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Ruminazione rabbiosa e Impulsività – Report dal seminario con Raymond Digiuseppe Ph.D

I Disturbi di Rabbia: Psicopatologia e trattamento

Report dal seminario

Raymond Digiuseppe
Raymond Digiuseppe Ph.D

Questa è l’osservazione da cui Raymond DiGiuseppe e il suo gruppo di ricerca sono partiti per un interessante viaggio nella letteratura scientifica riguardante questa emozione e le sue implicazioni psicopatologiche e che ha presentato oggi in una lezione magistrale organizzata dalla Scuola di Psicoterapia Studi Cognitivi. 

Nel panorama dei manuali diagnostici di psicopatologia la rabbia ha subìto uno strano destino. Pur essendo una delle emozioni negative di base, non sono state considerate negli anni categorie diagnostiche per disturbi emozionali che fossero centrati sull’esperienza della rabbia.

Hanno sempre dominato emozioni come ansia e depressione. Anche i libri di psicopatologia e psicoterapia spesso non hanno un capitolo dedicato alla rabbia.

Questa è l’osservazione da cui Raymond DiGiuseppe e il suo gruppo di ricerca sono partiti per un interessante viaggio nella letteratura scientifica riguardante questa emozione e le sue implicazioni psicopatologiche e che ha presentato oggi in una lezione magistrale organizzata dalla Scuola di Psicoterapia Studi Cognitivi.

Uno dei temi centrali è il rapporto tra ruminazione rabbiosa e impulsività come elementi caratterizzanti l’espressione rabbiosa. Se si osservano gli strumenti di valutazione clinica della rabbia emergono due modalità espressive. La prima (Anger-IN o rabbia repressa) riguarda una tendenza a mantenere un stato di rancore nella propria mente, verso di sé o verso altri o per esperienze vissute.

Le persone sopprimono l’espressione esterna della propria rabbia ma vi rimangono intrappolati mentalmente. Il marker di riferimento è un pensiero di analisi ruminativa sulle ingiustizie subìte o sulle possibili azioni di rivendicazione e rivalsa. Talvolta anche per giorni, per anni o per tutta la vita.

La seconda (Anger-Out o rabbia esplosiva) riguarda un comportamento aggressivo verbale, fisico contro oggetti o contro le persone.

Ci si aspetterebbe che queste due manifestazioni rabbiose abbiano un rapporto discontinuo e separato, come se si distinguessero rabbiosi da ruminazione e rabbiosi da impulsività. DiGiuseppe al contrario mostra che nella maggior parte rappresentano due facce dello stesso problema, le due componenti sono talmente correlate da rendere complesso distinguerle a livello statistico.

Lo sforzo prolungato per l’autocontrollo affiancato da una tendenza ruminante favorisce espressioni impulsive rabbiose. In altre parole, l’affaticamento da ruminazione e da repressione dell’espressione rabbiosa produce agiti impulsivi, anche innanzi a un evento apparentemente di minore importanza.

L’individuo appare privo di controllo, si sente impulsivo e fatica a essere consapevole dei processi che hanno generato questa risposta. Esiste un modello che descrive questo meccanismo (Baumeister, 2003): l’autocontrollo è un muscolo e come tale si stanca con il tempo, la ruminazione rabbiosa lo costringe a un continuo sforzo.

La dinamica di ruminazione e autocontrollo consuma i livelli di glucosio disponibili nel cervello per mantenere autocontrollo e aumenta il rischio di comportamenti esplosivi. La ruminazione carica di energia rabbiosa intensa che richiede poi un grande sforzo per regolarla.

In una raccolta dati del gruppo ricerca di DiGiuseppe su componente ruminativa e impulsiva della rabbia, solo il 4% delle persone ha alta impulsività e bassa ruminazione rabbiosa e si tratta di persone con problemi neurocognitivi (lesioni orbitofrontali).

Nel 90% delle persone ruminazione e impulsività si muovono assieme. Un altro 4% circa ha alta ruminazione rabbiosa con bassa impulsività. Questi individui per DiGiuseppe sono quelli che manifestano maggior rischio di vendetta violenta.

Quali sono le implicazioni cliniche? Il più frequente riferimento in risposta alla rabbia è il self-inoculation training (Novaco, 1977).

L’obiettivo è usare autoistruzioni attraverso il dialogo con sé stessi per controllare l’impulsività rabbiosa. Il rischio è quello di cogliere la fatica del muscolo dell’autocontrollo o di identificare la propensione alla ruminazione.

La possibilità suggerita è focalizzare sulla costruzione dell’assertività intesa come espressione adattiva della propria rabbia a monte, prima che divenga una pentola a pressione in procinto di esplodere al minimo intralcio.

Questo per uscire dalla dicotomia tra il non dire nulla e l’esplosione imparando nuove risposte (prima in immaginazione e poi in vivo) innanzi agli stimoli che generano rabbia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

I Disturbi Dissociativi della Coscienza di Giuseppe Miti – Recensione

 I Disturbi dissociativi della coscienza

Di Giuseppe Miti (2013). Carocci, Roma

 

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I Disturbi Dissociativi della coscienza rappresenta il tentativo ben riuscito dell’autore di offrire una descrizione chiara e precisa dei disturbi dissociativi della coscienza con un occhio attento per la nuova classificazione Diagnostica proposta dal DSM-V e per recenti linee guida internazionali al trattamento.

[blockquote style=”1″]È dunque da attribuirsi più all’esigente natura delle mie aspirazioni che a una mia speciale degradazione, il motivo per cui si separarono in me, con un solco più profondo, le regioni del bene e del male che dividono e compongono ad un tempo la duplice natura dell’uomo. Per quanto io fossi preda di un profondo dualismo, le due nature in me coesistevano in perfetta buona fede, ed ero ugualmente me stesso sia quando, sciolto ogni freno, ero immerso nella vergogna, sia quando mi affaticavo a lavorare per il progresso della scienza o per dare sollievo al dolore e alla sofferenza.[/blockquote]

Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

I disturbi dissociativi rappresentano una realtà psicopatologica non così rara come molti clinici sono ancora soliti pensare, ma che sempre più frequentemente sono oggetto di osservazione e trattamento. Non solo, ma la loro esistenza pone il clinico di fronte al problema di come il trauma precoce produca dei profondi e  potenti effetti sulla dimensione della coscienza umana, in cui il mondo relazionale dell’individuo gioca un ruolo cruciale.

Questa riflessione e tante altre ci vengono offerte da Giuseppe Miti nel suo libro I Disturbi dissociativi della coscienza, che rappresenta il tentativo ben riuscito dell’autore di offrire una descrizione chiara e precisa dei disturbi dissociativi della coscienza con un occhio attento per la nuova classificazione Diagnostica proposta dal DSM-V e per recenti linee guida internazionali al trattamento.

Ma il libro di Miti è molto di più, nella misura in cui offre al lettore degli spunti di riflessione interessanti sul tema della coscienza e della dissociazione sotto il profilo storico-culturale, scientifico, neurofisiologico e clinico.

Il testo offre prima di tutto al lettore una precisa definizione del termine coscienza, della sua evoluzione nel corso degli anni, sino all’identificazione, attraverso i dati provenienti dai più recenti studi neuropsicologici, della sua origine intrinsecamente relazionale, ovvero emergente dal costante dialogo tra mondo esterno e processi di memoria.

Di qui il concetto di dissociazione, dal modello Janetiano di Isteria alle concettualizzazione degli anni ’80, che pensavano il fenomeno da un lato come parte di un continuum e dall’altro come entità a sé stante e qualitativamente diversa dalle altre. Non mancano gli ultimi e più interessanti sviluppi del concetto di dissociazione, che affondano le loro radici nella teoria dell’attaccamento, e sulla base della quale la dissociazione viene proposta, non più come processo difensivo a seguito del trauma, ma come tentativo di inibire l’attivazione del sistema motivazione dell’attaccamento a scopo protettivo rispetto alle esperienze terrifiche e non-integrabili.

Ad una precisa descrizione dell’attuale classificazione dei disturbi dissociativi proposta dal DSM-V, dove non manca la sottolineatura degli aspetti di continuità e di novità rispetto alla nosografia precedente, segue un capitolo interamente dedicato dall’autore alla memoria e ai ricordi, così intimamente connessi al fenomeno della dissociazione.

I diversi sistemi mnestici vengono descritti da un punto di vista funzionale, dei circuiti neuronali coinvolti e del loro sviluppo precoce nel bambino così come gli effetti che su di essi esercitano le memorie traumatiche, producendo da un lato la sintomatologia più propriamente osservabile nel PTSD e dall’altro i disturbi della coscienza e della memoria. Il coinvolgimento di tali funzioni viene quindi approfondita con riferimento alla neurobiologia delle emozioni, con attenzione al ruolo che i fattori ambientali giocano nella modulazione dell’amnesia e dei falsi ricordi.

L’autore propone a questo punto una riflessione sulla linee guida internazionali di trattamento dei disturbi dissociativi, sottolineando da un lato la maggiore utilità rispetto alle tecniche terapeutiche classiche di quelle più recenti, quali la psicoterapia Sensomotoria, l’EMDR e la Mindfulness, nell’elaborazione e integrazione delle memorie traumatiche. Dall’altro, attraverso la proposta di un caso clinico, stimola nel lettore la riflessione sulle difficoltà e gli errori che possono essere commessi nella psicoterapia con questi pazienti, non priva di insidie, momenti di stallo e soprattutto attacchi alla relazione terapeutica, frutto del costante attivarsi di sistemi motivazionali differenti, la cui gestione rappresenta un elemento cardine del lavoro clinico.

L’efficacia degli interventi terapeutici bottom-up viene inoltre spiegata dall’autore attraverso un attento approfondimento della Teoria Polivagale di Porges (2001), che aiuta il clinico a comprendere l’origine dei deficit conseguenti al trauma da un punto di vista neurfisiologico.

Grande interesse è infine l’ultimo capitolo, che Miti dedica al tema della possessione, con cura e precisione analizzato nella sua evoluzione storica, culturale e religiosa, offrendo al lettore molteplici spunti di riflessione su un fenomeno che il clinico può incontrare nella sua pratica, e che non si caratterizza solamente per la complessità degli elementi che caratterizzano il funzionamento psichico del paziente ma anche per i significati, gli effetti e le influenze che il mondo relazionale e interpersonale dell’individuo, prima bambino, esercita su di esso.

Un testo quindi, quello di Miti, che offre spunti di riflessione interessanti e indicazioni terapeutiche utili al clinico che tratta nella sua pratica questi pazienti così complessi, così come per il clinico che si avvicina per la prima volta alla comprensione dei significati connessi ai fenomeni dissociativi.  

 

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BIBLIOGRAFIA:

Drogati d’amore? Guarire si può

FLASH NEWS

 

Alla base della dipendenza affettiva c’è una profonda necessità di legarsi ad un altra persona, di connettersi emotivamente perché la propria identità e autostima sono costruite sull’opinione altrui.

Può l’amore creare dipendenza al pari di droga e alcol?

Attualmente non sono stati riconosciuti dei criteri diagnostici per definire la dipendenza affettiva e dunque non è stata ancora classificata come patologia, tuttavia la sua fenomenologia trova molte similarità con la dipendenza da sostanze presentando caratteristiche quali ebbrezza (sensazione conseguente allo stare insieme al partner) e dose (quantità di tempo sempre maggiore da spendere all’interno della coppia).

Alexandra Katehakis, fondatrice e Direttore Clinico del Center for Healthy Sex di Los Angeles, racconta le testimonianze di alcuni suoi pazienti con dipendenza affettiva che accusano sintomi comuni, primo fra tutti la paura: paura di perdere l’amore, paura dell’abbandono o della separazione, paura della solitudine e della distanza, paura di mostrarsi per quello che si è, ma
anche senso d’inferiorità nei confronti del(la) compagno(a), senso di colpa, rancore e rabbia, coinvolgimento totale nella relazione e vita sociale limitata, gelosia e possessività, ossessione per l’altro, incapacità di smettere di vedere la persona amata anche quando si è consapevoli che è distruttiva per se stessi, sentimenti di disperazione e fallimento quando si è allontani dal partner; oltre ad altri sintomi simili a tutte le dipendenze come insonnia, nausea, disturbi gastrici e sintomi influenzali, fino ad arrivare a depressione e stati simili al lutto.

Alla base della dipendenza affettiva c’è una profonda necessità di legarsi ad un altra persona, di connettersi emotivamente perché la propria identità e autostima sono costruite sull’opinione altrui. È il disamore di sé, la sfiducia nel proprio valore e nelle proprie capacità a creare la paura di non essere degna d’amore, il bisogno di continue rassicurazioni e la ricerca di conferme di sé nel
partner sono manifestazioni di un bisogno ossessivo di sicurezza che porta a tollerare anche maltrattamenti e tradimenti pur di non perdere l’altro.

Spesso le persone dipendenti hanno un passato di abusi, maltrattamenti fisici ed emotivi che non sono da sole riuscite ad elaborare. Dinamiche familiari di questo tipo vengono replicate nella scelta di partner inadeguati. I dipendenti, infatti, instaurano frequentemente relazioni con persone evitanti finendo col ritrovarsi così in una serie continua di alti e bassi che causano loro
un’incredibile delusione e devastazione.

Anche se questo genere di relazioni tende ad essere molto intenso, di rado porta a una reale intimità. Ciò che fornisce è una fantasia, che non riflette la realtà dell’oggetto del loro affetto.

Le conseguenze di una dipendenza affettiva non sono solo sul piano emotivo, chi ne soffre spesso è così coinvolto nell’inseguimento di queste relazioni malsane da trascurare le proprie responsabilità professionali, la cura personale e quella familiare.

È necessario dunque affrontare questa problematica con un processo di disintossicazione del tutto simile a quello che si mette in atto per chi è dipendente da sostanze, chiedere aiuto è essenziale per superare questo difficile passaggio fatto anche di dolore dell’astinenza e della sensazione di essere perduti. È un percorso di ripresa del controllo sulla propria vita che parte dal
riconoscimento e dall’accettazione della propria vulnerabilità e della propria dipendenza.

Per farlo la Katehakis propone un cammino che combini una terapia individuale a 12 incontri con un gruppo di Dipendenti da Sesso e Amore Anonimi (SLAA, Sex & Love Addicts Anonymous) con cui condividere emozioni ed esperienze e sentirsi meno soli.

 

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Dalla manipolazione alla dipendenza affettiva – Psicologia & Relazioni

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Katehakis, A. (2014). The Process of Love Addiction Withdrawal. Psych Central. Retrieved on May 31, 2014, from  http://psychcentral.com/blog/archives/2014/05/28/the-process-of-love-addiction-withdrawal/

 

Psicoterapia: intervista con Paolo Moderato – Ricerca & Psicoterapia

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Paolo Moderato

Professore Ordinario di Psicologia Generale
IULM Libera Università di Lingue e Comunicazione

 

State of Mind intervista Paolo Moderato, Professore Ordinario di Psicologia Generale, IULM Milano. Past President EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) Past President AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento) Direttore della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale HUMANITAS. Fondatore e Presidente di IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano).
Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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ACT Acceptance and Commitment Therapy

Psicoterapia Sistemico-Relazionale: Intervista ad Alfredo Canevaro

Riproponiamo la trascrizione completa dell’intervista che il prof. Alfredo Canevaro ha rilasciato a State of Mind a Dicembre 2013

SoM – Quali sono i principi teorici e clinici irrinunciabili e che utilizza per orientarsi nel lavoro clinico?

AC – Senz’altro il lavoro con la famiglia di origine, che è il principio cardine della mia filosofia terapeutica e delle tecniche che ho cercato di adoperare e creare in questi anni per far si che questa epistemologia abbia un in incidenza clinica diretta in beneficio del paziente, perchè la mia bussola è stata sempre stata l’efficacia terapeutica. Sono un clinico e tento di integrare le cose buone che arrivano dai diversi rami della scienza. Ho avuto una formazione psicoanalitica dalla fine degli anni ’60, deliberatamente però non volli entrare nell’associazione psicoanalitica perchè all’epoca c’era la tirannia freudo-kleiniana,che imponeva una praxis molto lontana dei miei bisogni, visto che lavoravo con gli schizofrenici e loro famiglie.Cominciai a lavorare con i pazienti psicotici gravi e le loro famiglie già nel ’67, nel servizio diGarcia Badaracco, uno psicoanalista di psicotici molto conosciuto che credeva che la psicosi poteva guarire con la psicoterapia ed era considerato un altro matto! Invece con lui cominciai con i gruppi multifamiliari e poi fondammo una clinica nel maggio del ’68 che ho co-diretto per 13 anni, trattavamo i casi più esiziali di psicosi, la stragrande maggioranaza era schizofrenia, psicosi affettive maggiori e pochissimi tossicodipendenti , però sempre in un contesto multifamiliare dove si interagiva con le famiglie già dal primo momento, poi le famiglie avevano anche la terapia familiare nucleare e i pazienti la loro psicoterapia individuale.

SoM – Multi-familiare nel senso che facevate gruppi di familiari?

AC – Certo, quando la clinica era nell’apogeo con circa 40 pazienti li avevamo divisi in tre micro comunità con 8-10 famiglie ciascuno, poi c’era una sera a settimana in cui si faceva un gruppo multifamiliare di tipo assemblare che poteva coinvolgere 70, 80 persone e 7, 10 terapeuti, che è una tecnica molto importante dove si accede a una comprensione e a un’efficacia che non si ha in nessun altro setting, perchè la potenza delle famiglie insieme è enorme. Cioè ricostruiscono la rete familiare persa della famiglia tradizionale e quando si riesce a far lavorare il gruppo terapeutico si vedono cose notevoli, sopratutto il trattamento della violenza che è una cosa difficile da gestire in altri setting. In quei gruppi c’era un centro drammatico, dove accadevano molte cose e li ho imparato molto attraverso la prossemica, perchè il senso è questo: i pazienti venivano ricoverati dai loro analisti e molti di loro avevano 10, 15, 20 anni di analisi; ho conosciuto uno di 29 anni, con lo stesso ‘analista, che già era passato da padre a nonno e bisnonno, non aveva più interpretazioni da dare a questo povero paziente! Questi pazienti sono sempre molto intelligenti e leggevano anche molta psicoanalisi, ne sapevano più di me che dovevo, comunque sia, cercare di aiutarli, e allora tutti questi sistemi terapeutici erano disfunzionali, perchè l’analista ricoverava il paziente in rotta con la famiglia e in coalizione con il paziente, o in coalizione con la famiglia contro il paziente e i direttori dovevano mediare tra questi sistemi terapeutici disfunzionali, per cui non solo ho visto centinaia di pazienti ma ho visto centinaia di terapeuti all’opera con situazioni molto gravi che mettono alla prova chiunque, per cui ho capito molto bene cosa c’è dall’altra parte della panca. Assistevo a questi dialoghi tra i pazienti e i loro terapeuti su resistenza, transfert, identificazione proiettiva e introiettiva ma erano matti da legare! Per cui ho capito che il linguaggio, pur essendo la massima espressione dell’essere umano, purtroppo serve anche per mentire e mistificare, invece le emozioni non mentono mai, per cui questa è stata la mia scelta, di lavorare con le emozioni perchè poi possano cambiare la cognizione; e per questo lo spazio emozionale, la prossemica erano importanti e cominciai a fare delle esperienze con i pazienti, avvicinandoli per sentire di più che succedeva con loro, o allontanandoli, quando non potevano parlare con i congiunti, da una “I position” parafrasando Bowen. Li facevo sedere accanto a me e da li parlavano in prima persona, comunicando i loro bisogni e sentimenti. Tutte queste esperienze mi sono servite molto per creare alcune tecniche per il lavoro individuale e di coppia. Per cui questo è stato il contesto originario della mia esperienza che poi si evolse verso il concetto dell’approccio trigenerazionale e cominciai a studiare molto l’interazione tra i sistemi familiari di origine di ognuno dei partner e da li allora uno dei metodi che creai, e che continuo tutt’ora a impiegare da più di 35 anni, ed è quando c’è una crisi di coppia convocare ogni famiglia di origine senza l’altro coniuge presente, in questo modo si riescono a capire le coalizioni intergenerazionali, che creano sempre disfunzionalità. Quando tra la prima generazione e la generazione della coppia ci sono coalizioni intergenerazionali alle spalle del partner, queste incidono sempre disfunzionalmente sulla coppia, ma anche quando c’è la coalizione tra un padre e un figlio contro la madre, o viceversa, il bambino soffre. Per cui questo è il concetto: che il legame si basa sull’interazione di due vincoli fondamentali, il vincolo di filiazione, endogamico sanguigno che unisce il padre con i genitori e i figli dei figli, e il vincolo di alleanza, che unisce i rappresentanti di due sistemi famigliari diversi, due clan diversi, questi due vincoli sono antitetici ma complementari, come la luce e l’oscurità, il flusso e il reflusso del mare, più forte diventa uno più si indeblisce l’altro, però insieme costituiscono il punto nodale del sistema trigenerazionale, che è la coppia. Il cuore della famiglia. Noi vedremo sempre situazioni in cui il vincolo di filiazione predomina su quello di alleanza e allora dovremmo cercare di armonizzare entrambi e questo fa parte del lavoro terapeutico che per me è centrale

SoM – Nello specifico con le coppie o anche quando si lavora con i pazienti in individuale?

AC – Certo anche con il paziente individuale è molto importante che il paziente abbia la centralità; nella terapia familiare diceva Boszormenyi-Nagy che ci sono parzialità multidirezionali, cioè il terapeuta deve essere alleato di tutti e complice di nessuno, nella terapia individuale sistemica con gli allargamenti il paziente deve essere centrale; i famigliari sono invitati come testimoni per collaborare nella terapia a portare informazioni, consigli, pronostici, suggerimenti, per aiutare il terapeuta ad aiutare il suo paziente, così io li convoco, perchè penso che l’arte maggiore del terapeuta è volgere la famiglia a favore del processo terapeutico; Uno dei drammi più grandi della psicoterapia individuale è il fatto che molti terapeuti quando il paziente dice “la mia famiglia mi fa impazzire, mi mette i bastoni tra le ruote” tutti dicono “salvati tu!”, anche il terapeuta “vai a vivere da solo e cerca di tenerli a bada!” e credo che questo sia un errore clinico enorme, fonte di molti drop-out, impasse terapeutiche e fallimenti terapeutici.

SoM – Andare nella direzione di una separazione invece che di un avvicinamento

AC – Certo ma questo già lo diceva Bowen, un terapeuta multigenerazionale molto importante: colui che pretende differenziarsi dalla sua famgilia con la distanza fisica o emozionale, non fa che portarsi appresso questa indifferenziazione, che inevitabilmente si ripeterà nelle relazioni significativi che instaurerà nel tempo e la coppia è uno dei sistemi dove inevitabilmente ognuno cerca di neutralizzare, sopperire o elaborare problemi irrisolti con la famglia di origine e questo è uno dei drammi della coppia, perchè la coppia non è fatta per sopperire alla famiglia, la coppia ha una funzione diversa. Io credo dopo più di 46 anni di lavoro intenso con le coppie, e quintali di libri e film fatti su questo argomento che, l’essenza della vita di coppia è: insieme a te nel cammino della vita sto meglio che da sola/o, punto. Tutto il resto sono proiezioni, depositazioni che si fanno sul partner in un tentativo di risolvere quello irrisolto con la famiglia d’origine e questo porta a molti fallimenti di coppia perchè il partner si sente ingiustamente trattato “io non sono quello che tu mi dici!”. Ad esempio, se una donna che ha una madre anaffettiva dice al partner “tu non mi vuoi bene, non mi coccoli, non stai con me tutto il tempo” e lui si sente offeso “ma come? tu sei la persona che più amo nella vita, ti do tutto il mio tempo libero, ma tu sei un barile senza fondo!”. Se noi abbiamo la possibilità di invitare questa donna con la madre in seduta e cercare di capire il perchè di questa anaffettività, giacchè può essere che questa madre sia stata depressa, abbia avuto problemi, o non sia stata accolta bene dalla famiglia del marito o dalla propria, o che abbia avuto drammi esistenziali che possono spiegare questa situazione, e se noi riusciamo a creare una relazione figlia-adulta/madre più soddisfacente inevitabilmente il partner ci dirà che la relazione di coppia è migliorata molto.Se non è così è perchè è un problema specifico della coppia.

SoM – Per cui tornare sempre alla famiglia di origine sia nelle terapie di coppia che quelle individuali

AC – Si, tornare in un momento iniziale del processo terapeutico sia individuale che di coppia. Per esempio con il lavoro del paziente individuale, io ho pubblicato 4 anni fa un libro che si chiama “quando volano i cormorani” sulla terapia individuale sistemica con l’allargamento ai famigliari significtivi. I cormorani sono uccelli marini che fanno 3 o 4 salti di qualità nella loro autonomizzazione, questo lo scopri Kortland, uno zoologo olandese, negli anni ’50, cioè il cormorano prima è nel proprio nido, poi si sposta nel proprio albero, poi negli alberi vicini, poi scompare in giro per qualche giorno, poi torna ed è rimbeccato per 3 giorni dai genitori e poi spicca il volo fino alla primavera successiva, malgrado la chiamata insistente dei genitori. E Kortland chiamò a questo processo la reprogressione biologica: fare un passo indietro per farne due avanti. E questo è quello che io cerco di fare con le famiglie, andiamo indietro per cercare di avere il nutrimento affettivo e l’accettazione del sé originale del proprio paziente per poi spiccare il volo verso il suo progetto esistenziale. Io credo che l’arte più grande è che il terapeuta possa impiegare la sua energia nel liberare gli ostacoli che impediscono la normale crescita e differenziazione che appartiene a tutti gli esseri umani, persino allo psicotico più grave. Diceva David Cooper, uno psichiatra sudafricano, anti-psichiatra, che nei circhi della Boemia di metà ‘800, mostravano esseri umani fatti crescere in casse di legno per cui diventavano mostri, lui diceva che anche noi riusciamo a crescere nelle nicchie che la famiglia ci fa attorno, come rappresentante di un autoritarismo sociale,che anche noi in certo senso possiamo essere mostri.. Va bene, io riscatto in questo esempio la forza della crescita, il bisogno di differenziazione che è insito in ogni persona ed è bloccato dai conflitti familiari, se noi riusciamo a liberare gli ostacoli, convocando i familiari e lavorando nei processi disfunzionali, il paziente migliorerà” da solo,”, perchè anche la vita è terapeutica. Per cui impiegando molta forza in quella fase della terapia sia individuale che di coppia e poi il paziente-cormorano può volare con le ali meno cariche di zavorra e allora lì lavoreremo veramente sul progetto esistenziale del paziente.

SoM – Lei fa prevalentemente terapie individuali sistemiche con questa tecnica degli allargamenti. Come è avvenuto il passaggio dalla terapia familiare classica al lavoro sui sottosistemi?

AC – La terapia familiare congiunta sempre e comunque inizia 50 anni fa ed è importante nei casi gravi di psicosi, tossicodopendenza, o pazienti borderline poter convocare la famiglia, invece quando il paziente è meno grave, che poi sono l’80% dei pazienti che vanno in giro cercando terapia, questi pazienti per il fatto di non essere gravi hanno perso l’opportunità di convocare la loro famiglia in terapia, per questo motivo questo il metodo del libro dei cormorani si applica ai pazienti che possono avere una vita più o meno autonoma. L’errore della psicoanalisi, ma anche delle terapie cognitiviste o sistemiche che non pensano in termini di famiglia, è separare il paziente anziché aiutarlo a differenziarsi attraverso la famiglia, e non contro la famiglia. Questo può portare molti pazienti a fare, come diceva Bowen, un cut-off, un taglio emotivo, si salvano dalla famiglia, fanno un percorso molte volte positivo, molte volte con anni e anni di terapia, ma rimane sempre una mutilazione emozionale, che è molto diversa da quando si fa attraverso il lavoro con la famiglia, dove il paziente possa ricevere quello che gli spetta dagli altri, come i genitori, il nutrimento affettivo e la conferma del sé originale di ogni persona, questo appartiene a loro ma ce l’hanno i genitori e a volte lo lesinano per paura di rimanere da soli, di avvicinarsi di più alla morte. Questo è il problema delle generazioni in terapia, quante volte un uomo o una donna, più le donne anziane, dicono al figlio “io che ti ho dato la vita, adesso la devi dare tu a me”, io dico “alt! Non è così che vanno le cose: quando lui o lei darà ai suoi figli l’amore e la protezione che lei ha dato a lui/lei ripagherà indirettamente a lei il debito esistenziale di essere in vita, perchè il tempo scorre sempre in avanti e mai indietro”, questo è la migliore differenziazione che si fa dentro la famiglia, perchè un altro errore frequente che si fa concettualmente è pensare alla famiglia di origine come là e allora, invece la famiglia c’è sempre fino a che noi campiamo o campano loro, un padre e una madre a 90 anni può essere importantissimo con un gesto di affetto, con un informazione, con un contributo a questo figlio, e qui tocchiamo un altro mito della psicoterapia: mi diceva una terapeuta sistemica tanti anni fa “Che c’entra la famiglia di origine in un adulto! Uno a 25 anni è già adulto!” un altro errore notevole; Nella casistica pubblicata sul libro dove due ricercatrici della scuola e un giudice imparziale come Matteo Selvini crearono dei questionari e li mandarono a un ottantina di pazienti che avevo trattato nell’arco di 5 anni, non per 5 anni. Risposero al questionario 66 persone, che era un 82% che negli standard internazionali viene accettato come valido; il 10% dei pazienti avevano tra i 40 e i 60 anni e io ero riuscito a convocare i loro genitori sani di 80, 85 anni, persino ho il record di una nonna di 93 anni che convocai insieme alla figlia e alla nipote che era la mia paziente per vedere un problema trigenerazionale nell’asse femminile: la nonna prese il microfono e non lo mollò più! Diede una visione panoramica della famiglia che sembrava una terapeuta familiare, aiutò moltissimo la nipote…e aveva 93 anni! Questo è un altro mito che sto cercando di demitificare

SoM – La famiglia vista come una risorsa e come un luogo in cui fare cambiamenti nel presente, nel qui e ora, non solo in una visione storica

AC – Certo, molte volte cerco di applicare alcune tecniche esperenziali per favorire il processo di differenziazione, una si chiama lo zaino, dove si incontrano i genitori e i pazienti in un momento importante della terapia, dopo aver già collaborato nel primo tratto e quando il paziente già ha risolto molti problemi con loro e prima di andare nella fase del percorso terapeutico che io chiamo “del progetto esistenziale”, gli faccio fare questa tecnica dello zaino, che è molto intensa e semplice nella esecuzione ma potentissima nella differenziazione: vengono i genitori e lo fanno alternativamente con il figlio o molte volte lo faccio in sedute diadiche con il padre e la madre, li faccio sedere di fronte gli uni agli altri, prendersi le mani, le ginocchia si toccano, c’è una grande prossimità, si guardano negli occhi e chiedo al padre o alla madre di fare finta che il figlio o la figlia abbia uno zaino dietro le spalle e gli dico:”Cerchi due o tre aspetti del suo carattere che abbia coltivato nella vita e di cui sia orgoglioso/a, da dare in dono a suo figlio, così quando lui, nel lungo cammino della vita ne avrà bisogno prenderà dallo zaino quello che Lei gli ha dato e lo farà proprio…” Allora loro danno generalmente danno cose positive previste dal loro ruolo sociale “ti do la mia onestà, la mia gioia di vivere, la forza, la pazienza”, i genitori devono equipaggiare lo zaino del figlio, questo è il loro compito; La cosa più interessante è che poi io chiedo al paziente di lasciare qualcosa ai genitori di sé stesso, del suo carattere, dei suoi sogni, dei suoi hobbies, qualcosa che il padre o la madre possano gradire avere di questo figlio o figlia, e lì succedono cose molto belle perchè vengono chiaramente fuori delle funzione vicarianti silenti, silenziose, che ogni figlio fa per sostenere i genitori, in modo inconsapevole e che mantiene l’invischiamento. Quando un figlio dice “ti lascio la speranza di ritrovare cose buone in te”..una figlia diceva alla madre depressa, sempre vestita di nero “ti lascio i miei vestiti colorati”, un altra diceva “ti lascio i mio amore per i viaggi o per l’aria”, questo che loro danno sono funzioni che inconsapevolmente mantenevano l’invischiamento, sostenendo i genitori. Quell’incontro intenso è anche un congedo, perchè come dicevano i cinesi non si può separare niente che non sia stato unito precedentemente, allora in un certo senso è una trappola bonaria in cui io li metto, perchè i genitori non possono non sancire ufficialmente che il figlio o la figlia deva differenziarsi però nel contempo tutte queste emozioni che sono intensissime arricchiscono la relazione e tutti i pazienti del questionario dicevano che dopo lo zaino spiccarono il volo, per cui è una tecnica molto potente che ha avuto molto successo nella scuola e in altre scuole, italiane e non

SoM – Per cui è una tecnica in cui si rende esplicito ciò che è implicito della relazione?

AC – Sì, anche se io non lo segnalo, io promuovo attivamente un’esperienza e dico a loro: tutte le emozioni che sono sorte, che sono la vostra ricchezza tenetele dentro, fatele scorrere e non cercate di incasellarle subito, e andatevene, vi ringrazio di essere venuti

SoM – Quindi non è una tecnica che prevede una riformulazione da parte del terapeuta?

AC – No, loro devono vivere questo. Poi dopo magari riusciremo a capire con il nostro paziente e a elaborare quello che è successo ma io cerco di fargli vivere un’esperienza nuova, perchè tanti lo dicono che mai hanno avuto questa possibilità. Alla fine dell’esercizio gli dico adesso datevi un abbraccio in silenzio senza parole, e ognuno posi la testa sulla spalla dell’altro il tempo necessario… Allora li a volte è fantastico come sorgono emozioni bellissime nell’abbraccio, molte volte piangono, si accarezzano, è un incontro notevole che poi favorisce la differenziazione, da solo

SoM – Quindi una tecnica esperenziale, ce ne sono altre che lei utilizza?

AC – Si, ci sono due tecniche di lavoro con le coppie che ho creato lungo tanti anni e che sono potenti, molto, una che serve a lavorare sull’identificazione proiettiva, che è la bestia nera della vita di coppia e della terapia di coppia: i partner si sono fusi durante tanto tempo in modo tale che è impossibile vedere la trave nel proprio occhio, questo uno lo può dire, lo può interpretare ma scivola su di loro. Invece ho creato questa tecnica: lavoro sulla rabbia, li faccio sedere lontano, e ciascuno alternativamente deve dire le 2 o 3 cose peggiori dell’altro e spiegare perchè, e viene fuori di tutto! Poi chiedo a loro di dire la stessa cosa in prima persona “ io sono…” Questo lo facevo per alcuni anni però logicamente a nessuno piace trovare la trave nel proprio occhio, per cui i risultati non erano soddisfacenti, fino a che un giorno, 8, 10 anni fa, stavo lavorando con una coppia di cui conoscevo le famiglie di origine e ho aggiunto una cosa che credo l’ha resa molto più incisiva e trasformativa: chiedo alternativamente a ciascuno se nella loro convivenza con la famiglia di origine o tutt’ora chi è così e così, e ripeto gli aggettivi usati per definire il partner, immediatamente viene fuori la risposta “ è mia madre” “è mio padre”, a volte inaspettatatamente “è mia sorella o mio fratello!” che non era apparso nel dialogo, allora andiamo direttamente alla fonte della proiezione, agli oggetti primari con cui si è vissuta, prima della depositazione che poi si fa sull’altro per cercare di vivere più leggero. Io chiamo questo lavoro con la coppia “per arte di levare”, come diceva Michelangelo parlando della scultura: la statua è già insita nel marmo, io non altro faccio che liberarla del superfluo. Io credo che la coppia è un grande attaccapanni dove ognuno deposita quello che non ha risolto con la famiglia di origine e a volte questo attaccapanni è così pieno che neanche si riescono a vedere i membri della coppia, altre volte ha su di sé così tanto peso che si rompe. Quando noi riusciamo a levare tutte queste proiezioni, riusciremo a vedere cosa c’è sotto: se c’è affetto e c’è incontro l’ossigeno farà si che in un certo tratto migliorino moltissimo, ma altre volte vediamo che l’amore è morto, allora è meglio seppellirlo perchè altrimenti puzza. Questa definizione della relazione, questo incontro o disincontro è quello che io cerco, perchè poi da li si partirà in una terapia che riesca a mettere in risalto gli obiettivi

SoM – Per cui una terapia di coppia che sposti dal problema di coppia ai problemi che ciascuno ha con la sua famiglia di origine

AC – Certo, questo lo faccio quando non posso lavorare convocando le famiglie di origine in terapia. Poi quando la rabbia è andata via faccio un altro esercizio che chiamo “dell’intimità”, che consiste nel mettersi di fronte, guardarsi negli occhi e fare una serie di esercizi a occhi chiusi, toccandosi il viso, cercando di rivivere chi è l’altro e poi aprendo gli occhi cercare lo sguardo, ma sopratutto chi c’è dietro lo sguardo. Questo è un esercizio molto importante che dà una miriade di informazioni nel non verbale e molte volte definisce una terapia. Una volta mi è capitato che una donna si mise a piangere sconsolatamente durante l’esercizio perchè aveva capito che voleva separarsi ma non aveva la forza di dirlo e in quel momento queste lacrime permisero di capirlo. Un’altra volta avevo fatto un seminario a Buenos Aires con una coppia disfunzionale di cui avevo visto entrambe le famiglie di origine, stava finendo il seminario e io ancora non avevo capito che c’era in quella coppia! fino a che fecero questo esercizio: improvvisamente l’uomo si alzò indignato, andò a sedersi altrove…aveva sentito che la moglie non c’era più nella relazione, ed effettivamente lei disse “sì mi voglio separare e avevo paura di dirtelo”, e questo permise di lavorare meglio la situazione. È una tecnica semplice ma molto intensa.

SoM – La quarta domanda: lei come valuta e monitora il cambiamento in terapia?

AC – In quella ricerca che si fece c’erano una serie di domande, per esempio è soddisfatto o no dei risultati raggiunti? Pensa che gli obiettivi terapeutici siano stati raggiunti? È molto soddisfatto dei risultati o oltre i risultati raggiunti la qualità della sua vita è cambiata in meglio? Nella mia casistica il 10% ha risposto “non sono soddisfatto, non ho raggiunto i risultati desiderati”, un 30% “sono soddisfatto perchè ho raggiunto gli obiettivi desiderati” e quasi il 40% “sono molto soddisfatto perchè oltre ai risultati raggiunti la qualità della mia vita è migliorata”

SoM – Il cambiamento lo valuta il paziente, è valutato sulla soddisfazione del paziente?

AC – Si. non faccio altre valutazioni. Una delle domande se non sbaglio è “come si mette fine alla terapia”, io al primo incontro cerco di definire molto bene il problema della consultazione, cioè “mi dica dove le preme la scarpa adesso”. Poi tracciamo gli obiettivi terapeutici. Io nella verifica della terapia riprenderò questo primo foglio perchè vedremo insieme cosa è stato raggiunto o meno, cosa manca. Quando si sono raggiunti gli obiettivi io dico “possiamo finire adesso la terapia o se lei vuole possiamo fare due incontri trimestrali e uno semestrale”, per cui sarò ancora in contatto per un anno con questa persona con 3 incontri; il 90% preferisce così e devo dire che nel 99% dei casi ogni volta che vengono stanno meglio, perchè la terapia continua, loro sanno che hanno quella scadenza e continuano a lavorare sulle linee guida, sulle cose che abbiamo visto insieme

SoM – Quindi una separazione graduale?

AC – Si, ma poi io lascio una porta aperta, perchè a volte una persona può essere migliorata molto ma può avere un momento della sua vita, fa un figlio, si sposa, o fa un viaggio importante, o si laurea eccetera, e ci sono altre situazioni esistenziali positive che possono sconvolgere la persona, se loro vogliono ritornare per vedere quello io ci sono, non chiudo la porta. Non sono tanti che tornano ma se tornano è perchè qualcosa di nuovo ha modificato la loro vita

SoM – La sesta domanda riguarda il paziente difficile, che è un po’ il must della terapia familiare di stampo classico. Ritiene che con questo tipo di pazienti le sue tecniche e le sue procedure si modifichino?

AC – I pazienti difficili indubbiamente hanno bisogno della loro famiglia in terapia e queste tecniche si possono applicare quando il paziente sta meglio. Anche se ricordo il caso di uno zaino fatto con un ragazzo psicotico, figlio unico di madre vedova, per cui una trappola mortale! Io feci venire un intimo amico del padre che conosceva a menadito i problemi che il padre aveva con questo figlio e che sapeva più cose del padre della moglie e del figlio stessi, è stata una collaborazione molto importante e questo ragazzo è riuscito a migliorare molto. Però quando ci sono pazienti difficili, mi riferisco agli psicotici, li si deve lavorare molto con la famiglia perchè il paziente possa poi continuare da solo, in quel tratto dobbiamo lavorare con molte tecniche, sopratutto con un accompagnamento intenso per riuscire a modificare molte situazioni che sono sempre legate alla vita famigliare. Io in 46 anni intensivi di lavoro non ho mai trovato una famiglia sana con un figlio disfunzionale, piuttosto il contrario qualche volta si vede, che da una famiglia disfunzionale una persona grazie alla resilienza possa migliorare, sicuramente, però al rovescio mai, non credo che lo psicotico, il tossicodipendente o il borderline cresca ex novo da una famiglia sana, io non ci credo

SoMCon i disturbi di personalità c’è un lavoro specifico che fa?

AC – Ovviamente dipende dal disturbo, però cercherò di lavorare sicuramente con i personaggi significativi della famiglia; molte volte devo iniziare con un fratello o una sorella per arrivare ai genitori, sopratutto ai padri, che purtroppo vengono considerati nella terapia marginali, assenti o periferici; ma io dico sempre che se sono considerati periferici e marginali è perchè tacitamente c’è un centro, ed è la madre che occupa quel centro; per cui io critico i terapeuti familiari di avere fatto una terapia familiare troppo maternocentrica, non abbiamo sviluppato tecniche terapeutiche di coinvolgimento dei padri; Io sono stato testimone dell’amore sfegatato che molti padri hanno per i loro figli e non sanno se devono dirlo, se possono dirlo, o non sanno come dirlo perchè sono analfabeti emotivi, però quando ci si riesce, sopratutto con la figlia, l’incontro con il padre può dare una svolta notevole alla terapia, perchè c’è questo mito, molti padri arrivano a casa e appendono al chiodo la loro funzione perchè entrano nel regno materno e allora sono considerati dai figli marginali, poco interessati a loro, ma non è così, è talmente forte ancora l’impronta socio-culturale, dicevano i romani “pater patrimonio, mater matrimonio”, casa e figli…che malgrado gli anni di liberazione femminile, di accesso della donna al mondo del lavoro, che hanno liberato la donna dalla famiglia, tutt’ora questo è molto forte e la madre è la centralinista della famiglia che comunica con tutti e questi padri, quando vengono e possono trasmettere quello che sentono, è una cosa straordinaria! L’ho visto recentemente in una paziente, che aveva fatto un tentativo gravissimo di suicidio, ricoverata con molte ferite, seguita da uno psichiatra- psicoterapeuta individualmente che mi chiese di aiutarlo lavorando con la famiglia, e così feci, e quando sono riuscito a convocare separatamente il padre e la madre, (i genitori erano separati), con il padre fu una cosa impressionante perchè quest’uomo era molto provato dal gravissimo tentativo di suicidio della figlia e facemmo lo zaino e disse “ti do tutto l’amore che ho per te perchè tu lo possa trasmetterlo ai tuoi figli, tutto l’amore che non ti ho mai detto di avere” piangendo sconsolatamente, poi ci fu un abbraccio straordinario. Poi in un seguente incontro ho lavorato con la madre che era una depressa che lei doveva sempre sostenere, invece nell’incontro la madre si dimostrò molto più competente con la figlia di quanto lei pensasse. Dopo questi incontri la paziente disse al suo terapeuta “durante questi incontri con i miei genitori ho sentito un clic e mi sono resa conto che posso guarire”, per cui sono cose molto potenti e significative anche in casi gravi come questo

SoM – Ci sono situazioni in cui, sempre all’interno della terapia individuale sistemica, non propone l’allargamento?

AC – Io cerco di farlo sempre perchè è una risorsa e un arricchimento della persona, ma certamente ci sono situazioni in cui non si può fare, perchè i pazienti hanno molta paura, o cresciuti in una logica di potere sentono che sono stati schiacciati o derisi nei loro tentativi, o che saranno risucchiati di nuovo dalla famiglia, ci sono casi in cui non si può fare

SoM – Quindi si procede con un lavoro individuale di ricostruzione

AC – Certo, tutte le controindicazioni possono essere risolte, tranne una: che è la malafede. Secondo me è l’unica grande controindicazione, contro la quale a volte non abbiamo armi per difenderci. Molte volte il paziente non ti dice che viene mandato in terapia, che la moglie gli ha detto “o vai in terapia o mi separo” o molte volte ha fini oscuri, certamente abbiamo strumenti come il controtransfert, però la verifica certa la faremo con gli allargamenti, come mi diceva un paziente in terapia di coppia, quando spiegai cosa avremmo fatto, “ma così non si può barare!”, per cui io cerco di farlo sempre, io non so se è perchè sono troppo entusiasta del modello, a volte capita che ci innamoriamo del nostro modello e diventiamo un po’ fondamentalisti, però io ho visto che questo funziona clinicamente, i risultati si raggiungono, per cui penso che il mio delirio è questo! Convocare famiglie di origine! Però è un delirio che produce buoni risultati per cui non prenderò l’aloperidolo!

SoM – Ultima domanda, l’integrazione con gli approcci non sistemici. Cosa ne pensa? L’ha effettuata in prima persona? Ha effettuato per esempio forme di training per imparate tecniche o approcci diversi dal suo?

AC – Si, io ho fatto 35 anni fa un paio di laboratori gestaltici che mi sono stati molto utili, poi ho imparato alcune tecniche psicodrammatiche, ho lavorato anche su concetti cognitivisti e psicoanalitici. Nella sua essenza la psicoanalisi è un’antropologia famigliare, ma io sono molto critico con la tecnica, ho visto troppi fallimenti terapeutici per una tecnica che passa anni ad analizzare il pupazzo senza toccare il ventriloquo, questo porta a fallimenti terapeutici, e sfortunatamente ne ho visti tantissimi. Questo è il dramma della psicoterapia, si dice in Argentina “ogni maestrino con il suo librino”, ognuno cerca il suo…però io punto molto sui fallimenti terapeutici che chiamo “la voce poco ascoltata dei pazienti” e sopratutto penso che i pazienti possano aiutarci a capire i problemi significativi dei loro congiunti perchè li conoscono da anni. Il terapeuta individuale purtroppo, nel suo santuario, nel suo delirio di onnipotenza, crede che può risolvere tutto con i pazienti e molte volte si mette in un braccio di ferro micidiale con la famiglia in cui è sempre la famiglia che vince, purtroppo a spese del paziente; perchè il terapeuta può annoverare più fallimenti terapeutici, però per il paziente si tratta della sua unica vita, per questo sono molto critico con questa posizione del terapeuta che non è per niente umile, io so che la famiglia è molto più potente del paziente e di me e questo mi da una forza notevole per lavorare con loro, può sembrare onnipotenza e invece nasce dalla mia convinzione che loro sono più forti di me, per cui andrò a lavorare intensamente con loro perchè riescano a modificare i comportamenti disfunzionali

SoM – Quindi la famiglia in una funzione co-terapeutica, quando possibile

AC – Si, la famiglia viene convocata come testimone per collaborare, ovviamente a volte vediamo problemi seri che dobbiamo trattare a volte a brutto muso, ci sono situazione molto difficili. la famiglia fa impazzire i suoi membri ma anche li può guarire, noi dobbiamo approfondire le risorse che possono intensificare la forza guaritrice della famiglia. Noi possiamo stare una vita perchè il paziente migliori combattendo le sue incompetenze individualmente, invece stimolando le risorse già si relativizzano i problemi, per cui convocare una famiglia che possa aiutare il suo congiunto è sempre una risorsa utile e a volte determinante per la sua evoluzione.

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Donnie Darko (2001): un prototipo di adolescente americano – Recensione

 

Donnie Darko è  ormai un vero e proprio cult-movie che ogni adolescente conosce e che a distanza di anni non cessa di attrarre pubblico e critica lasciandosi apprezzare per quello che è: un film originale, ben diretto, emotivamente coinvolgente. Soprattutto è un film che ama confondere; ma per spiegare cosa?

Nel 2001 esce nelle sale Donnie Darko, il primo lungometraggio del regista statunitense Richard Kelly. Sembrava finita lì, in un modestissimo risultato di botteghino. Poi un nuovo montaggio, il passaparola incessante alimentato dal fascino giovanile e sinistro che la pellicola emana, la presentazione al Festival del Cinema di Venezia e il successo.

Donnie Darko è  ormai un vero e proprio cult-movie che ogni adolescente conosce e che a distanza di anni non cessa di attrarre pubblico e critica lasciandosi apprezzare per quello che è: un film originale, ben diretto, emotivamente coinvolgente. Soprattutto è un film che ama confondere; ma per spiegare cosa?

Donnie è uno schizofrenico, assume farmaci, segue una psicoterapia, ha un amico immaginario che gli indica data e ora della fine del mondo. Intorno a lui, tutti i personaggi della kermesse bacchettona e sessuofoba di una società moralizzatrice che ama difendersi dalla paura di vivere azzimando i prati e curando le facciate di case pulite e perfette che sono l’esoscheletro della rettitudine di chi vi abita.

Troviamo così il sedicente terapeuta a metà tra lo psichico e il mistico che predica l’amore incondizionato ma che poi nasconde in cantina una pornoprigione per ragazzini, l’insegnante puritana che si batte per la censura dei libri pericolosi, e poi bulli e vittime, nevrotici, perversi, dementi, vittime di violenza domestica; tutta la psicopatologia che la canonica hollywoodiana scotomizza alla ricerca del più confortante e remunerativo happy end.

Il film sa coinvolgere sin dall’inizio ma è nel finale che esprime pienamente il suo potere attrattivo; i fan di tutto il mondo hanno elaborato le teorie più fantasiose per cercare di raggrupparne il senso, tuttavia è la dissociazione il tema portante: sin dall’inizio, dove si assiste ad una vera e propria fuga dissociativa da manuale, scene assolate e di una rassicurante quotidianità lasciano il posto a tenebre inquietanti, cariche di presagi di morte e terreno d’azione per l’alter ego di Donnie, distruttivo e grandioso.

Sempre in primo piano, lo spaccato intrapsichico di un adolescente in contrapposizione a quel provincialismo americano che fa della repressione intellettuale un’arma infallibile e che trova nella moralizzazione -la variante meno laica delle difese razionalizzanti- la maniera di soffocare ogni passione e ogni sommovimento originale e scandalosamente creativo; con grande efficacia il regista crea scene che mettono alle strette una collettività impaurita dalla variabilità delle condizioni umane, attraverso la sovversione di metodi educativi asfittici, smascherando la falsa rassicurazione della consuetudine ideologica per mettere al centro dell’uditorio l’ansiogena presa di posizione dell’autenticità del pensiero.

Il disturbo della condotta manifestato dal protagonista, che deturpa monumenti, distrugge proprietà e appicca incendi per vendicarsi del rifiuto e dell’incomprensione ricevuti, riverbera in un’altra operazione sovversiva, questa volta dell’etica dell’industria cinematografica, che vorrebbe preferibilmente film dal senso compiuto e univoco, ed evidenzia la tendenza chiaramente anticonformista del regista, che in alcuni casi sa colpire nel segno in maniera così puntuale e consapevole di certe dinamiche intrapsichiche da far nascere il sospetto che egli stesso non sia completamente digiuno di certa sintomatologia psichiatrica, e che tutto il film non sia che l’autobiografica elaborazione della propria adolescenza.

Il regista trasforma lo spettatore in uno schizofrenico prototipico confondendolo e proponendogli versioni alternative della realtà, aberrazioni temporali, confusioni identitarie, allucinazioni, in maniera tale da impedire ogni soluzione cognitiva, cosa che già di per sé sarebbe un buon descrittore della patologia psicotica.

Non sappiamo se il film sia una proposta di comprensione della fenomenologia del contatto con la realtà, e in questo caso se il tentativo sia stato conscio oppure accidentale, fatto sta che l’utilizzo di un linguaggio preverbale, l’ambiguità del senso o l’imperfetta possibilità di una sua condensazione, la perturbazione dei significati e la cortocircuitazione della logica lineare, si rivelano il mezzo perfetto, anzi l’unico adatto a simbolizzare allo spettatore quelle condizioni di funzionamento mentale alterato dove ciò che manca è proprio una funzione simbolica sufficiente, che fa sì che le nostre esperienze siano riconoscibili agli altri invece che aliene.

In altre parole, l’originalità del film e la sua spiccata ambiguità sono il prodotto di un bisogno intimo di rappresentare parti di Sé complesse, o piuttosto di uno più commerciale, dove un giovane regista debutta provocatoriamente nella Hollywood dei grandi divertendosi al pensiero di quante teorie astruse verranno elaborate per spiegare il suo film? Oppure le due ipotesi sono in realtà la stessa cosa?

In definitiva è un film che merita di essere guardato, perché offre l’opportunità di comprendere meglio che un’apparente complessità è essa stessa la rappresentazione riuscita di un’esperienza soggettiva, vissuta da molti adolescenti, dove il senso di Sé è percepito dolorosamente distante dal resto del mondo.

 

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Consumo terapeutico di marijuana: può ridurre i sintomi del PTSD?

Ioana Marchis

 

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Un recente studio clinico condotto in New Messico e pubblicato sulla rivista Journal of Psychoactive Drugs, ha evidenziato come il fumo di cannabis (canapa) sia associato, in alcuni pazienti, alla riduzione dei sintomi del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD).

Nel 2009, il New Messico divenne il primo stato ad autorizzare l’uso medico della cannabis per i pazienti con PTSD e a tale scopo venne fondato un centro clinico.

All’interno di questo centro fu condotto il presente studio longitudinale dal 2009 al 2011.

Alla ricerca hanno partecipato 80 pazienti selezionati inizialmente attraverso delle interviste telefoniche e poi sottoposti ad una valutazione psicologica. Per essere inclusi nel campione, i partecipanti dovevano soddisfare i seguenti criteri d’inclusione: aver vissuto un’esperienza traumatica ed aver avuto una risposta emotiva ad essa (criterio A del DSM-4 per la diagnosi del PTSD); la presenza di sintomi di esperienza rivissuta, evasione e ipervigilanza; tutti sintomi presenti in assenza dell’uso di cannabis; la mancanza di qualsiasi danno o problemi di funzionamento derivanti dall’uso di cannabis.

Prima e dopo la partecipazione al programma per l’uso terapeutico della cannabis, i partecipanti sono stati valutati attraverso il metodo CAPS cioè uno strumento di ricerca frequentemente utilizzato nel PTSD che pone domande circa la presenza di esperienze traumatiche e le risposte emotive relative; le risposte valutano la frequenza e l’intensità dei sintomi su una scala da 0 a 4.

Dai risultati è emersa una diminuzione del 75 % dei sintomi di PTSD nel campione dei partecipanti in seguito all’assunzione terapeutica della cannabis.

Il Dott. George Greer, uno dei ricercatori, sostiene che “Tanti dei pazienti che hanno assunto cannabis hanno riportato una diminuzione dei sintomi di PTSD e che si devono fare delle indagini future per vedere quale tipo di pazienti affetti da PTSD beneficiano maggiormente dall’uso terapeutico della cannabis o dei suoi principi attivi”.

In Italia, da quest’anno, la regione Sicilia, grazie ad una delibera regionale, ha autorizzato l’uso della cannabis per scopi terapeutici per diverse malattie tra cui la sclerosi multipla.

Per impedire l’abuso dei consumi di cannabinoidi, la prescrizione dell’uso dovrà essere effettuata da medici specialistici all’interno di strutture sanitarie e il percorso terapeutico potrà essere eseguito anche a domicilio.

 

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Io speriamo che me la cavo: come spieghiamo ciò che ci accade?

Vincenzina Porretta

 

Io speriamo che me la cavo!: cos’è che ci porta a pensare che tutto è destinato a evolvere in maniera negativa? Cos’è invece che ci spinge a credere che il futuro ci sarà favorevole? La differenza sta in quello che viene chiamato stile esplicativo: il modo in cui spieghiamo a noi stessi quello che ci troviamo ad affrontare nella nostra vita.

Io speriamo che me la cavo è il titolo di un libro degli anni novanta del maestro Marcello D’Orta che raccolse i temi dei suoi studenti di una scuola elementare in provincia di Napoli. Il testo volge lo sguardo al disagio dei giovani del sud attraverso l’innocente sguardo dei bambini.

Il titolo, seppur ironico, è quanto mai voluto perché anche noi, ogni giorno, siamo chiamati a districarci nella nostra quotidianità … e forse anche noi  pensiamo : “Io speriamo che me la cavo!”

Ma cos’è che ci porta a dire questa frase o piuttosto a pensare che tutto è destinato a evolvere in maniera negativa, che i problemi che incontriamo sono destinati a perdurare per molto tempo, o a dirci che noi non saremo mai abbastanza per fare una determinata cosa, riuscire in un determinato obiettivo, etc.? Cos’è invece che ci spinge a credere che il futuro ci sarà favorevole?
La differenza sta in quello che viene chiamato stile esplicativo, o per chiarirci, nel modo in cui interpretiamo gli eventi che ci accadono, cioè come spieghiamo a noi stessi quello che ci troviamo ad affrontare nella nostra vita.

Gli individui che comunemente definiamo pessimisti tendono a pensare che la situazione traumatica sia permanente (questa cosa non finirà mai!), e pervasiva (nella mia vita succede sempre così!) e si incolpano per quanto avviene. La spiegazione data è quindi pervasiva, permanente e personale.

Come sottolinea Seligman

[blockquote style=”1″]Quando si spiega un fallimento in modo permanente e pervasivo lo si proietta nel futuro e in tutte le situazioni.[/blockquote]

Quando invece accade un evento positivo, i pessimisti tendono a pensare che non siano stati loro gli artefici ma fattori esterni (ho avuto un colpo di fortuna!), e credono che la situazione piacevole sarà temporanea, quindi non durerà, e circoscritta esclusivamente ad uno specifico evento.

Viceversa gli ottimisti di fronte ad una situazione negativa forniscono solo spiegazioni temporanee e circoscritte. Pensano quindi che le cose si sistemeranno rapidamente e che tale situazione coinvolgerà una parte della loro vita non tutti i suoi ambiti.
A fronte di questa diversa interpretazione degli eventi, i pessimisti adotteranno strategie di coping evitante, laddove invece gli ottimisti utilizzeranno uno stile di coping attivo.

Il diverso modo di interpretare gli eventi inevitabilmente porta con sé delle ripercussioni in diversi ambiti: a scuola, ad esempio, un bambino che crede di non poter far niente di buono, di fronte alla difficoltà smetterà di provare ed inevitabilmente prenderà voti più bassi. Di conseguenza il potenziale può arrivare a perdere la sua rilevanza se non affiancato da uno stile esplicativo positivo. Inoltre il livello di pessimismo può avere ripercussioni sulla salute indebolendo il sistema immunitario.

Viceversa l’ottimismo può influenzare la salute in maniera positiva in diversi modi: ad esempio, gli ottimisti fanno meno esperienza di episodi duraturi di impotenza appresa e questo gli consente di mantenere difese immunitarie più attive. L’impotenza appresa indica le reazioni di rinuncia che scaturiscono dal credere che qualsiasi cosa si faccia non sia importante ed in grado di influenzare gli eventi; tale atteggiamento non influisce solo sul comportamento ma diminuisce anche l’attività del sistema immunitario.

Un’altra ragione per cui gli ottimisti dovrebbero avere una salute migliore sta nel fatto che essi affrontano più rapidamente gli eventi, e quindi con più probabilità agiscono per prevenire l’insorgenza della malattia o per debellarla quando ne sono colpiti.
Un ulteriore fattore che tutela lo stato di salute è legato al supporto sociale; la capacità di instaurare forti legami di amicizia e amore sembra essere importante per la salute fisica.

I pessimisti, invece, diventano facilmente passivi di fronte alle difficoltà e non ricercano supporto negli altri. Le persone che si isolano quando sono malate tendono a peggiorare, in quanto anche il contatto sociale costituisce un fattore di prevenzione nei confronti della malattia.

Lo stile esplicativo è il modulatore dell’impotenza appresa, e dato il modo in cui un pessimista abitualmente si spiega gli eventi che vive (cioè in modo permanente e pervasivo), in seguito ad un fallimento egli tenderà a estendere il senso d’impotenza oltre lo specifico evento.

Per comprendere meglio come noi possiamo distorcere la realtà con il nostro stile esplicativo riporto l’esempio di una paziente proposto da Seligman.
Mentre era terapia, nel ricordare alcuni eventi della sua vita, la donna disse che quando un professore espresse i propri complimenti per un suo commento, pensò: «Prova ad essere carino con tutte», quando apprese la notizia dell’assassinio di Indira Gandhi pensò: «In un modo o nell’altro tutte le donne al potere sono condannate». Quando il suo compagno una notte si rivelò impotente,  lei pensò: «Sono io che gli faccio schifo».
Ma quando Seligman le chiese: «Se un ubriaco per strada ti dicesse che sei ripugnante tu ci crederesti?», la sua risposta fu: «Sicuramente no». Di fronte a questa risposta lui le disse:«Tuttavia quando dici le stesse cose irragionevoli a te stessa ci credi. Questo perché ritieni che la fonte delle informazioni, ossia tu stessa, sia più attendibile. Ma spesso noi distorciamo la realtà più degli ubriachi».

Seligman, in questo modo, portò la sua paziente a mettere in discussione i suoi pensieri automatici. Quello che cominciò a sviluppare fu la capacità di condurre un dialogo personale ottimistico, nella consapevolezza che l’aspettativa del fallimento non fa altro che renderlo  più probabile.

Comprendere che dietro ogni sentimento c’è un pensiero che lo ha generato, e sviluppare una maggiore coscienza di quest’ ultimo, serve a interrompere il loop che porta ad adottare sempre i medesimi comportamenti disfunzionali. Quindi, in questa prospettiva, le emozioni come la tristezza, la paura e la rabbia non sono da ritenersi immutabili ma derivanti dalle credenze della persona, e pertanto non sono inevitabili e permanenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Seligman M.E.P. (1990). Learned optimism. How to change your mind and your life. New York: Pocket Books (Trad. it. Imparare l’ottimismo. Firenze:Giunti). ACQUISTA

A cosa servono le neuroscienze nella pratica clinica? Il modello di Stephen Porges

 

Gli schemi relazionali che ogni paziente vive nella sua vita quotidiana, tendono a ripetersi all’interno della relazione terapeutica e, nel migliore dei casi, possono trovare lì una comprensione più profonda e utile ad affrontare meglio le relazioni fuori da lì.

La relazione terapeutica è innanzitutto una relazione affettiva tra esseri umani. All’interno di questa relazione si generano emozioni, sentimenti e comportamenti che hanno a che fare con la storia del paziente e contemporaneamente con il legame affettivo in corso tra paziente e terapeuta.

I medesimi schemi relazionali che ogni paziente vive nella sua vita quotidiana, fuori cioè dalla terapia, tendono ripetersi all’interno della relazione terapeutica e, nel migliore dei casi, possono trovare lì una comprensione più profonda e utile ad affrontare meglio le relazioni fuori da lì.

Uno dei modelli più innovativi ed entusiasmanti degli ultimi decenni, in grado di spiegarci proprio questi schemi di comportamento all’interno delle relazioni tra esseri umani, è quello del neurofisiologo Stephen Porges e della sua Teoria Polivagale.

In una recente intervista (2013) Porges racconta così l’origine della sua teoria:

La Teoria Polivagale si basa sull’evoluzione biologica del nostro sistema nervoso e un elemento centrale da capire è innanzitutto che esiste una enorme differenza tra i nostri antenati rettili e noi mammiferi. I mammiferi hanno bisogno per sopravvivere di instaurare relazioni sociali, hanno bisogno di avere legami affettivi e di proteggersi l’un l’altro, mentre i rettili no, sono animali solitari.

Aggiunge inoltre che nel passaggio evolutivo tra rettili e mammiferi il sistema nervoso autonomo si sia dovuto modificare per aumentare le possibilità di sopravvivere in condizioni di pericolo: il sistema di difesa è infatti caratterizzato da due branche fondamentali del sistema nervoso autonomo, l’una in grado di promuovere reazioni di attacco, fuga, congelamento (sistema simpatico) e l’altra in grado di innescare la reazione di morte apparente (sistema parasimpatico dorso-vagale).

Successivamente nei mammiferi si sarebbe sviluppata una terza branca, il sistema parasimpatico ventro-vagale, in grado di attivare comportamenti di affiliazione e vicinanza, di collaborazione e aiuto reciproco. Quest’ultima branca è attiva solo in condizioni di sufficiente sicurezza ed è quella più legata ai comportamenti di attaccamento e di cooperazione tipici degli esseri umani. Questa branca del sistema nervoso è, o meglio dovrebbe essere, quella più attiva delle altre nella relazione terapeutica, almeno finché il paziente e noi stessi ci sentiamo al sicuro.

La branca del sistema simpatico si attiva invece in condizioni di medio-pericolo, in cui sentiamo cioè di poter provare a reagire o a fuggire, mentre la branca del parasimpatico dorso-vagale è simile alle reazione retti liana e si attiva nell’uomo solo in condizioni di grave pericolo di vita.

Rispetto al lavoro terapeutico è importante sapere che mentre l’attivazione del sistema simpatico è intensa, ma ben tollerata dal nostro organismo, quella del sistema dorso-vagale è intollerabile e paragonabile ad un vera esperienza di morte. Per questo motivo in situazioni di grave traumatizzazione, come aggressioni, tortura, abusi fisici o catastrofi, questa reazione dell’organismo può spaventare e imprimere quel ricordo nella nostra memoria.

L’importanza del lavoro di Porges nel lavoro terapeutico è data soprattutto dalla possibilità che ci da di osservare l’attivazione o la dis-attivazione di questi sistemi fisiologici e innati nella relazione terapeutica.

Come sappiamo, la percezione soggettiva di essere o sentirsi al sicuro può essere molto compromessa nelle persone che mostrano una qualche sofferenza psicologica, dal disturbo di panico ai comportamenti legati all’impulsività, e in quest’ottica la comprensione dei sintomi in una chiave evolutiva può offrire una valida spiegazione a reazioni altrimenti incomprensibili e apparentemente prive di razionale fondamento.

La minaccia alla sicurezza personale, ad esempio, può essere sperimentata in condizioni di solitudine o al contrario di eccessiva intimità. Ci si può sentire in pericolo nelle mura di casa o per strada, in ascensore o all’aperto, in una folla o in una piazza vuota.

Non c’è una reazione sbagliata, c’è il nostro corpo che reagisce a qualcosa che vive come pericoloso, per motivi validi e che vengono dalla nostra storia: Porges la chiama neurocezione.

Le parole di Porges spiegano meglio di tutte di cosa trattiamo quando parliamo di Teoria Polivagale:

Non si tratta di una teoria sul sistema nervoso, ma di una teoria sull’evoluzione del sistema nervoso negli esseri umani

ed è forse qui che può collocarsi il legame tra una teoria profondamente neuroscientifica e la nostra esperienza come clinici: osservare i sintomi riportati dal paziente sia nell’ evoluzione della sua storia, che nell’evoluzione della sua …. specie!

Al prossimo contributo il legame tra Neurocezione e il social engagement…

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Buczynski, R. (intervistatore). Porges, S. (intervistato). (2013). Body, Brain, Behavior: How Polyvagal Theory Expands Our Healing Paradigm. [Trascrizione]. DOWNLOAD

 

Alti livelli di cinismo e rischio di sviluppare demenza: quale correlazione?

 

FLASH NEWS

Il cinismo è caratterizzato dalla credenza che gli altri siano motivati, nelle loro azioni, a raggiungere interessi personali. Tale idea rispetto alle intenzioni altrui potrebbe sembrare soltanto un semplice e innocuo punto di vista, ma la ricerca scientifica sembra aver dimostrato, invece, come tale disposizione nei confronti degli altri possa addirittura aumentare le probabilità di sviluppare una demenza.

A tale conclusione sono giunti i ricercatori della University of Eastern Finland di Kuopio, Finlandia, coordinati da Anna-Malia Tolppanen, PhD, i quali hanno pubblicato i risultati da loro ottenuti sulla rivista Neurology.

In passato è già stato dimostrato come il cinismo sia correlato ad altri problemi di salute, come ad esempio le patologie cardiache, ma tale lavoro è il primo a dimostrarne la correlazione con lo sviluppo di una patologia degenerativa come la demenza.

Per esaminare la relazione intercorrente tra demenza e cinismo, i ricercatori hanno reclutato 1449 persone, con un’età media di 71 anni, alle quali sono stati somministrati i test maggiormente in uso per diagnosticare il deterioramento cognitivo, oltre ad un questionario per la valutazione del livello di cinismo.

Quest’ultimo strumento permette di ottenere risultati attendibili e stabili nel corso degli anni ed è composto da item in cui i partecipanti devono indicare il loro grado di accordo con affermazioni quali: “Credo che la maggior parte delle persone mentano per ottenere dei vantaggi” o “E’ più sicuro non fidarsi di nessuno”.

Dopo aver analizzato i risultati raggiunti dai soggetti, i ricercatori li hanno raggruppati in categorie di basso, moderato o alto livello di cinismo.

In totale 622 partecipanti hanno concluso lo studio, sottoponendosi ad una seconda valutazione, circa otto anni dopo l’inizio della ricerca. Durante tale lasso di tempo 46 persone hanno ricevuto una diagnosi di demenza.

Andando ad analizzare i profili di tali soggetti e considerando anche altri fattori che aumentano il rischio di demenza, quali l’alta pressione sanguigna, livelli elevati di colesterolo e il fumo, il team ha potuto riscontrare come i soggetti ai quali erano stati attribuiti alti livelli di cinismo avevano un rischio tre volte più elevato di sviluppare demenza rispetto agli altri.

In particolare, 14 dei 164 partecipanti con alti livelli di cinismo hanno sviluppato demenza, rispetto al gruppo con basso cinismo, in cui soltanto 9 soggetti su 212 hanno ottenuto diagnosi di deterioramento cognitivo.

Tolppanen afferma:

[blockquote style=”1″]Tali risultati evidenziano come la personalità delle persone possa avere un impatto sulla loro salute. Comprendere come un tratto di personalità quale il cinismo influenzi il rischio di sviluppare demenza, può fornirci un importante aiuto sulla comprensione di come ridurre il rischio di demenza.[/blockquote]

Tale possibilità sembra essere di grande importanza se consideriamo che nel 2010 le persone affette da demenza erano 35,6 milioni e che tale incidenza sembra essere in costante aumento, tanto da far prevedere che nel 2050 le persone colpite da deterioramento cognitivo saranno 115,4 milioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Anche i papà possono essere brave mamme

 Teresita Forlano

 

L’esperienza di accudimento dei figli mobilita e altera anche nel padre le stesse reti di circuiti cerebrali che si attivano nella madre, sia pure con alcune differenze minori. Il livello di cambiamento cerebrale innescato dall’esperienza della cura appare strettamente collegato al tempo che i padri sono di disposti a dedicare all’accudimento.

Salvo alcune differenze minori, la cura dei figli da parte del padre si basa sullo stesso substrato di circuiti neurali che sono mobilitati nella donna, circuiti che sono plasmati e rimodellati dall’esperienza stessa della cura per il piccolo. A dimostrarlo è uno studio condotto da ricercatori dell’Università Bar-Ilan a Ramat-Gan, in Israele.

Diversi studi hanno analizzato le risposte ormonali e cerebrali delle donne all’esperienza di cura dei figli, ma finora quasi nessuno si era interessato alle basi cerebrali dell’esperienza della paternità, alla capacità di risposta del cervello maschile all’esperienza della cura (caregiving) e alle somiglianze e differenze con quanto avviene nel cervello materno.

Nel nuovo studio, Ruth Feldman e colleghi hanno monitorato le risposte cerebrali di 89 genitori alle prese con il loro bambino, suddivisi in tre gruppi composti da: 20 mamme eterosessuali che avevano la responsabilità primaria dell’accudimento del bambino, 21 padri eterosessuali con una responsabilità secondaria di accudimento (assolto principalmente dalla partner) e 48 padri omosessuali responsabili primari del piccolo. I ricercatori hanno valutato la risposta cerebrale dei soggetti a stimoli infantili sia con scansioni di risonanza magnetica funzionale, sia misurando il livelli di ossitocina circolante, sia osservandone il comportamento.

I risultati hanno rivelato che tutti i genitori che si dedicano all’accudimento mobilitano due sistemi cerebrali, integrandoli tra loro: la rete dei circuiti dell’elaborazione emotiva, che comprende le strutture sottocorticali e paralimbiche, fra cui l’amigdala, associate alla vigilanza, alla rilevanza dello stimolo, alla ricompensa e alla motivazione; e la rete di mentalizzazione, che coinvolge la corteccia frontopolare-mediale-prefrontale e il solco temporale superiore, implicati nella comprensione sociale e nell’empatia cognitiva.

Le madri hanno mostrato una maggiore attivazione nella rete di elaborazione emotiva e i padri in quella dei circuiti sociocognitivi; entrambe le reti mediano, in modo leggermente diverso, la relazione fra livelli di ossitocina e comportamento.
Inoltre, nei padri accuditori primari si ha un livello di attivazione dell’amigdala uguale a quello delle madri (superiore ai padri accuditori secondari), ma anche una forte attivazione del solco temporale superiore (STS), paragonabile a quella dei padri accuditori secondari.

Per di più, nei padri accuditori primari la connettività funzionale tra amigdala e STS, quella che consente il colloquio fra le reti dell’emotività e della mentalizzazione, era superiore a quella dei due altri gruppi di soggetti. In ogni caso, in tutti i padri il livello di questa connettività era direttamente proporzionale al tempo dedicato alla cura del piccolo.

 

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I Croods: la paura e l’ansia di Grug

“Le novità sono un pericolo, dovete sempre avere paura”, ecco cosa cerca di insegnare papà Grug alla propria famiglia. Ma dopo la terapia con il nomade Guy, Grug cambia idea.

 

I Croods è un film di animazione del 2013 scritto e diretto da Kirk De Micco e Chris Sanders. Racconta la storia di una famiglia di cavernicoli, i Croods appunto, sopravvissuti a numerose avversità, come punture di zanzara e animali feroci, grazie all’accudimento premuroso (forse troppo a volte!) di papà Grug, che costringe il resto della famiglia a rifugiarsi, per la maggior parte del tempo, nella sicura caverna.

I Croods conoscono molto bene la paura e il suo funzionamento, poiché la sperimentano in numerose occasioni: la paura è l’emozione che ci segnala un pericolo e prepara l’organismo ad affrontare la situazione temuta e ad allontanare la minaccia, aumentando lo stato di vigilanza e l’attenzione e attivando risorse aggiuntive con estrema rapidità. Se proviamo paura siamo pronti a reagire e le reazioni sono fuga e/o attacco.

La paura si attiva quando il pericolo è in corso, quindi ad esempio quando i Croods vengono attaccati da un grande felino preistorico: Grug attacca e il resto della famiglia si nasconde. L’atteggiamento protettivo del padre è dettato evidentemente da esperienze di vita simili a queste, in cui ha appreso che le strategie migliori di fronte a ciò che fa paura sono solo due: fuggire o difendersi.

Nel corso della storia, però vediamo che Grug si agita anche in situazioni dove il pericolo non è in corso, ma se il pericolo non è imminente allora l’emozione che sta provando non è paura, ma sta sperimentando qualche altra emozione che lo porta ad evitare le situazioni attivanti.

La paura è una delle emozioni più primitive ed è comune agli essere umani e animali. Sua sorella evoluta è l’ansia, un’emozione tipicamente umana, che si attiva per motivi e in modi identici a quelli della paura. La differenza tra le due si riscontra nella consistenza della minaccia: più è definita e più si parla di paura, mentre se è indefinita e vaga, si parla di ansia. Inoltre l’ansia è riferita ad eventi non immediati ed infatti in essa l’attivazione corporea è meno massiccia e pervasiva (Apparigliato M. & Lissandron S., 2004).

È più probabile che sia l’ansia, e non la paura, a colpire Grug di fronte alla vista del mare per la prima volta. Lì non c’è un pericolo imminente, ma Gurg non ha gli strumenti per distinguere ciò che è un pericolo reale e immediato, interruttore della paura, da un pericolo potenziale per il futuro, che invece accende l’ansia, e in questa confusione l’unica cosa che gli appare sensata è considerare il mondo come pericoloso, pensiero che si traduce in “le novità sono un pericolo, dovete sempre avere paura”, e agire di conseguenza.

Il circolo paura-fuga/attacco viene generalizzato nel tentativo di controllare tutto ciò che potrebbe essere una minaccia per il suo scopo primario di proteggere la sua famiglia. Automatizza l’assegnazione dell’etichetta pericolo a tutto ciò che è nuovo: qualsiasi segnale viene sopravvalutato come estremamente pericoloso mentre le capacità personali di fronteggiare la situazione vengono sottovalutate (per questo il mare diventa pericoloso come l’attacco di un animale feroce) e il comportamento messo in atto è l’evitamento, che si concretizza nella fuga dentro la caverna.

Quando la paura diventa ansia, Grug non ha gli strumenti per trovare strategie alternative a quelle automatiche dettate dalla paura (fuga e attacco), perché non ha ancora imparato la differenza tra le due e quindi non sa che può gestirle in modi diversi e altrettanto funzionali.

Nel momento in cui, a causa di terremoti violenti, i Croods sono costretti ad abbandonare la caverna perché non è più sicura, è Guy, un ragazzo nomade, che va in loro soccorso e li porta in salvo.

Guy mostra a Grug come sia possibile fronteggiare l’ansia utilizzando le idee, questo favorisce il blocco dell’automatismo novità-pericolo-fuga e Grug impara via via a sostituire i pensieri che associava all’ansia (sopravvalutazione dei segnali e sottovalutazione delle proprie capacità) con alternative più funzionali, come un ce la posso fare, sono in grado.

Abbiamo un film a lieto fine perché Grug, dopo quello che potrebbe essere un primitivo percorso terapeutico con Guy, impara a distinguere la paura dall’ansia comprendendo quando si tratta di un pericolo reale, ed è quindi più funzionale scappare o difendersi, e quando invece la minaccia è meno definita e non immediata concedendo così tempo per pensare ad alternative e modi funzionali di risolvere la situazione problematica.

Controindicazioni: non ce ne sono. Questo è un film che aiuta a capire la differenza tra paura e ansia e mostra come è possibile fronteggiarle in modo funzionale senza lasciarsene sopraffare, anche se sono molto intense.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Apparigliato M. & Lissandron S. (A cura di) (2004). Emozioni consuete e inconsuete in psicoterapia cognitiva. Deleyva Editore, Milano. ACQUISTA

Vedere per credere… No, bisogna anche sentire per credere!

Ioana Marchis

 

FLASH NEWS

Il vecchio aforismo “Vedere  per credere” dovrebbe essere aggiornato in base ai risultati riportati da un gruppo di ricercatori dell’Università di Glasgow i quali affermano che il processo visivo coinvolge anche il sistema uditivo.

Oltre “a vedere” dovremmo “sentire” per credere.

“Se in strada si sente il suono di una moto che si avvicina, ci si aspetta di vederla apparire da dietro l’angolo. Se invece al posto della moto compare un cavallo si prova una forte sensazione di sorpresa”, sostengono i ricercatori del presente studio.

Gli scienziati che studiano i processi cerebrali della visione hanno evidenziato che la corteccia visiva utilizza anche le informazioni provenienti dalle orecchie e dagli occhi per “visionare” il mondo circostante.

I ricercatori suggeriscono che l’input uditivo permette al sistema visivo di predire le informazioni in entrata: “I suoni creano immagini visive, immagini mentali e proiezioni automatiche”  sostiene il Professore Lars Muckli dell’Istituto di Neuroscienze e Psicologia presso l’Università di Glasgow.

Il presente studio pubblicato sulla rivista Current Biology, riporta cinque esperimenti condotti con la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) per esaminare l’attività nella corteccia visiva primaria di dieci soggetti volontari durante l’esecuzione di diversi compiti sperimentali.

In uno dei cinque esperimenti, i partecipanti, bendati, ascoltano tre diversi suoni di provenienza naturale: il canto degli uccelli, il rumore del traffico e di un gruppo di persone che parlano.

Con l’ausilio di uno speciale algoritmo in grado di identificare modelli specifici nell’attività cerebrale, i ricercatori sono stati in grado di discriminare i diversi suoni (antecedentemente presentati) elaborati dalla corteccia visiva primaria.

Un altro dei cinque esperimenti ha evidenziato che anche delle semplici immagini mentali (in assenza di suoni o di vere immagini visive) sono in grado di evocare l’attività nella corteccia visiva primaria.

Questa ricerca ci aiuta a capire come le diverse regioni della corteccia siano interconnesse tra di loro.

Fino ad oggi, poco si sapeva su come la corteccia primaria visiva fosse in grado di elaborare le informazioni uditive mentre era già stata riscontrata un’evidenza anatomica d’interconnessione (tra le due regioni) nelle scimmie.

Il presente studio è il primo a dimostrare chiaramente l’esistenza di una simile interconnessione anche negli esseri umani.

Nel futuro, i ricercatori si propongono di evidenziare come l’informazione uditiva sostiene attivamente i processi di elaborazione visiva partendo dalla premessa che il sistemo uditivo fornisce dei veri predittori pronti ad aiutare il sistema visivo nel focalizzarsi su possibili eventi sorprendenti; in questa chiave i predittori avrebbero un forte valore adattativo.

Più informazioni su come il sistema visivo e quello uditivo sono interconnessi potrebbero aiutarci a capire il modo in cui le percezioni sensoriali vengono elaborate in diversi disturbi come la schizofrenia e l’autismo.

 

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Mi sento Sollevata - Vignetta - Immagine: © Costanza Prinetti 2014
“Mi sento Sollevata” Immagine: © Costanza Prinetti 2014


Attaccamento e Psicoanalisi di Morris N. Eagle (2013) – Recensione

 

 

Il destino clinico della teoria dell’attaccamento è una storia un po’ triste di abbandono e accoglimento.

Lo psicoanalista Morris N. Eagle racconta questa storia, riflettendo sulle differenze tra i vari modelli psicoanalitici e la teoria dell’attaccamento.

Ripudiata dalla psicoanalisi nel cui ambiente era cresciuto il suo autore, John Bowlby, la teoria dell’attaccamento si è sviluppata nell’ambiente della psicologia sperimentale e ha finito per essere accolta in alcune correnti del cognitivismo clinico, specialmente in Italia (Liotti, 1994). Più recentemente, c’è stato un lento riavvicinamento.

Lo psicoanalista Morris N. Eagle racconta questa storia, riflettendo sulle differenze tra i vari modelli psicoanalitici e la teoria dell’attaccamento. La differenza principale riguarda il ruolo del trauma reale e delle fantasie. Nella teoria di Bowlby la sofferenza del bambino è fortemente influenzata dagli eventi traumatici, che quindi sono reali. Nei modelli psicoanalitici il trauma è fantasticato e il problema giace tutto nell’interiorità inconscia. Questo è vero soprattutto per i modelli freudiano e kleiniano.

Gli sviluppi successivi della psicoanalisi le hanno permesso di muovere alcuni passi nella direzione dell’interpersonalità dell’attaccamento, ma in realtà la strada era (ed è) ancora lunga. La teoria delle relazioni oggettuali rimane una teoria interiore, anche se prevede che la motivazione umana sia il rapporto con l’altro e non l’istinto sessuale. Anche la teoria del sé e gli sviluppi interpersonali e relazionali comunque mantengono l’attenzione sul mondo interno, come in fondo è giusto che faccia un modello psicoanalitico.

D’altro canto lo studio della teoria dell’attaccamento rende evidente quanto sia non solo cognitivo ma addirittura comportamentale questo modello: l’attaccamento è soprattutto un comportamento osservabile. E i modelli operativi interni sono funzioni cognitivo-comportamentali. Questo può spiegare in maniera credibile perché la psicoanalisi ripudiò la teoria dell’attaccamento, malgrado Bowlby avesse seguito una formazione psicoanalitica.

Insomma, la teoria dell’attaccamento deriva da studi empirici e da definizioni operative, mentre l’interesse di gran parte degli psicoanalisti verte sull’incontro clinico. Nel suo libro Eagle parte con una panoramica della teoria e della ricerca sull’attaccamento che comprende tre capitoli scritti in collaborazione con Everett Waters. Sono poi illustrati lo sviluppo e i principi fondamentali della teoria dell’attaccamento, compresi gli approcci alla misurazione dell’attaccamento nei bambini e negli adulti.

Dopo aver esposto con chiarezza le differenze, Eagle considera i punti di convergenza, a iniziare dall’interesse per lo sviluppo precoce del bambino. Tra gli psicoanalisti che sono stati in grado di recuperare il lavoro di Bowlby, Eagle cita Fonagy e la sua teoria della capacità di mentalizzare, che si apprende all’interno di una relazione di attaccamento sana e funzionale.

Eagle nota anche come la natura fortemente empirica della teoria dell’attaccamento la rende non immediatamente applicabile la pratica clinica. Non esiste una terapia basata sull’attaccamento. Esistono semmai delle indicazioni terapeutiche basate sull’attaccamento, tra cui le varie considerazioni sulla relazione. Probabilmente il terapeuta che più di tutti ha tentato di costruire una terapia basata sull’attaccamento è Liotti (1994), il quale però non è un analista. In campo psicoanalitico quelli che più si sono avvicinati a un uso clinico dell’opera di Bowlby sono Bateman e Fonagy (2004).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bateman, A., Fonagy, P. (2004). Psychotherapy for Borderline Personality Disorder: Mentalization-based Treatment. Oxford University Press, Oxford, New York.   ACQUISTA ONLINE
  • Liotti, G. (1994), La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci Editore, Roma. ACQUISTA ONLINE
  • Eagle, M. N. (2013). Attaccamento e psicoanalisi: Teoria, ricerca e implicazioni cliniche. Cortina, Milano.  ACQUISTA ONLINE

Io non mi adeguo! Fenomenologia del Whistleblower

 

 

Con il termine whistleblower si fa riferimento a un individuo che, internamente o esternamente all’organizzazione in cui lavora, rivela comportamenti scorretti commessi all’interno della stessa, i quali rappresentano un pericolo per la comunità.

 

[blockquote style=”1″]Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo (Sandro Pertini).[/blockquote]

Con il termine whistleblower (lett. soffiatore di fischietto) si fa riferimento a un individuo che, internamente o esternamente all’organizzazione in cui lavora, rivela errori o comportamenti scorretti commessi all’interno della stessa, i quali rappresentano un danno o pericolo per la comunità.

Questa figura – ben rappresentata nell’omonimo film del 2011 –  e spesso al centro di notizie di cronaca giudiziaria, italiana e non – si trova a fronteggiare un’autorità superiore, che decide consapevolmente di sfidare, rischiando probabili ritorsioni e la perdita del lavoro stesso.

Come notano Nemeth e Goncalo (2004) molte organizzazioni, aziende e istituzioni tendono infatti a prediligere al proprio interno atteggiamenti di conformismo e coesione, inquadrando gli individui non allineati come minaccia (Collins e Porras, 1994) verso cui attivare meccanismi di persuasione o di vero e proprio rifiuto ed espulsione dal gruppo (Levine, 1989; Nemeth, 1997). I celebri studi di Milgram (Milgram, 1963; Milgram, 1965; Milgram, 1974) inoltre hanno dimostrato che vi sono fattori di natura situazionale che favoriscono massicciamente comportamenti acquiescenti verso un’autorità riconosciuta, anche di fronte a richieste lesive dell’integrità altrui.

Può essere dunque interessante dal punto di vista psicologico capire cosa spinge il whistleblower a denunciare e in quali dimensioni si distingue dai colleghi che, a parità di condizioni esterne, prediligono il silenzio.

Bocchiaro e Zimbardo, in due recenti lavori, si prefiggono quest’obiettivo, allargando il focus degli studi sull’obbedienza all’autorità, concentrandosi sulla figura del disobbediente (ossia colui che rifiuta di eseguire le consegne dello sperimentatore) e del vero e proprio whistleblower.

Nel primo disegno sperimentale ai soggetti veniva richiesto di criticare il proprio compagno di prove (in realtà complice dello sperimentatore) in modo progressivo e sempre più oltraggioso, per ogni errore commesso nelle stesse, con una penalità fittizia nel caso di abbandono, in modo da rendere più difficile e sconveniente la disobbedienza; il compagno avrebbe reagito agli insulti con una serie programmata di lamenti e segnali di disagio.

Le misure di personalità, in questo caso, non giustificherebbero gli alti livelli di disobbedienza riscontrati (70% dei partecipanti), che sarebbero invece riconducibili tanto a fattori situazionali, quali la vicinanza tra i partecipanti e la distanza fisica tra questi e l’autorità, quanto ad elementi di carattere valoriale: in altre parole, considerando prioritaria la tutela dell’integrità del compagno, i disobbedienti tendevano a percepire come necessaria una propria azione diretta ed immediata, attribuendo priorità a segnali di minaccia, pericolo o immoralità.

Risultati analoghi sono emersi nel secondo studio, nel quale la consegna era di scrivere, dietro adeguata ricompensa, commenti favorevoli circa la necessità di un esperimento sulla deprivazione sensoriale, potenzialmente pericoloso per l’incolumità psicofisica dei partecipanti, in modo che il Comitato Etico dell’Università approvasse il progetto; in una stanza separata era posizionato un computer da cui scrivere e una cassetta della posta dove eventualmente segnalare al Comitato la potenziale pericolosità dell’esperimento in forma anonima. Tale accorgimento era finalizzato a fornire la possibilità di disobbedire attivamente all’autorità, oltre che il mero evitamento del compito.

Anche in questo caso chi sceglieva di denunciare mostrava un orientamento preferenziale verso valori morali internalizzati (E’ anti-etico, va contro i miei principi) piuttosto che verso istruzioni esterne. Sarebbe dunque tale orientamento, piuttosto che caratteristiche di personalità, ad influire sul senso di responsabilità individuale di fronte a situazioni non ordinarie e conflittuali, e sulla conseguente probabilità di comportamenti di disobbedienza attiva, a prescindere dalla presenza di premi o punizioni materiali.

Anche studi di natura cross- culturale (Morselli, 2009) evidenziano il ruolo dell’atteggiamento valoriale del singolo nei confronti dell’autorità. In questi veniva distinta un’obbedienza acritica – caratterizzata cioè da un’aderenza incondizionata alle regole imposte dall’alto – e un’obbedienza responsabile, basata invece su un senso interno di responsabilità personale (Bierhoff e
Auhagen, 2001): mentre nella prima condizione le misurazioni correlavano positivamente con dimensioni di autoritarismo, nel secondo caso gli individui sembravano mostrare un orientamento più favorevole verso l’autonomia personale, la prosocialità, l’inclusività sociale e un maggiore coinvolgimento personale in azioni di protesta e disobbedienza attive, quali petizioni, boicottaggi, occupazioni di edifici ecc.

Obbedienza e disobbedienza non sembrerebbero dunque costrutti completamente antitetici ma andrebbero inquadrati come elementi complementari, mediati, tra gli altri fattori, dall’orientamento valoriale del singolo: per dirla con Bocchiaro e Zimbardo, il punto non è disobbedire o meno all’autorità, ma a quale tipo di autorità scegliere di obbedire.

 

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BIBLIOGRAFIA

  • Bierhoff, H.W. (2001). Responsibility and altruism. The role of volunteerism. In Auhagen, A.E., Bierhoff, H.W. (Eds.), Responsibility. The many faces of a social phenomenon (149-166). London: Routledge.
  • Bocchiaro, P., Zimbardo, P.G. (2010). Defying Unjust Authority: An Exploratory Study. Current Psychology, 29(02), 155-170.
  • Bocchiaro, P., Zimbardo, P.G., Van Lange, P.A.M. (2012). To defy or not to defy: An experimental study of the dynamics of disobedience and whistle-blowing. Social Influence, 1, 1-16. DOWNLOAD
  • Collins, J.C., Porras, J.I. (1994). Built to last. Successful habits of visionary companies. New York: Harper Collins.
  • Levine, J.M. (1989). Reaction to opinion deviance in small groups. In Paulus, P.B. (Eds.) Psychology of group influence, 2, 187-231. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Milgram, S. (1963). Behavioral study of obedience. Journal of Abnormal and Social Psychology, 67, 371-378.
  • Milgram, S. (1965). Some conditions of obedience and disobedience to authority. Human Relations, 18, 57-76.
  • Milgram, S. (1974). Obedience to authority: An experimental view. New York: Harper & Row.
  • Morselli, D. (2009). Obbedienza e disobbedienza: dinamiche psicosociali per la democrazia. [Dissertation thesis], Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato di ricerca in Psicologia sociale, dello sviluppo e delle organizzazioni, Ciclo 21.
  • Nemeth, C.J. (1997). Managing innovation: When less is more. California Management Review, 40 (1), 59-74.
  • Nemeth, C.J., Goncalo, J.A. (2004). Influence and persuasion in small groups. Berkeley: Institute for Research on Labor and Employment. DOWNLOAD

 

APPROFONDIMENTI:

Narcisismo ed Empatia: un connubio possibile?

 

FLASH NEWS

Un recente studio in tre fasi svolto da ricercatori della University of Surrey e della University of Southampton dimostra che, se supportati da indicazioni comportamentali su come assumere la prospettiva di un altro individuo, anche i narcisisti possono provare empatia per la sofferenza e i bisogni altrui.

È noto ed ampiamente documentato che i narcisisti abbiano qualche carenza sul piano dell’empatia. Tendenzialmente egocentrici e pieni di sé, può sembrare difficile che riescano a entrare così in contatto con l’altro da comprenderne i pensieri e condividerne lo stato d’animo.

Eppure un recente studio in tre fasi svolto da ricercatori della University of Surrey e della University of Southampton dimostra che, se supportati da indicazioni comportamentali su come assumere la prospettiva di un altro individuo, anche i narcisisti possono provare empatia per la sofferenza e i bisogni altrui.

Per i campioni sono stati scelti soggetti con narcisismo subclinico, selezionati in base ai risultati del questionario Narcissistic Personality Inventory (NPI; Raskin & Terry, 1988) che avevano volontariamente compilato online.

I partecipanti sono stati poi divisi in due gruppi chiamati basso-narcisismo e alto-narcisismo, ad indicare livelli di narcisismo minori o maggiori rispetto alla media della popolazione non clinica.

Nel primo esperimento è stato chiesto di leggere il racconto della rottura di una relazione ed è stata registrata la reazione empatica attraverso un questionario autosomministrato di 12 item adattati dal Interpersonal Reactivity Index (IRI) di Davis (1983).

Confermando le attese il gruppo alto-narcisismo ha mostrato scarsa empatia per i protagonisti della storia, indipendentemente da quanto grave fosse la situazione.

L’esperimento successivo voleva indagare se questa ridotta propensione personale fosse dovuta ad una vera e propria incapacità o ci fosse margine di cambiamento.

Anche questa volta è stata presentata ai partecipanti una situazione di sofferenza, nello specifico è stato fatto vedere il video di una donna vittima di violenza, e successivamente è stato somministrato lo stesso questionario di 12 item del primo studio.

A differenza della condizione precedente però, i soggetti sono stati divisi in due sottogruppi: ad un gruppo è stato esplicitamente chiesto, prima di guardare il video, di mettersi nella prospettiva della protagonista del documentario suggerendo loro di immaginarsi come potessero sentirsi se fossero al suo posto; il gruppo di controllo invece non riceveva istruzioni di alcun tipo.

I risultati evidenziano che nel gruppo alto-narcisismo le risposte empatiche di chi aveva ricevuto le istruzioni sono state significativamente maggiori rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.

Non c’è stata invece alcuna differenza significativa sul gruppo basso-narcisismo, a conferma del fatto che sono autonomamente in grado di assumere la prospettiva dell’altro.

Infine l’ultimo esperimento si proponeva di verificare se il cambiamento dimostrato nel secondo studio riflettesse un vero cambiamento o un cambiamento limitato alla presentazione delle abitudini. A questo scopo le risposte empatiche alla situazione di sofferenza sono state rilevate non più attraverso questionari autosomministrati, ma misurando la presenza/assenza di aumento dei battiti cardiaci.

I risultati dimostrano che le differenze tra i gruppi alto-narcisismo e basso-narcisismo non sono poi così significative, dunque la carente propensione personale sul piano affettivo può essere compensata da una strategia comportamentale per assumere la prospettiva altrui.

È un risultato importante perché stimolare l’empatia significa diminuire i comportamenti anti-sociali ma anche migliorare le relazioni a lungo termine.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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