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La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. Recensione

Recensione de La grande Bellezza (2013) di Paolo Sorrentino. Cinema & Psicologia. Non convince la ridondanza del contenuto, privo di un autentica trama...

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 04 Set. 2013

Aggiornato il 04 Mar. 2014 12:25

 

 Recensione del film: 

La Grande Bellezza

(2013)

di Paolo Sorrentino

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LA GRANDE BELLEZZA DI PAOLO SORRENTINO - RECENSIONE
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina

Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.

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“La grande bellezza” di Sorrentino ha diviso pubblico e critica, ricevendo consensi e critiche. Il regista si misura con un soggetto estremamente complesso cercando di raccontare il vuoto di valori dell’Italia contemporanea, e in particolare di un ambiente alto borghese romano frequentato da personaggi in cerca di affermazione ma costantemente incapaci di sottrarsi al fuoco fatuo della mondanità.

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Il film inizia con la lunga scena di una festa in cui donne e uomini si abbandonano ad un divertimento senz’anima, stravagante nelle intenzioni e penosamente banale nell’artificiosità dei comportamenti, e si tratta di una sequenza che colpisce lo spettatore facendogli sentire sulla pelle la corrosività del degrado culturale.

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Dopodiché il film perde di intensità e originalità, risultando sovente un’accozzaglia di ritratti scarsamente legati tra loro il cui unico scopo appare quello di ribadire una volta di più la prospettiva che muove l’opera.

Il personaggio principale, interpretato da Toni Servillo, è un giornalista con aspirazioni di scrittore naufragate in un unico tentativo letterario di molti anni prima; a Roma diventa il protagonista della mondanità, perdendosi in un labirinto di umanità incompiute che anestetizzano la propria desolazione attraverso uno stile di vita senza pensiero e senza scopo.

Molti gli chiedono perché non ha più pubblicato romanzi e nel corso del film la risposta prende corpo: il tentativo di trovare la grande bellezza della vita, il significato più elevato dell’esperienza, è fallito nel vortice immobile di una società che divora ogni senso profondo temendo che da esso possa derivare un doloroso confronto con la vacuità dell’immagine.

Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.

Anche non considerando alcuni tonfi evidenti del racconto – le comparsate di Fanny Ardant e di Venditti sono ingiustificabili, l’incontro di Toni Servillo con una bambina che dovrebbe mettere a nudo gli impacci della sua superbia si risolve in uno scambio di battute senza un prima e un dopo narrativi – il film procede per didascalie, messaggi preconfezionati, la visita al mago truffatore, il prelato nel ristorante dei poteri corrotti, l’arresto del mafioso insospettabile accasato nell’alta finanza.

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Alcune figure – la vecchia religiosa che compare nella parte finale, il cardinale che in modo ridicolo si sottrae alle domande sullo spirito – sono funzioni più che personaggi reali, investite del compito di simboleggiare un concetto.

Il protagonista racconta la vana aspirazione di Flaubert di scrivere un romanzo sul nulla, e questo rappresenta la trappola in cui cade anche Sorrentino; la descrizione del vuoto esistenziale viene ricercata attraverso l’utilizzo di immagini che vorrebbero essere visionarie ma rimangono a metà del guado, il film proclama “ora vi parlo del nulla” e il cinema d’autore mal si concilia con le dichiarazioni d’intenti, specie quando condite da slogan nient’affatto sottili.

L’obiettivo di far rivivere la magia felliniana di una Roma contesa fra l’eterno della bellezza e l’effimero grottesco degli uomini produce così una tangibile nostalgia del modello originale.

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