con ragionamenti lucidi e rigore scientifico. “Il complementarismo non è una teoria ma una generalizzazione metodologica. Il complementarismo non esclude nessun metodo e nessuna teoria valida, le coordina. Tali teorie sono complementari e non opposte, attingendo dalla nozione di complementarietà del fisico danese Bohr applicato all’osservazione dei quanti e riproposto circa la complementarietà dell’approccio psicologico (l’osservatore interno al soggetto) e quello sociologico (l’osservatore esterno al soggetto).
Insomma partendo dal principio di indeterminazione di Heisenberg per cui il comportamento che un essere umano manifesta in presenza di un osservatore non è quello che avrebbe manifestato in assenza di un osservatore, Devereux costruisce la cornice di lettura per cui un fatto di per sé non appartiene ad alcuna scienza ma lo stesso fatto può essere descritto da diversi punti di vista non esprimibili simultaneamente, entrambi validi ma complementari.
In particolare interessante e stimolante la visione decentrante in cui la psicoanalisi viene interpretata come una serie di conclusioni socio-psicologiche derivanti dallo studio intensivo della classe media viennese prima della prima guerra mondiale e Freud viene visto come uno psico-sociologo particolarmente meticoloso nello studio degli indigeni di Vienna!
Questo libro presenta dieci saggi più un saggio introduttivo sull’argomento generale che spaziano dalla lettura delle patologie psichiche nelle società tradizionali fino ai segreti degli sciamani degli indiani Mohave esponendo quelli che lo stesso Devereux definisce come i grandi assi della teoria e del metodo complementarista. Un libro fondamentale quindi per gli esperti di etnopsichiatria, ma anche affascinante per la logica e il rigore delle argomentazioni esposte. Un testo altresì difficile e denso, fortemente stimolante e di indubbia attualità nella società multietnica contemporanea in cui il concetto di decentramento del proprio punto di vista e di costellazione di visioni complementari e non gerarchicamente organizzate non può che essere oltre che di grande interesse anche di auspicio.
Innanzitutto, spiega la Dott.ssa Boon, la mancanza di consenso su cosa sono i sintomi dissociativi, poi le differenze nei sistemi di classificazione (ICD-10 and DSM 5) e l’ampia comorbilità dei sintomi e delle sindromi trauma-correlate.
Inoltre in molte parti del mondo i sintomi Schneideriani (in particolare quelli legati ad allucinazioni uditive) sono principalmente associati a schizofrenia e le differenze di opinione sull’incidenza e sulla prevalenza dei disturbi dissociativi complessi, in particolare il disturbo dissociativo dell’identità, non aiutano a definire meglio tale diagnosi.
Un ultimo aspetto legato alla clinica, ma che incide molto sulla possibilità di diagnosticare bene questi disturbi, è il fatto che i pazienti non portano sintomi dissociativi in consultazione, ma sintomi comuni anche ad altre categorie dagnostiche, quali disturbi d’ansia, insonnia, abuso di sostanze, disturbi alimentari.
Il problema di base è tuttavia costituito dalla presenza di diversi orientamenti teorici nella comprensione dei disturbi dissociativi, poiché da qui si sono determinati i diversi modi di osservare gli stessi sintomi: da un lato ci sono i teorici del continuum, secondo i quali l’esperienza dissociativa va da una sensazione normale di straniamento, per poi passare da sintomi di assorbimento emotivo, derealizzazione e depersonalizzazione, fino ad arrivare ad una sintomatologia più grave e invalidante come il disturbo dissociativo dell’identità (Bernstein, Putnam 1986).
Dall’altro lato ci sono i teorici della dissociazione strutturale, che sottolineano invece la presenza di differenze qualitative tra i diversi tipi di esperienze dissociative e di caratteristiche tra loro non sovrapponibili. Secondo questi ultimi i sintomi legati ad un restringimento temporaneo della coscienza, quali l’assorbimento, il sognare ad occhi aperti, stati leggeri di trance, difficoltà di concentrazione, possono essere sintomi riferiti sia da pazienti dissociativi che da pazienti affetti da altri disturbi psichiatrici, così come dalla popolazione generale, ma non necessariamente indicare la presenza di un disturbo dissociativo.
I teorici della dissociazione strutturale (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) segnalano che queste esperienze non sono sempre il segno di un fallimento integrativo delle funzioni mentali, mentre nei disturbi dissociativi veri e propri c’è sempre invece una divisione del sé, con diversi modi di vedere se stessi e il mondo, diversi sentimenti e comportamenti.
I tre livelli di dissociazione strutturale secondo Van der Hart e colleghi (2000) sono: dissociazione primaria, caratterizzata dalla presenza di una personalità prevalente capace di portare avanti la vita quotidiana (ANP), mantenendo insieme i ruoli principali per la persona (es: madre, moglie, lavoratrice, figlia, amica…), e una sola parte emotiva (EP), che conserva nella forma primordiale la reazione emotiva legate al trauma, rimettendola in atto solo quando una situazione trigger lo rende necessario. Sono dissociazione primaria il PTSD Semplice, l’Amnesia Dissociativa, i Disturbi Somatoformi Semplici (Conversione).
Il secondo livello è la dissociazione secondaria, in cui è presente una sola personalità principale (ANP), ma diverse parti emotive (EP) ognuna delle quali conserva una diversa modalità difensiva (attacco, fuga, freezing, morte apparente) legata al trauma, e comporta invece il verificarsi di reazioni emotive e comportamentali diverse e talora contrastanti di fronte a situazioni percepite come pericolose. Sono dissociazione secondaria il PTSD Cronico, il PTSD complesso, Disturbo da stress estremo (DESNOS) e Disturbo Dissociativo non altrimenti specificato (DDNAS).
Infine la dissociazione strutturale terziaria è caratterizzata dalla presenza di due o più personalità che agiscono e si muovono nella vita quotidiana (ANP), non consapevoli l’una dell’altra, e più EP che reagiscono istintivamente alle situazioni trigger, interne o esterne, ognuna mettendo in atto una modalità difensiva diversa. Questo livello corrisponde alla forma più grave, il Disturbo dissociativo dell’identità (DDI). In tutti e tre i livelli tra le ANP e le EP c’è una barriera di amnesia, un’impossibilità cioè per la ANP di riconoscere le diverse parti emotive come proprie e una impossibilità delle parti emotive di accedere alla vita quotidiana.
La presenza di amnesia e, più in generale, il funzionamento della memoria sono dunque i primi e più importanti aspetti sintomatici da approfondire per poter diagnosticare un disturbo dissociativo, che sia collocabile in uno dei tre livelli descritti.
La Dott.ssa Boon prosegue poi con una dettagliatissima rassegna di sintomi e categorie diagnostiche, aiutandoci a differenziare tra disturbi dissociativi e disturbi psicotici, bipolari, di personalità, sottolineando soprattutto la differenza qualitativa delle esperienze riportate dai pazienti nei confronti dei loro stessi sintomi.
Le principali scale utilizzate per lo screening dei disturbi dissociativi, anche se purtroppo non tutte tradotte in italiano, sono la DES (scala delle esperienze dissociative, Bernstein, Putnam;1986), la DIS-Q (questionario sulla dissociazione, Vanderlinden 1993), la SDQ-20 (questionario sulla dissociazione somatoforme, Nijenhuis et all, 1996) e la MID (repertorio multidimensionale della dissociazione, Dell. 2002, 2006).
Mentre le scale specifiche e più validate per la diagnosi di DD sono DDIS (Dissociative Disorders Interview Schedule, Ross, 1989, Ross et all, 1989), la SCID-D (Structured Clinical Interview for DSM-IV Dissociative Disorders, Steinberg, 1995, 2000) e la TADS-Q (Trauma and Dissociation Symptoms Questionaire, 2013; Boon, Mathess & Draijer, 2006).
In attesa che tutte le scale e le preziose interview dei colleghi olandesi vengano tradotte, due consigli utili e caldamente raccomandati per fare buone diagnosi: 1- considerare e verificare sempre la presenza l’intero cluster di sintomi dissociativi, e non solo di alcuni, e 2- chiedere sempre la descrizione di esempi, di episodi specifici, che possano spiegare meglio appunto la qualità delle esperienze descritte, variabile determinante per differenziare i disturbi dissociativi da tutti gli altri e soprattutto per non cadere nella trappola della iper o ipo-inclusione diagnostica!
Intervista con Suzette Boon
Suzette Boon, Psicologa e Psicoterapetua
SoM – La prima cosa che vorrei chiederle, in relazione al suo importante intervento sulla diagnosi è: quali sono i principali rischi legati ad uno scorretto processo diagnostico nella sua esperienza clinica con pazienti dissociativi? SB – Il primo rischio è che se non si fa una intervista diagnostica completa o se si sbaglia la diagnosi, le persone che vengono in consultazione e che presentano sintomi diversi da quelli dissociativi come ad esempio disturbi alimentari, depressione, attacchi di panico, verranno trattate per i sintomi che presentano. Tuttavia se il disturbo dissociativo sottostante non viene colto e compreso, il trattamento difficilmente sarà efficace. Potrà esserci una remissione dei sintomi, ma poi il problema salterà fuori in qualche altra forma o talora con gli stessi sintomi. Il motivo è che se la depressione o i disturbi alimentari o l’insonnia sono correlati alla struttura dissociativa del paziente e alla sua storia traumatica e non si lavora su questo, non si lavora sul vero problema. Il secondo rischio è che se non si fa un buon assessment sul disturbo dissociativo complesso e non c’è una buona comprensione del funzionamento delle parti dissociative, ma emergono traumi nella storia del paziente, iniziare da subito a lavorare su questi – ad esempio con la tecnica dell’EMDR – può essere molto rischioso e portare il paziente a spostarsi da un ricordo traumatico all’altro, con un carico emotivo molto intenso, e a scompensarsi. Un altro rischio è quello della iper-inclusione diagnostica, per cui sia terapeuti che pazienti “cercano” questa diagnosi perché negli ultimi anni si sta parlando molto di questo, ma questo è forse un rischio che attualmente corriamo più noi in Olanda che voi in Italia.
SoM – In Olanda sono nati negli ultimi 10 anni molti Trauma Center specializzati su queste problematiche e in grado di occuparsi di questi pazienti nel lungo periodo. Come avete iniziato?
SB – In Olanda il trattamento del trauma è al centro dell’attenzione dei clinici da moltissimi anni, è iniziata 10 anni dopo la seconda guerra mondiale perché i clinici hanno iniziato ad accorgersi di sintomi trauma-correlati nelle vittime dell’olocausto. Dunque c’è una lunga tradizione nel riconoscimento e trattamento del trauma e inizialmente del PTSD semplice. Poi dalla fine degli anni ’80, io e Onno van der Hart abbiamo iniziato a scrivere di disturbi dissociativi, a formare molte persone e c’è stato un momento storico in cui in tutta l’Olanda c’erano persone interessate a questo tema. E’ cresciuto così il numero di colleghi che iniziavano a trattare pazienti in modo specialistico su questi problemi, sia in fase di ricovero che in ambulatorio, ma erano sparsi sul territorio e non coordinati tra loro. Poi circa 8 anni fa, c’è stata un’iniziativa per creare Trauma Center specializzati nel trattamento dei disturbi cronici correlati al trauma e così 7 grandi servizi di salute mentale, in cui c’erano persone e clinici già coinvolti attivamente nel “mondo del trauma”, come me ed altri, hanno avuto il permesso dalle istituzioni nazionali di avviare un dipartimento di salute mentale specializzato nella cura di pazienti con ricordi traumatici. Questo è quello che è successo.
SoM – Attualmente che servizi avete strutturato?
Sin dall’inizio e anche ora i trattamenti che offriamo sono per pazienti ambulatoriali, perché crediamo che la maggior parte dei trattamenti dovrebbero essere così e non in condizioni di ricovero prolungato. Questi pazienti spesso hanno disturbi di personalità oltre che un disturbo dissociativo complesso e ricoveri lunghi tendono a farli peggiorare e regredire, a sviluppare problemi di dipendenza eccessiva dagli altri e dal servizio, anche per bisogni che sarebbero in grado di soddisfare da soli. Ci avvaliamo della rete ospedaliera pubblica e dei servizi psichiatrici solo nei momenti di crisi acuta e solo se strettamente necessario. Abbiamo un contratto con questi servizi psichiatrici, un accordo di collaborazione, in cui è specificata la presa in carico ambulatoriale dei pazienti presso i nostri trauma center, ma che ci potrebbe essere bisogno di cure più intensive presso le loro strutture per periodi di crisi. Attualmente abbiamo 7 Trauma Center per adulti, per la presa in carico di pazienti che vanno dal PTSD complesso ai disturbi dissociativi complessi.
SoM – Quali step di cura sono previsti all’interno dei centri?
SB – Il primo step è la fase di assessment, che è molto intensa può prendere anche molti incontri poiché vengono indagati i problemi riferiti, la storia clinica, la presenza di eventi e situazioni traumatiche nel passato o nel presente; vengono poi somministrate le interviste strutturate per diagnosticare la presenza di disturbi dissociativi e, se il quadro clinico non è ancora chiaro, vengono somministrate interviste strutturate per PTSD e poi per PTSD complesso. Questi approfondimenti possono risultare moto difficili e stressanti per i pazienti, perciò in questa fase è prevista anche la possibilità di una valutazione psichiatrica per un supporto farmacologico. Il processo diagnostico può durare molto tempo e i pazienti si avvalgono nel frattempo del supporto della rete dei servizi di salute mentale “generali”, ma alla fine del processo i pazienti vengono inseriti in programmi di cura altamente specializzati. Ci sono percorsi differenziati per pazienti con diagnosi di PTSD complesso o con diagnosi di disturbo dissociativo complesso: quella che chiamiamo Fase I di trattamento è la stessa per tutti e prevede l’inserimento in un percorso di gruppo intensivo settimanale focalizzato sulla psicoeducazione e sulla stabilizzazione dei sintomi; i pazienti con diagnosi di disturbo dissociativo complesso seguono in questa fase anche un gruppo specifico sulla comprensione del disturbo dissociativo basato sul libro che abbiamo appena scritto. Chi non vuole partecipare al gruppo terapeutico o non può perché ha, ad esempio, la tendenza a regredire o a peggiorare in gruppo, ovviamente non è obbligato a farlo e viene comunque seguito in psicoterapia individuale. I pazienti con disturbi dissociativi complessi o con disturbo dissociativo dell’identità (DDI) possono restare in questa fase fino 5 anni, mentre i pazienti con PTSD complesso in genere riescono a stabilizzare i sintomi in 3 anni circa. La Fase II è orientata al trattamento specifico dei ricordi traumatici, qui tutti i pazienti lavorano individualmente e in alcuni casi in gruppo con terapie espressive di diverso tipo, e infine la Fase III prevede la fine della terapia e gestione dei sintomi residui nella vita quotidiana. In quest’ultima fase di solito c’è una buona integrazione dei ricordi traumatici nella storia di vita della persona e una migliore integrazione delle parti del sé dissociate a causa delle esperienze di traumatizzazione. Per i pazienti con DDI complesso il percorso complessivo può durare circa 10 anni, con 5 anni in Fase I, altri 3-4 in Fase II e altri 1-2 anni in Fase III, per potersi reinserire nella vita quotidiana senza il supporto settimanale del terapeuta. Per ora i pazienti in Olanda non pagano per questi trattamenti, è il sistema assicurativo che copre direttamente le spese e che paga i terapeuti e gli operatori che lavorano nei Trauma Center.
SoM – Quanti operatori sono coinvolti nel team di un Trauma Center?
SB – Si tratta di una presa in carico che comporta il lavoro di molte figure professionali, tutte necessarie per la buona riuscita del percorso. Non prenderei in carico da sola pazienti così dissociativi, se non nell’ultima fase di trattamento e nonostante il nostro team sia di circa 16 operatori, tra psicologi psicoterapeuti psichiatri e infermieri, avremmo bisogno di inserire sempre più persone nell’organico per riuscire a lavorare con meno pressione e senza le lunghe liste d’attesa che purtroppo ora ci sono, a volte fino a 5-6 mesi di attesa dopo la fine del processo diagnostico. L’unico svantaggio di un servizio così specializzato è che i servizi territoriali inviano molto e non prendono più in carico questi pazienti e al momento, nonostante qui l’organizzazione dei trauma center sia più avviata che in Italia, stiamo vivendo un periodo di forte pressione e di tagli alla spesa sanitaria, che rallenta i nostri tempi di presa in carico e di trattamento. Spero che in futuro avremo più risorse e potremo lavorare ancora meglio e su vasta scala, per garantire a tutto il territorio olandese la presenza di Trauma Center specializzati e di elevata qualità nelle cure offerte.
Bernstein, E. M., Putnam F. W. (1986). Development, reliability, and validity of a dissociation scale. Journal of Nervous and Mental Disease, 174(12), pp. 727-735.
Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Cortina, 2011. ACQUISTA ONLINE
Ora un ambizioso studio (Veling et al., 2014) si è posto tale domanda di ricerca: un training comportamentale di estinzione di apprendimenti associativi tra determinate azioni motorie e cibi non salutari ha dei benefici in termini di effettiva perdita di peso corporeo?
In ambito cognitivo-comportamentale ritroviamo tra le opportunità di diminuire i comportamenti impulsivi sia quella di modificare le associazioni automatiche tra determinati stimoli e alcune nostre risposte – anche in relazione al cibo e all’alimentazione.
Nel 2011 uno studio olandese dell’ Università di Maastricht supporta questa idea dimostrando che un training meramente finalizzato a fermare semplici azioni motorie (prendere con le mani) verso cibi poco salutari ridurrebbe effettivamente il consumo di alimenti non sani, per lo meno in un setting di laboratorio.
Il punto sta proprio qui: ad oggi la maggior parte di studi simili – sul decoupling di associazioni comportamentali disfunzionali alimentari- è stato esplorato solo in setting sperimentali artificiali di laboratorio.
Ora un ambizioso studio (Veling et al., 2014) si è posto tale domanda di ricerca: un training comportamentale di estinzione di apprendimenti associativi tra determinate azioni motorie e cibi non salutari ha dei benefici in termini di effettiva perdita di peso corporeo?
Nell’arco di un periodo di tempo di quattro settimane un centinaio di soggetti hanno preso parte alle diverse condizioni sperimentali tra cui un training via internet chiamato “go/no-go training” che richiedeva loro di rispondere con azioni motorie del braccio e della mano a delle immagini di cibo, ma di reprimere tali azioni relative all’afferrare nel momento in cui apparivano golosi e succulenti cibi non salutari.
Un’altra forma di training basata maggiormente su uno sforzo conscio di elaborazione cognitiva delle intenzioni e delle scelte e meno legato ad aspetti motori, chiedeva ai partecipanti di ripetere mentalmente alcune regole per evitare l’assunzione di cibi eccessivamente calorici – ad esempio: “quando aprirò il frigorifero penserò alla mia dieta”.
In generale, entrambi i training sembrano funzionare rispetto alle condizioni di controllo portando in media alla riduzione di un chilo del peso corporeo nelll’arco di quattro settimane.
Tuttavia, guardando ad alcune differenze individuali il training motorio Go/no-go training ha funzionato meglio per coloro che avevano indici di massa corporea più alti.
Anche se il risultato può sembrare modesto (1 kg in 4 settimane) in realtà lo studio evidenzia la possibilità di attuare training cognitivi con effetti misurabili nella quotidianità degli individui; dunque ulteriori ricerche sul tema sono attese sia in setting di laboratorio che maggiormente ecologici.
La manipolazione nelle Relazioni affettive: The Shape of Things (2003)
THE SHAPE OF THINGS – Recensione.
The Shape of Things, pièce teatrale dell’americano Neil LaBute rivisitata anche dal grande schermo, è un percorso di esplorazione sottile attraverso gli snodi della relazione manipolatoria.
Quando Adam, timido nerd che lavora come guardia in un museo, incontra Evelyn, affascinante studentessa d’arte alle prese con un tentativo di atto vandalico ai danni di una delle statue esposte, prende avvio un gioco a due che fin dal principio si delinea come inesorabile trasformazione del ragazzo, suggerita e condotta da Evelyn con una sequenza di interventi pianificati.
Perdere peso, modificare radicalmente il look, esercitarsi ad atteggiamenti più disinvolti diventano per Adam le tappe di un cammino che lo avvicina alla ragazza allontanandolo però in modo irreparabile dalla coppia di amici più cari, in procinto di sposarsi, che prima sembrano divertiti dalla metamorfosi ma ben presto si sentono disorientati di fronte a ciò che non riconoscono più come autentico. In un intreccio di tradimenti, rivelazioni, ribaltamenti di fronte, i quattro protagonisti si confrontano sulla differenza tra essere e apparire, sulla superficialità dei valori contemporanei, sulla possibilità di definire arte le espressioni creative del nostro tempo e con esse i messaggi spirituali ma più spesso materiali che il genere umano si adopera a veicolare con ogni mezzo a disposizione.
Evelyn è interessata unicamente al raggiungimento di un’estetica da esibire, da trattare come arte simbolica priva in realtà di un contenuto fruibile nella condivisione, e la coppia che viene a formarsi tra lei e Adam è il risultato di una manipolazione che individua i bisogni del ragazzo cogliendone la dimensione passiva, irrazionale, viscerale.
Adam chiede implicitamente di essere convertito a ciò che mancandogli lo fa sentire intimamente frustrato, e l’assenza di un’adeguata consapevolezza lo conduce a consegnare le proprie debolezze ad Evelyn, validandone le azioni.
Il cambiamento di forma, di stato, dalla coppia che non si scambia nulla di vero alla coesistenza di due individualità ognuna indifferente a se stessa e agli altri, è presto dato, raddoppiando nei termini quando anche la coppia di amici viene trascinata in un declivio dove le funzioni si frammischiano ai bisogni del momento, ai moti impulsivi mai afferrati pienamente.
The Shape of Things compone una visione disillusa delle relazioni e mette a nudo i processi anaffettivi con cui si instaura la manipolazione. Evelyn non concede valore all’identità di Adam, ne plasma una versione innaturale su cui proietta le proprie istanze narcisistiche, nella completa assenza di ogni riferimento empatico.
La dinamica sviluppa una progressione che appare inevitabile al protagonista e allo spettatore, certi entrambi che ciò che seguirà sarà la fisiologica e insieme amorfa decostruzione dei tratti iniziali. La forma delle cose può diventare assenza di forma, quando i significati si svuotano di categorie interiori plausibili e rispecchiano solo l’incapacità di strutturare una sostanza, un sentimento che accolga l’altro da sè non cedendo all’appetito di annullarlo.
Si è conclusa lunedì la Terza Edizione del Corso Internazionale “Nuove frontiere nella cura del trauma”, svoltosi nella consueta e meravigliosa cornice veneziana dal 30 maggio al 2 giugno. Il coordinamento del corso è come sempre a cura dell’Associazione Culturale Area Trauma per l’area scientifica, con Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina, e della S.P.A.D. – Scuola di Psicoterapia dell’Adolescenza a Indirizzo Psicodinamico di Roma, grazie all’attivo e centrale contributo di Eva Mazzotti.
Il tema di questa edizione ruota intorno all’importanza della diagnosi come aspetto centrale nella comprensione del funzionamento dissociativo.
Suzette Boon, esperta mondiale in questo campo, ha raccontato con dettaglio ed estrema chiarezza quali possono essere i confini esterni dei disturbi dissociativi e quali invece gli aspetti centrali da cogliere nel processo diagnostico, sottolineando i rischi di iper o ipo-inclusione delle situazioni cliniche in questa categoria di disturbi.
A seguire gli interventi di Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera, con la presentazione di casi clinici molto complessi, raccontati con estrema attenzione e con la sensibilità clinica e umana che le caratterizza. Centrale nel corso è stato poi il lavoro in piccoli gruppi, che ha permesso di sperimentarsi in prima persona e di “sentire” quali situazioni cliniche possono metterci “all’angolo” come terapeuti, con particolare attenzione al legame, forte nel lavoro con pazienti dissociativi, tra le emozioni del paziente e quelle del terapeuta.
Prima di presentare gli aspetti più importanti degli interventi nei prossimi contributi, lascerei alle parole del Dott. Tagliavini , “cuore pulsante” del corso, la descrizione delle scelte organizzative e scientifiche e soprattutto il legame importantissimo con il movimento europeo guidato dalla European Society for Trauma and Dissociation (ESTD).
Intervista con Giovanni Tagliavini
Dott. Giovanni Tagliavini, Psichiatra e Psicoterapeuta
SoM – Dove è nata l’idea di questa occasione di formazione ormai alla terza edizione? GT – L’avventura di Venezia, iniziata nel 2012 con Bessel van der Kolk, è nata dal lavoro di traduzione del libro “Fantasmi del sé” di Onno van der Hart, perché questa è stata un’occasione per conoscere Gianni Liotti e lavorare con Benedetto Farina, con cui era già iniziata un’amicizia poi è cresciuta negli anni. Proprio da lì è nata l’esigenza di creare insieme occasioni di formazione e di crescita di un gruppo italiano sul tema del trauma e della dissociazione. L’entusiasmo era legato anche al fatto di conoscere persone interessanti, oltre che esperte, come Onno van der Hart, Besser van der Kolk, Janina Fisher, e quest’anno Suzette Boon, e anche altre che non sono ancora venute in Italia ma che verranno, tutte spinte dalla volontà di condividere con i colleghi italiani l’esperienza e anche l’entusiasmo su questi argomenti.
SoM – L’obiettivo principale che guida l’organizzazione e i contenuti del corso? GT – Io mi sono già dedicato in precedenza alla formazione in ambito sanitario e avevo conosciuto l’Istituto Canossiano qui a Venezia come un luogo intimo e molto accogliente. L’idea che ci guida è di tenere alti standard formativi, cioè di non fare adunate oceaniche che possono avere un importante ruolo informativo, ma difficilmente formare alla clinica in modo specifico. Credo che per formare sia necessario puntare sulla creazione di un gruppo basato su conoscenze reciproche, sulla creazione di una rete e tenere il più possibile un profilo interattivo e non solo di lezione frontale. Già il gruppo in plenaria di 70-75 persone è abbastanza grande e proprio per questo motivo quest’anno abbiamo proposto l’idea di lavorare in piccoli gruppi. Speriamo per il futuro di avere delle nuove idee sia in termini di occasioni di formazione che in termini di creazione di gruppi locali. In tanti posti d’Italia si fanno ottime cose sul trauma complesso e sui disturbi dissociativi, ma sono sparse sul territorio e poco collegate tra loro.
SoM – Rispetto alla realtà italiana. esistono del centri già attivi e dove? GT – Non c’è ancora niente di ufficiale, ma diciamo che ci sono ad oggi colleghi validi a Roma, a Bologna e Modena, a Milano e Varese, a Torino e poi c’è soprattutto l’idea di collegarci a livello europeo. Abbiamo in Italia tre referenti della Società Europea Trauma e Dissociazione (ESTD): Fabio Furlani è referente per i soci ESTD italiani del Nord, Maria Paola Boldrini è la referente per Emilia-Romagna e Centro e poi c’è Costanzo Frau che è referente per Sud e Isole. In più abbiamo Gaia Apolloni che ci aiuta nelle comunicazioni con l’estero e nelle attività di traduzione su strumenti clinici e diagnostici.
SoM – Come va avanti il lavoro con il gruppo europeo invece? GT – Siamo legati e in continuo contatto con la ESTD, dove c’è un clima molto attivo, di scambio di idee e di progetti. C’è l’idea che si possa creare un gruppo di italiani, che si occupi sistematicamente di tradurre testi per fare cultura su questi temi, e che questa partecipazione renda il nostro gruppo sempre più visibile. Oggi abbiamo l’occasione di creare un movimento che riuscirà da subito ad essere a livello internazionale, senza dover passare tappe ulteriori di crescita e senza dover affrontare ad esempio la tragica polemica delle “false memorie” che hanno dovuto affrontare invece i colleghi americani. Il problema credo sia iniziare a lavorare bene sui disturbi dissociativi e subito, capendo potenzialità e limiti delle nostre conoscenze, ma anche considerando quello che si conosce già e di cui possiamo avvalerci ora. I dati raccolti in Europa dai colleghi olandesi, ci fanno pensare che sicuramente possiamo essere efficaci dal punto di vista diagnostico e terapeutico, e questo è entusiasmante. Non c’è più bisogno di fare le “lotte tra le parrocchie”. L’ambito del trauma complesso è un ambito dove si sta bene insieme e le persone che hanno orientamenti diversi, ispirazioni diverse, background diversi possono trovare qui un ambito di vera integrazione. Ognuno può dire e aggiungere qualcosa di interessante a questa cornice, che sia cognitivista, che sia psicodinamico o sistemico, che segua una terapia orientata al corpo.
SoM – Questo è bello e si respira sia nel clima di questo corso che nei contenuti. In questi giorni con Suzette Boon abbiamo imparato i rischi dell’iper-inclusione e la necessità di differenziare, piuttosto che ricondurre tutto alla “dissociazione”, solo perché oggi ci è comoda questa cornice teorica. Cosa spinge a tenere attivo il dibattito? GT – Sono contento che si senta e che siamo riusciti a portarlo anche in Italia. Su questo tema penso innanzitutto che sia un dovere quello di delimitare meglio perché la dissociazione è di per sé un concetto che ha dei confini frastagliati e sfuggenti. Inoltre lo stesso concetto di trauma, anzi sarebbe meglio di dire di meccanismo di traumatizzazione, è bene tenerlo il più possibile chiaro, perché già solo se partiamo da dei concetti molto delimitati di trauma, traumatizzazione e disturbi dissociativi avremo molto da fare. Iniziando subito a considerare zone grigie e confini più labili, corriamo invece il rischio di confonderci e soprattutto di non essere efficaci.
SoM – Quali situazioni cliniche restano le più indicate a questa cornice teorica? GT – Purtroppo c’è una fetta di persone che hanno subito e purtroppo subiranno in futuro situazioni di traumatizzazione grave, la cui risposta di sopravvivenza è la dissociazione, così come la risposta di danno è la dissociazione. Nell’esperienza del trauma c’è da un lato il danno, come ci dice Gianni Liotti, cioè il crollo delle capacità integrative e delle funzioni mentali fondamentali, ma dall’altro lato c’è anche la risposta al trauma in termini di capacità di sopravvivenza. La struttura dissociativa è insomma anche il segno che la persona è riuscita a sopravvivere a cose insopportabili. Se riusciamo a chiarire, sia a livello teorico che diagnostico, meglio il campo avremo molto lavoro e con mezzi già a nostra disposizione e di provata efficacia. Questo vuol dire la possibilità di “salvare la vita delle persone”, questo senza voler essere retorici.
SoM – Rispetto a questi mezzi, una parte interessante per il futuro è l’opera di traduzione che state facendo. Che strumenti sono disponibili e quali sono in programma per il futuro? GT – Il percorso fatto insieme alla ESTD e iniziato con Onno van der Hart nel 2005, ci permette oggi di avere a disposizione in meno di 10 anni strumenti bibliografici importantissimi che prima non c’erano e che hanno contribuito a far crescere il movimento italiano che ruota intorno al trauma complesso e ai disturbi dissociativi. Penso anche al filone della terapia senso motoria e al libro di Pat Ogden tradotto in Italia o al recente testo di Boon, Steele e Van der Hart su “La dissociazione traumatica”. Il prossimo passo sarebbe di andare avanti nella traduzione anche delle scale diagnostiche, come quelle presentate da Suzette Boon, scegliendo tra quelle già in uso. L’idea è di decidere insieme agli esperti europei, che se ne occupano da più di 20 anni, quali siano gli strumenti migliori e più efficaci. Poi li traduciamo, li validiamo e iniziamo ad usarli. Magari nei prossimi anni potremo fare le nostre proposte, ma ora è necessario partire con quello che di efficace già c’è. L’ambito è complesso e c’è molta discussione in corso, ma riuscire a partire almeno dagli strumenti principali forniti da Van der Kolk, Janina Fisher, Suzette Boon e Kathy Steele – che sarà qui a Venezia l’anno prossimo – ci può dare una bussola e questo significa poter imprimere una direzione molto efficace a tutto il movimento italiano.
SoM – Che percentuale di pazienti potrebbe avvalersi di questi strumenti? GT – A questo punto del percorso abbiamo bisogno soprattutto di diagnosticare bene, perché i pazienti dissociativi sono messi in tutte le categorie del mondo, tranne che in quella dei disturbi dissociativi. I pazienti dissociativi non sono tanti e non sono pochi, nel senso che le stime più severe e restrittive dicono che all’interno di una popolazione di pazienti acuti psichiatrici un 2% ha un disturbo dissociativo dell’identità (DDI) , cioè la forma più grave e rara di PTSD Complesso, e probabilmente un 5-6% ha un disturbo dissociativo NAS che include sintomi del PTSD Complesso e della dissociazione strutturale secondaria. Stiamo parlando in totale di un 8% dei pazienti e anche volendo considerare una statistica più restrittiva del 4-5% stiamo parlando di un numero rilevante: se pensiamo che un Centro di Salute Mentale segue in media circa 1000-1200 pazienti, significa che almeno 40-50 di loro ha un disturbo dissociativo complesso. Il dato importante è che questi disturbi, se trattati correttamente, hanno una buona prognosi in termini di reinserimento nel mondo del lavoro e gestione dei sintomi, che restano in parte lifetime, ma con una riduzione significativa degli accessi al servizio, dei ricoveri e dei tentativi di suicidio.
SoM – Come inserire nei nostri servizi di salute mentale pubblici un trattamento di questo tipo? GT – Il buono del nostro sistema psichiatrico, cioè la psichiatria italiana dal ’78 ad oggi è proprio quello che servirebbe a questo tipo di pazienti: la presa in carico nel lungo periodo, l’individualizzazione del trattamento, evitare le ospedalizzazione e lo stigma. Quello che a mio parere serve è di pensare che non tutto possa essere “psichiatria generale”: dovremmo tenere la struttura dei servizi, la nostra filosofia di cura territoriale, che di per sé è molto sana, e pensare di creare una “psichiatria specialistica”, perché non è possibile pensare che uno psichiatra sappia curare tutto dalla schizofrenia ai disturbi affettivi, dai disturbi psicotici ai disturbi d’ansia. Bisogna suddividere la specificità e pensare che non è così insolito avere una specializzazione ulteriore e aprire degli ambulatori specializzati, come già succede in Olanda dove hanno ottenuto dei servizi territoriali in grado di seguire a lungo questi pazienti e che utilizzano la rete ospedaliera solo per le crisi acute. Affiancare un modello di questo tipo significherebbe anche formare sui temi dell’efficacia dei trattamenti e rivedere il percorso di cura dei cosiddetti pazienti “resistenti” al trattamento, con l’idea che forse si tratti di pazienti che semplicemente non hanno ricevuto il trattamento per loro più efficace.
SoM – Cosa può spingere i clinici ad appassionarsi al trauma complesso? GT – Non credo che a tutti debba piacere il campo del trauma complesso, però se si è un po’ curiosi di solito si resta abbastanza affascinati. Ci sono state e ci saranno delle fasi di evoluzione dei modelli teorici, delle onde che non sono solo delle mode, ma piuttosto dei momenti in cui matura un certo discorso. Così come poteva essere maturo per gli anni ’80 studiare meglio i disturbi affettivi e tanti pazienti schizofrenici sono stati diagnosticati e curati meglio come bipolari, così come c’è stato poi un interesse importante a diagnosticare precocemente le psicosi non affettive, io direi che adesso è veramente il turno di riuscire a ragionare di trauma e di trauma complesso, come di una locomotiva che può guidare alla comprensione di un grosso campo psicopatologico.
Data la centralità di questi dispositivi tecnologici nelle nostre vite, i tentativi di studio scientifico degli effetti della tecnologia sulla nostra mente e sul nostro funzionamento cognitivo diventano rilevanti nella misura in cui possono diventare evidenze per orientare scelte più consapevoli.
Finora non è stato chiaramente dimostrato un chiaro legame tra l’intenso utilizzo di telefoni cellulari nell’adulto e possibili effetti nocivi in termini di funzionamento cognitivo, anche se i ricercatori si domandano se tale possibilità sia più accentuata nell’età dello sviluppo.
I ricercatori dell’Imperial College of London hanno lanciato un nuovo studio per i prossimi tre anni per indagare se l’uso dei telefoni cellulari ha un effetto nocivo e dannoso sul cervello degli adolescenti.
Si prevede che lo studio coinvolgerà circa 2.500 studenti inglesi di 11 e 12 anni: si valuteranno molti aspetti relativi all’uso di telefoni cellulari sia attraverso questionari self-reports sia attraverso dati oggettivi forniti dalle compagnie telefoniche.
In secondo luogo saranno valutate nei soggetti nel corso dei tre anni in diversi e specifici momenti temporali performances cognitive, di memoria e attenzione.
Una parte del campione verrà dotato di dispositivi in grado di registrare il livello di esposizione alle frequenze onde radio nel corso di 48 ore.
Data la centralità di questi dispositivi tecnologici nelle nostre vite, i tentativi di studio scientifico degli effetti della tecnologia sulla nostra mente e sul nostro funzionamento cognitivo diventano rilevanti nella misura in cui possono diventare evidenze per orientare scelte più consapevoli.
Rimaniamo in attesa per qualche anno della pubblicazione dei risultati di questo esteso progetto di ricerca.
Trattamento del Disturbo ossessivo-compulsivo: Citalopram vs EMDR
Lo studio mostra che entrambi gli interventi terapeutici (quello con il farmaco citalopram e quello con l’EMDR) sono in grado di migliorare i sintomi del DOC, e più nello specifico dimostra che l’EMDR risulta il metodo più efficace, rispetto al citalopram, per il miglioramento di tali sintomi.
In uno studio del 2011 vengono messe a confronto due tipologie di trattamento per il Disturbo Ossessivo-compulsivo (DOC): trattamento farmacologico con citalopram e EMDR. Entrambi migliorano i sintomi del DOC, ma tra i due l’EMDR risulta essere il trattamento maggiormente efficace.
Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è uno disturbo d’ansia caratterizzato principalmente da pensieri, fantasie e comportamenti ripetitivi.
Evidenze scientifiche dimostrano che i segni e sintomi del DOC iniziano nell’infanzia nel 30-50% dei pazienti. Anche se l’esatta eziologia del disturbo non è ancora stata compresa interamente, disfunzioni biologiche, genetiche, cognitive e comportamentali sono considerate i fattori più importanti.
Tra i metodi di trattamento abbiamo, in prima linea, l’utilizzo di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI, tra cui fluoxetine, fluovoxamine, paroxetine, certeraline e citalopram), e poi metodi di trattamento cognitivi o comportamentali.
Lo studio di Nazari del 2011 confronta l’efficacia dell’EMDR come metodo terapeutico con una terapia basata sull’utilizzo di citalopram.
La ricerca è stata effettuata inizialmente su 90 pazienti con diagnosi di DOC, assegnati in modo casuale ai due gruppi in cui venivano effettuati i due diversi trattamenti, per la durata di 12 settimane.
Successivamente 17 pazienti del gruppo citalopram e 13 pazienti del gruppo EMDR sono stati esclusi dall’analisi finale, poiché non hanno partecipato al follow-up. Al termine dello studio ciascuno dei due gruppi era quindi composto da 30 soggetti, per un totale di 60 pazienti.
All’inizio e alla fine del trattamento ai soggetti è stata somministrata la Y-BOCS (scala di valutazione delle ossessioni e delle compulsioni) e sono stati confrontati i risultati. Le medie alla Y-BOCS pre-trattamento erano 25.26 per il gruppo citalopram e 24.83 per il gruppo EMDR; mentre alla Y-BOCS post-trattamento erano rispettivamente 19.06 (citalopram) e 13.6 (EMDR).
Lo studio mostra che entrambi gli interventi terapeutici (quello con il farmaco citalopram e quello con l’EMDR) sono in grado di migliorare i sintomi del DOC, e più nello specifico dimostra che l’EMDR risulta il metodo più efficace, rispetto al citalopram, per il miglioramento di tali sintomi.
Il presente studio costituisce uno dei primi tentativi di confronto tra EMDR e SSRI nel DOC, quindi i risultati devono essere considerati con cautela in funzione anche di quegli elementi che l’autore stesso ha individuato come limiti del proprio lavoro (follow-up a breve termine, bassa dose di citalopram e nessuna registrazione degli effetti collaterali).
Per indagare gli effetti a lungo termine dell’EMDR nel DOC e generalizzare e confermare i risultati positivi trovati da Nazari e dalla sue equipe, sono necessari ulteriori studi clinici controllati.
L’arte di comunicare con gli altri e in terapia di Francesco Aquilar
Il libro Parlare per capirsi, scritto da Francesco Aquilar ed edito da Franco Angeli, apre una finestra sul mondo della comunicazione, arte quotidianamente utilizzata per poter interagire con l’altro in ogni ambito della vita.
Capita, spesso di non riuscire a comunicare sempre in maniera efficacie quello che si pensa, e questo porta a una compromissione dei rapporti e delle relazioni, anche in ambito terapeutico.
Ed è proprio su come riuscire a comunicare in maniera efficace che si focalizza questo libro. Mira, infatti, a esplorare i diversi aspetti della comunicazione inter-personale e sociale non solo nelle diverse situazioni di vita, ma, anche, nella psicopatologia, con l’obiettivo di indicare le modalità che permettono di uscire da un empasse comunicativo.
Lo scopo, dunque, è quello di migliorare la qualità della vita migliorando la qualità della comunicazione.
Ognuno di noi comunica secondo una propria modalità che riflette, inevitabilmente il proprio modo di essere ed è figlia dell’ambiente nel quale si è vissuti. Questo perché la forma della comunicazione dipende dalle caratteristiche personologiche presentate, dal carattere che ognuno possiede e, di conseguenza, dal tipo di organizzazione di personalità mostrata. Quindi, è possibile identificare alcune forme di comunicazione efficaci e inefficaci tipiche di alcune strutture di personalità.
Individuare dei modelli comunicativi permetterebbe non solo di capire in che modo si affrontano le relazioni, ma anche, e soprattutto, quali conseguenze adducono.
Il libro si divide sostanzialmente in tre parti: una didattica, in cui si parla largamente delle difficoltà di comunicazione incontrate in una serie di situazioni significative, come la famiglia, il partner, gli amici, etc., una psicoterapeutica, in cui sono illustrate le modalità secondo cui è possibile implementare le abilità di comunicazione grazie ad una serie di tecniche riferitesi alla terapia cognitiva e cognitiva-sociale, e, infine, una scientifica, dove si fa riferimento alla letteratura, per capire cosa è più idoneo adottare nella comunicazione partendo dai dati empirici.
In generale, è possibile affermare che l’esperienza del comunicare permette di apprendere sempre cose nuove e innovative e questo è importante non solo nella relazione con gli altri, ma anche per incrementare il proprio dialogo interiore in maniera funzionale e non fallace.
Ma oltre al dialogo con gli altri esiste il dialogo interno. Come possiamo parlare con noi stessi per capirci? Come possiamo usare il nostro dialogo interiore per aumentare lo stato di benessere e le emozioni positive, distaccandoci dagli stati negativi?
La strada più semplice da adottare sembrerebbe quella dell’Auto-Osservazione Guidata che favorisce la consapevolizzazione dei propri pensieri, delle proprie emozioni, delle proprie azioni e delle proprie conclusioni e prospettive.
Ogni metodo di Auto-Osservazione Guidata, il più famoso è l’ABC proposto da Ellis, consente di avere una maggiore coscienza del proprio modo di pensare e delle possibili conseguenze.
In questo libro la tecnica di auto-osservazione proposta dall’autore è identificata con l’acronimo SEMPRE, che renderebbe possibile aumentare le proprie capacità di auto-osservazione e di integrazione consapevole fra pensieri, emozioni e azioni.
Cosa significa SEMPRE?
S :Situazione, contesto, antefatto, premessa;
E :Emozioni, stati d’animo, stati corporei
M: Meta-emozioni: cosa ho provato per aver provato “E”
P:Pensieri, idee, immagini mentali
R:Risposta: Che cosa ho fatto io e che cosa hanno fatto gli altri;
E:Esito: Come è andata a finire e che ho imparato dall’evento
In sostanza questo schema permetterebbe di essere coscienti di cosa accade dentro di noi e consente, in questo modo, di essere guardinghi su cosa determina malessere e come poterlo affrontare in maniera funzionale. Insomma, mette ordine al dialogo interiore permettendo di individuare in maniera strutturata il problema, le conseguenze e le alternative che poi, una volta comprese, possono essere anche comunicate all’altro in maniera funzionale.
Per concludere, dopo aver capito cosa comunicare possiamo farlo in modo efficacie seguendo i suggerimenti riportati nel libro:
– stiamo attenti a noi stessi e agli altri per negoziare migliori soluzioni e goderci maggiormente la comunicazione e le relazioni;
– decentriamo e descriviamo con chiarezza il nostro punto di vista.
– legittimiamo e ridimensioniamo le emozioni e le opinioni degli altri
– prendiamoci cura psichica e fisica di noi stessi e degli altri
– ricordiamoci dei valori personali, che sono in una gerarchia diversa per ciascuno,
– evitiamo di ripetere le stesse cose per evitare circoli viziosi inutili, monotoni, ripetitivi, inefficaci
– sviluppiamo noi stessi tenendoci in esercizio mentale
– dividiamo la torta in parti uguali, ma non dimentichiamoci della nostra parte. legittimando una parte di sano egoismo.
– dedichiamo tempo a situazioni che ci portino gioia procedendo verso i propri obiettivi realizzabili.
– lasciamo liberi noi stessi e gli altri non cercando di organizzare gli altri secondo i propri schemi mentali
– incrementiamo la creatività dedicando un po’ di tempo e di attenzione a cose che piaccino
– esercitiamo la memoria non solo su cose e episodi negativi, ma anche di quelli positivi.
La speranza è che, imparando a comunicare meglio, ognuno di noi possa non solo tollerare, ma anche amare e apprezzare la diversità da sé, e concepirla e viverla come ricchezza e anche come straordinario antidoto alla solitudine e alla noia esistenziale.
Essere in grado di distinguere che cosa sia reale e cosa no può sembrare una banalità, ma l’incapacità di tale distinzione è alla base di diversi disturbi psichiatrici ed è ciò di cui si sono occupati in un recente studio alcuni ricercatori dell’Università di Yale.
Alcuni studi in letteratura hanno già identificato specifiche aree cerebrali deputate all’identificazione di uno stimolo visivo come “reale” vs. “immaginato”; il nuovo studio si focalizza sull’esistenza di specifiche aree cerebrali attivantisi in relazione alla distinzione tra stimoli uditivi reali o immaginati.
Ai soggetti è stato chiesto di completare un task di riconoscimento uditivo durante sessioni di scanning di risonanza magnetica funzionale: il compito prevedeva di segnalare la percezione reale di una parola registrata, se i soggetti la stessero immaginando oppure se stessero percependo visivamente uno stimolo visivo.
Analizzando i dati i ricercatori hanno scoperto che vi sarebbe un aumento di attivazione cerebrale nel giro frontale mediale sinistro (MFG) durante la codifica di parole correttamente identificate come “immaginate”, mentre un’area del giro frontale inferiore sinistro sarebbe più attiva nel momento in cui vi è riconoscimento corretto di parole realmente udite. Invece, relativamente agli errori di codifica si è registrato un incremento di attivazione a carico del giro temporale superiore, con una correlazione positiva tra tale attivazione e la tendenza ad avere allucinazioni uditive (variabile misurata attraverso la Auditory Hallucination Experience Scale).
Tali risultati possono essere interessanti dal punto di vista neuropsicologico per identificare i correlati neurali di determinati sintomi – ad esempio alluncinatori- in specifiche patologie psichiatriche.
Sindrome da spogliatoio o dismorfofobia peniena: pene piccolo, grande o deforme?
Teresita Forlano
Alcuni uomini ritengono di avere il pene diverso dalla norma. Una convinzione, spesso immotivata, che causa ansie e timori. La convinzione di avere un pene troppo piccolo, ma anche troppo grande, troppo curvo oppure con anomalie legate al glande o al prepuzio, ha un nome scientifico preciso, cioè dismorfofobia peniena.
Questo disturbo è noto anche come Sindrome dello spogliatoio, in quanto chi ne soffre tende a evitare di fare la doccia insieme ad altri uomini dopo l’attività sportiva nel timore di essere sottoposti a giudizio per via delle dimensioni o della forma dei propri genitali. A volte queste preoccupazioni non sono motivate dalla presenza di reali anomalie, ma ciò non impedisce ad alcuni uomini di diventare preda di idee ossessive e di comportamenti compulsivi, come il guardarsi continuamente allo specchio nel tentativo di confermare le proprie valutazioni o ricorrere a frequenti controlli medici per potere correggere il (presunto) problema.
Stando ad alcune statistiche, circa l’80% dei pazienti che si sottopongono a interventi di allungamento del pene non ne avrebbero alcun bisogno, avendo un organo genitale di dimensioni normali.
Ma qual è la dimensione “normale” dell’organo genitale maschile? I diversi studi effettuati sulla misurazione del pene, considerando la difficoltà a procedere in un’indagine valutata come invasiva e le varie tecniche di misurazione utilizzate, hanno evidenziato alcune dimensioni standard, ovvero relative alla media della popolazione (normalità statistica). La concordanza dei dati evidenzia una dimensione a riposo pari a 8-10 cm in lunghezza (dalla radice dorsale del pene alla punta). Allo stato di erezione, invece, la lunghezza media varia tra i 12-16 cm con una circonferenza pari a 11- 12 mm.
Lo stato di flaccidità del pene ha una dimensione del tutto variabile e questo dipende essenzialmente da alcuni fattori:
la struttura anatomica costituzionale dell’individuo;
agenti ambientali come temperature troppo elevate (il pene si distende); oppure troppo fredde (il pene si restringe);
condizioni di “salute” dello stesso individuo.
Inoltre, è importante sottolineare quanto la percezione che un uomo può avere del proprio organo genitale sia visivamente distorta rispetto al possibile confronto con un altro simile posizionato di fronte.
Gli specialisti concordano nel ritenere che è opportuno parlare di micropene quando la sua lunghezza,in stato di erezione, è inferiore ai 7 centimetri. Condizione davvero molto rara. Questo è stato definito in base all’impossibilità di un pene con tali dimensioni in erezione , di riuscire a penetrare la cavità vaginale. Infatti, le dimensioni del canale vaginale a riposo sono di circa 7,5 cm, quindi un pene che in erezione ne misura mediamente il doppio non avrà particolari difficoltà durante il coito.
Probabilmente l’uomo che rimane legato al concetto di potenza-virilità non valuterà positivamente tali dati numerici, bensì continuerà a confrontarli con le dimensioni degli organi genitali di uomini più dotati, iniziando un confronto anche con la pornografia: tutto questo può rimandare costantemente ad una visione distorta della realtà dei fatti.
Avendo accennato alle caratteristiche dei genitali femminili è importante ricordare che la dimensione della larghezza vaginale ha invece una particolarità: essa può essere definita una cavità virtuale; a riposo le sue pareti sono normalmente unite e si adattano al pene durante il coito. Possiede una grande elasticità e si conforma a dimensioni diverse, non perdendo mai il contatto con il pene che la penetra. Spesso alcuni uomini durante la penetrazione hanno la convinzione che il loro pene non sia adatto per quella vagina. Questo viene riportato essenzialmente in alcune sensazioni dove è presente un’abbondante lubrificazione vaginale. Sarebbe necessario ricordarsi che, se la vagina è particolarmente lubrificata, la donna sta vivendo un costante e piacevole stato di eccitazione e dovreste godere di ciò, invece, di farvi problemi sull’abbondanza del liquido vaginale e sulle dimensioni del pene!(dovreste preoccuparvi se la vostra partner fosse poco o per niente lubrificata)
La sindrome del pene piccolo pare essere in aumento, questo è quanto si evince dagli ultimi dati in andrologia e sessuologia, che rivelano un aumento delle richieste di risoluzione psico-fisica.
A tale proposito, una corretta diagnosi differenziale per comprendere il vero stato delle reali dimensioni dell’organo genitale è indispensabile ed utile. Non è un caso che alcuni studiosi abbiano evidenziato quanto la richiesta di eventuali interventi di allungamento non fosse direttamente correlata ad una reale caratteristica di micropene. Ciò rimanda ad una dismorfofobia peniena, che difficilmente si sarebbe risolta con l’ausilio di tecniche di allungamento chirurgiche e/o fisioterapiche.
In questo caso occorre l’intervento di un sessuologo o di uno psicologo che miri a lavorare sul vissuto problematico del soggetto, consentendogli di riappropriarsi della propria autostima e di imparare ad accettare il proprio corpo perché possa essere accettato anche dagli altri.
Gli uomini che si convincono del fatto che i propri organi genitali siano differenti rispetto agli standard medi provano scarsa stima per se stessi. Le loro ansie diventano di frequente motivo di disagio non soltanto nelle relazioni sessuali ma pure nei rapporti sociali e professionali, nei casi più gravi spingendo i soggetti con dismorfofobia all’isolamento.
In conclusione, l’intervento chirurgico va considerato solo se esiste , secondo lo specialista, realmente una qualche anomalia nella forma o nelle dimensioni del proprio pene : esso può rappresentare una soluzione capace di sollevare il paziente dalle sue preoccupazioni, restituendogli una normale vita di relazione.
Star Wars – Analisi della coppia in uno scenario sistemico (parte seconda)
L’ incontro tra Ian e Leila, avvenuto in circostanze non proprio idilliache ( liberazione di Leila dalla morsa dell’impero), non manca, già dai primi momenti, di segnalare una dinamica relazionale che sembrerebbe propendere verso il polo della simmetria.
Nella saga di Star Wars, una coppia importante e singolare per le dinamiche dell’incontro nonchè per l’evolversi della storia stessa è quella di Ian Solo, un contrabbandiere correliano e capitano della astronave Millenium Falcon, e Leila ( Leia in versione americana) Organa generata, insieme al gemello Luke Skywalker, dall’unione fra la senatrice di Naboo Padmé Amidala (morta subito dopo il parto) e lo Jedi Anakin Skywalker (divenuto Dart Fener).
Subito dopo la nascita sul pianeta di Polis Massa nel 19 BBY, i gemelli furono separati per ordine di Yoda: mentre Luke fu affidato alla famiglia Lars su Tatooine, Leila fu adottata e cresciuta su Alderaan dal senatore, principe Bail Organa e sua moglie, la regina Breha Organa.
L’ incontro tra Ian e Leila, avvenuto in circostanze non proprio idilliache ( liberazione di Leila dalla morsa dell’impero), non manca, già dai primi momenti, di segnalare una dinamica relazionale che sembrerebbe propendere verso il polo della simmetria. Ian con le sue espressioni gergali frutto di un credo misogino e Leila , esperta di dinamiche politiche , e reduce di lotte per affermare una versione diversa del femminile principesco, si ritrovano impelagati in dinamiche relazionali volte al controllo della stessa che li porta, chi per un verso e chi per un altro, ad adottare l’uno verso l’altro pattern relazionali volti alla continua sfida della posizione, dell’ idea e del ruolo dell’altro.
Cigoli e Scabini (Il famigliare, 2010) hanno ampiamente documentato, con studi in letteratura, sulle dinamiche che si innescano nell’incontro, con particolare riguardo alla creazione del patto di coppia ed alla duplice dimensione di patto esplicito ed implicito.
Complessa risulta la convergenza delle due tipologie, avendo questi premesse non sempre in sintonia fra di loro. Volendo considerare la coppia Ian-Leila e, seguendo i parametri suddetti, sembrerebbe esserci un patto esplicito dove il desiderio di potere (Minuchin, 1978) e di dominazione sull’altro ( presenza maggiore della dimensione discordia-deprezzamento, modello circonflesso di Cigoli, Scabini) hanno la prevalenza. “Un antipatto” ( Cigoli docet) ,intendendo con tale terminologia, un devastante attacco al legame. Tuttavia tali considerazioni non sembrano collimare con l’epilogo della storia (convolamento a nozze).
Come si spiega questa duplice dimensione del patto (esplicito ed implicito) non confluente con l’epilogo? Una possibile spiegazione, a mio avviso, potrebbe essere questa: l’apparente non confluenza delle due dimensioni del patto di coppia, sarebbe, in realtà, una mistificazione: patto esplicito e implicito, in modo celato, confluirebbero nell’accordo volto ad una pseudosimmetria (apparente competizione) con prevalenza di pattern comunicativi volti alla squalifica ed alla disconferma, la cui finalità potrebbe essere la creazione di un contesto che funga da compromesso con la dimensione di lealtà alla propria biografia (quella del contrabbandiere scevro di sentimenti di Ian e quella della Leila senatrice con sfera morale ed etica incorruttibile al richiamo dell’amore). Ergo,una apparente non confluenza di patti che, in quel contesto stellare matrice di significati ( Bateson docet), da un lato funge da deterrente per la genesi di un “Altrove” dove le dimensioni emotive, cognitive, politiche si integrano a dispetto del mito societario; dall’altro, salvaguarda la dimensione identitaria socialmente costruita dei due personaggi.
Lo stress è una naturale risposta del corpo sano, che negli esseri umani si è evoluta in modo da proteggerli in caso di pericolo. Questo vantaggio evolutivo è eccellente se ci prepariamo alla lotta o alla fuga in caso di pericolo imminente, ma non è molto utile quando si tratta di affrontare un esame, in quel caso infatti il panico può mettere a dura prova la memoria, mettendo a rischio l’esito dell’esame.
Lo stress è una naturale risposta del corpo sano, che negli esseri umani si è evoluta in modo da proteggerli in caso di pericolo. Quando un individuo si trova ad affrontare un fattore di stress, il corpo rilascia un ormone che provoca diversi cambiamenti fisiologici: il cuore inizia a pompare più velocemente per fornire ai muscoli una maggiore quantità di ossigeno, la pressione sanguigna aumenta e il corpo suda per prevenire il surriscaldamento dovuto all’aumentato del metabolismo.
Questo vantaggio evolutivo è eccellente se ci prepariamo alla lotta o alla fuga in caso di pericolo imminente, ma non è molto utile quando si tratta di affrontare un esame, in quel caso infatti il panico può mettere a dura prova la memoria e creare il classico vuoto di memoria, mettendo a rischio l’esito dell’esame a cui magari ci si è preparati faticosamente per settimane.
Secondo i risultati dello studio di un ricercatore in psicologia sociale, Martyn Denscombe, gli adolescenti soffrono di stress da esame per quattro motivi: le conseguenze educative o professionali connesse con l’esito della prova; la loro autostima connessa alla prestazione (voti più alti=maggiore autostima); giudizi da parte di amici e genitori in relazione alle prestazioni; e la paura di deludere i loro insegnanti.
Cosa si può fare, concretamente, per gestire lo stress da esame? In primo luogo, è necessario ricordare che, anche se sembra come la cosa più importante del mondo, questo esame non vale lo sforzo fisico che il corpo sta compiendo. Quando il cervello sembra vuoto è bene bere un sorso d’acqua e respirare profondamente e lentamente. Questo permetterà al corpo di reidratarsi e fermare gli effetti della risposta allo stress. È importante anche cercare l’aiuto e il supporto della famiglia per discutere in termini realistici sulle conseguenze di un esame andato male, sfatando il mito che solo voti eccellenti possono assicurare una carriera professionale soddisfacente. Come evitare il “vuoto di memoria”? Eccessiva ansia può rendere quasi impossibile allo studente concentrarsi sull’esame e ricordare tutto quello che ha studiato. Questo perché, sotto stress, il corpo rilascia grandi quantità di cortisolo che altera la velocità di recupero della memoria nell’uomo. Il biochimico nutrizionale Shawn Talbott ha dimostrato che c’è il 50% in più di cortisolo nel sangue se un individuo ha dormito sei ore invece delle otto consigliate . E ‘anche importante mantenere una dieta ricca, bere molta acqua e mangiare tre pasti al giorno; questo manterrà il cortisolo al livello naturale, permettendo piena concentrazione sul compito.
Ansia anticipatoria
Se abbiamo vissuto una prova come molto stressante è possibile che alle prove successive si attiverà l’aspettativa, costruita sull’esperienza precedente, di un’esperienza altamente stressante. Questa forma di stress cronico provoca gli stessi cambiamenti fisiologici della risposta immediata allo stress, ma per un periodo di tempo prolungato. Lo stress cronico è difficile da superare e può causare ipertensione, malattie cardiache e indebolire gravemente il sistema immunitario. Alla luce di queste informazioni è importante identificare i potenziali fattori di stress all’inizio dell’anno scolastico, pianificare il calendario e frequentare le lezioni regolarmente evitando di procrastinare lo studio fino all’ultimo minuto.
L’utilizzo del Photolangage nel supporto alla genitorialità. Il Progetto: Cresci tu che cresco anch’io.
Maria Aliprandi, Chiara Gusmani
Gli incontri sono nati con l’obiettivo di aiutare i genitori a comprendere i bisogni dei propri figli, e con l’intento di sostenerli nella ricerca di personali modalità che consentano di affrontare, da un punto di vista emotivo ed educativo, problematiche legate alla crescita.
In questo articolo verranno illustrati l’utilizzo del Photolangage e la sua applicazione nel contesto di incontri a un gruppo genitori di bambini dell’asilo nido; il percorso è stato condotto da due psicologhe e psicoterapeute dello studio ArteCrescita di Milano, che si occupa di psicoterapia dell’età evolutiva e dell’utilizzo della fotografia in ambito clinico e formativo.
Il Photolangage
Il Photolangage, inizialmente teorizzato da Alain Baptiste e Claire Belisle a Lione nel 1965, è stato sviluppato e approfondito da Claudine Vacheret nel suo libro Photo, groupe et soin psychique: si tratta di un dispositivo estremamente duttile, che viene utilizzato sia nella pratica clinica (con adolescenti a rischio, pazienti psichiatrici, tossicodipendenti) sia nella formazione.
Il setting classico del Photolangage è strutturato in sessioni settimanali da un’ora e un quarto circa, condotte da due psicologi, psicoterapeuti, per un gruppo di otto-dieci partecipanti.
La sessione è divisa in due momenti: vi è un primo tempo per la scelta della fotografia in risposta ad una consegna, e un secondo tempo per il confronto in gruppo.
I conduttori pongono una domanda a cui i partecipanti rispondono scegliendo una fra le fotografie disposte sul tavolo. La consegna viene elaborata dai conduttori dopo ogni seduta in base ai contenuti emersi e agli obiettivi del gruppo.
Nella seconda fase ciascun partecipante racconta il perché della sua scelta e ascolta gli altri commentare la stessa immagine portando il loro punto di vista.
Succede quindi che, dando un senso all’immagine scelta, il soggetto prende coscienza del proprio punto di vista e si trova a sostenerlo condividendolo con il resto del gruppo.
Si esercita l’attenzione, l’ascolto attivo e la cooperazione, si sperimenta la fiducia e il sostegno reciproco, arrivando alla condivisione di un’identità di gruppo.
Il ciclo di incontri Cresci tu che cresco anch’io
Lo specifico di questa esperienza è l’applicazione di tale tecnica in un contesto differente: un gruppo di genitori di bambini di un asilo nido che hanno partecipato al progetto “Cresci tu che cresco anch’io”.
Il progetto è nato dalla consapevolezza che la crescita di un bambino attiva in tutta la famiglia, e in particolar modo nei genitori, emozioni e dubbi non sempre facili da comprendere e da condividere. Crescere i propri figli significa anche integrare nuovi aspetti di sé e sperimentare intensi vissuti; il passaggio dall’essere coppia all’essere genitori richiede un cambiamento e una riorganizzazione del proprio assetto, come sintetizzato nel titolo scelto per il percorso.
Gli incontri sono nati con l’obiettivo di aiutare i genitori a comprendere i bisogni dei propri figli, e con l’intento di sostenerli nella ricerca di personali modalità che consentano di affrontare, da un punto di vista emotivo ed educativo, problematiche legate alla crescita.
I percorsi di crescita sono spesso differenti: ogni bambino ha la sua storia e ogni genitore vive emozioni ed affetti che nel gruppo possono essere rielaborati e valorizzati nella loro diversità.
Le tematiche affrontate nel ciclo di incontri sono state quelle tipiche della fase di sviluppo del bambino da zero a tre anni, come ad esempio lo svezzamento, le emozioni, le regole, i bisogni corporei ed affettivi.
Uno degli incontri più sentiti di questo percorso è stato quello dedicato alle regole. Ai partecipanti è stato chiesto di scegliere una fotografia che rispondesse a questa consegna: “che cos’è per te il limite?”. L’utilizzo dell’immagine ha permesso ai genitori, in maniera immediata e spontanea, di esprimere contenuti affettivi profondi legati a questo tema. In linea con le ipotesi di C. Vacheret, sembra si siano attivate aree preconsce, sulle quali è stato poi possibile riflettere attraverso la discussione in gruppo.
La scelta e il confronto sul tema delle regole ha permesso di affrontare sia le difficoltà nel dare regole ai propri figli, sia il vissuto legato al porre dei limiti : Come nella foto, mi sento la mamma cattiva che dice sempre no, e poi mi sento male e cedo, ha verbalizzato una mamma.
Ogni genitore ha raccontato e descritto il proprio concetto di limite, stupendosi talvolta della posizioni degli altri. Alcune foto per esempio suscitano emozioni molto differenti in chi le osserva, ascoltare la versione degli altri può essere inizialmente molto fastidioso, ma consente poi possibilità e aperture nuove.
Sottolineiamo, a tale proposito, che non era negli obiettivi del percorso fornire precise indicazioni pedagogiche ed entrare nel merito di quale sia il “comportamento giusto per affrontare la crescita dei bambini”, dando indicazioni sulle procedure o i modelli psicoeducativi da seguire rispetto a sonno, alimentazione, regole quanto piuttosto provare ad accrescere la capacità riflessiva di ogni genitore su sé e sulla propria relazione col figlio.
Che cosa aggiunge la fotografia ad un percorso di incontri sulla crescita?
Attraverso l’utilizzo del Photolangage, un dispositivo gruppale strutturato e contenitivo nelle sue modalità di svolgimento, è stato possibile favorire l’identità del gruppo, all’interno del quale ogni partecipante ha avuto modo di riflettere sulle tematiche evocate dalle immagini, di conoscere e accettare il punto di vista altrui e di sviluppare una maggior conoscenza di sé e degli altri.
La fotografia è stata un catalizzatore dei contenuti personali e ha facilitato la narrazione di sé, talvolta permettendo piccoli insight: ogni partecipante ha giocato un ruolo attivo negli incontri, alla ricerca della propria modalità di affrontare le sfide poste dal diventare genitore.
Professore Ordinario di Psicologia Clinica
Università di Padova
Sandra Sassaroli intervista per State of Mind Ezio Sanavio , Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università di Padova. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.
L’associazione tra dolore fisico e dolore emotivo non è solo metaforica, l’espressione avere il cuore spezzato è stata scientificamente confermata da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto da un gruppo di medici della Johns Hopkins University (Wittstein et al., 2005).
Vi sarebbe una rara ma grave condizione di compromissione della funzionalità cardiaca causata da uno stress emotivo acuto, condizione tecnicamente nota come “cardiomiopatia da stress”, più volgarmente detta “sindrome del cuore spezzato”.
Dal punto di vista neurobiologico, diverse evidenze dimostrano una stretta connessione tra dolore fisico ed emotivo: dagli studi di Panksepp (1978) sui cuccioli di cane in cui una minima dose di morfina (oppioide in grado di ridurre il dolore fisico) era in grado di alleviare il distress emotivo al momento della separazione dalla madre, agli studi di neuro imaging di Naomi Eisenberger (Eisenberg et al., 2003; Eisenberg et al., 2012) in cui le aree della corteccia cingolata anteriore (ACC) e della corteccia prefrontale ventrale destrale – aree tipicamente attivate nelle condizioni di dolore fisico- si attivavano anche in relazione alla sensazione di esclusione sociale (in qualche modo intesa come forma di dolore emotivo).
Eisenberger propone dunque una lettura evolutiva di tale stretto legame: i piccoli di umano nati in condizioni di neotenia necessitano di legami sociali per sopravvivere fisicamente: recuperare nutrimento e ricevere protezione dai pericoli sono necessità evolutive possibili per il cucciolo di umano solo nella relazione con il caregiver: dunque può essere che nel corso degli anni si sarebbero evoluti di pari passo il sistema di allerta sociale e il sistema di processamento del dolore fisico.
Sulla scia di tali studi, alcune ricerche più recenti (Kross, et al., 2011) si sono poste l’obiettivo di indagare ulteriormente tale legame neurobiologico tra dolore fisico ed emotivo, tentando di indurre nei soggetti un dolore emotivo più intenso e autobiografico presentando ai soggetti fotografie di ex-fidanzati e chiedendo loro di pensare al momento della fine della relazione; in secondo luogo i partecipanti venivano sottoposti anche ad una stimolazione fisica di calore intenso sull’avambraccio che causasse loro una condizione di dolore fisico. Dai risultati è emerso che, oltre alla corteccia cingolata anteriore, il dolore fisico e quello emotivo condividono anche l’attivazione di aree della corteccia somatosensoriale.
Prendendo in considerazione l’aspetto della cura e del trattamento, dunque una nuova linea di ricerca si sta chiedendo se i rimedi dell’uno possano essere utili anche per l’altro. Una ricerca americana (DeWall et al., 2010) ha testato la somministrazione di 1000mg al giorno di paracetamolo – tipicamente usato come antidolorifico- per due settimane in relazione alla riduzione del dolore emotivo (inteso qui in relazione all’esclusione sociale): i soggetti sottoposti a trattamento farmacologico con paracetamolo riportavano minori livelli di dolore emotivo e una minore attivazione della corteccia cingolata anteriore rispetto al gruppo placebo.
In uno studio del 2009 (Master et al., 2009) è stato dimostrato che il supporto sociale è in grado di ridurre l’intensità del dolore fisico: una ventina di donne sono state invitate in laboratorio con i loro partner, e sono state sottoposte a stimolazioni fisicamente dolorose in condizioni di contatto con il partner di diverso livello (dalla presenza fisica alla visione di una fotografia del partner alla totale assenza). Stare in contatto diretto con il proprio partner riduce la sensazione di dolore fisico, così come visualizzarne la fotografia anche se in misura meno intensa.
Dunque tale legame anche in termini di cura sembra essere bidirezionale: i rimedi del dolore fisico possono modulare quello emotivo, e viceversa. E’ importante però fare attenzione a veloci e pericolose implicazioni applicative: cautela – come minimo- rispetto all’uso di terapie per il dolore fisico per la diminuzione di intensità del dolore emotivo: l’assunzione indiscriminata, non prescritta e non controllata di farmaci – tra cui anche antidolorifici- può rispondere al bisogno di spegnere e inibire completamente le emozioni dolorose intense. Tale modalità è sconsigliata e controproducente poiché non consente un’adeguata e funzionale regolazione emotiva spesso con diverse conseguenze negative per il benessere della persona.