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Conoscere se stessi (2022) di Stephen M. Fleming – Recensione

Cos’è la metacognizione? Una domanda alla quale Stephen M. Fleming risponde diffusamente e con grande precisione nella sua opera "Conoscere se stessi"

Di Omar Bellanova

Pubblicato il 29 Ago. 2022

Fleming nella prima parte del libro “Conoscere se stessi” inizia un viaggio, che durerà per tutta la sua opera, fatto di esperimenti che ci illustrano come la nostra mente lavora quando la percezione del mondo o di un problema non è esaustiva o completa.

 

 Martin entra in studio trafilato, evitando il mio sguardo, va ad occupare l’angolo più remoto del divano. Ha l’aria stanca. Spesso è così quando passa le nottate a studiare.

“Non so se sono pronto per l’esame.”

Esordisce il ragazzo che viene da qualche mese in terapia e da qualche tempo ha un blocco nello studio. Ci vediamo abbastanza da sapere che Martin, il tempo sui libri, lo passa eccome, ma di andare a fare un esame non se ne parla.

Trascorriamo spesso intere sedute a discutere della materia che sta preparando, tanto quasi da avere io stesso la sensazione di cominciare a capirci qualcosa. Ma è come se Martin, per qualche motivo, non avesse accesso a determinate informazioni sulla sua preparazione, tanto da pensare di non presentarsi agli esami che prepara nelle notti trascorse su i libri.

Non è certo una situazione insolita in una seduta di terapia, anzi favorire l’accesso alla consapevolezza delle proprie capacità personali è, praticamente, una ricorsività. Avere una buona lettura delle proprie possibilità ci permette di compiere scelte in grado di farci esporre a una prova, fare un tentativo. Insomma è qualcosa che potrebbe fare la differenza tra il successo e l’insuccesso.

Ma che cosa ci impedisce di sapere se abbiamo studiato abbastanza per un esame?

Questa è una delle domande che fa riferimento al tassello di un puzzle molto più complesso e articolato e ci indirizza verso la comprensione di una funzione unica della nostra mente: la metacognizione.

Cos’è la metacognizione? Una domanda alla quale, Stephen M. Fleming, uno dei maggiori esperti mondiali di metacognizione, risponde diffusamente e con grande precisione, nella sua opera. L’autore attraverso le pagine di “Conoscere se stessi” ci porta negli studi del MetaLab, all’University College di Londra, del quale è direttore. Siamo nel campo delle neuroscienze dove si indagano le funzioni della mente umana e la loro architettura neurale. Gli studi legati alla consapevolezza del sé (l’autoconsapevolezza), passano per un crocevia di conoscenze dove si intersecano i saperi della psicologia, della psicoterapia, della medicina, della biologia evoluzionistica e della computer science. Dalla posizione di neuroscienziato Fleming ci illustra un prezioso aggiornamento scientifico in grado di aprire nuove e fondamentali riflessioni su un argomento sempre più in auge nell’evoluzione della psicoterapia moderna e ancor più del sapere umano.

A cosa serve l’autoconsapevolezza? È senz’altro una delle domande centrali da porsi mentre si mettono insieme i “mattoni” della comprensione di un aspetto così sofisticato e trasversale.

La condizione che descrivo del mio paziente Martin rientra perfettamente in uno degli esempi che fa l’autore. Tutto ciò che è analizzato dagli studi sulla metacognizione prende spunto dalla vita reale, ed è usato per rappresentare quanto la capacità di pensare il pensiero è parte integrante e fondamentale della nostra quotidianità.

È possibile accettare la testimonianza di un testimone oculare? Dovrei ascoltare i consigli del mio medico? Queste sono alcune delle domande a cui una mente difficilmente potrà dare risposta senza coinvolgere la metacognizione.

Come ha fatto Stanislav Petrov nel 1983 a scongiurare la terza guerra mondiale decidendo che le incerte informazioni che arrivavano dai satelliti russi erano un’interferenza dovuta al riflesso del sole e non dei missili americani? Con questo esempio Fleming ci fa comprendere quanto sia evolutivamente fondamentale l’uso della nostra autoconsapevolezza la quale ci permette di rintracciare e stimare il grado di incertezza nella percezione del mondo che ci circonda.

“Senza la capacità di stimare il grado di incertezza, è improbabile che riusciremmo a percepire il mondo”.

Ebbene si! Per prendere la giusta decisione spesso è fondamentale avere delle incertezze, sapere di non sapere, come diceva Socrate.

Fleming nella prima parte del libro inizia un viaggio, che durerà per tutta la sua opera, fatto di esperimenti che ci illustrano come la nostra mente lavora quando la percezione del mondo o di un problema non è esaustiva o completa.

Scopriremo appunto quanto possa essere necessaria l’incertezza per non cadere nelle illusioni a cui il nostro cervello è esposto. A tal proposito potremmo dire che ciò percepiamo del mondo è una sorta di “allucinazione controllata”, ovvero un’ipotesi plausibile di cosa possa esserci fuori da noi (Anil Seth), ma per svariati motivi dobbiamo essere pronti a mettere in discussione se non vogliamo prendere delle cantonate e compiere scelte sbagliate.

Affermando che il nostro cervello ha l’interessante proprietà di essere sensibile all’incertezza e quindi dubitare, abbiamo appena descritto il primo mattone della struttura della nostra metacognizione, che ci spinge a cercare nuove soluzioni o nuovi indizi per agire in modi diversi sulla realtà.

Sono abbastanza certo che questa prima componente non risulti solo a me familiare. È qualcosa che avviene in terapia quando il paziente inizia a mettere in discussione le sue idee sul mondo o su se stesso.

Ma questo è solo l’inizio. Fleming, sempre con il supporto di una salda evidenza sperimentale, ci guida verso un altro mattone della nostra autoconsapevolezza.

Avete mai provato a salire su una scala mobile spenta? Avrete sicuramente notato che il nostro cervello deve inibire il movimento di assestamento che attiviamo in pratica (e ormai inconsapevolmente) ogni volta che prendiamo una scala mobile funzionante. Questo aspetto di monitoraggio continuo delle nostre azioni è il secondo mattone che Flaming descrive: la capacità di monitorare le nostre azioni. Trovo centrale sottolineare un aspetto molto interessante, ovvero che tali processi non sono sempre presenti alla nostra coscienza.

…noi deleghiamo compiti bene appresi ai livelli inconsci e subordinati di controllo dell’azione, e interveniamo solamente al bisogno”.

Vediamo come è strutturata la funzione di automonitoraggio. Essa si divide tra metacognizione implicita (che potremmo definire inconscia) e metacognizione esplicita (che potremmo definire consapevole). La prima è quella che ci avvicina di più al mondo animale, ma è la metacognizione esplicita a renderci unici.

Per quale ragione abbiamo acquisito una straordinaria capacità di diventare consapevoli di noi stessi?

La prima risposta che mi è venuta in mente sorridendo: altrimenti noi terapeuti avremmo dovuto inventarci un altro lavoro.

Ci stiamo dirigendo verso il terzo mattone della metacognizione: la teoria della mente.

Il modello che Fleming ha sviluppato insieme a Nathaniel Daw (esperto di modelli computazionali) si ispira al lavoro del filosofo Gilbert Ryle il quale sosteneva che riflettiamo su noi stessi applicando gli stessi strumenti che utilizziamo per comprendere la mente altrui.

Per riconoscere che una credenza potrebbe essere falsa, dobbiamo destreggiarci tra due modelli del mondo distinti. In qualche modo il cervello umano ha risolto come farlo, acquisendo una capacità insolita di pensare su se stesso“. Ma dove risiede questa funzione? Studi di neuroimaging funzionale ci permettono di osservare quali aree celebrali si attivano quando ci è chiesto di pensare a noi stessi: la corteccia pre-frontale (PFC) mediale e la corteccia parietale mediale sono quelle più coinvolte.

Ma cosa ci permette di formulare invece un giudizio su noi stessi? Questa risposta mi potrebbe aiutare a riflettere su cosa può accadere al mio paziente Martin.

La risposta potrebbe essere “avere una buona sensibilità metacognitiva”. Tutti noi in pratica siamo in grado di quantificare quanto le nostre autovalutazioni ci possano condurre verso il successo o meno.

Il problema è che la nostra metacognizione può essere vulnerabile agli stati emotivi oppure subire delle illusioni. “Come ogni strumento potente, la metacognizione è insieme creatrice o distruttrice.

Il mio paziente Martin, pensando di non aver assimilato bene l’esame, potrebbe decidere di non andare a sostenerlo perdendo tempo prezioso per il suo progetto di studi. Viceversa, percependoci troppo sicuri dinnanzi a una prova, potremmo esporci a una prestazione imbarazzante.

Come ci si protegge da tali illusioni? Semplice (apparentemente), coltivando una conoscenza della nostra metacognizione, imparando a conoscere le sue fragilità, i suoi punti deboli e come invece coltivarla rendendola una risorsa.

Anche questo punto mi sembra sempre molto familiare al contesto della terapia, non trovate?

Nella seconda parte del libro Flaming sottolinea appunto quanto la metacognizione possa costituire una base fondamentale per l’apprendimento e come quindi sia fondamentare comprendere come evitare di incorrere in quelli che definisce “deficit metacognitivi”.

Quando ci poniamo in una condizione di insegnamento verso gli altri, assumiamo una prospettiva che ci permette di percepire il nostro grado di preparazione su un dato argomento, di conseguenza quindi sviluppiamo una conoscenza più solida sull’argomento. “Gli uomini mentre insegnano, imparano” (Seneca).

Ma torniamo nuovamente a Martin. Secondo quanto affermato da Fleming, cosa possiamo fare per tutelarlo dalle illusioni e distorsioni della sua metacognizione?

Flaming afferma che “Quando gli studenti sono incoraggiati ad adottare una prospettiva in terza persona sul proprio apprendimento e a insegnare agli altri, saranno con meno probabilità vittime di distorsioni metacognitive”.

Ed ecco qui allora che, memore di quanto la nostra metacognizione possa essere più funzionale in uno spazio di relazione sicuro, ho avuto modo di appendere sorprendenti nozioni sulle materie di studio del mio paziente.

 Ma che cosa ci fa modificare un’idea? Probabilmente il sopraggiungere di nuove informazioni. Ma questo è sempre sufficiente? In clinica abbiamo salde esperienze su quanto una tipologia di pazienti tenda a restare ancorata a personali visioni del mondo, lungi dal considerare punti di vista alternativi. Flaming presenta una serie di studi dove viene illustrata l’importanza della metacognizione al fine di mettere in ragionevole discussione le nostre certezze. Riflettere su come sappiamo di sapere ci mette in condizione di valutare quanto siamo realmente sicuri.

Una nota fondamentale è che questo non può avvenire restando da soli. L’ambiente e le interazioni ci permettono di confrontarci e accrescere la nostra autoconsapevolezza.

Quando acquisiamo una nuova capacità accade che la nostra mente tende ad essere attenta ai particolari. Premi la frizione, inserisci la prima, alza lentamente il piede dal pedale fino al punto di attacco ecc… Sono abbastanza sicuro che nessuno di noi andando a lavoro ormai ripete questa minuziosa procedura. Si chiama “amnesia indotta dall’abilità (Beilock). L’attenzione è sicuramente un grande vantaggio in fase di apprendimento, ma è meno utile quando utilizziamo la nostra esperienza nella routine. Non ci stupirà sapere che non tutti i grandi ex atleti divengono formidabili allenatori. Saper effettuare bene un compito e saperlo raccontare descrivendolo agli altri non sono sempre capacità che viaggiano insieme. I sessatori di pulcini, ad esempio, sviluppano la capacità di discriminare il sesso dei piccoli volatili, attraverso un affiancamento all’esperto senior; è così che acquisiscono tale abilità sorprendente, difficilmente trasmissibile attraverso un’articolata spiegazione.

Ma saper costruire un racconto delle nostre capacità è fondamentale per la nostra autoconsapevolezza. Questo aspetto diventa molto interessante se ci si occupa di problematiche cliniche in cui la nostra autonarrazione (quello che pensiamo di stare facendo) si discosta in modo importante da quello che stiamo realmente facendo (il nostro comportamento) e quindi da ciò che di fatto accade nella realtà. Questa è una caratteristica tipica dei deliri associati alla schizofrenia.

Il filosofo Frankfurt fa una divisione tra desideri di ordine superiore e di ordine inferiore. Secondo il filosofo quando le due dimensioni coincidono, la nostra autonarrazione è coerente, quindi ciò che vogliamo e ciò che scegliamo coincidono.

Immaginiamo per esempio quanto le nuove tecnologie possano rendere fragile il rapporto tra desideri di ordine superiore e inferiore, dove il voler leggere questa recensione è il vostro desiderio superiore. Ma siccome sono consapevole della mia prolissità e della mia difficoltà nel fare articoli più sintetici, la vostra mente sarà stata distratta e tentata più volte di guardare il telefonino, un social e via dicendo, cercando magari un collegamento con i vostri amici, ovvero il desiderio di second’ordine. Se volessimo difendere il desiderio superiore, la consapevolezza della presenza o del sopraggiungere, dentro di noi, di un conflitto, potrebbe permetterci di compiere delle azioni volte a tutelare il desiderio superiore (leggere l’articolo) come, ad esempio, lasciare il telefono fuori dalla stanza. Esattamente cosa ho fatto io per scrivere questa recensione, facendo un intervento sulla mia agentività.

La parte finale del libro ci conduce al problema dell’autoconsapevolezza nell’era delle macchine, dove il rapporto con la tecnologia è ormai divenuto parte integrante della nostra realtà.

Flaming sostiene che “talvolta, scaricare il controllo sui sistemi automatici può essere pericoloso.

Una tecnologia sempre più complessa che risponde ai nostri bisogni potrebbe farlo a discapito della nostra autoconsapevolezza che si impoverirebbe.

Quanti di voi hanno inveito almeno una volta contro il correttore automatico del telefono? Ora immaginate questo in un panorama dove è un algoritmo intelligente a scegliere il film da vedere questa sera o ancor peggio chi invitare a cena.

Se affidassimo interamente, in futuro, questi nostri bisogni a forme di Intelligenza Artificiale (AI) la nostra autoconsapevolezza, affievolendosi, potrebbe trasformare bisogni fondamentali della nostra vita in tecno-dipendenze.

La realtà è che fortunatamente i sistemi di silicio non hanno una vera e propria metacognizione.

A questo problema l’autore ipotizza due strade:

  • Progettare una forma di autoconsapevolezza nelle macchine;
  • Assicurare che, quando ci interfacceremo con future macchine intelligenti, lo faremo così da impiegare l’autoconsapevolezza umana.

Una soluzione suggerita è quella di creare un’interfaccia uomo-macchina in grado di poter monitorare l’operato delle macchine, ma la scienza (forse per fortuna) è ancora lontana da questo.

In conclusione questo libro ha un forte potere di sensibilizzazione sull’importanza della metacognizione, affermando quanto sia importante coltivarla e rafforzarla, ma ancor più quanto sia necessario conoscerla e comprenderla per preservarla. La nostra autoconsapevolezza è quanto mai minacciata dalla corsa alla produttività e dall’uso sfrenato della tecnologia, caratteristiche dell’epoca moderna.

Sollevando il velo, anche solo per un momento, sul funzionamento della metacognizione, possiamo acquisire un nuovo rispetto per la fragilità e il potere della mente riflessiva.”

 

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SCRITTO DA
Omar Bellanova
Omar Bellanova

Psicologo Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Fleming, S. M. (2022). Conoscere se stessi. La nuova scienza dell’autoconsapevolezza. Raffaello Cortina Editore
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