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Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”

Mi Arrangio a Essere Lesbica - Il DIG (Disturbo dell'Identità di Genere) attraverso le parole di una donna che abita un corpo sbagliato.

Di Valeria Fregoni

Pubblicato il 14 Mar. 2013

Aggiornato il 05 Ago. 2022 11:39

Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”. - Immagine: © auremar - Fotolia.comMi Arrangio a Essere Lesbica – Il DIG (Disturbo dell’Identità di Genere) attraverso le parole di una donna che abita un corpo sbagliato.

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Il Disturbo dell’Identità di Genere rappresenta una profonda alterazione del senso d’identità rispetto all’essere maschio o femmina (Dèttore, 2005). Vi è una forte divergenza tra identità di genere e identità sessuale. L’individuo si trova a vivere uno stato di disagio e malessere nei confronti del sesso biologico e a provare estraneità riguardo all’identità di genere assegnata al proprio sesso.

Una rappresentazione comune, anche se non del tutto esaustiva, del Disturbo dell’Identità di Genere rispetto alle donne che ne soffrono, è che sono quasi sempre state definite mascoline nell’aspetto e/o nel comportamento fin dall’infanzia, amano stare con i maschi e partecipare a giochi molto fisici e turbolenti. Non amano indossare abiti femminili e vivono con un forte disagio i cambiamenti corporei legati alla pubertà. In genere, provano attrazione fisica per le sole donne, tanto da tentare esperienze lesbiche fin dall’adolescenza; ma ciò spesso fallisce, perché desiderano stare con le donne in quanto uomini, non come donne. Possono incontrare delle partner che le accettano come uomini e quindi si considerano eterosessuali (Carrol, R.A. 2000).

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I comportamenti tipici di questa condizione si manifestano intorno ai 2-4 anni. Alcuni bambini affermano di essere del sesso opposto al loro e in questi casi è difficile capire se si tratti di una loro convinzione o di un errore nell’etichettare i generi. Altri bambini invece sono consapevoli di essere maschi o femmine, ma affermano di voler diventare membri del sesso opposto.

Solo un numero esiguo di questi bambini diventerà transessuale o travestito, molti diventeranno omosessuali e gli altri svilupperanno un orientamento eterosessuale (Di Ceglie 1995).

Attraverso le parole di una donna, che questa realtà la esperisce quotidianamente, emerge quanto sia difficile sentirsi in trappola nel proprio corpo.

 

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La storia di Micky

«A tre anni sapevo già cos’ero.

Bimba con il muso imbronciato quando la madre le infilava vestitini e gonnelline.

Bimbo felice, che finge di guidare, dentro una vecchia macchina scassata nel cor­tile dell’asilo.

“Le femmine non guidano” mi disse una bambina con i codini e l’espressione arricciata.

“Io mi chiamo Luca” risposi senza esitare.

Primo giorno del nuovo asilo. Poi mi dovetti sorbire il disagio della presentazio­ne ufficiale davanti a tutti, anche a quella bambina…

Anni d’infanzia vissuti nell’ambiguità di un corpo ancora senza forme. Compro­messi con mia madre: pantaloni e gonne, a giorni alterni. Al mare stropicciavo dei fazzoletti di carta e li infilavo negli slip: mi chiamavo Luca. Socializzai con vari ragazzini. Consolidai delle alleanze con i maschi, da maschio. Non ebbero mai dubbi sulla mia sessualità: io per loro ero un bambino.

Però non potevo fare proprio tutto quello che loro facevano: ad esempio, fare pipì in piedi, tutti insieme… Allora mi inventavo un altro ruolo: “Voi fatelo, io sto di guardia”.

Avevo otto anni e capivo che non sarebbe stato facile essere quello che ero.

Il mio corpo crescendo divenne molto femminile… alla faccia di quello che io sentivo.

Mi si assopì la smania dell’essere maschio e mi diedi altre possibilità, comprese le prime esperienze ludiche con il sesso tra amichetti.

Tutti i miei innamoramenti erano rivolti a figure femminili, dalla maestra dell’asilo, alla compagna di banco, ad amiche di mia madre.

La prima storia vissuta realmente fu dai dodici anni fino ai quattordici. Lei era in classe con me.

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Noi ci si definiva “amiche del cuore” ma era la sostituzione di parole che non si potevano usare (fidanzata, morosa, amore).

 Sono cresciuta con dottrine fradice di cattolicesimo bigotto. Ambiente sano ma poco elastico. Sono cresciuta con il senso del peccato, della punizione, di un dio giudicante e poco indulgente. Malgrado questo, dentro di me cercavo di frantumare tutti i cliché paesani con filosofie personali, fantasiose, a volte infantili, per “salvarmi” e darmi un senso di esistere.

A quindici anni ho dovuto affrontare i primi giudizi degli altri sui miei rapporti personali. La parola “lesbica” mi fu detta in seconda superiore e mi sentii morire. Ne seguì una crisi di pianto nel bagno, con alcune amiche fuori che cercavano di confortarmi.

A sedici anni me lo dissi: ero omosessuale. Le storie che stavo vivendo erano combattute.

La “lei” di quel periodo riempiva di lacrime i nostri baci saffici.

Io a dirle che l’amore non è mai sbagliato, che non può essere sbagliato. Lei a dire che quel sentimento intenso la sconvolgeva e che tutto sarebbe stato più facile se io fossi stato UNO e non UNA.

Negli anni dell’adolescenza ho affrontato mamme che mi accusavano di essere l’amore proibito della figlia, suore che definivano morbose le mie amicizie, genitori (i miei) che fingevano di non vedere che le mie amiche del cuore erano le mie fidanzatine.

In parallelo cercavo in tutti i modi di non escludere la possibilità di essere “normale” e avevo alcuni maschietti come corteggiatori, qualche bacio, petting… per esplorare la realtà che meno mi apparteneva.

A diciannove anni era chiaro come mi sentivo e quello che ero ma non avevo le parole per definirmi, per dirlo al mondo. Pensavo che un’alternativa valida fosse quella di lasciare il paese, di allontanarmi dai miei, tra sensi di colpa e bisogno di tutelarli.

La scusa concreta dell’università mi portò in una nuova città.

La mia storia più importante a venti anni. Con il primo sesso, il primo coinvolgimento totale e viscerale.

M’innamoravo di donne eterosessuali come fosse normale accadesse questo e, così le corteggiavo da maschio, ma loro dovevano fare i conti con una ragazza e non con quello che io mi sentivo.

Fare l’amore creava un’intimità in cui ci si poteva perdere senza definirsi a tutti i costi.

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Con gli anni poi ho capito molte cose. Ho potuto anche tornare a parlare con chi mi amava vent’anni fa, donne ora sposate e con figli.

Ho capito che quelle donne mi vedevano per quello che ero, e quindi un involucro sbagliato con l’anima giusta.

Per molto tempo ho cercato intensamente un modo per darmi pace. Non ho mai pensato a un’operazione per cambiare sesso. O meglio ci ho pensato, ma io non voglio modificare questo corpo. Io voglio essere UNO vero. Tutto dall’inizio. Oppure preferisco il niente… preferisco arrangiarmi a essere lesbica… e ad avere la certezza che chi mi ama, chi è amata da me… lo sente, lo percepisce e mi vede DAVVERO.

Io quando mi penso mi dimentico di essere come sono. La mia essenza prende una forma mentale che a volte mi consola. Poi nella quotidianità essere se stessi è un privilegio che mi concedo al di là del mio fisico.

Ogni giorno, da anni, concilio la mia parte interiore con i contorni che il mio corpo invece ha.

Più passa il tempo e più una malinconia si deposita sul fondo dei miei anni: non è una vita facile… ancora mi innamoro o potenzialmente potrei innamorarmi di donne che incontro, che se fossi un uomo potrei normalmente corteggiare. Se a venti anni avevo la spregiudicata presunzione di provarci, adesso no. Lascio andare il pensiero. Ora sarebbe più difficile.

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A volte penso che se fossi statO nel corpo giusto ora sarei sposatO, con due figli.

Ma quel corpo non ce l’ho e non avendolo non posso condurre la vita che avrei dovuto vivere.

 

 Non mi sono dato nessuna alternativa. Non ho il pene. Non sono considerato un uomo.

Non sono quello che si vede, ma può capitare che qualcuno lo intuisca vivendomi più a fondo.

Per anni ho dovuto darmi e farmi dare un’etichetta, perché pare che in questo mondo, in questa società tutto debba essere definito. Senza una definizione si galleggia in un limbo. Con molta difficoltà ho fatto entrare nel mio lessico la parola “Lesbica”. Un suono aspro, ancor di più nel momento in cui lo senti inadeguato perché io non mi sento donna né eterosessuale né omosessuale. Era più “facile” in quegli anni dire così, almeno facevo parte di una categoria. In realtà provavo disagio a identificarmi con il mondo lesbico, e ingiustizia per non potermi identificare con quello eterosessuale.

Il sesso biologico è l’impronta della vita. Viaggiare nell’età con questa consapevolezza, quando la tua impronta non parla di te è la cosa più ruvida che possa capitare. Ruvida come la barba che non potrò mai farmi crescere, come la strada su cui viaggio da venti anni, come le difficoltà che un involucro sbagliato comporta.

Io vorrei una seconda occasione: rinascere quello che sono. Vivere la mia vita “giusta”».

 

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