Nel romanzo “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry c’è un celebre dialogo in cui la volpe ammonisce il protagonista con una frase destinata a diventare un aforisma senza tempo: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.”
Riflessione semplice e profonda allo stesso tempo, che rinnova in chiave poetica un concetto abbastanza ovvio: sul piano delle relazioni interpersonali c’è una bella differenza tra la semplice dimensione visiva e quella affettiva ed emozionale. Se poi tra i due livelli si percepisce addirittura un’incongruenza, le cose si complicano notevolmente.
La Sindrome di Capgras è un esempio clinico di come possa manifestarsi un conflitto tra queste due dimensioni: chi soffre di questa patologia neurologica sa infatti riconoscere perfettamente le fattezze e il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, viene a mancare completamente l’aspetto dell’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti. Per esempio un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.
Al delirio si accompagna spesso un comportamento aggressivo e violento nei confronti di quello che si considera un sosia, soprattutto in risposta ai tentativi di mettere in discussione la convinzione delirante. Questa condizione clinica di scissione tra identificazione visiva ed emozioni, generalmente correlata a quadri psicotici o a lesioni cerebrali, incoraggia una riflessione generale su quale sia il processo cognitivo attraverso il quale riconosciamo come autentica l’identità altrui.
Uno studio di Ellis e Young, basato sulla misurazione dei parametri di conduttanza cutanea, ha confermato che i pazienti affetti da sindrome di Capgras mantengono intatta l’abilità conscia di discriminare i volti familiari, ma che a questa capacità non corrisponde un’adeguata risposta di attivazione automatica e inconscia delle emozioni congruenti, quasi ci fosse una compromissione nello scambio di informazioni tra corteccia visiva e sistema limbico.
Le ipotesi formulate a partire da questa premessa sono molteplici: esistono forse due sistemi anatomicamente distinti coinvolti nel processo di riconoscimento dei volti amati, uno deputato ad elaborare le informazioni visive e uno a riconoscerne la risonanza emotiva? In quale sede cerebrale (o a che livello cognitivo) potrebbe collocarsi la connessione tra le due strutture? Perché una compromessa integrazione fra questi due sistemi dovrebbe spingere il paziente a delirare su sosia e duplicanti? E che cos’è che fa sì che di fronte ad una fisionomia razionalmente riconosciuta come familiare il paziente percepisca che a livello viscerale c’è qualcosa che non quadra?
In attesa di ulteriori studi in ambito neuropsicologico, un’interpretazione alternativa e sicuramente intrigante è quella psicoanalitica, secondo la quale la genesi e il mantenimento del delirio di Capgras garantirebbe una sorta di “tornaconto” al paziente, nel senso che servirebbe a risolvere una preesistente ambivalenza nel rapporto tra il paziente e la persona oggetto del delirio.
Proviamo a tornare all’esempio del marito: dopo anni di malumori, insofferenze taciute e rabbia soffocata nei confronti della moglie, interviene la sindrome a slatentizzare il tutto e ad appagare finalmente l’aggressività repressa. Il sosia è l’espediente geniale: ci si può accanire quanto si vuole senza per questo sentirsi minimamente in colpa (che male c’è a incattivirsi contro un alieno bugiardo?) e allo stesso tempo continuare a nutrire profondi sentimenti di affetto e amore per il proprio coniuge, inspiegabilmente sostituito e perduto.
Se non si trattasse di una psicosi su base organica, potrebbe quindi sembrare una strategia cognitiva straordinariamente elegante per risolvere un problema complesso: dopotutto l’autostima è salva, l’incolumità del proprio caro pure, e l’ostilità ha finalmente libero sfogo.
Insomma, che dire? Chapeau!
BIBLIOGRAFIA:
- Hadyn D. Ellis, Michael B. Lewis. (2001). Capgras delusion: a window on face recognition TRENDS in Cognitive Sciences 5 (4): 149-156
- McKay R., Langdon R., Coltheart M. (2005) “Sleights of mind”: Delusions, defences and self-deception Cognitive Neuropsychiatry 10 (4): 305-326