Una vita degna di essere vissuta è la storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT).
Studiamo ciò che ci fa soffrire
Qualunque terapeuta abbia accolto nel proprio studio un paziente con disturbo borderline di personalità conosce bene la fatica, la frustrazione, il vertiginoso caos dei vissuti, il senso di impotenza, la turbolenza emotiva, a volte lo stupore di fronte alla disperazione e al dolore raccontati.
Tutto questo è rievocato dalla lettura di Una vita degna di essere vissuta, storia personale e professionale di Marsha Linehan, psicologa nota per aver ideato la Dialectical Behaviour Therapy (DBT), un trattamento destinato principalmente proprio ai pazienti con disturbo borderline.
Una testimonianza molto particolare, perché svela come la stessa Linehan sia stata, prima che una visionaria accademica e terapeuta, una persona profondamente disturbata, con condotte autolesive e forti tendenze suicidarie.
Nel libro c’è il racconto dell’intima storia di follia e disperazione dell’autrice, dagli anni della giovinezza, prima del baratro, vissuta con genitori distanti, criticisti e vagamente anaffettivi, poi il suo sentirsi sola in una famiglia di otto persone, gli standard materni percepiti come irraggiungibili, il padre conformista e assente: tuttavia viene da chiedersi, leggendo, come sia possibile che tutto ciò possa giustificare la successiva caduta nell’angoscia più assoluta e determinare la perdita totale del controllo di sé, il desiderio irresistibile di mutilarsi e di morire.
Avviso ai lettori: nel testo non si trovano risposte che facciano davvero luce sulle origini di una così feroce disperazione. La stessa autrice non ne ha, addirittura dichiara di aver dimenticato (rimosso?) lunghi periodi del proprio passato, per un’amnesia quasi totale che riguarda la sua vita tra i 18 e i 25 anni, la fase più buia.
Parallelo al racconto del tormento, dei ricoveri, dei recuperi e delle ricadute, c’è il resoconto della nascita di un nuovo modo per affrontare e trattare il disturbo borderline.
Nei primi anni settanta la terapia comportamentale era agli esordi e ancora minoritaria rispetto all’approccio psicodinamico; Linehan, dopo la specializzazione alla Loyola University, aderisce nel 1972 ad un programma post-dottorato in terapia comportamentale, il che sancisce il suo prendere le distanze sia da un approccio troppo incentrato sugli aspetti biologici (psichiatria) che sulle immagini e processi mentali (psicoanalisi) a favore dell’interesse per i comportamenti effettivi delle persone, per ciò che concretamente fanno nella loro vita quotidiana.
Occorrerà aspettare però fino alla metà degli anni Ottanta perché la DBT assuma i contorni che conosciamo oggi e si distingua anche dal comportamentismo, da cui nasce; il libro, che descrive gli assunti principali del trattamento, è anche una preziosa occasione per i clinici di ripercorrere gli aspetti salienti del programma terapeutico.
Difficile riassumere ciò che ha reso unico e rivoluzionario questo approccio, di certo uno degli aspetti più emblematici è l’integrazione tra pratica orientale (Zen) e psicologia occidentale, insieme all’assunto che affinché i pazienti possano davvero cambiare non devono essere solo ascoltati e compresi, ma occorre che apprendano anche delle nuove abilità.
Come dice il Dalai Lama, la cui influenza è dichiarata da Linehan: “Non basta essere compassionevoli, bisogna agire”. Il programma include quindi l’insegnamento di abilità concrete, che si possono raggruppare in quattro categorie (Mindfulness, Tolleranza della sofferenza, Regolazione delle emozioni, Efficacia interpersonale).
“Oggi dico alle persone di non comportarsi da impotenti se non lo sono davvero, più lo si fa più ci si sente tali”; essere efficaci, agire in modo più funzionale e competente, è considerato la chiave del cambiamento, che non può tuttavia prescindere da una prima, autentica e radicale accettazione di sé.
Non solo, è fondamentale (e per niente scontato) che prima di tutto sia il terapeuta ad accettare il paziente, perché spesso si tratta di persone difficili, molto rabbiose, aggressive, disperatamente e tragicamente infelici. Aiutarle non è facile, a meno che non le si accetti (appunto) radicalmente e per come sono.
Per i pazienti, la dialettica tra accettazione e perseveranza significa che per cambiare la realtà bisogna prima di tutto accoglierla per ciò che è, e se non piace agire per modificarla.
Scrive Linehan: “Se sei un tulipano, non cercare di essere una rosa. Vai a cercare un’aiuola di tulipani”.
Tra gli aspetti più delicati e controversi (per la DBT ma per la psicoterapia in generale) rimane l’approccio ai comportamenti suicidari. Non a caso Linehan racconta di un corso di specializzazione da lei guidato per psicologi e psichiatri in cui agli studenti era chiesto per prima cosa di rispondere a tre domande: “Cos’è la morte? Le persone hanno il diritto di suicidarsi, voi avete questo diritto? Qualcuno ha il diritto di impedire ad un’altra persona di suicidarsi?”
Questo per sottolineare che un clinico deve avere le idee ben chiare su cosa pensa rispetto a questi temi, o diventa difficile e confusivo supportare persone che minacciano sistematicamente di togliersi la vita; se si ritiene che possano esserci situazioni che giustificano il suicidio, vite non degne di essere vissute (per parafrasare il titolo del libro) è bene esserne consapevoli.
Esistono lucide riflessioni sulla sensatezza del togliersi la vita, come ad esempio le parole del regista Mario Monicelli a proposito del suicidio del padre, il giornalista Tomaso Monicelli: “Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l’ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l’altro un bagno molto modesto”.
Una questione insomma, quella sulla decisione personale di togliersi la vita, niente affatto di facile soluzione se ci si chiede quanto effettivamente il suicido debba essere considerato o meno una negazione dei propri doveri verso sé stessi, gli altri o una qualche divinità.
Linehan, che ben conosce lo stato d’animo di chi intravede nel suicidio il fascino di una via d’uscita dal proprio dolore, stabilisce di ritenere che le persone abbiano a tutti gli effetti questo diritto, ma che il proprio lavoro di terapeuta sia quello di sostenere, sempre e comunque, la vita.