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Coinvolgere adolescenti riluttanti: l’efficacia di un primo incontro familiare

La maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale sia quella di incontrare per la prima volta gli adolescenti non collaboranti da soli

Di Redazione

Pubblicato il 14 Feb. 2014

Di Matteo Selvini. Brani estratti dall’articolo omonimo inviato a Terapia Familiare, gennaio 2014.

 

 Coinvolgere adolescenti riluttanti:

l’efficacia di un primo incontro familiare

 

 

Coinvolgere gli adolescenti nel percorso psicologico . - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.comLa stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo.

Il tabù dell’incontro congiunto genitori-adolescente

La stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo (Tommaso Senise, Aliprandi et al., 1990; Arnaldo Novelletto,1986 e Gustavo Pietropolli Charmet, 1992). In realtà credo pesi soprattutto la difficoltà della gran parte dei professionisti a gestire incontri familiari.

Una recente ricerca (Selvini, 2014) sulle ultime 179 richieste di aiuto ricevute dal mio centro privato di consultazione familiare ha mostrato come non sia mai l’adolescente stesso a prendere contatto. Tuttavia in 90 casi il giovane è collaborativo (seppur con frequenti modalità compiacenti o rinunciatarie), in altri 60 casi arriva trascinato/muto/ostile/negativista. In altri 29 non si presenta proprio ed il primo colloquio è con i familiari.

Il dato che mi ha colpito è quello che si arriva ad una presa in carico con l’88% dei giovani collaboranti, il 78% dei negativisti, ma solo il 41% degli assenti. L’assenza del giovane al primo colloquio è dunque un segnale prognostico molto negativo sull’efficacia della presa in carico.

 

Rafforzare il ruolo guida dei genitori

Nella nostra casistica, così come si legge nella letteratura, molto spesso i genitori vorrebbero delegare al professionista il figlio adolescente. Ma è proprio questa “complicità” espulsiva tra terapeuta e genitore che va evitata: mai iniziare vedendo l’adolescente non richiedente da solo. 

I dati dimostrano che anche una presenza negativista ad una riunione familiare è potenzialmente preziosissima per arrivare ad una presa in carico. Al contrario invitare l’adolescente da solo può comunicare un’implicita e quindi potentissima squalifica dei suoi genitori, figure che al contrario hanno di solito bisogno di essere sostenute e rafforzate: di fronte ad un adolescente problematico, che non chiede di essere aiutato, guidare i familiari affinché, con delicatezza, cerchino di portarlo con loro ad incontrare congiuntamente un esperto, è una tattica/tecnica più efficace del cercare di organizzare un incontro dell’adolescente da solo con il professionista.

E questo per i seguenti motivi:

Aumentano, e di molto, le probabilità che l’adolescente arrivi ad incontrare l’esperto.

L’incontro familiare lo aiuta a mettersi in gioco molto più di un incontro individuale affrontato con atteggiamento negativista.

L’incontro familiare è più efficace e rapido nel cominciare a valutare non solo le risorse/patologie dell’adolescente, ma contemporaneamente quelle dei familiari.

Può essere il primo passo di un processo di riconciliazione.

I familiari, fianco a fianco con l’adolescente, possono dimostrarsi capaci di dare l’esempio nell’aprirsi e nel mettersi in discussione.

È rarissimo che l’adolescente si opponga all’incontro familiare e “negozi” di venire invece da solo.

La seduta congiunta può farci incontrare pazienti psicotici gravi non trattati e consentire un’immediata presa in carico.

Una vastissima letteratura (a partire da Selvini Palazzoli, 1963) dimostra che il tentativo di costruire un’alleanza terapeutica con questi ragazzi attraverso sedute individuali, prassi tipica di un approccio iper-individuale, richiede spesso anni, produce innumerevoli abbandoni della terapia, e per di più può dare cattivi risultati, perché l’adolescente talvolta vive la terapia individuale stessa come un (ennesimo) abbandono/delega del genitore, e questo può portare ad un pericoloso allontanamento affettivo dell’adolescente dai suoi genitori, oltre ad un transfert negativo sul terapeuta (Selvini, 2013).

 

La difficoltà del primo incontro. Il ruolo di guida del conduttore.

Il rischio di un abbandono immediato del ragazzo/a o dei familiari è molto forte.

L’obiettivo essenziale di stabilire una relazione significativa richiede un atteggiamento attivo e direttivo da parte del conduttore. Sarebbe fallimentare mettersi in posizione di ascolto, verremmo travolti dalle interazioni disfunzionali, mentre dobbiamo tentare di produrre un’esperienza innovativa/correttiva. Le linee guida di un primo colloquio puntano sulla co-costruzione dell’autorevolezza del terapeuta e sull’intensità del coinvolgimento emotivo, in primo luogo dell’adolescente. Tuttavia rispetto a questi obiettivi è prioritario, anche proprio cronologicamente, che un primo incontro familiare garantisca a tutti i partecipanti uno spazio emotivamente sicuro (Friedlander et al, 2006; Escudero et al., 2010). Costruire un contesto di condivisione dove nessuno si senta attaccato è la premessa indispensabile.

 

Preparazione dell’incontro

L’adolescente accetta più volentieri una riunione familiare per parlare più in generale di quello che non va in famiglia, piuttosto che un suo personale invio dallo “strizzacervelli”.

È più che opportuno che il genitore non stia troppo a discutere se il figlio ha o non ha un problema, ma dichiari che sicuramente lui stesso è in crisi con lui.

Di fatto è molto molto raro che, a partire da una chiamata/richiesta di un genitore, possa seguire un incontro individuale con un adolescente, a meno che non sia l’esperto stesso, commettendo un grave errore, a favorire questo tipo di passaggio.

Per concludere daremo indicazioni affinché l’adolescente sia sollecitato a partecipare: “Vieni almeno questa volta, per dare il tuo parere su questa strada e questa persona, fammi questo favore, fallo per me…”, ma non forzato, ricattato, obbligato o pagato.

Non ha proprio senso fare affrontare al giovane da solo un’esperienza che non ha scelto/deciso lui e che molto probabilmente lo preoccupa, dato che non sa cosa aspettarsi. Magari ci sono fantasie di essere puniti, umiliati, criticati, trattati con farmaci o addirittura ricoverati! (Keating-Cosgrave, 2006).

È evidente che l’atto stesso di chiedere per lui una visita specialistica per problemi psichici, mentali, comportamentali, contiene una implicita e quindi potentissima connotazione negativa: “C’è qualcosa che non va in te, ed è qualcosa di molto importante che concerne la tua stessa persona”.

Sarà chiaro che questo messaggio potrebbe essere difficile da reggere, e ancor più se l’adolescente teme ci sia del vero… È quindi un passaggio davvero critico in cui ha bisogno del massimo sostegno/accompagnamento, non certo di essere mandato allo sbaraglio verso l’ignoto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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