Sembra che il linguaggio emotivo svolga un ruolo fondamentale durante l’infanzia nello sviluppo della consapevolezza del sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro-sociali ed empatici.
A partire dagli anni ’90 si è consolidato un filone di studio finalizzato ad ipotizzare un possibile legame tra linguaggio e teoria della mente, intesa come la capacità di un soggetto di rappresentarsi in termini mentali le azioni altrui, connotandole di peculiarità in grado di esperire ed interpretare stati d’animo e intenzionalità emotive. È stato ampiamente dimostrato che tale competenza si sviluppa a partire dai 4 anni, periodo evolutivo in cui i bambini risultano in grado di superare positivamente il test della “falsa credenza”, finalizzato ad identificare lo sviluppo della capacità metarappresentazionale negli esseri umani (Perner e Wimmer, 1983). Nello specifico, il bambino che raggiunge questa fase di sviluppo cognitivo è in grado di rappresentarsi la realtà sotto punti di vista diverso dal proprio, scostandosi così dall’egocentrismo che fino ad allora ne ha guidato i ragionamenti. A partire da questa fase evolutiva il bambino comprende che il mondo non è regolato solo dai suoi personali bisogni e desideri, ma anche dalle credenze, dai desideri, dalle conoscenze degli altri: un progresso raggiunto grazie anche all’acquisizione di abilità strumentali e cognitive tra le quali rientrano l’interazione sociale e le competenza linguistiche. Tutto ciò che riesce a stimolare l’espressione e l’interazione sociale è infatti in grado di sviluppare nel bambino la consapevolezza dell’esistenza fisica e psichica dell’altro, e questo risulta fortemente accentuato laddove il bambino ha maggiori possibilità di scambio verbale. A tal proposito è stato accertato che i bambini inseriti in famiglie più numerose, e dunque maggiormente esposti allo stimolo verbale, sono in grado di sviluppare un linguaggio più flessibile e un vocabolario lessicale più ampio e variegato rispetto ai meno esposti, sebbene le caratteristiche dello sviluppo linguistico possano subire modifiche individuali specifiche: sembra infatti che le competenze linguistiche del bambino risultino migliori con la madre che con i fratelli e gli altri componenti della famiglia, e che, in età prescolare, le relazioni verbali con i fratelli siano più frequenti rispetto a quelle tenute con gli amici (Lecce, Pagnin, 2007).
Studi di diversa natura hanno evidenziato un’alta correlazione tra competenze linguistiche e sviluppo della teoria della mente (TOM), sia in bambini prescolari (Jenkins e Astington, 1996) che scolarizzati (Astington e Pelletier, 2005). In particolare i bambini sottoposti al Test of Early Language Development, volto a misurare le capacità linguistiche recettive ed espressive, hanno rivelato una forte correlazione tra abilità linguistiche e performance nei compiti di falsa credenza (Jenkins e Astington, 1996). In particolare i suddetti studi hanno evidenziato come le abilità linguistiche, assieme all’ampiezza della famiglia e all’età dei soggetti, possano essere considerate un buon predittore dell’abilità di mentalizzazione; i bambini con maggiori competenze nel test del linguaggio hanno dunque mostrato maggiore capacità di comprensione delle falsa credenza e delle emozioni anche a distanza di uno o due anni, indipendentemente dall’età (Dunn et al., 1991) e dal background familiare (Cutting e Dunn, 1999). Non è tuttavia stato dimostrato il contrario: la performance che un bambino ottiene in un compito di falsa credenza non è in grado di predire le sue abilità linguistiche (Astington e Jenkins, 1999).
Il linguaggio capace di agevolare lo sviluppo della teoria della mente e delle emozioni sociali non corrisponde tuttavia a quello rigido e prescrittivo che spesso le madri tendono ad usare con i propri figli in vista dell’apprendimento verbale, ma soprattutto del linguaggio fornito di connotazioni emotive e flessioni psicologiche volte e condividere stati d’animo, impressioni e cognizioni.
È stato infatti dimostrato come i bambini che utilizzano un linguaggio con riferimenti a stati emotivi siano più in grado di comprendere gli stati mentali psicologici, di raffigurarseli e utilizzarli per predire le emozioni proprie e altrui (Bretherton e Beeghky, 1982).
In particolare, il riferimento al linguaggio emotivo (che cosa pensi, che cosa provi) e una maggiore importanza data alle esperienze emozionali del bambino risultano utili ai fini della comprensione di azioni e comportamenti, di memorie relative alle proprie esperienze e a quelle altrui, della disparità tra i propri ricordi, le proprie convinzioni e ciò che esiste nella realtà (Lecce e Pagnin, 2007). I bambini che parlano più degli stati d’animo propri o altrui sono maggiormente in grado di accedere all’universo degli stati psicologici, e dunque sono capaci di padroneggiare le emozioni più facilmente anche nel contesto sociale e ludico. In particolare i bambini più competenti nel linguaggio emotivo dimostrano anche maggiori abilità nello svolgimento del gioco immaginativo, del far finta, che si è rilevato altamente correlato con lo sviluppo della teoria della mente (Fonagy e Target, 2001).
Gli studi di Katherine Nelson (1973, cit. in Meins, 1999), hanno poi specificato l’esistenza di due modalità differenti attraverso cui può essere appreso il linguaggio: la modalità referenziale e quella espressiva, delle quali la prima si presenta maggiormente diretta al processo di denominazione degli oggetti e la seconda più connessa all’interazione sociale. Malgrado quest’ultima potrebbe sembrare maggiormente relazionata ad una più agevole acquisizione di scambio emotivo e sociale, è stato tuttavia rilevato come le caratteristiche proprie della modalità espressiva, quali l’imitazione, la mancanza di flessibilità e i bassi livelli di comprensibilità, la rendano meno foriera di sviluppo metacognitivo ed emozionale rispetto alla modalità referenziale, caratterizzata da aspetti maggiormente flessibili, esplorativi e interattivi. Si è infatti appurato che le madri con linguaggio espressivo utilizzano soprattutto frasi congelate, stereotipate e di tipo descrittivo, mentre le madri con linguaggio referenziale si mostrano maggiormente descrittive e flessibili nei loro approcci linguistici col bambino, tanto da sviluppare in lui capacità esplorative, creative, di apprendimento e di interazione (Meins, 1999). I bambini figli di madri con questo tipo di linguaggio mostrano anche un attaccamento sicuro, hanno maggiori competenza di problem solving, sviluppano abilità espressive nel gioco simbolico e possono contare su un più ampio vocabolario emotivo.
I bambini che parlano di emozioni sono anche i bambini che hanno maggiori interazioni sociali, dunque. E questo processo di condivisione ed esplicitazione delle emozioni, denominato socializzazione emotiva, dopo una funzionale acquisizione all’interno della diade materna e del nucleo familiare, può essere utilmente potenziato anche in ambito extra-familiare. A tal proposito gli studi sperimentali di Lecce e Pagnin (2007) hanno dimostrato come un’adeguata stimolazione del linguaggio emotivo dei bambini all’asilo di infanzia possa risultare un fattore di potenziamento dell’acquisizione di teoria della mente e capacità di regolazione emotiva inter ed intrapersonale. L’ipotesi delle studiose è volta a dimostrare l’importanza dell’esposizione al linguaggio emotivo e del suo potenziamento sin dalle prime fasi della vita, nella prospettiva di suscitare nel bambino competenze emotive quali la verbalizzazione delle emozioni, la regolazione delle stesse e la mentalizzazione.
Al fine di dimostrare l’ipotesi è stato allestito un setting sperimentale all’interno di un asilo-nido, dove, con l’aiuto delle educatrici, bambini al di sotto dei 3 anni sono stati sottoposti alla lettura di otto storie emozionanti i cui i protagonisti (due conigli chiamati Ciro e Beba) sperimentavano di volta in volta emozioni quali paura, rabbia, felicità, tristezza: al termine della storia le emozioni vissute dai coniglietti e dai bambini sono state rese oggetto di discussione con le insegnanti.
I testi delle storie erano caratterizzati dalla presenza di un lessico psicologico più accentuato rispetto a quelli solitamente utilizzati per i bambini in quella fascia di età. Nel contempo le educatrici hanno partecipato ad incontri di acquisizione e aggiornamento circa l’importanza della socializzazione e dell’esperienza emotiva, mentre i bambini sono stati sollecitati con domande stimolo finalizzate alla discussione emotiva durante incontri a cadenza giornaliera nell’arco di due mesi. L’efficacia dell’intervento è stata documentata a mezzo di varie fonti: le educatrici hanno testimoniato come al termine del trattamento i bambini siano risultati più pronti alla comprensione emotiva propria e dell’altro, maggiormente competenti nella produzione lessicale emotiva e nella prestazione di aiuto e conforto ai compagni. Competenze di cui i genitori hanno testimoniato la generalizzazione anche in ambito domestico e familiare, dove i bambini si sono mostrati maggiormente inclini a comportamenti di altruismo, comprensione, socializzazione.
L’esperimento ha confermato dunque l’ipotesi di partenza, volta a dimostrare come un adeguato potenziamento del linguaggio emotivo sin dalla prima infanzia contribuisca allo sviluppo della consapevolezza del Sé, della teoria della mente e degli atteggiamenti pro sociali ed empatici dalla stessa ispirati (Lecce e Pagnin, 2007).