Avere una teoria della mente significa riuscire ad attribuire stati mentali, ovvero credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e assumere, sulla base di queste presupposti, il proprio e l’altrui comportamento (Sempio et al., 2005).
Si tratta di un’abilità utilizzata quotidianamente e serve ad avere rappresentazioni del funzionamento della mente altrui che permettono di gestire gli stati interni e le relazioni sociali al meglio. Infatti, proprio grazie alla teoria della mente è possibile spiegare, predire e agire sul comportamento proprio e altrui (More, Frye, 1991).
La teoria della mente fa riferimento a stati mentali inferiti da una serie di comportamenti che costituiscono, unitamente, un sistema esplicativo e unitario di rappresentazioni.
La teoria della mente si sviluppa durante i primi anni di vita grazie a una sana interazione con le figure di riferimento e permette di avere uno specchio sulle proprie e altrui capacità cognitive.
Sono state individuate delle variabili che facilitano la formazione di una teoria della mente nel bambino in interazione con un adulto:
- Attenzione Condivisa: portare la concentrazione contemporaneamente su una stessa cosa o gioco;
- Imitazione Facciale: riproduzione di particolari mimiche facciali
- Gioco di Finzione: simulare finti giochi tra adulto e bambino
Teoria della mente: “fredda” e “calda”
La teoria della mente, permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003), e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). Sulla base di queste affermazioni, è possibile fare una distinzione tra una teoria della mente “fredda”, usata spesso con fini manipolatori e antisociali, e una teoria della mente “calda”, avente scopi volti al benessere sociale e comunitari.
Come anticipato, la teoria della mente può essere usata per perseguire scopi manipolatori come nel caso dell’inganno (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999) o per interpretare sentimenti e emozioni altrui, ottenendo vicinanza psicologica come nel caso dell’empatia (McIlwan, 2003) o della comunicazione degli stati emotivi tra madre e bambino (Riva Crugnola, 1999).
La teoria della mente nello sviluppo della psiche dei bambini
Mostrare una padronanza della teoria della mente risulta essere una funzione altamente adattiva per il bambino (Fonagy, Target, 2001). Infatti, quando il bambino riesce a esplicare questa capacità attribuendo stati mentali agli altri diventa in grado di dare un senso al comportamento e a prevedere le reazioni emotive in relazione a un comportamento proprio e altrui. Questa abilità permette, di conseguenza, la messa in atto di comportamenti adatti a ogni situazione sociale.
Secondo Fonagy (2001) il bambino grazie all’interazione con l’altro-adulto, può produrre modelli di rappresentazione del funzionamento di se stesso e dell’altro. Tali modelli gli permettono di adattarsi in maniera funzionale alle situazioni per raggiungere scopi propri e altrui. La mentalizzazione permette di acquisire due abilità: l’autoconsapevolezza e riflessività (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999). Ciò significa che il bambino è consapevole delle proprie capacità e di quelle altrui ed è capace di riflettere sui propri processi mentali. In questo modo riesce a gestire e a determinare il suo comportamento, riconoscendo di avere dei limiti in alcune funzioni e di avere una serie di conoscenze a cui attingere.
Fonagy e Target (2001), sostennero che la teoria della mente, offre una funzione protettiva per tutti coloro che mostrano delle difficoltà oggettive dovute a traumi subiti, consentendogli di mantenere una sorta di integrità cognitiva ed esperenziale (Fonagy e Target, 2001).
Teoria della mente e gioco simbolico
Il gioco simbolico è un antecedente molto importante delle teoria della mente: si basa sulla presenza di oggetti o situazioni che stanno per altri non presenti.
Il bambino usa un oggetto come se questo fosse un altro oggetto; attribuisce all’oggetto proprietà che non possiede; si riferisce ad oggetti assenti come se fossero presenti (esempio del bastoncino come cavallo, della banana come telefono). Per Piaget (1972) il gioco simbolico nascerebbe nel 2° stadio senso-motorio (18-24 mesi), quando il bambino applica schemi d’azione ad oggetti a distanza crescente, producendo una progressiva separazione fra azione e oggetto; aumenterebbe nel 3° e 4° anno, per poi decrescere dando spazio al gioco con regole e di costruzione.
Gli aspetti comuni del gioco simbolico e della teoria della mente sono:
- funzione di reversibilità debole: rappresentazione di un oggetto come due cose al tempo stesso;
- funzione simbolica: visione di un oggetto come rappresentate di un altro;
- funzione metarappresentativa: rappresentazione di rappresentazioni mentali.
Il gioco e l’acquisizione del linguaggio sono due elementi fondamentali per lo sviluppo mentale del bambino; ha, inoltre, una funzione sociale, di interazione e condivisione.
Teoria della mente e linguaggio emotivo
Sembra che il linguaggio emotivo svolga un ruolo fondamentale durante l’infanzia nello sviluppo della consapevolezza del sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro-sociali ed empatici.
A partire dagli anni ’90 si è consolidato un filone di studio finalizzato ad ipotizzare un possibile legame tra linguaggio e teoria della mente. A tal proposito è stato accertato che i bambini inseriti in famiglie più numerose, e dunque maggiormente esposti allo stimolo verbale, sono in grado di sviluppare un linguaggio più flessibile e un vocabolario lessicale più ampio e variegato rispetto ai meno esposti, sebbene le caratteristiche dello sviluppo linguistico possano subire modifiche individuali specifiche: sembra infatti che le competenze linguistiche del bambino risultino migliori con la madre che con i fratelli e gli altri componenti della famiglia, e che, in età prescolare, le relazioni verbali con i fratelli siano più frequenti rispetto a quelle tenute con gli amici (Lecce, Pagnin, 2007).
Studi di diversa natura hanno evidenziato un’alta correlazione tra competenze linguistiche e sviluppo della teoria della mente (TOM), sia in bambini prescolari (Jenkins e Astington, 1996) che scolarizzati (Astington e Pelletier, 2005). In particolare i bambini sottoposti al Test of Early Language Development, volto a misurare le capacità linguistiche recettive ed espressive, hanno rivelato una forte correlazione tra abilità linguistiche e performance nei compiti di falsa credenza (Jenkins e Astington, 1996). In particolare i suddetti studi hanno evidenziato come le abilità linguistiche, assieme all’ampiezza della famiglia e all’età dei soggetti, possano essere considerate un buon predittore dell’abilità di mentalizzazione; i bambini con maggiori competenze nel test del linguaggio hanno dunque mostrato maggiore capacità di comprensione delle falsa credenza e delle emozioni anche a distanza di uno o due anni, indipendentemente dall’età (Dunn et al., 1991) e dal background familiare (Cutting e Dunn, 1999). Non è tuttavia stato dimostrato il contrario: la performance che un bambino ottiene in un compito di falsa credenza non è in grado di predire le sue abilità linguistiche (Astington e Jenkins, 1999).
Il linguaggio capace di agevolare lo sviluppo della teoria della mente e delle emozioni sociali non corrisponde tuttavia a quello rigido e prescrittivo che spesso le madri tendono ad usare con i propri figli in vista dell’apprendimento verbale, ma soprattutto del linguaggio fornito di connotazioni emotive e flessioni psicologiche volte e condividere stati d’animo, impressioni e cognizioni.
È stato infatti dimostrato come i bambini che utilizzano un linguaggio con riferimenti a stati emotivi siano più in grado di comprendere gli stati mentali psicologici, di raffigurarseli e utilizzarli per predire le emozioni proprie e altrui (Bretherton e Beeghky, 1982).
In particolare, il riferimento al linguaggio emotivo (che cosa pensi, che cosa provi) e una maggiore importanza data alle esperienze emozionali del bambino risultano utili ai fini della comprensione di azioni e comportamenti, di memorie relative alle proprie esperienze e a quelle altrui, della disparità tra i propri ricordi, le proprie convinzioni e ciò che esiste nella realtà (Lecce e Pagnin, 2007). I bambini che parlano più degli stati d’animo propri o altrui sono maggiormente in grado di accedere all’universo degli stati psicologici, e dunque sono capaci di padroneggiare le emozioni più facilmente anche nel contesto sociale e ludico. In particolare i bambini più competenti nel linguaggio emotivo dimostrano anche maggiori abilità nello svolgimento del gioco immaginativo, del far finta, che, come abbiamo visto, si è rilevato altamente correlato con lo sviluppo della teoria della mente (Fonagy e Target, 2001).
Teoria della mente e bambini: la propensione a dire bugie
La Teoria della Mente può avere anche effetti indesiderati: secondo uno studio pubblicato su Psychological Science, i bambini cui viene insegnato a riflettere sugli stati mentali altrui, avrebbero più probabilità di mentire allo scopo di vincere un premio.
Infatti mentire non è un affar semplice: dal punto di vista cognitivo richiede il tentativo di immaginare e produrre intenzionalmente una falsa credenza nella mente dell’interlocutore; e la Teoria della Mente è uno strumento cognitivo elettivo per fare questo.
Già ricerche passate avevano messo in evidenza la correlazione tra la tendenza dei bambini a mentire (che tipicamente si presenta intorno ai 2-3 anni) e le abilità di teoria della mente. In questo studio, il passo successivo è stato verificare un rapporto causale tra le due variabili.
Per prima cosa i ricercatori hanno sottoposto i bambini (tre anni di età) a un task – gioco sperimentale – allo scopo di verificare la loro capacità di mentire. Sulla base dei risultati di questo primo task, 42 bambini che non avevano mai mentito nei diversi trial del compito precedente sono stati coinvolti nello studio.
In seguito, metà dei soggetti è stata randomicamente assegnata a un training di teoria della mente (il cui obiettivo era insegnare ai bambini che le altre persone possono avere stati mentali e pensieri differenti dai propri) oppure a un training di ragionamento numerico. La durata di entrambi i training era di una seduta al giorno per sei giorni.
Come ci si poteva aspettare, i bambini sottoposti al training di Teoria della Mente hanno mostrato un miglioramento nelle abilità di Teoria della Mente in maniera significativamente maggiore rispetto al gruppo di controllo.
Ma l’aspetto più interessante è che coloro che avevano effettuato il training di Teoria della Mente presentavano una significativa maggiore probabilità di mentire nel task sperimentale allo scopo di ottenere una caramella rispetto al gruppo di controllo. Una prova empirica della relazione causale tra Teoria della Mente e menzogna: la manipolazione delle abilità di Teoria della Mente può influenzare e facilitare il comportamento menzognero.
Per concludere
Per concludere, è possibile dire che la Teoria della mente si sviluppa nel tempo e col tempo, quindi non si nasce con una teoria della mente strutturata, ma essa deriva da una serie di attitudini acquisite e da esperienze verificatesi durante la prima infanzia che portano alla formazione di rappresentazioni mentali proprie e altrui che guidano il comportamento sociale del bambino e del futuro adulto.