Il testo “Forme del narcisismo”, a cura di Alfredo Lombardozzi, Elena Molinari e Roberto Musella, si pone l’obiettivo di riportare vari orientamenti teorici legati alla fenomenologia e alla clinica del narcisismo, non trascurando l’approfondimento delle varie prospettive attraverso l’utilizzo di vignette cliniche e storie di psicoterapia. Il tutto nell’ottica di favorire l’accesso ad un movimento di integrazione, in modo da contestualizzare i contributi e metterli in relazione tra loro, facilitando dialogo e confronto.
All’inizio del testo, trova spazio la prefazione di Thanopulos, la quale si focalizza su due tipologie di narcisismo, rispettivamente un narcisismo pulsionale o di vita e un narcisismo negativo o di morte. Il narcisismo pulsionale viene descritto come la forma originaria del nostro amore per la vita, una spinta affermativa verso la vita dentro di noi e fuori di noi. Rappresenta un desiderio dell’altro come parte eccentrica di se stessi, un’alterità che permette ad ognuno di noi di entrare in contatto con “l’altrove” che ci abita. L’amor proprio irradia verso l’ambiente esterno, incoraggia un senso di accoglienza verso noi stessi, verso parti di noi inesplorate che prendono forma all’esterno. A detta di Freud (1911), l’identificazione narcisistica con l’oggetto, è il primo passo verso l’elaborazione del lutto. Tuttavia, il soggetto può polarizzarsi su un “ritiro difensivo” rispetto all’alterità, un’alterità che, peraltro, va intesa non soltanto come alterità all’esterno, quindi al riconoscimento nell’altro di un livello di separatezza, autonomia, al di fuori delle “aspettative magiche” di poter esercitare un controllo onnipotente sulla realtà esterna, ma anche come alterità al proprio interno, escludendo, nondimeno, anche l’amore per se stessi.
Thanopolus, fa riferimento ad un processo che definisce “identificazione con la morte”. Alla base di questa dinamica, vi è una spinta, definita dall’autrice, autoconservativa, che può essere ricollegata al tentativo disperato di riempire un “vuoto depressivo”, un “vuoto identitario” (Lancini, 2023), utilizzando le parole di Lancini. L’essere umano diventa “un morto ancora in vita”, morto nella sua interiorità, vivo solo in superficie. Qui si può scorgere un legame con il pensiero di Mollon, presentato nella parte finale del testo e, in particolare, con il concetto di “omicidio psichico”. Come indica lo stesso nome, si tratta di un omicidio, di un atto distruttivo rivolto verso se stessi, verso il proprio “sé autentico”, il quale non viene legittimato, riconosciuto, accettato. Ricollegandoci a Winnicott, il “vero sé” viene soffocato, ucciso, per conformarsi ad “un’immagine” imposta dall’esterno. Il soggetto rimane intrappolato in una richiesta esterna pur di restare all’interno di un’illusione, un’illusione che lo protegge dal pericolo di sentirsi inerme, vulnerabile, violentemente esposto ad una realtà che non riconosce la legittimità dei suoi bisogni evolutivi e che quindi lo esporrebbe ad una intollerabile angoscia di morte.
Il soggetto, a detta di Kohut (1977), espone un “falso sé” per la madre. Il vero sé, cerca risposte amorevoli da parte dell’ambiente di accudimento, tuttavia, il messaggio che arriva al bambino è che abbia il permesso di esistere solamente in funzione delle aspettative che arrivano dall’esterno. Secondo Kohut (1977), il senso di impotenza derivante dall’impossibilità del bambino di evocare il rispecchiamento della madre rispetto ai propri bisogni più autentici, lo spinge ad investire su una dimensione di grandiosità e ad essere, pertanto, prigioniero dell’immaginario. Inoltre, sempre continuando sulla linea di Kohut, in riferimento al narcisismo patologico, egli fa riferimento ad un controllo esercitato dalla madre, affinché tra lei e il figlio vi sia una “corrispondenza perfetta”. Il figlio, viene spesso considerato come un’estensione dei progetti di rivalsa da parte della madre sulla realtà esterna. Il bambino è stato spesso prigioniero di una madre non empatica e di un padre non disponibile. L’assenza di disponibilità del padre, ostacola la separazione dalla figura materna, dalle richieste fagocitanti della madre. In circostanze ottimali, la disponibilità del padre, offre la possibilità di sviluppare uno spazio triangolare in cui possono essere esplorati il desiderio, la rivalità, il legame e il rifiuto, in cui a detta di Winnicott (1965), può essere raggiunto un equilibrio ottimale tra “illusione e delusione”, che permette di andare oltre la prigionia dell’immagine ed entrare nel regno del “simbolico”, secondo Lacan, della legge come mezzo per creare un confine tra madre e figlio. Giovanni Meterangelis, rivisitando Kohut, si focalizza su un tema centrale del suo pensiero, ovvero l’importanza di liberare i bisogni narcisistici da una visione esclusivamente patologica, riconducendoli, invece, verso una loro legittimità evolutiva, legittimità che, se non riconosciuta, può portare a forme patologiche. Il sé, secondo Kohut, viene considerato come una configurazione psicologica primaria, il cui sviluppo è dato dall’esperienza della relazione tra il sé e i suoi oggetti-sé. Egli parla di come la creatività possa essere considerata una trasformazione matura del narcisismo. Attribuisce a questa forma matura di narcisismo, l’importanza di uno stadio evolutivo che definisce di “narcisismo cosmico”, che trascende i limiti dell’individuo, un’espansione del senso di sé, un senso di continuità nel cambiamento, a detta di Bromberg (2011), sentirsi “uno in molti”. Secondo Winnicott, il bambino, in uno sviluppo sano, passa da una creatività primaria orientata al controllo onnipotente e fondata sull’adattamento perfetto del caregiver ai suoi bisogni, consentendogli quindi di sperimentare un senso di efficacia e padronanza sulla realtà esterna, ad una creatività matura.
L’adattamento attivo del caregiver ai bisogni del figlio rende possibile lo sviluppo di uno stato di solitudine fondamentale, una solitudine che consente di “essere soli” anche in presenza di altri. Un adattamento ottimale, per Winnicott, è collegato alla presenza di un caregiver mediamente prevedibile. Una prevedibilità “sufficientemente buona”, permette al bambino di sviluppare un senso di continuità nel suo esistere. Ricopre, in questo processo di sviluppo, grande importanza il concetto di illusione, intesa come condizione necessaria per incontrare in modo creativo il mondo esterno. Nel primo incontro con l’oggetto, afferma Winnicott (1965), è importante che il bambino abbia la percezione di essere stato lui a crearlo. L’adattamento sufficientemente buono della madre conferisce al bambino l’illusione che il mondo esterno sia frutto della sua capacità di crearlo. Si parla di un oggetto soggettivo. Viene, quindi, enfatizzato l’aspetto potenzialmente sano ed evolutivo della fusionalità. Scrive Winnicott (1965): “Il lattante, ha l’illusione di un potere creativo magico” (p.159). Sperimenta un senso di onnipotenza come base di un narcisismo primario. Ciò, secondo Winnicott, costituisce la base per entrare in rapporto ad un oggetto obiettivamente percepito, quindi in rapporto all’alterità, alla solitudine che ci abita, alla propria irriducibilità e quella dell’altro. Un adattamento inadeguato e caotico porta ad una scissione della personalità, in cui una parte mantiene un rapporto silenzioso e segreto con il mondo, rappresentando il nucleo potenziale di un vero sé, l’altra parte porta alla costruzione di un falso sé basato sulla compiacenza. Nella visione di Winnicott, quindi, lo sviluppo di spazi intermedi e potenziali di incontro tra la realtà interna ed esterna consente di sentire una continuità nell’esistenza e di acquisire a modo proprio una realtà psichica e uno schema corporeo personali. A detta di Bollas, nel legittimare il vero sé e permettergli di esprimersi nel mondo, risulta essenziale una dialettica tra idioma personale e cultura umana. Scrive Bollas (2021): “La psicoterapia è un’esperienza di solitudine”. Nel vero sé siamo soli e la solitudine esistenziale costituisce un’esperienza fondante di incontro con se stessi e con l’altro. Vi è sempre un baratro incolmabile tra l’individuo e qualunque altro essere, uno spazio psichico che porta sempre in sé qualcosa di incomunicabile, di straniero. Un’irriducibilità che è alla base del processo di individuazione e del passaggio evolutivo da relazioni oggettuali a relazioni soggettuali. Ciò permette di incontrare l’altro su un piano umano, sperimentando l’umiltà del “non sapere”, di arrendersi ad un’incertezza di fondo, al fatto che ogni essere umano sia un mondo che non può essere ricondotto a nessuna formula.
Proseguendo nell’ottica delle relazioni oggettuali, è interessante il contributo di Petrelli, basato sul pensiero di Rosenfeld. In particolare, si focalizza sullo stretto rapporto tra le organizzazioni psicotiche narcisistiche di personalità e le organizzazioni politiche dittatoriali. Rosenfeld fa riferimento alla presenza di un dittatore interno, sadico, onnipotente, dotato di forte influenza ipnotica e che pretende obbedienza assoluta da tutte le parti del sé. Il paziente, secondo l’autore, rischia di essere ucciso se prova a difendersi da questo regime psicotico e a differenziarsene. Alla base di questo regime dittatoriale interno, vi sono false promesse di onnipotenza, di “libertà assoluta”, una propaganda seduttiva, segreta, che spinge a mantenere il “segreto”. Anzi, mantenere il segreto è un modo per sentirsi parte di un qualcosa di grandiosamente cospiratorio ma che, al contempo, porta gradualmente ad annullare la propria vitalità interiore. Il capo onnipotente sembra dire: “Io ti proteggerò, e farai parte della mia onnipotenza ma se ti discosti ti annienterò” (p. 173). Il soggetto si sente costantemente costretto nella morsa di un’angoscia di morte. Riconoscere una propria libertà di scelta autentica equivale a perdere la protezione, a sentirsi vulnerabile e, quindi, a rischio di morte. Il sé sadico-onnipotente, spinge al ritiro dalla vita, dalle relazioni, che aggredisce il sé libidico-dipendente, desideroso di collaborare e di stabilire rapporti autentici. Di fatto, quella che la forza distruttiva, che si spaccia per onnipotente, promette, è una condizione di vita apparente. Il fine è “non sentire”, difendersi da angosce intollerabili, in particolare, l’angoscia legata alla dipendenza e al sentirsi inermi di fronte ad un altro onnipotente. Rosenfeld, in questa descrizione, tiene conto dell’impatto del trauma relazionale, cumulativo di esperienze di impotenza, di umiliazione, di rifiuto, di sadismo da parte dei caregivers e di stati mentali incoerenti e incompatibili tra di loro. Vi è, quindi, una lotta tra parti distruttive e parti vitali, che ostacola movimenti di integrazione tra varie parti di sé e alimenta confusione, portando pertanto al reiterarsi di stati dissociativi. L’autore, descrive anche narcisisti con organizzazione borderline di personalità, che funzionano apparentemente bene da un punto di vista lavorativo e sociale, tuttavia, fuggono il contatto emotivo con gli altri, non riescono a godere dell’intimità e provano una profonda invidia per la capacità di altre persone nel godere della vita e delle relazioni. Secondo Rosenfeld, la parte distruttiva del sé tenta a tutti i costi di uccidere il sé libidico- dipendente, riconducibile ad una parte del sé spontanea, al vero sé. Possiamo vedere come, in questa parte, il pensiero di Rosenfeld, si ricolleghi all’omicidio psichico di cui parla Mollon.
Il contributo di Laura Ambrosiano fornisce degli spunti di riflessione preziosi attorno al tema dell’indifferenziato. In particolare, l’autrice, propone di concepire un continuum tra differenziato e indifferenziato, nell’ottica di un varco, un’apertura tra i confini interno-esterno, soggetto-oggetto, un fertile collegamento con altre menti. Invita ad andare oltre la soggettività e, seguendo Bion, ad andare verso una mente estesa al di là dei confini. Si tratta di un contatto con il reale prima di ogni mediazione culturale, aprirsi al reale nel suo essere straniero, insaturo, sconosciuto. Secondo la Ambrosiano, lo strano congedo dai movimenti di soggettivazione della società attuale, può anche essere letto come un ritiro dalle aspettative sociali e prestazionali di cui i giovani si sentono investiti (p.216). In questa dimensione informe, indifferenziata delle nuove generazioni, possiamo scorgere l’altrove, un luogo potenziale da cui poter valorizzare l’in-comune, un sentimento di responsabilità verso un comune destino della nostra specie.
Nell’ultima parte del testo, troviamo le riflessioni di Natoli che, ricollegandosi al pensiero di Kohut, scorge nel narcisismo le potenzialità per uno sviluppo sano. In particolare, il prevalere di un sentimento di orgoglio consente di contattare un sé autentico che non esclude l’altro ma favorisce la relazione con esso. Orgoglio, secondo Natoli, significa entrare in contatto con la propria vulnerabilità, accettare il bisogno di dipendenza da figure primarie e coltivare un senso di gratitudine che permette di cogliere gli aspetti nutritivi delle relazioni sociali.
E’ interessante il riferimento, nel testo, al racconto di Dostojevskij “il Coccodrillo”. Il protagonista si ritrova in un ventre vuoto e non vuole uscire, divenendo un fenomeno da baraccone ma, al contempo, guadagnando in ammirazione e fama. La profondità di questo racconto ci riconnette, in qualche modo, a quello che Rosenfeld definisce come regime dittatoriale interno, in cui le promesse di libertà e onnipotenza illimitata imprigionano il soggetto, incastrandolo in un’illusione di superiorità, un guscio protettivo che lo allontana dal mondo reale, lo riduce all’inerzia e lo priva di vitalità. Scrivendo, mi si affacciano le parole di Bollas relative alla descrizione di alcune sedute con una paziente. Scrive Bollas (2021): “Era come se la paziente dicesse: “non azzardarti a riportarmi in vita””. Una vera e propria lotta contro la vita.
Concludo questa recensione con alcune parole dello scrittore Alessandro D’Avenia, che mi sembrano affini al tema del narcisismo distruttivo e del sé grandioso-onnipotente come guscio protettivo nei confronti dell’angoscia di morte. Scrive D’Avenia (2024):
“La violenza di Caino (che rappresenta anche gruppi e popoli) non nasce dalla religione ma dalle difese che il nostro io impaurito dalla morte alza per proteggersi e rassicurarsi: avere il controllo di dio e di ciò che riteniamo essere dio (risorse, potere, ricchezza, salute). L’io non vuole condividere, vuole essere figlio unico, cioè “assoluto”, letteralmente “sciolto da tutto”, del tutto autosufficiente: non ci possono essere fratelli. Il suo desiderio di infinito, viene proiettato su ciò che è finito, e l’altro diventa una minaccia allo spazio vitale. La religiosità autentica non corazza l’ego ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. La religiosità autentica, aggiunge una “d” a “io”, perché dio è la possibilità di creare relazioni vere. Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro”.
Diventare custodi dell’Altro che è fuori di noi, non può prescindere dal diventare custodi dell’alterità che ci abita.