Chewing and spitting: una definizione
Con il termine chewing and spitting si fa riferimento ad una condotta alimentare atipica caratterizzata dalla tendenza a sputare il cibo dopo averlo masticato, evitando di ingoiarlo.
Paura di ingrassare, per lo meno in apparenza. È così che viene sottovalutato un comportamento disfunzionale dietro cui si nasconde in realtà un disagio di difficile espressione e inquadramento clinico.
Prima di tutto è necessario fare alcune premesse: il chewing and spitting non gode di una propria autonomia nosografica, ma rientra piuttosto nella sintomatologia di disturbi alimentari già descritti nel DSM-5 (anoressia, bulimia, binge eating). Pur nella variabilità del quadro patologico in cui risulta inserito, la sua finalità resta comunque quella di non ingoiare il cibo, nel presumibile scopo di evitarne l’assunzione calorica e la presenza nello stomaco. Il “mastica e sputa” può dunque essere ricompreso in una sintomatologia restrittiva che limita l’introduzione del cibo al livello orale, impedendone un inserimento più profondo, utile a trarre dallo stesso un supporto nutrizionale ed energetico (Auouad et al., 2016; 2020).
Ma è anche un’alternativa a condotte compensative più “aggressive” – ad esempio il vomito autoindotto – e di certo più sgradevoli. Non c’è bisogno di espellere nulla dallo stomaco perché il cibo non accede alle cavità gastriche. Semplicemente non viene ingoiato. Sulla spinta di un espediente dietetico che sembra possedere molti vantaggi e pochissime, se non nessuna, controindicazione.
Chewing and spitting: quali conseguenze?
Però non è tutto oro… si tratta di una convinzione vera solo a metà:
- Se consideriamo che il processo di digestione prende avvio dalla bocca, tramite l’emissione di succhi secreti dalle papille gustative e di enzimi prodotti dall’incremento di saliva, si intende come la semplice masticazione sia sufficiente ad assumere una quantità di cibo- per quanto minima- sia in termini calorici che nutrizionali;
- Non si trascurino gli effetti disfunzionali di una pratica solo in apparenza innocua, ma in grado di apportare, sul lungo termine, carenze nutrizionali anche importanti (il cibo non viene comunque assunto nelle quantità dovute), e danni all’apparato digerente (la masticazione contribuisce a creare nello stomaco la secrezione di acidi che, se quello stesso cibo non viene ingerito, si trovano a navigare letteralmente a vuoto, andando ad irritare le pareti gastriche ed intestinali);
- Si riscontrano danni alla salute dentale. In particolare sono più frequenti gli episodi di carie e sanguinamento gengivale, dato che, nel momento in cui prende il via la masticazione, la saliva inizia già a scomporre gli zuccheri che vanno a danneggiare la superficie dei denti;
- Neanche la dimensione emotiva risulta beneficiare da questa pratica. Il chewing and spitting contribuisce alla formazione di stati emotivi ansiogeni e conflittuali provocati dalla condotta stessa. Considerato che sputare il cibo non esime del tutto dalla percezione di averlo ingerito, non è infatti insolito che anche dopo lo spitting si instaurino sensi di colpa, mortificazioni, autosqualifiche e disgusto per un comportamento incoercibile, ma assolutamente ego distonico;
- Sotto un punto di vista strettamente clinico, il chewing and spitting è stato identificato come un probabile predittore del disturbo bulimico, con cui condivide le condotte di espulsione, per quanto in questo caso anticipate (il cibo non viene neppure introdotto) (Mitchell et al. 1988);
- Non da ultimo si evidenzia il disagio sociale – piuttosto intuibile – procurato dalla necessità di sputare gran parte del cibo inserito in bocca. Le frequentazioni esterne diventano complicate da gestire, soprattutto nel caso in cui prevedano la consumazione di un pasto. Fortemente danneggiato, dunque, anche l’aspetto della convivialità e l’integrità del Sé interpersonale.
Chewing and spitting: non è paura di deglutire
Sembra opportuno effettuare una diagnosi differenziale con l’anginofobia, disturbo alimentare caratterizzato dall’intensa paura di soffocare durante la deglutizione, e per questo associato a manovre di masticazione minuziose e prolungate. Nel chewing and spitting non compare alcuna fobia della deglutizione o del soffocamento: a dominare è piuttosto la non volontà di ingoiare il cibo, al fine specifico di non assumerne il contenuto calorico e nutrizionale. Dunque il disagio dell’anginofobia si orienta di più verso uno spettro ansiogeno, laddove la componente patologica della condotta di chewing and spitting è più strettamente legata ad una problematica di gestione alimentare. Il soggetto che lo pratica non vuole ingerire il cibo perché lo rifiuta, laddove l’anginofobico teme di deglutire perché ha paura che questa manovra gli provochi il soffocamento. L’unico aspetto che può eventualmente associare i due disagi è una masticazione prolungata, che nel disturbo anginofobico può rappresentare il tentativo di mettersi in sicurezza, cercando le condizioni ottimali per deglutire, mentre nel disturbo di chewing and spitting può esprimere la volontà di trattenere il cibo in bocca prima di separarsene definitivamente.
Chewing and spitting: le ipotesi eziopatogenetiche psicodinamiche
Inquadrare l’eziopatogenesi di questa condotta significa confrontarsi con un problema che riguarda l’ingestione, e dunque, in un’ottica psicoanalitica, l’introiezione. I soggetti che masticano buona parte del cibo rifiutandosi di ingoiarlo, manifestano una relazione problematica con un introietto arcaico, inteso come la rappresentazione psichica dell’oggetto affettivo primario che ha avuto luogo nelle prime fasi della vita ( Freud, 1905; 1908; Klein 1952; 1937).
In particolare, le relazioni con questo soggetto hanno patito perturbazioni, frustrazioni o fasi interruttive, a loro volta causate da un’intersoggettività disfunzionale, spesso carente o rifiutante: probabilmente la madre non è stata in grado di rispondere alle esigenze materiali ed affettive del bambino, strutturando un contesto diadico deficitario, disorganizzato e inattendibile, al quale non è stato possibile affidarsi stabilmente.
Immaginiamo una madre che non ha gestito al meglio la ritmicità dell’alimentazione, ad esempio anticipando le richieste nutrizionali, ignorandole in modalità reiterata o lasciando che restassero troppo a lungo insoddisfatte (Spitz, 1958). O ancora una madre che ha dato luogo ad uno svezzamento precoce o ritardato, o che ha mostrato atteggiamenti anaffettivi e poco responsivi durante l’allattamento, consolidando nell’infante la convinzione di dover da solo fronteggiare stimoli ingestibili (Bick, 1968). Ovviamente non si tratta di un automatismo.
I disturbi alimentari e le sintomatologie che li strutturano sono associati a tratti individuali della personalità, a vissuti esperienziali soggettivi, ad ambienti evolutivi diversi. Ma l’impossibilità di ingerire un oggetto nutritivo e gratificante sembra causata, fondamentalmente, dall’assenza di legami libidici stabili e attendibili. Oggetti affettivi sui quali fare affidamento e dai quali sentirsi contenuti e sostenuti. Da qui la necessità di sputarli prima di introdurli definitivamente nel Sé e lasciarsene distruggere.
Chewing and spitting: i possibili significati secondo l’ottica psicodinamica
Ciò appurato, ecco i possibili significati che potrebbero nascondersi, in un’ottica psicodinamica, al di là della condotta di chewing e spitting:
- Rifiuto della madre: il neonato è esclusivamente capace di competenze percettive, cenestesiche ed emotive, ma non ancora pienamente cognitive; per questo può costruire soltanto relazioni parziali, basate su sensazioni, vissuti somatici, consapevolezze preverbali maturate nel -e attraverso il contesto diadico (Klein, 1952; Spitz, 1958). Alla stessa madre non viene associata una connotazione pienamente identitaria, quanto una traccia mnestica sensoriale, legata alla gratificazione – oculare, epidermica e sensoriale – sperimentata tra le sue braccia e nel suo sguardo (Bick, 1968; Macciò e Vallino, 2022). Nel caso in cui queste esperienze siano collegate a vissuti di distacco o rifiuto, anche il cibo risulterà intriso di caratteristiche negative. Per dirla con Spitz, (1958) esso avrà un effetto psicotossico, dal quale è necessario non lasciarsi contaminare. In una fase della vita in cui la sovrapposizione tra cibo e madre è totale, il rifiuto del cibo indica dunque il rifiuto della stessa madre come oggetto affettivo e nutritivo (Freud, 1967).
- Necessità di colmare un vuoto affettivo: l’intensa stimolazione della bocca e del palato – ottenuta attraverso la masticazione – testimonia la chiara presenza di bisogni orali insoddisfatti: esigenze di contatto “tradite” da un contesto diadico non responsivo, assente o rifiutante. Freud (1905) evidenzia come, nel primo stadio della vita, il neonato sia pienamente inserito nella fase orale, caratterizzata dalla tendenza ad associare un piacere libidico a tutto ciò che può essere esplorato mediante le mucose della bocca. Lo stesso contatto palatale con il cibo dà luogo ad un’esperienza sensoriale piena e gratificante, le cui tracce restano nell’inconscio non rimosso, come un retaggio arcaico dal valore securizzante. Riempiendosi la bocca il soggetto va alla ricerca di quelle stesse sensazioni di benessere che la madre ha negato o ha precocemente interrotto e, sul filo di questa esperienza saturante, per quanto negata, cerca di colmare un vuoto che altrimenti si tramuterebbe in una voragine distruttiva;
- Paura dell’avidità orale: l’attività di masticazione ed espulsione potrebbe essere collegata al ripresentarsi regressivo di un’intensa pulsione orale, quella medesima avidità che spinge il neonato ad afferrare con la bocca qualsiasi cosa gli appaia piacevole, al fine di sperimentare vissuti di contatto gratificanti (Freud, 1967). Questa pulsione può ripresentarsi, con funzione marcatamente regressiva, in tutti quei periodi della vita caratterizzati da intensi stati stressogeni, angosciosi o conflittuali, che determinano la perdita temporanea di competenze egoiche apprese. Ma c’è una differenza: se nel bambino l’avidità orale è gestita totalmente dall’Es, in quanto l’Io e il Super Io non si sono ancora sviluppati o risultano scarsamente definiti, nel soggetto più maturo proprio l’attività di spitting potrebbe rappresentare il tentativo egoico di limitare la portata della stessa, impedendone il totale appagamento. Dunque si mastica, ma non si introduce. La gratificazione, per quanto sfiorata, non è completa, ad opera di un Io che, sebbene indebolito, funziona ancora;
- Espressione di una pulsione sadica: ridurre in poltiglia il cibo per poi sputarlo può rappresentare il retaggio di un sadismo orale, volto a distruggere l’oggetto affettivo identificato nel cibo. Un oggetto probabilmente abbandonico, che a sua volta ha rifiutato, e del quale si desidera vendicarsi, distruggendolo definitivamente. In particolare, la distruzione avviene attraverso il chewing, che ne deturpa aspetto e contenuto, mentre la separazione si verifica con lo spitting, che decreta altresì una trionfo maniacale sull’oggetto (Klein, 1958). Una sorta di dichiarazione di indipendenza volta a liberarsi di un contenuto ormai inutile: “dopo averti annientato, ti getto via perché non ho più bisogno di te”.
- Paura di conoscere: il chewing and spitting può celare il rifiuto fobico verso la necessità di introdurre, di scoprire e lasciarsi scoprire, di conoscere il mondo come oggetto totale e totalizzante. La Klein (1952; 1958) la definisce paura della pulsione epistemofilica, intesa come il timore di sperimentare, di conoscere il nuovo e di legarsi ad esso, in una funzione stabile e introiettante. La paura di essere violati, penetrati da realtà nuove e potenzialmente nocive è così intensa da venir evitata tramite l’espulsione. Non c’è possibilità di accesso. Ci si ferma semplicemente alla superficie. Un contatto fugace ed effimero che non costruisce nulla di definitivo.
- Paura del legame e dell’abbandono: in un’ottica evolutiva, lo spitting può mascherare la paura di crescere, di costruire un Sé emancipato dagli investimenti infantili e in grado di farsi strada nel mondo degli adulti. Ma è anche un bisogno regressivo di vicinanza, che indica il mancato superamento del lutto per la perdita degli oggetti affettivi primari, avvenuta in una fase arcaica e mai del tutto rielaborata. Molto probabilmente i soggetti che lo praticano non hanno potuto costruire legami libidici attendibili con le figure affettive di riferimento. Sono stati abbandonati, non sono stati visti né pienamente significati nel loro valore vitale. Così, nel timore di essere di nuovo traditi, si consacrano inconsciamente ad una diffidenza relazionale che li porta a sfuggire i legami più profondi, per concedersi esclusivamente contatti provvisori, effimeri e fugaci, introiezioni parziali e mai definitive, di cui è sempre possibile liberarsi. Dietro l’espulsione del cibo si nasconde dunque la paura di introiettare nuovi oggetti affettivi che potrebbero replicare l’abbandono già operato da quelli arcaici. Si ha paura di essere raggiunti nel profondo, perché si teme di essere feriti nel profondo. E se il cibo viene solamente assaggiato, ridotto in poltiglia e poi espulso, egualmente il legame affettivo viene ammesso solo in superficie, per poi essere bloccato da un freno inibitore che gli impedisce di raggiungere profondità reali, e allo stesso modo lo priva di ogni valenza piena e nutritiva.