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Scuole di Psicoterapia: la Selezione degli Allievi

 

 

Scuole di Psicoterapia: la Selezione degli allievi. - Immagine:© Kurhan - Fotolia.com Quando ho la fortuna di avere davanti a me una ragazza o un ragazzo che si apre con onestà e curiosità, posso anche io godermi una discussione animata, aprirmi, raccontare meglio e in modo creativo il percorso personale e sociale che mi ha portato lì, a stare seduta davanti a lei o lui, a raccontarle questo progetto. Se una persona mi piace, lotto perché si iscriva. Ci tengo, glielo faccio capire. 

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Nella nostra scuola di terapia sono spesso io a occuparmi di selezionare gli allievi. Selezione? Non diciamoci baggianate. Si chiama selezione, e tuttavia con molti di essi parlo anche di motivazione. Gli aspetti di selezione sono presenti ovviamente; capita di incontrare ragazzi e ragazze molto sofferenti, o francamente bizzarri.

Più spesso però gli psicologi che vengono a trovarci vogliono capire, capire che tipo di scuola hanno davanti, se è conveniente iscriversi, se è il posto giusto per la loro personalità o i loro gusti.

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E noi vogliamo motivarli a iscriversi, vogliamo -se posso dirlo- “vendere” il progetto didattico in cui crediamo e per il quale così tanto ci siamo spesi.

Recentemente un ragazzo mi dice: “a me piace girare per scuole diverse, per sentire che aria tira”. Certo per chi è dall’altra parte del tavolo tutto questo rappresenta una grande fatica. E spesso una frustrazione.

I ragazzi arrivano ansiosi, spesso timorosi del giudizio, chiusi come ricci, o timorosi di essere esclusi o malgiudicati. Si portano dietro i loro problemi, le difficoltà economiche, le paure di non riuscire, i timori di essere giudicati.  A volte la preoccupazione del giudizio impedisce loro di aprirsi e farsi conoscere. 

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È naturale allora ragionare insieme su alcuni aspetti di questi incontri che potrebbero renderli più soddisfacenti per chi chiede di iscriversi e per chi incontra per la prima volta un giovane che non conosce.

Per le scuole di terapia: 

Fate una presentazione della vostra scuola che sia chiara, esplicitate con onestà i punti di forza e i punti di debolezza della vostra proposta didattica e le aree di sviluppo futuro più interessanti. Non siate trionfalistici o manipolativi, ma nemmeno troppo dediti all’understatement.

Ragionate anche su alcune caratteristiche della scuola che la rendono più adatta a determinati tipi di studenti e meno adatta ad altri tipi di studenti.

Non usate eccessivamente la seduzione: rischiate di attrarre i più suggestionabili, i più fragili fra gli studenti.

Per gli studenti:

Siate aperti e dite con chiarezza e senza timori le vostre esigenze. Spiegate le difficoltà che avete, le perplessità sulla scelta, il desiderio di capire meglio il tipo di approccio clinico e il tipo di scuola in cui siete arrivati a fare il colloquio; dichiarate senza timori le vostre preoccupazioni, i vostri percorsi personali e esistenziali che vi hanno portato a essere seduti davanti a quella persona.  

Fate anche domande personali, per esempio: “che cosa le piace del suo approccio,  cosa le piace di meno?”; oppure: “Se dovesse dire un punto di forza della sua scuola, quale sarebbe?”

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Siate propositivi, non siate impauriti di fare domande anche dure ed esplicite. Quando ho la fortuna di avere davanti a me una ragazza o un ragazzo che si apre con onestà e curiosità, posso anche io godermi una discussione anche animata, aprirmi, raccontare meglio e in modo creativo il percorso personale e sociale che mi ha portato lì, a stare seduta davanti a lei o lui, a raccontarle questo progetto. Se una persona mi piace, lotto perché si iscriva. Ci tengo, glielo faccio capire. 

Andate alle presentazioni ufficiali della scuola e cercate di comprendere lo stile didattico, lo spirito che si respira, le relazioni tra gli organizzatori e chi si presenta a voi.

Esame di Stato- Professione Psicologo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Chiedete se c’è una open school, uno spazio in cui si ospitano persone non iscritte alla scuola per gettare uno sguardo sulla didattica, sul clima del gruppo, sul tipo d’insegnamento e su come esso è fornito.

È chiaro che chi si occupa di una scuola di terapia ha interesse ad avere allievi per sopravvivere e svilupparsi. Ed è altrettanto chiaro che per fare questo è necessario che l’incontro tra quel determinato tipo di scuola e quel tipo di allievo funzioni, sia di soddisfazione per tutti.

Guardando gli allievi delle nostre scuole mi commuove sempre quando vedo ragazzi e ragazze che si muovono all’interno del percorso didattico con consapevolezza soddisfazione e allegria, e mi spiace sempre molto quando invece questo incontro non è felice e utile come speravo.

Non tutto si può prevedere prima, ma molto possiamo fare per aumentare l’onestà delle proposte didattiche e l’armonia degli incontri tra scuole e allievi.

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PSICOLOGIA & FORMAZIONE – 

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Il Concetto di Saggezza in Psicologia

 

 

Il concetto di Saggezza in Psicologia. -Immagine: © Lonely - Fotolia.comLa saggezza è stata oggetto di studi, riflessioni e ricerche. L’accordo comune sembra essere quello di intendere la saggezza come “fine ultimo”, meta ideale della vita di ogni essere umano e sua massima espressione.

La saggezza ha da sempre interessato studiosi di varie discipline. Dalla filosofia allantropologia, dall’arte alla letteratura. Anche le discipline psicologiche, in particolare quelle appartenenti ad alcuni orientamenti teorici, hanno indagato la saggezza in termini sia culturali e collettivi sia legati alle caratteristiche individuali dell’individuo.

Pensando ad una brevissima rassegna sulla saggezza non possiamo non ricordare Pizia, che ha definito Socrate “il più saggio”, poiché “sa di non sapere”. Cicerone nel De Senectude studia la saggezza, sostenendone il suo legame con la vecchiaia, tale da fargli sostenere la necessità di riflettere su quattro particolari aspetti della vecchiaia, condizione per il raggiungimento della saggezza: conoscerla, prepararsi a essa, ritardarla e viverla bene (Ripamonti, Clerici, 2008, p. 36).

Nel suo dialogo Carmide, Platone afferma che la saggezza corrisponde alla temperanza (sophrosyne). Anche Aristotele intende la saggezza come una componente delle virtù dianoetiche, cioè relative alla ragione stessa, insieme all’arte, alla scienza e all’intelletto. Secondo il filosofo greco, il saggio sa cosa è bene per l’uomo e lo mette in pratica. Nell’Etica Nicomachea, distingue varie forme di saggezza, tra cui la politike, la phronesis, che si interessa della vita del singolo e l’oikonomia, l’amministrazione della casa. Ciò che permette il raggiungimento della saggezza conduce al benessere, tanto da fargli ritenere che la saggezza sia una delle più alte forme di felicità.

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In tempi relativamente più recenti, Montaigne afferma che il raggiungimento della saggezza si ottenga solamente tramite la conoscenza di se stessi. Forse per la prima volta, la conoscenza di sé, intesa come percorso di scoperta e di indagine delle proprie caratteristiche individuali e del proprio funzionamento, viene intesa come percorso possibile per il raggiungimento della saggezza per così dire “personale”.

La saggezza è stata oggetto di studi, riflessioni e ricerche. L’accordo comune sembra essere quello di intendere la saggezza come “fine ultimo”, meta ideale della vita di ogni essere umano e sua massima espressione. Intendere la saggezza come massima espressione delle potenzialità umane sottende il naturale tentativo che l’essere umano compie per giungere a uno status in cui le potenzialità evolutive raggiungano il massimo livello e donino la vita dell’uomo di completezza e di profondo senso.

L’esperienza e l’eta avanzata non sono sempre state intese come conditio sine qua non per il funzionamento “d’eccellenza” che sembra connotare la saggezza. Passando in rassegna gli studi di Freud, ad esempio, si nota come egli, per primo in ambito psicologico, abbia fornito una visione negativa della vecchiaia, slegandola dalla sua relazione con la saggezza.

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Alcuni autori (Spagnoli, 1995) ricordano come per Freud l’invecchiamento sia perdita, sradicamento e involuzione. La lettura delle opere freudiane propone “in modo tragico l’immagine più opaca della vecchiaia e costituisce un crudo esame di realtà che ci tiene coi piedi su questa terra, aiutandoci a capire le vicende di chi invecchia nel dolore” (ibidem, p. 62).

Lo stesso Freud, nel suo trattato del 1903, indica come l’età avanzata sia un fattore di rischio per la riuscita del trattamento analitico, data l’elevata quantità di tempo necessario e la rigidità dei processi psichici tipica di questa fase della vita. Ciò che mantiene la possibilità di un trattamento con persone anziane è solo la finalità mnestica, cioè aiutare il paziente a ricordare la propria storia. La visione di Freud evidenzia gli aspetti della vecchiaia legati al deterioramento e alla perdita. Fortunatamente, gli ultimi sviluppi sugli interventi con gli anziani (come è già stato scritto qui su State of Mind) hanno messo alla luce la molteplicità delle possibilità di intervento oggi disponibili.

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Altri autori, invece, hanno ridefinito la vecchiaia, riportandola, da un lato, alla visione positiva, trasformativa e creativa indicata dal suo legame con la saggezza e, dall’altro, non negandone gli aspetti legati alla perdita e al deterioramento fisico e psichico indicati da Freud. In particolare, Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, si è interessato allo studio della saggezza, dedicandole un ruolo privilegiato all’interno del processo di individuazione, meta ideale di ogni essere umano e processo trasformativo di costruzione della propria peculiarità individuale.

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All’interno del panorama di teorie che si ispirano, più o meno esplicitamente, alla psicologia analitica, si riconosce un capovolgimento della visione negativa della vecchiaia formulata da Freud. Spagnoli, in un altro articolo recente, indica come Jung concepisca la vecchiaia: “Mentre il senso del mattino della vita consiste nel mettere radici nel mondo, trovare il proprio posto nella società, lavorare ed amare, il senso del pomeriggio della vita consiste nel mettere radici nell’anima per accedere a un tipo di saggezza che supera l’Io e la sua prospettiva sul mondo. Durante la prima metà della vita il fine è la natura, durante la seconda metà della vita è la cultura, ovvero l’allargamento della soggettività, la differenziazione e l’integrazione delle parti della propria personalità fino ad allora rimaste inconsce” (Spagnoli, 2002, p. 81).

Anche all’interno della letteratura cognitivista sono presenti studi volti ad indagare la saggezza, nelle sue forme più pragmatiche e concrete. In questo caso l’accento è posto sugli aspetti della saggezza che si esplicano nella soluzione dei problemi e nell’affrontare gli eventi della realtà concreta di ogni giorno.

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Baltes e Staudinger, due tra i massimi esponenti degli studi sulla saggezza in ambito cognitivista, definiscono la saggezza come strategia meta-euristica che guida le conoscenze che l’individuo possiede degli aspetti pragmatici della vita e delle modalità che portano l’essere umano all’eccellenza (Baltes & Staudinger, 2000).

Da questa definizione si può cogliere la presenza, come peraltro negli studi junghiani, della dimensione dell’alto funzionamento, di un insieme di capacità che portano l’individuo alla massima espressione delle proprie potenzialità. Nello specifico, nella teoria analitica junghiana le potenzialità si articolano seguendo tematiche ed elementi tipici della psicologia dinamica, come l’integrazione tra coscienza e inconscio, la costruzione di una individualità autentica e specifica per ogni essere umano e l’accettazione della molteplicità degli aspetti legati al Sé.

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In ambito cognitivista, invece, il focus viene spostato sugli aspetti del funzionamento, sulla gestione dei problemi e sulla loro risoluzione tramite strategie cognitive adattive ed “economiche”.

Utilizzando la terminologia greca utilizzata per definire la saggezza, si può sostenere che la psicologia analitica junghiana si concentri sulla Sophia, la Conoscenza, la sapienza propriamente detta, costrutto dinamico e articolato; le teorie cognitiviste si focalizzano sulla conoscenza concreta, il “sapere” inteso in termini di competenze, strategie da mettere in atto nella vita di tutti i giorni.

Per quest’ultimo aspetto è possibile utilizzare il termine phronesis, cioè il sapere e la sua realizzazione nella quotidianità, indicati anche con il termine practical wisdom.

Alla luce di quanto detto finora, sembra che la psicologia, aiutata dalla filosofia, si sia concentrata su che cosa sia la saggezza, raggiungendo risultati parziali, caratteristici dei singoli campi di interesse e degli orientamenti teorici correlati. 

Comprendere a pieno cosa significhi saggezza potrebbe contribuire a comprenderne non sola la natura, le caratteristiche e funzioni ma permetterebbe anche di disporre di “valore” (per usare un termine ACT…) da perseguire.

LEGGI: 

PSICOLOGIA & FILOSOFIA – SCIENZE COGNITIVE – PSICOANALISI – TERZA ETA’ – SIGMUND FREUD

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino – Recensione

 Recensione del film: 

La Grande Bellezza

(2013) di Paolo Sorrentino

 


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LA GRANDE BELLEZZA DI PAOLO SORRENTINO - RECENSIONE
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina

La “non volontà” sembra essere collegata ad una apparente pigrizia di fondo che sembra essere il file rouge che collega le storie.

Tuttavia, dietro questa apparente inerzia, si nasconde un senso di vuoto, solitudine e disillusione che, nelle varie storie, non tarda a essere evinto.

 

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. Recensione

Una Roma moderna e non scevra delle mode e le abitudini attuali fa da palcoscenico all’ultimo film di Paolo Sorrentino, “La Grande bellezza”. Il regista, noto per altri capolovori (ex:Il divo) non lontano dall’attualità nella quale il nostro paese vive, mediante una serie di storie intrecciate e dense di matrici simboliche veicolanti messaggi e idee speculari al tempo vivente, nel film fornisce una fotografia di una città ormai albergata da “tanto rumore” e che,

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina
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difficilmente, dietro la coltre riesce a cogliere ciò che un tempo era patrimonio dell’umanità, come l’emozione, il pensiero, il rispetto.

 

Protagonista è un eccezionale Tony Servillo, alias Gep Gambardella,  affermato giornalista e in passato scrittore di un romanzo (L’apparato Umano) apprezzato dai vari amici ma unico del suo genere in quanto privo di seguito.

 

Costante nel film è l’interrogativo, posto direttamente dallo stesso Gep e ripreso dai suoi amici circa la motivazione del suo non più scrivere. La “non volontà” sembra essere collegata ad una apparente pigrizia di fondo (nel film è possibile cogliere la passione della mondanità per Gep e i suoi amici) che sembra essere il file rouge che collega le storie.

 

 

Tuttavia, dietro questa apparente inerzia, si nasconde un senso di vuoto, solitudine e disillusione che, nelle varie storie, non tarda a essere evinto.

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Ognuno, Gep con la sua solitudine e la sua continua ricerca della “grande bellezza” della vita, Romano con il suo pseudotentativo di divenire attore, Ramona con il suo corpo visto come veicolo di piacere e, nello stesso tempo, di sofferenza, al di là del rumore circolante, vivono “l’horror vacui del tempo presente” facendo appello a ciò che sembrano essere i miti del tempo (inerzia, esibizione del corpo, etc.) al fine di “sentirsi vivi e ingannare la morte”.

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In una versione del reale dove “tutto è un trucco” determinante risulta  la frase utilizzata dalla “Santa” verso l’epilogo del film (“Sai perchè io mangio solo radici, perchè le radici sono importanti”) che funge da ponte con un passato apparentemente dimenticato (Roma caput mundi) ma che non tarda a ritornare come potente significante di un tempo trascorso ma di cui si è debitori.

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. Recensione

 

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LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – CINEMA –  PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

Coenzima Q10 e i benefici nell’Insufficienza Cardiaca Grave

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il Coenzima Q10 ridurrebbe tutte le cause di mortalità del 50%.  E’ il primo farmaco a migliorare la mortalità per insufficienza cardiaca in oltre un decennio e dovrebbe essere aggiunto al trattamento standard.

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Secondo i risultati di uno studio randomizzato in doppio cieco, presentato al congresso Heart Failure 2013 (la principale riunione annuale della Società Europea di Cardiologia), il Coenzima Q10 ridurrebbe tutte le cause di mortalità del 50%. Secondo il professor Svend Aage Mortensen è il primo farmaco a migliorare la mortalità per insufficienza cardiaca in oltre un decennio e dovrebbe essere aggiunto al trattamento standard.

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Il Coenzima Q10 (CoQ10) si trova naturalmente nel corpo ed è essenziale per la sopravvivenza; funziona come un vettore di elettroni nei mitocondri, la centrale elettrica delle cellule, per la produzione di energia ed è anche un potente antiossidante.

È l’unico antiossidante che gli esseri umani sintetizzano nel corpo.
Livelli di CoQ10 sono diminuiti nel muscolo cardiaco di pazienti con insufficienza cardiaca. Le statine sono usate per trattare molti pazienti con insufficienza cardiaca perché bloccano la sintesi del colesterolo, ma questi farmaci bloccano anche la sintesi di CoQ10.
Studi controllati in doppio cieco hanno dimostrato che il CoQ10 migliora i sintomi, la capacità funzionale e la qualità di vita nei pazienti con insufficienza cardiaca, senza effetti collaterali.
Lo studio Q-SYMBIO ha seguito per due anni 420 pazienti con grave insufficienza cardiaca trattati con CoQ10 o placebo. I centri partecipanti erano in Danimarca, Svezia, Austria, Slovacchia, Polonia, Ungheria, India, Malesia e Australia.
Le probabilità di verificarsi di un primo evento cardiovascolare maggiore (MACE) – che comprendeva l’ospedalizzazione non pianificata a causa del peggioramento dell’insufficienza cardiaca, morte cardiovascolare, trapianto cardiaco urgente e supporto circolatorio meccanico – erano dimezzate nei pazienti che avevano assunto il CoQ10. Risultava anche dimezzato il rischio di morte per tutte le cause, nei pazienti nel gruppo di CoQ10 rispetto a quelli nel gruppo placebo.

I pazienti trattati CoQ10 avevano mortalità cardiovascolare significativamente più bassa e più basso numero di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca. Inoltre si verificavano meno eventi avversi nel gruppo CoQ10 rispetto al gruppo placebo.
Il CoQ10 è presente negli alimenti, tra cui carne rossa, piante e pesci, ma i livelli non sono sufficienti per avere un impatto sull’insufficienza cardiaca.

Il CoQ10 è anche venduto come integratore alimentare, ma secondo il professor Mortensen “Gli integratori alimentari possono influenzare l’effetto di altri farmaci tra cui gli anticoagulanti ed i pazienti dovrebbero chiedere consiglio al proprio medico prima di decidere di assumerli.”
Anche i pazienti con cardiopatia ischemica che usano le statine potrebbero beneficiare del CoQ10. “Non abbiamo prove controllate che dimostrano che la terapia con statine più CoQ10 riduca il rischio di mortalità rispetto a quella con sole statine, ma le statine riducono il CoQ10, e questo impedisce l’ossidazione delle LDL in modo efficace, quindi penso che i pazienti ischemici dovrebbero integrare la terapia con statine con il CoQ10.”

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BIBLIOGRAFIA:

Psicologo Penitenziario: Aspetti Etici e Conflitti Deontologici

 

di Monica Salvi, Psicologa

 

Psicologo Penitenziario- Aspetti Etici e Conflitti Deontologici. - Immagine: © jtanki - Fotolia.comLa riforma dell’Ordinamento Penitenziario, risalente al 1975, ha avviato lo sviluppo della Psicologia in ambito penitenziario e, parallelamente, è sorta la necessità di una riflessione circa i principi etici e deontologici, enunciati nel Codice Deontologico, che guidano il lavoro dello psicologo in ambito penitenziario.

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Le questioni etiche che interessano il lavoro dello psicologo penitenziario presentano alcuni elementi di criticità, che possono talvolta indurre in pratiche cliniche non sempre adeguate o in situazioni contraddittorie di difficile risoluzione.

Il carcere, il contesto nel quale lo psicologo penitenziario è chiamato a operare, presenta la particolarità di essere un’istituzione totale che di per sé genera situazioni di disagio e di disadattamento, può slatentizzare problematiche psicologiche e indurre vere e proprie “sindromi da prisonizzazione” (Clemmer, 1941).
La perdita delle relazioni affettive e l’isolamento dalla società, il possesso di un numero limitato di beni e l’esclusione della possibilità di usufruire di certi servizi, il sentimento diffuso di precarietà e insicurezza personale, la perdita dell’autonomia individuale e la deresponsabilizzazione, condizionano in modo significativo il detenuto, dal punto di vista psicologico e comportamentale e rendono l’intervento di sostegno più complesso da realizzare.

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario. - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Inoltre la fatiscenza degli spazi, le condizioni acustiche del contesto e la necessità di garantire la funzione di controllo da parte del personale di custodia sono elementi che spesso intralciano la creazione di un setting “esterno” ed “interno” che permetta l’intervento psicologico, mettendo lo psicologo penitenziario nella posizione paradossale di dover svolgere il suo mandato ma di non essere messo nelle condizioni di svolgerlo dall’istituzione stessa.

Per quanto riguarda il già delicato rapporto tra committente e fruitore dell’intervento, nel caso dello psicologo che opera in ambito penitenziario, tale non corrispondenza è pressoché una costante e costituisce il problema del “doppio mandato”.
Il committente in questo caso è l’Istituzione, che primariamente segue un mandato che riguarda l’ordine e la sicurezza e la cui richiesta sembra essere finalizzata prevalentemente al contenimento delle situazioni critiche, in primis l’elevato rischio suicidario, più che orientata ad un progetto riabilitativo del detenuto.

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Il fruitore dell’intervento spesso non avanza una richiesta di sostegno e di aiuto ma si rappresenta l’intervento e la relazione con lo psicologo come un tramite per poter, ad esempio, ottenere l’idoneità a fruire di benefici previsti dalla legge (misure alternative, permessi premio, ecc).
L’impossibilità inoltre di scegliere il professionista a cui rivolgersi incide sfavorevolmente sulla motivazione e sulla creazione dell’alleanza: il detenuto può manifestare rilevanti meccanismi di difesa che rendono difficile una relazione autentica, può tendere a simulare aspetti patologici, può mettere in atto strategie di manipolazione e strumentalizzazione per ottenere vantaggi.

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Tale “conflitto di interessi” costituisce un aspetto caratterizzante il contesto in cui opera lo psicologo penitenziario e necessita di una riflessione continua circa la propria prassi clinica, al fine di non generare ulteriore sofferenza in soggetti già sofferenti per la condizione di restrizione in cui si trovano.

 Per ciò che riguarda la riservatezza e il segreto professionale lo psicologo penitenziario è chiamato a valutare le diverse situazioni e a comunicare al detenuto come i confini della riservatezza possono variare. Lo psicologo penitenziario è tenuto al segreto professionale, soprattutto se le informazioni raccolte possono causare  un danno al detenuto se non adeguatamente protette, ma è altrettanto tenuto a chiarire al detenuto le limitazioni del segreto professionale, soprattutto in situazioni specifiche (ideazioni e/o agiti autolesionisti, ideazione anticonservativa, rischio di agiti violenti eterodiretti, ecc.).

Lo psicologo penitenziario sempre più spesso è chiamato a intervenire con detenuti di provenienza geografica e linguistica straniera e appartenenti a culture molto diverse. Per comprendere queste persone è necessario acquisire conoscenze specifiche relative ai differenti sistemi culturali, ai loro valori e alle loro modalità di attribuzione di significato agli eventi, nonché individuare i possibili pregiudizi all’interno della cultura locale del carcere.

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Infine lo psicologo penitenziario si confronta con una diversità di reati che possono scatenare reazioni emotive negative, giudizio e disapprovazione morale che, se non riconosciuti ed adeguatamente elaborati, possono avere un impatto negativo nell’intervento e nella relazione con il detenuto.

Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa. - Immagine: © carlosgardel - Fotolia.com
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Felice Tagliente (2002) propone alcune linee guida deontologiche che possono risultare utili per operare con maggiore serenità: comunicare nella fase iniziale del rapporto con il detenuto le finalità, le modalità delle prestazioni che si può offrirgli e i limiti della riservatezza, essere imparziale con i detenuti italiani e stranieri, astenersi dall’imporre al detenuto il proprio sistema di valori, dire la verità al detenuto e non illuderlo, comunicare notizie gravi con gradualità e con aderenza alla realtà per tutelare psicologicamente il detenuto, riconoscere i limiti della propria competenza, salvaguardare l’autonomia professionale, comunicare alle varie figure professionali solo le informazioni pertinenti al raggiungimento degli obiettivi trattamentali concordati.

Da queste brevi riflessioni emerge la complessità e spesso le contraddizioni del lavoro dello psicologo in ambito penitenziario, ambito in cui le diverse e delicate situazioni vanno opportunamente  indagate “caso per caso” mediante il confronto continuo con le varie figure professionali (medico, psichiatra, educatore, volontario, polizia penitenziaria, ecc) pur mantenendo la propria autonomia scientifica e professionale.

Operare in questo ambito, con un alto livello di responsabilità e con i vissuti tipici del contesto, richiede una formazione di base specifica, un aggiornamento continuo e la possibilità di usufruire di una supervisione costante per garantire nel tempo interventi adeguatamente efficaci.

 

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PSICOLOGIA PENITENZIARIA – SUICIDIO – ALLEANZA TERAPEUTICA – PSICOLOGIA CROSSCULTURALE

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Clemmer D. (1941) La comunità carceraria, in Santoro E., 2004, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli
  • Tagliente F. Alcuni criteri deontologici dello psicologo penitenziario in Calvi E. (2004) Lo psicologo al lavoro, Milano, Franco Angeli
  • Gruppo di Lavoro Consiglio Nazionale Ordine Psicologi e SIPP (Società Italiana Psicologia Penitenziaria),  (2005) Elementi Etici e Deontologici per lo Psicologo Penitenziario, Roma

Colloquio Psicologico: Conclusione della Monografia

Il Colloquio Psicologico:

CONCLUSIONE

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

“Un guerriero non cerca di essere coerente: apprende, piuttosto, a vivere con le sue contraddizioni.”

[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997,p.155]

Colloquio Psicologico- Conclusione. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.comIl Colloquio Psicologico:Dopo che si è instaurato un saldo rapporto di fiducia e si sono realizzate esperienze di insight, attraverso le quali il paziente ha scoperto nuove prospettive, si può avviare un processo di negoziazione.

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Questo è il guerriero della luce di Coelho. O meglio, questo è il modo attraverso il quale l’essere un guerriero della luce può realizzarsi all’interno di un rapporto terapeutico. E si realizza non solo nel comportamento del terapeuta, ma anche in quello del cliente. Lo psicologo è colui che ha maggior consapevolezza delle capacità di guerriero della luce che possiede, ed è consapevole dell’importanza delle sue parole. Il paziente è colui che vedrà emergere questa consapevolezza nel corso del rapporto terapeutico, se questo avrà successo.

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Perché ciò avvenga lo psicologo deve prestare massima attenzione ad alcuni principi di base: deve essere perspicuo (cioè trasparente sui fatti), deve mostrare che ogni problema contiene la sua soluzione, deve mostrare e non imporre, deve agire sull’autostima piuttosto che sull’autoefficacia, deve intervenire su tutti i canali comunicativi (pensieri, emozioni, comportamenti) in quanto interdipendenti ma anche indipendenti tra loro, deve far condurre l’interazione al cliente e seguirne le priorità e le aspettative, deve preoccuparsi di conquistare la sua fiducia, deve informare anziché consigliare, deve accettare e non giudicare, deve prestare ascolto non solo alla comunicazione verbale del paziente, deve evitare ciò che è inutile perché potenzialmente dannoso, deve procedere a trazione anteriore, deve preoccuparsi di conoscere sé stesso e chi gli sta di fronte, deve continuamente coltivare la propria cultura psicologica e non. Queste sono le basi perché si possano raggiungere le tappe fondamentali del primo colloquio e di quelli successivi.

Nel corso del primo colloquio il terapeuta deve preoccuparsi soprattutto di riuscire a stabilire un rapporto di fiducia e di collaborazione con il paziente e ottenere un quadro di informazioni e dati sulla persona e sul problema che sia esaustivo.

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Raggiunti questi due obiettivi principali, il terapeuta avrà in mano gli strumenti necessari per dare risposte che possano stimolare un’esperienza di insight, attraverso la quale il cliente può rendersi conto della presenza di prospettive alternative alla propria, che il suo vincolo è, in realtà, un problema e che, quindi, possiede una soluzione. Per fare ciò è necessario essere forniti di una buona capacità intuitiva supportata da una proficua cultura ed esperienza personali. Queste, per essere efficaci, devono essere applicate in risposte di parafrasi, eco, riflessioni e giustificazioni.

Ciò permette al cliente di mantenere il controllo sulla comunicazione e, alle prospettive alternative, di emergere ai suoi occhi dal discorso, avvertite come proprie piuttosto che come imposte dall’esterno. Se ciò non fosse, il cliente si troverebbe a dover accettare una soluzione che non sente propria, che non capisce, non accetta o accetta senza esserne convinto. Ciò è dannoso per la sua motivazione, la forza di volontà messa in gioco nel processo per il cambiamento, e per tutta la terapia. Questo danno viene favorito se lo psicologo usa risposte banalizzanti, tecnicistiche, moralistiche o interpretative.

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Dopo che si è instaurato un saldo rapporto di fiducia e si sono realizzate esperienze di insight, attraverso le quali il paziente ha scoperto nuove prospettive, si può avviare un processo di negoziazione.

Le parti in causa, terapeuta e paziente, ognuno con le proprie definizioni del caso, avvieranno negoziazioni per definire sia il problema che gli obiettivi della terapia, in un percorso in cui entrambi devono possedere il medesimo potere decisionale. Definiti problema e obiettivi sta al terapeuta, sempre attraverso la negoziazione con il cliente, selezionare gli strumenti e presentarli all’altro.

Al termine di queste contrattazioni, le decisioni prese vengono sancite da un contratto o da un precontratto di collaborazione. Dopo di ché non resta che attuare le scelte negoziate ed avviare il processo terapeutico.

Questo è ciò che il terapeuta deve seguire per realizzare le proprie capacità di guerriero della luce e, allo stesso tempo, per dare occasione al guerriero della luce del cliente di emergere, fuori dalla gabbia e dal vincolo in cui le contingenze e le esperienze vissute lo hanno rinchiuso.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Intelligenza – Il nuovo Test Visivo che predice il QI

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli individui che meglio riescono a sopprimere automaticamente uno sfondo in movimento hanno anche migliori prestazioni nelle misure standard di intelligenza.

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Un breve compito visivo può predire il QI. Secondo un nuovo studio gli individui che meglio riescono a sopprimere automaticamente uno sfondo in movimento hanno anche migliori prestazioni nelle misure standard di intelligenza.

Questo test rappresenta la prima valutazione puramente sensoriale ad essere fortemente correlata con il QI e può fornire uno strumento non-verbale, e culturalmente imparziale, ai ricercatori che studiano i processi neurali connessi con l’intelligenza.

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Nello studio, i soggetti guardavano brevi video clip di barre bianche e nere che si muovono attraverso uno schermo di computer. Il loro unico compito era individuare la direzione delle barre: a destra o a sinistra. Le barre sono state presentate in tre dimensioni, con quelle più piccole in un’area centrale della larghezza di un pollice, dove la percezione umana del movimento è ottimale. I partecipanti hanno anche svolto test di intelligenza standardizzati.
Come previsto, i soggetti con più alti punteggi QI sono stati più veloci a catturare il movimento delle barre più piccole.

I risultati confermano anche precedenti ricerche che dimostrano che gli individui con più alto quoziente intellettivo hanno capacità di discriminazione percettiva maggiori e riflessi più veloci.
Inoltre più alto era il QI, più lentamente veniva rilevato il movimento delle barre di dimensioni maggiori. I ricercatori avevano previsto questo risultato, ma non si aspettavano che le prestazioni dei soggetti con QI alto fossero così scarse: “l’incapacità contro-intuitiva di percepire grandi immagini in movimento è un marker percettivo per la capacità del cervello di sopprimere il movimento sullo sfondo – spiegano gli autori-. Nella maggior parte degli scenari, il movimento di fondo è meno importante di piccoli oggetti in movimento in primo piano. Pensate alla guida in auto, ad andare a piedi lungo un corridoio, o anche solo di muovere gli occhi in tutta la stanza. Lo sfondo è costantemente in movimento.”

Il rapporto tra QI e soppressione del movimento indica i processi cognitivi fondamentali che stanno alla base dell’intelligenza: “Il cervello è bombardato da una straordinaria quantità di informazioni sensoriali, e la sua efficienza è dipendente non solo da quanto velocemente le nostre reti neurali elaborano questi segnali, ma anche da quanto sono abili a sopprimere le informazioni meno significative.”
I ricercatori sottolineano inoltre che questo test visivo potrebbe sopprimere alcune delle limitazioni associate ai test di intelligenza standard, che sono stati criticati per i pregiudizi culturali. “Poiché il test è semplice e non verbale, potrà anche aiutare i ricercatori a comprendere meglio i processi neurali in soggetti con disabilità intellettiva e di sviluppo.”

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INTELLIGENZA – QI – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Incontro Ravvicinato del Terzo Tipo”: Cliente vs. Terapeuta

 

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo: Cliente vs Terapeuta . Immagine: © africa - Fotolia.comCosa succede quando il cliente e il terapeuta si incontrano? L’inizio di  un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi differenti; si attiva un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.

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Essere estranei descrive la situazione in cui due persone non si conoscono: non sanno nulla dei propri pensieri, delle intenzioni che hanno l’una rispetto all’altra, del modo in cui considerano il loro entrare in relazione e del modo in cui intendono contribuire al rapporto che si sta creando (Carli, Paniccia, 2003).

È necessario, quindi, che gli estranei imparino a conoscersi e a comunicare tra loro, elaborando un linguaggio comune. Proprio a causa del fatto che la condizione iniziale è di non conoscenza, bisogna affrontare e superare il rischio che entrambi gli interlocutori si facciano condizionare da stereotipi o pregiudizi privi di fondamento: dato che non c’è ancora stato uno scambio comunicativo fonte di informazioni reciproche, il contatto con l’estraneo è il contatto con l’ignoto.

Una buona premessa per accedere ad un processo conoscitivo si identifica con il prendere atto, da parte di entrambi gli interlocutori, della reciproca diversità, la quale rappresenta un “punto di partenza per riconoscere l’estraneità dell’altro” (Carli, Paniccia, 2003, 80); ciò perché il riconoscere che l’altro è un’entità distinta così come lo siamo noi permette di realizzare uno scambio tra il suo e il nostro mondo.

Se non siamo in grado di riconoscere l’alterità dell’altro, non possiamo entrarci in relazione: l’unico tipo di rapporto non basato sull’alterità e sullo scambio è quello che si attua con il possesso, ossia con l’illusione di “possedere l’altro”, inglobandolo come estensione di sé, senza riconoscerne lo status di essere distinto, con le proprie caratteristiche e la sua individualità.

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Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscere e a farsi conoscere, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione.

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In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà una relazione che funzionerà bene per un dato cliente in una certa situazione; grazie all’alleanza, ossia alla capacità, da parte dei due componenti della diade terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune concordato insieme, il percorso procede.

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Storie di Terapie#26. - Immagine: © -robodread-Fotolia.com
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Per quanto riguarda l’efficacia del percorso terapeutico, l’instaurarsi di una soddisfacente relazione tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è importante che esista un buon grado di sintonia iniziale, che, però, non degeneri in un eccesso di iper-identificazione: deve essere sempre chiaro che si tratta del confronto tra due identità distinte.

La visione del mondo del terapeuta si riallaccia alla storia della sua vita; se è vero che le persone che condividono un retroterra affine possono, in principio, trovare più facilmente un’intesa, è anche vero che, a lungo termine, ciò potrebbe ostacolare un reale cambiamento terapeutico, congelando il rapporto terapeutico in una dinamica di rispecchiamento.

Le storie personali del cliente e del terapeuta influenzano la loro capacità di creare una solida alleanza terapeutica: entrambi sono portavoce di una propria visione del mondo ed entrambi apportano il loro patrimonio di convinzioni, valori, aspettative e bisogni (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

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In questo quadro, la condizione ottimale sembra essere un background simile ma non troppo, in modo che l’empatia non ceda il posto ad una eccessiva uniformità di vedute; ciò potrebbe  porre le premesse per una terapia troppo statica, in cui la comprensione e l’affinità concorrono a creare una situazione stagnante, invece di contribuire alla crescita e di aiutare il cliente a sviluppare le proprie potenzialità evolutive.

Al terapeuta è richiesta la capacità di destreggiarsi in modo flessibile tra le polarità antitetiche della vicinanza e del distacco, dell’affinità e della differenza, in modo tale che la relazione terapeutica abbia dei sani confini; in altre parole, il ruolo terapeutico si identifica con il creare una distanza ottimale rispetto al cliente, che permetta di rispecchiare il cliente  e di essere “empatico, intuitivo, capace di mettersi dal punto di vista dell’altro” senza perdere di vista la propria diversità  (Lis, 1993, 18).

 In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere la visione del mondo del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento.

La premessa di fondo è che ciò che spinge ad intraprendere un percorso terapeutico non è tanto il desiderio di rileggere il passato, quanto piuttosto di superare il senso di insoddisfazione attuale per conseguire un futuro migliore. 

Cosa significa concretamente? Che il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento.

Il terapeuta è  chiamato ad essere, per il cliente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità.

 

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COLLOQUIO PSICOLOGICO – RAPPORTI INTERPERSONALI – IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 07 – Ottimismo e Sicumera

Dispositivi Cellulare Hands-Free: Pericolosi per la Guida?

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Guidare utilizzando dispositivi cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Se parliamo al cellulare mentre guidiamo i nostri movimenti sono limitati e impediti e per questo motivo l’uso del cellulare mentre si guida è vietato dal codice della strada; un nuovo studio condotto alla University of Alberta rivela che anche l’uso di auricolari o di vivavoce, che ci permetterebbe di avere le mani libere per eseguire le manovre al volante, è ugualmente pericoloso.
Lo studio pilota ha dimostrato che guidare utilizzando un dispositivo cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida (ad esempio attraversare la linea centrale, eccesso di velocità e cambiare corsia senza segnalarlo) rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

I ricercatori hanno usato la spettroscopia a infrarossi – una tecnica ottica non invasiva che permette di esaminare in tempo reale i cambiamenti nell’attività cerebrale del lobo prefrontale sinistro – per studiare l’attività cerebrale di 26 partecipanti che hanno completato un corso di guida utilizzando il VS500M Virage, un simulatore di guida.
I partecipanti sono stati testati con il simulatore di guida in una condizione di controllo, cioè mentre guidavano senza parlare al cellulare. Sono stati poi testati nuovamente, mentre parlavano al telefono con il vivavoce in conversazioni della durata di due minuti; le conversazioni non toccavano argomenti emotivamente rilevanti.

I risultati indicano un significativo aumento dell’attività cerebrale mentre ha luogo una conversazione telefonica rispetto alla condizione di controllo, in cui questo non avviene. I risultati hanno anche indicato che il flusso di sangue al cervello aumenta significativamente nel corso della telefonata, così da poter soddisfare la richiesta di ossigeno dei neuroni in una condizione di “distrazione”.
I ricercatori fanno notare che si tratta di uno studio preliminare e sperano che la ricerca in questo senso possa aiutare a informare in merito alle implicazioni di sicurezza nell’utilizzo di dispositivi a mani libere durante la guida.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mayank Rehani & Yagesh Bhambhani, CEREBRAL OXYGENATION AND BEHAVIOURAL RESPONSES DURING SIMULATED DRIVING WITH AND WITHOUT HANDS-FREE TELECOMMUNICATION : A NEAR-INFRARED SPECTROSCOPY STUDY, University of Alberta. (DOWNLOAD)

 

Fabiana: cominciamo a pensare in modo serio

Francesca Barzini e Sandra Sassaroli

 

Fabiana Luzzi Si dà abbastanza attenzione nell’educazione di questi ragazzi alle emozioni? Al riconoscerle? A fare i conti con i limiti? Gli ostacoli? Gli abbandoni? Le paure? Il dolore che non si riesce a cancellare? Oppure si presenta loro, in questo nostro dolente benessere (che sa di malessere incombente e di precarietà) un mondo consolatorio in cui essi sono i più belli? I più bravi? I destinati a vincere? Viziati e adorati dalle famiglie in quanto maschi.

Poco sappiamo di cosa sia successo nella testa di un ragazzo che accoltella e brucia la ragazza (non chiamiamole più, per favore, fidanzatine) con la quale ha litigato. Qualcosa possiamo dire da psicoterapeuti.

Si può litigare in amore, ci si può insultare, si può essere disperati e molto molto arrabbiati. Poi quando queste emozioni tumultuose, forti e terribili diventano chiare, c’è un momento, un momento importante, in cui a questi stati d’animo si guarda con orrore ma con la consapevolezza che sono stati tormentosi ma transitori. Si piange, si telefona agli amici, ci si ubriaca, si scrive una poesia romantica, si va dal terapista, insomma ci si trova davanti ai grandi dolori della vita e si tenta di attraversarli.

Cosa succede a questi ragazzi, come mai invece di affrontare la sofferenza, arrivano a malmenare, aggredire, e a uccidere? Trasformano il dolore in rabbia cieca, in atti impulsivi e violenti che procureranno ferite, sofferenze, morte ma che rovinano anche le loro vite per sempre.

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale. - Immagine: © jedi-master - Fotolia.com
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Una rabbia che vediamo in molti femminicidi di cui in questi giorni sentiamo parlare. Nell’ambiente (o in parti della società) in cui questo giovane assassino è cresciuto sopravvive e persiste una oppressione antica delle donne. E un senso antiquato di superiorità dell’uomo.

ARTICOLI SU: FEMMINICIDIO

Vediamo come è difficile per questi uomini accettare queste nuove ragazze, ostinate, sicuramente più libere e più forti, che vogliono decidere la loro vita e sessualità in piena indipendenza. Il cambiamento sociale sembra molto squilibrato, gli uomini a difendere antichi privilegi. Le ragazze a spingere per un cambiamento che le renda più libere e indipendenti.

Ma in questo ragazzo si vede, come in molti assassini di cui i giornali ci raccontano, una profonda incompetenza a riconoscere e gestire le emozioni di dolore, di perdita, di separazione e di accettazione della libertà e indipendenza delle donne. Il ruolo delle donne infatti, la loro visione di se stesse, le loro ambizioni stanno cambiando in modo tumultuoso e comprendiamo che vi sia difficoltà ad adattarsi.

Ma oggi non voglio entrare solo nel merito della questione della violenza contro le donne ma anche di come vengono educati e cresciuti questi futuri uomini, in calabria, ma anche in grandi parti del nostro paese.

ARTICOLI SU: VIOLENZA

E’ come se nella loro formazione questi uomini non abbiano mai imparato a fare i conti con le sconfitte, l’ineluttabilità delle separazioni e delle perdite. L’amore è visto come sogno romantico e non ne viene colto l’aspetto doloroso, di rischio, di vulnerabilità al contatto con l’altro.

Quando si trovano davanti a scelte improvvise, minacce di perdita, rifiuti sessuali, non sanno come affrontare ciò che accade. E minacciano, aggrediscono,uccidono.

Pena e strazio quindi per queste ragazze che si accorgono troppo tardi che quell’atteggiamento di forza e sicurezza di sé non era altro che prepotenza e copertura di una fragilità tremenda a vivere.

Questi ragazzi non hanno imparato a vivere e si trovano con le vite rovinate.

Ma mi chiedo: si dà abbastanza attenzione nell’educazione di questi ragazzi alle emozioni? Al riconoscerle? A fare i conti con i limiti? Gli ostacoli? Gli abbandoni? Le paure? Il dolore che non si riesce a cancellare? Oppure si presenta loro, in questo nostro dolente benessere (che sa di malessere incombente e di precarietà) un mondo consolatorio in cui essi sono i più belli? I più bravi? I destinati a vincere? Viziati e adorati dalle famiglie in quanto maschi.

I genitori si chiedono che educazione stanno dando ai loro figli maschi? Che complicità hanno con una visione dell’uomo antiquata e pericolosa in questa nostra società in rapido cambiamento? Predicano loro il rispetto e la parità con le donne o sono offuscati dall’amore per questi piccoli uomini in crescita?

La mia impressione è che questo sia un punto fondamentale e che nel nostro paese se ne parli troppo poco.

Da tempo tutti dicono che occorre che le ragazze imparino a non andare nel bosco per un ultimo chiarimento se vi sono pericoli o sensazioni di fragilità e rabbia dell’altro. Ma le famiglie e la scuola devono tenere il passo e insegnare ai maschi che ogni ricorso alla violenza e alla prevaricazione è roba antica e sbagliata per come è il mondo adesso. Occorre che gli uomini facciano un lavoro su se stessi, sulle proprie emozioni, sull’accettazione di ogni sconfitta.

I ragazzi devono cambiare e diventare compiutamente umani, capaci di vedere nei sentimenti i lati oscuri e imprevedibili che sempre possono presentarsi e a rispettare concretamente le ragazze che dicono di amare quando dicono di no, quando vogliono lasciarli, quando li sfidano.

L’argomento è attuale in Italia perché abbiamo ratificato la Convenzione di Istanbul dove la prevenzione nelle famiglie e nelle scuole e nei mass media è ritenuta elemento fondamentale della lotta al femminicidio e contro la violenza di genere.

SCARICA LA CONVENZIONE DI ISTANBUL (PDF)

 

Cito dal Corriere della sera:

Ma cosa prevede la convenzione? Contrastare ogni forma di violenza, fisica e psicologica sulle donne, dallo stupro allo stalking, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali e impegno a tutti i livelli sulla prevenzione, eliminando al contempo ogni forma di discriminazione e promuovendo «la concreta parità tra i sessi, rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne». Si tratta di 81 articoli che sono stati ratificati ad oggi da quattro Stati: Albania, Montenegro, Turchia, Portogallo. L’Italia è il quinto Stato. Ma serve la ratifica di almeno 10 Stati perché la Convenzione diventi esecutiva.

Facciamo cultura e cambiamento anche come genitori, terapeuti, psicologi e insegnanti.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Family History and Anxiety #4

– READ PART 1 – PART 2 – PART3

– READ ENGLISH ARTICLES – 

 

 Family-History-and-Anxiety-4-. -Immagine: © altanaka - Fotolia.comAnxious parents tend to have anxious children and there is some evidence for the specificity of anxiety transmission.

READ ON ANXIETY DISORDERS

In continuation of the previous installment of this series, I will discuss three top-down studies investigating the transmission anxiety from parents to their children.

McClure, Brennan, Hammen and Le Brocque, (2001), using a community sample, assessed 816 15 year old children and their parents longitudinally. Parents were diagnosed using a structured clinical interview.  Children completed questionnaires about their parents’ behavior and their own mental state. The results indicated maternal lifetime anxiety disorders doubled the risk of anxiety in their offspring when compared to children of mothers without anxiety disorders.

Family History Anxiety #2. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com
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Children of mothers who had comorbid anxiety and depression had three times the risk of developing anxiety themselves compared to children of healthy mothers. Finally, the risk of developing anxiety was not significantly raised for children of depressed mothers, compared to children of anxious/depressed and anxious mothers.

Spence, Najman, Bor, O’Callaghan and Williams (2002) examined the association between anxiety and depression in 14 year old adolescents and early childhood experience of maternal anxiety and depression. Using a longitudinal design, 4,434 children were examined in infancy and again in adolescence using questionnaire methodology. Mothers were assessed using the Delusions Symptoms-State Inventory. The results showed that maternal anxiety and depression, during early childhood, had a significant influence on the development of high anxious-depressed symptoms at age 14.

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In a confusing study of five groups of children and their parents, Beiderman, Rosenbaum, Bolduc, Faraone and Hirshfeld (1991) examined patterns of associations between anxiety and depressive disorders among children of clinically referred parents. The study examined the children of four groups of parents: 1) panic disorder (PD) and agoraphobia (PDAG) without comorbid major depressive disorder (MDD) (n = 14); 2) comorbid PDAG plus MDD (PDAG + MDD) (n = 25); 3) MDD without comorbid PDAG (n = 12); 4) other psychiatric disorders (n = 23); and 5) normal comparisons (n = 47).

The results demonstrated that the children of those with PD and PDAG and MDD had similarly elevated rates of anxiety disorders and MDD. Interestingly, offspring of parents with MDD only had elevated rates of MDD and not anxiety disorders. This provides some evidence for the specificity of anxiety transmission.

So it appears that anxious parents tend to have anxious children and there is some evidence for the specificity of anxiety transmission. From here we will move on to investigate top-down studies that have investigated the transmission of social phobia from parents to their children.

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REFERENCES:

Chi muore Rockstar è caro agli Dei?

di Gaspare Palmieri, Sara Bocchicchio, Elena del Rio, Vania Galletti, Giorgia Righi

 

“La miglior mossa di marketing per una rockstar? Morire giovani!”

Chuck Klosterman

 

Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?. - Immagine: ©-Andrei-Tsalko-Fotolia.comIl mestiere di rockstar è notoriamente gravoso: lunghi periodi lontano da casa in alberghi a cinque stelle, snervanti interviste per le riviste patinate, crampi alle mani a forza di firmare autografi, fughe dalle groupies (o dai groupies, vedi Madonna o Lady-Gaga). Ma che alcune ricerche statistiche abbiano provato che sia addirittura un lavoro con una mortalità superiore alla popolazione normale, per intenderci come fare il soldato o il pilota collaudatore di aerei, sorprende non poco.

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Procediamo per ordine. Prima di tutto è stato finalmente sfatato, con un rigoroso studio retrospettivo, il mito del Club dei 27, che ha ospitato personaggi come Janis Joplin, Jimi Hendrix, Curt Kobain e per ultima Amy Winehouse, in base al quale ci sarebbe un picco di mortalità tra i musicisti popolari a quell’età (Wolkewitz et al., 2011). Secondo lo studio in realtà i ventisette anni non rappresentano un particolare momento di rischio, ma è stato individuato un range di maggiore vulnerabilità in generale tra i venti e i quarant’anni.

Un gruppo di ricercatori di Liverpool ha poi prodotto una serie di interessanti indagini sulla mortalità delle star del rock (Bellis et al. 2007; 2012). Il più recente analizza retrospettivamente le biografie dei 1489 rockers americani e europei, che hanno venduto il maggior numero di dischi tra il 1956 e il 2006 e che hanno mantenuto il successo per almeno cinque anni.

La mortalità delle star è risultata aumentare, rispetto a quella della popolazione normale, a partire dall’inizio della fama.

Amy Winehouse, un triste viaggio tra pub e Rehab
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Nello specifico i musicisti famosi americani hanno mostrato una mortalità più alta rispetto ai colleghi europei, probabilmente a causa di una maggior esposizione ai fattori di rischio (es. droghe), di una maggiore durata della carriera artistica (anche per via delle storiche reunion) e un più difficile accesso al sistema sanitario.

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Nel vecchio continente il tasso di mortalità torna ai livelli della popolazione normale dopo venticinque anni di fama, mentre i colleghi oltreoceano devono aspettare quindici anni in più. Dallo studio emerge inoltre come i musicisti solisti siano più vulnerabili rispetto a chi fa parte di una band, che potrebbe dunque rappresentare un fattore protettivo e di supporto per gli stress della vita da rockstar.

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L’aspetto più interessante e innovativo di queste indagini riguarda la ricerca, nella storia di vita dei rockers, di eventi infantili traumatici (Adverse Childhood Experiences-ACE) e di una loro possibile correlazione con una più alta mortalità. Gli ACE, già identificati come fattori di rischio per svariate patologie psichiatriche e mediche, includono abusi fisici, sessuali e verbali durante l’infanzia o la presenza di un membro della famiglia affetto da grave disturbo psichico, da una malattia cronica o da abuso di alcol o droghe.

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E’ stato provato che gli adulti che abbiano sperimentato quattro o più ACE, hanno un rischio sette volte maggiore di sviluppare una dipendenza da alcol e dodici volte maggiore di tentare il suicidio rispetto alla popolazione normale (Felitti et al., 1998). Gli ACE sembrano inoltre fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi di personalità nella prima età adulta, in particolare del cluster B (narcisistico, istrionico, borderline, antisociale), che sono stati identificati in misura maggiore nelle persone che cercano la fama.

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Lo studio inglese mostra tra le rockstar una correlazione tra presenza di ACE e mortalità prematura. Circa la metà dei musicisti deceduti a causa di abuso di sostanze o comportamenti a rischio aveva infatti vissuto almeno un evento traumatico infantile. Si potrebbe dunque ipotizzare che inseguire la via del successo nella musica sia una rischiosa ed allo stesso tempo attraente strategia di coping per fuggire ad un difficile passato di abusi, deprivazioni e maltrattamenti.

Chiaramente questi dati spaventano genitori ed educatori in quanto le star del rock e del pop, la cui notorietà può raggiungere dimensioni planetarie (Lady Gaga ha venti milioni di followers su Twitter), rappresentano modelli di riferimento per i giovani, con rischio di imitazione.

Per tranquillizzarsi un po’, può essere consigliabile leggere un recente studio di un ricercatore finlandese, che ha analizzato trentuno autobiografie di rockstar edite a partire dagli anni 90’ (Oksanen, 2012). L’analisi delle narrative ha mostrato come nei libri venga dedicato molto spazio al processo di guarigione dalle dipendenze da alcol e sostanze (la cosiddetta rehab). Come a dire che di questi tempi, a differenza del passato, sia più di moda raccontare i propri percorsi di risalita dagli inferi, piuttosto che fare l’apologia di comportamenti insalubri. Sex, rehab and rock and roll?

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LEGGI:

 MUSICA – DROGHE E ALLUCINOGENI – STRESS – 

TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE –

 DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD – DIPENDENZE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

 

Le abilità da Bambini Influenzano lo Staus socio-economico da Adulti?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I partecipanti che avevano migliori abilità di lettura e prestazioni matematiche da bambini, nell’età adulta avevano un reddito più elevato, un migliore alloggio e migliori posti di lavoro.

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science, il rendimento in matematica e l’abilità di lettura all’età di 7 anni possono correlare con lo status socioeconomico alcuni decenni più tardi, indipendentemente da intelligenza, dal tipo di educazione e dallo status socioeconomico nell’infanzia.

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Alcuni ricercatori dell’Università di Edimburgo hanno voluto indagare se avere buone prestazioni precoci in matematica e nella lettura potesse correlare con una migliore collocazione socio-economica nell’età adulta.

Nella ricerca sono stati  utilizzati i dati del National Child Development Study, un ampio studio rappresentativo a livello nazionale che ha seguito oltre 17.000 persone in Inghilterra, Scozia e Galles in un arco di circa 50 anni.

 

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I dati hanno rivelato che le abilità di lettura e le competenze matematiche nell’infazia contano davvero. I partecipanti che avevano migliori abilità di lettura e prestazioni matematiche da bambini, nell’età adulta avevano un reddito più elevato, un migliore alloggio e migliori posti di lavoro.

Questi risultati suggeriscono che alcune abilità nell’infanzia, indipendentemente dal livello di intelligenza e dal livello socio-economico familiare nell’infanzia, possono essere rilevanti per tutta la vita.

A questo punto, rimane aperta la questione di quali variabili entrano in gioco a moderare o a mediare tale relazione tra abilità di lettura , prestazioni matematiche e migliore status socio-economico.

LEGGI: 

 INTELLIGENZA – BAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

EMDR e Dissociazione – Intervista ad Annabel Gonzalez

EMDR e Dissociazione:

la Co-consapevolezza nel Dialogo Clinico.

Intervista ad Annabel Gonzalez

LEGGI TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

EMDR e Dissociazione - Intervista ad Annabel Gonzalez. - Immagine: © benjamingrafico - Fotolia.com La Co-consapevolezza nel Dialogo Clinico: Questa costruzione è possibile grazie al dialogo costante tra terapeuta e Sé adulto del paziente, nel quale lentamente si inseriscono le altre parti più sofferenti per essere accolte e ascoltate.

Somiglia più ad una “terapia di gruppo”, ci dicono scherzando, in cui ogni decisione va presa in accordo con tutte le parti coinvolte o almeno a tutte comunicata! 

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L’intervento di Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera, offre numerosi spunti di riflessione e arricchisce di possibilità nuove il protocollo EMDR più classicamente conosciuto.

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La cornice teorica è quella delle giornate che le hanno precedute: il modello della dissociazione strutturale di van der Hart, in particolare in pazienti con disturbo dissociativo dell’identità (DDI).

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Il cuore del protocollo descritto (Gonzalez e Mosquera, 2012) è il concetto di “self- care”, inteso come un’attitudine dell’individuo costituita da 3 elementi essenziali: 1- una tendenza generale a darsi un valore persona

Nuove Frontiere nella cura del trauma
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le, a considerarsi amabile, 2- l’assenza di comportamenti di “auto-boicottaggio” o autolesivi e 3 – capacità di intraprendere azioni specifiche che producano vantaggio,  crescita personale o che alimentino il valore personale.

Ispirate dal protocollo Loving Eyes (Knipe, 2008), le autrici descrivono la necessità di recuperare ed allenare le capacità di autocura attraverso il diretto coinvolgimento del Sé adulto del paziente nella “presa in carico” delle diverse parti della propria personalità. Pazienti che crescono in un ambiente abusante e minaccioso o di neglect verso i propri bisogni, non riusciranno infatti ad internalizzare modelli operativi  interni di cura di sé (memoria procedurale), faranno fatica cioè a riconoscere e prendersi cura dei propri bisogni, emozioni e sentimenti.

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Il trattamento descritto è molto complesso e caratterizzato da fasi che si susseguono con tempi lunghi, ma necessari a “ricucire lo strappo” provocato dalle sofferenze precoci:

1 Riconoscere le parti del sé dissociate,

2 Comunicare con loro, 

3 Sviluppare empatia verso ognuna di esse, 

4 Collaborare con loro su obiettivi specifici, 

5 Condividere l’interiorità e i bisogni di ognuna, 

6 Co-consapevolezza, riconoscere cioè che ognuna ha emozioni e pensieri autonomi,

7 Co-consapevolezza continuativa (integrazione tra le parti).

L’ambiziosa e affascinante idea generale è che si possano costruire lentamente connessioni via via più fitte tra le diverse parti della personalità dis-integrate, in modo da ristabilire un sufficiente e tollerabile grado di comunicazione tra loro.

Questa costruzione è possibile grazie al dialogo costante tra terapeuta e Sé adulto del paziente, nel quale lentamente si inseriscono le altre parti più sofferenti per essere accolte e ascoltate. Somiglia più ad una “terapia di gruppo”, ci dicono scherzando, in cui ogni decisione va presa in accordo con tutte le parti coinvolte o almeno a tutte comunicata! 

Segue una breve Intervista ad Annabel, che ringrazio per la gentilezza con cui si è resa disponibile al termine dell’ultima, lunga e densissima giornata di lavori.

Nelle prime giornate del convegno abbiamo sentito parlare di terapia sensomotoria e la sensazione immediata è che in alcuni casi sembrerebbe meno rischioso lavorare con la sensorymotor piuttosto che con EMDR. Cosa ne pensa?

Janina Fisher
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Quando si inizia la formazione in EMDR si parte da traumi semplici, mentre con pazienti gravi si parla di traumi complessi. Il punto a mio avviso importante non è solo quanto il paziente è stabilizzato o disregolato, ma piuttosto come adattare la procedura standard a situazioni traumatiche più gravi. In generale penso che mantenere il focus sul corpo sia un fattore di estrema stabilizzazione, se sai come utilizzarlo, poiché i pazienti con i loro sintomi stanno evitando di sentire e di provare determinate emozioni e sensazioni. Anche con la terapia sensomotoria le sensazioni suscitate possono essere molto intense e disturbanti e credo che, allo stesso modo che per l’EMDR, usare la procedura sensomotoria standard, per traumi semplici, possa essere ugualmente rischioso con pazienti dissociativi. 

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Il protocollo da voi descritto sembra utilizzare essenzialmente l’installazione di risorse, come metodo dominante, piuttosto che la procedura EMDR standard di desensibilizzazione da materiale traumatico. Quale caratteristiche generali deve avere la risorsa da installare?

Sì, ma non si tratta proprio di installazione, come nella procedura standard. Lo strumento è la stimolazione bilaterale in sé, come potente strumento di collegamento dei due emisferi e tra le informazioni di cui sono portatori. Non ci sono quindi indicazioni generali per decidere quale sia la risorsa migliore da installare e da “fissare” nella memoria procedurale del paziente, ma piuttosto il target della stimolazione va scelto in base ai nostri obiettivi terapeutici, via via diversi.  Se il nostro obiettivo è incrementare le capacità di self-care e ridurre la fobia verso le parti più emotive e dissociate, allora un buon target sarà, ad esempio, ogni volta che c’è un insight rispetto al suo funzionamento mentale, oppure ogni volta che il paziente ha un’idea costruttiva e funzionale su come accudire la sua parte traumatizzata, oppure ogni volta che sente semplicemente qualcosa in questa direzione (compassione, tenerezza, comprensione,..).

In generale l’obiettivo è rinforzare tutte le volte che la comunicazione del paziente muove verso l’esterno, piuttosto che verso l’interno.

Quali sono le 3 più importanti differenze tra la procedura standard di EMDR e quella da voi descritta per i pazienti dissociativi?

La procedura standard è pensata per lavorare sul trauma direttamente,  mentre il protocollo con i pazienti dissociativi è caratterizzato dalla lenta e progressiva costruzione dei presupposti per arrivare a lavorare sul trauma. Si tratta di un lavoro preparatorio di stabilizzazione, necessario per ridurre le difese rispetto al materiale traumatico. La seconda caratteristica distintiva è che si tratta di un metodo progressivo, basato su fasi successive, tutte necessarie per raggiungere l’integrazione. La terza caratteristica è che il nostro lavoro è centrato sullo sviluppo di strategie di self-care che rendano il paziente in grado di accettare e “aiutare” le parti di sé (EP) più sofferenti. Il nostro referente nel dialogo clinico è sempre il Sé Adulto, con cui collaboriamo attivamente per comprendere come prenderci cura delle altre parti. Infine la mappa di riferimento è quella della dissociazione strutturale, anche se non è propria del modello EMDR.

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Ci è sembrato un modello molto valido, compatibile con l’EMDR ed esplicativo del funzionamento dei pazienti dissociativi, quindi perché non integrarlo..

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LEGGI: 

Eye Movement Desensitization and Reprocessing – EMDR –  TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA – ABUSI E MALTRATTAMENTI – DISSOCIAZIONE – DISTURBO DISSOCIATIVO

BIBLIOGRAFIA:

  • Gonzalez, A & Mosquera, D (2012). EMDR and Disociación: The Progressive Approach. Ed. by Amazon. Spanish edition: EMDR y Disociación: El abordaje progresivo. Ed Pléyades. Madrid.
  • Knipe, J. (2008). Loving Eyes: Procedures for therapeutically reverse Dissociative Disorders while preserving emotionally safety. In Forgash & Copeley (Eds). Healing the Heart of Trauma and Dissociation with EMDR and Ego State Therapy. (DOWNLOAD)

 

Il Giovane Gambero – Recensione

Recensione:

IL GIOVANE GAMBERO

Di Gianni Rodari

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Il Giovane Gambero - Recensione

Un giovane gambero pensò: “Perché nella mia famiglia camminano tutti all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco“. Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.

E’ possibile utilizzare storie, favole, racconti per descrivere aspetti di una psicoterapia, temi centrali del percorso di vita di un individuo, passaggi cruciali che possono determinare un cambiamento nella condizione emotiva del paziente? Probabilmente sì, un esempio e’ rappresentato da “Il Giovane Gambero” di Gianni Rodari, favola semplice che indica ai bambini – solo ai bambini? – il valore dell’esplorazione, dell’autonomia, l’importanza di mantenere vivo un desiderio personale anche quando viene osteggiato da figure familiari controllanti e criticiste. Come si può narrare tutto ciò con le immagini di un bambino? La parola a Gianni Rodari.

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 Un giovane gambero pensò: “Perché nella mia famiglia camminano tutti all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco”. Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.
Stringimi Forte – Sette Passi Per Una Vita Piena d’Amore – Recensione
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Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse: “State a vedere“. E fece una magnifica corsetta in avanti. “Figlio mio“, scoppiò a piangere la madre, “ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene“. I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare. Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse: “Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua, il ruscello è grande: vattene e non tornare più indietro“.

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Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo. Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea. “Il mondo va a rovescio“, disse una rana, “guardate quel gambero e datemi torto, se potete“. “Non c’è più rispetto“, disse un’altra rana. “Ohibò ohibò” disse una terza.

Ma il gamberetto proseguì dritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto ad un sasso. “Buongiorno“, disse il giovane gambero. Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: “Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua piuttosto che rivolgermi la parola. Finché sei in tempo, dai retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio“.

Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: “Ho ragione io“. E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino. Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora viaggiando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: “Buon viaggio!“.

 

 

LEGGI:

 BAMBINI –  FAMIGLIA

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BIBLIOGRAFIA: 

Rodari, G. (2004), Il Giovane Gambero, Fabbri Editore

 

 

La CBT per la Prevenzione delle Psicosi

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Attraverso la CBT per la prevenzione delle psicosi, i giovani pazienti imparano una serie di strategie che possono utilizzare per ridurre il loro disagio ponendo un forte accento sulla gestione del sintomo in un’ottica di normalizzazione e de-stigmatizzazione.

 

 

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI - RECENSIONI
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Una meta-analisi pubblicata su Psychological Medicine supporta la terapia cognitivo-comportamentale come approccio in grado di ridurre in modo significativo la probabilità di sviluppare psicosi in giovani valutati ad alto rischio di esordio psicotico.

 

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Secondo la review dell’Università di Manchester  – che ha analizzato diversi studi per un totale di 800 soggetti- il rischio di sviluppare psicosi è più che dimezzato nei ragazzi ad alto rischio trattati con CBT (cognitive behavioural therapy) e valutati a 6, 12 e 18-24 mesi dopo l’inizio del trattamento.

 

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Attraverso la CBT per la prevenzione delle psicosi, i giovani pazienti imparano una serie di strategie che possono utilizzare per ridurre il loro disagio ponendo un forte accento sulla gestione del sintomo in un’ottica di normalizzazione e de-stigmatizzazione. La ricerca va a confermare una serie di lavori già supportanti la CBT per la prevenzione degli esordi psicotici in pazienti giovani.

L’Università di Manchester lavora a stretto contatto con Greater Manchester West Mental Health NHS Foundation Trust, che ha al suo interno una clinica specializzata nella prevenzione delle psicosi nel Regno Unito.

La clinica permette ai giovani a rischio di psicosi valutazioni iniziali periodiche, l’accesso a CBT e la gestione integrata dei casi secondo il modello del case-management.

LEGGI: 

PSICOSI –  PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom (2006) – Recensione

 

RECENSIONE DEL LIBRO:

Le lacrime di Nietzche

(2006)

di Irvin Yalom 

Neri Pozza Ed. 

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Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom - Recensione
Le lacrime di Nietzche, Irvin Yalom (2006).

La storia racconta del rapporto, puramente ipotetico e di fantasia, tra Joseph Breuer e Frederick Nietzche. Breuer curerà le emicranie del filosofo e l’altro ascolterà le ansie e le preoccupazioni del medico, inquadrandole con suggerimenti filosofici o pedagogici, una sorta di consulenza filosofica.

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L’autore, Irvin Yalom, è uno psichiatra-scrittore statunitense noto per aver sviluppato un modello di psicoterapia di gruppo nell’ambito dell’analisi esistenziale, nonchè una visione originale e creativa della relazione tra psicoterapeuta e paziente.

La storia racconta del rapporto, puramente ipotetico e di fantasia, tra Joseph Breuer e Frederick Nietzche.

Siamo nel 1882 Breuer, geniale medico viennese, a quarant’anni è all’apice della sua carriera e notorietà, famoso per le dettagliate anamnesi cliniche ed altrettanto accurate diagnosi e medico di fiducia di alcuni noti personaggi dell’epoca.

Viene avvicinato, durante una vacanza, da una giovanissima e molto affascinante Lou Salome, con la richiesta di occuparsi di un caro amico, Frederick Nietzche, promettente filosofo tedesco non ancora famoso, prostrato da sintomi di vario genere tra cui febbri, emicranie, nausea, insonnia e problemi di vista, che compromettono pesantemente il suo benessere.

E’ stato visitato, senza alcun risultato, da molti dei più illustri medici dell’epoca.

Le Sorgenti del Male di _Zygmunt Bauman - Recensione
Articolo Consigliato: Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione

Breuer è titubante, ancor più quando la donna afferma che Nietzche è afflitto da “profonda disperazione” e, oltretutto, molto restio a curarsi a causa di un carattere chiuso e diffidente.

Per la disperazione non vi è medicina” afferma Breuer con convinzione ma poi, la curiosità del clinico prende il sopravvento e, infine, accetta di visitare questo paziente così difficile.

Il medico ha già esperienza della “cura attraverso le parole” avendo avuto in trattamento per diverso tempo Bertha Pappenheim, celebre paziente con diagnosi di isteria che sarà successivamente trattata anche da Sigmund Freud. Questa cura consiste nell’aiutare il paziente a ricordare, con l’ipnosi, il trauma psichico dimenticato, allo scopo di risolvere il sintomo.

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Così i due si incontrano e, lentamente, prende forma la loro relazione: Breuer intuisce che Nietzche non si lascerebbe mai coinvolgere da una cura percepita come sottomissione o diminuzione della sua potenza, convinto com’è che i rapporti interpersonali siano governati dall’agonismo e dalla competizione e che, desiderio profondo e inconfessato di ognuno, sia quello di dominare e accrescere la propria forza.

Breuer si accorge di trovarsi in una situazione paradossale: vuole conquistare la fiducia del paziente ma, proprio se agisce in maniera comprensiva o curativa nei suoi confronti, questi lo accuserà di volergli imporre la sua volontà. 

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Consapevole della profonda paura di Nietzche di essere schiacciato nell’angolo della sottomissione e del profondo senso di solitudine che una tale idea delle relazioni umane comporti, Breuer ha un’idea a dir poco rivoluzionaria e propone al paziente un rapporto paritario: lui curerà le emicranie del filosofo e l’altro ascolterà le ansie e le preoccupazioni del medico, inquadrandole con suggerimenti filosofici o pedagogici, una sorta di consulenza filosofica.

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Lo scopo del medico è persuadere Nietzche ad impegnarsi in una cura basata sul parlare, spingerlo ad uscire fuori dalla sua solitudine, a fidarsi di qualcuno tanto da condividere la propria disperazione.

Per arrivare a questo Breuer comprende che l’altro deve rassicurarsi sulla relazione tra loro due e che questo potrà accadere nella misura in cui il filosofo penserà che il loro rapporto è reciproco tanto nel dare quanto nel ricevere. Il medico vestirà i panni del paziente, confesserà le proprie ansie e si porrà come modello di franca apertura di sè per far sperimentare all’altro che “non succede alcun orrore“.

(…) devo convincerlo che mi sta aiutando e intanto invertire in maniera impercettibile i ruoli fino a far ridiventare lui il paziente e tornare ad essere io il medico” (pg. 222).

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Così, in un dialogo coinvolgente e serrato, dove i ruoli continuamente si invertono e si confondono, a poco a poco si costruisce un’intimità tra i due che andrà oltre le aspettative iniziali. Le pagine scorrono, riservate alle riflessioni di Breuer sul paziente Nietzche e, simmetricamente, alle annotazioni del filosofo su quella strana figura di medico.

Breuer si accorge che, quella che all’inizio era solo una strategia terapeutica, diventa per lui una vera necessità di confidarsi con qualcuno e che lui, uomo virtuoso ed esemplare, è tuttavia oppresso dalle convenzioni della vita borghese cui appartiene e profondamente turbato da alcuni suoi affetti.

In treatment Italiano: una Visione d’Insieme
Articolo Consigliato: In treatment Italiano: una Visione d’Insieme

Nietzche, da parte sua,  nel tentativo di trovare soluzioni e comprensione ai problemi del suo medico, finalmente riuscirà a comunicare a qualcuno il suo profondo dolore e, forse, a sentire un minimo di fiducia per un altro essere umano.

Scrittura ricca di spunti e non convenzionale, che spinge alla riflessione sulla specificità della relazione terapeutica e su quanto, nel percorso di cura, essa sia ingrediente essenziale per permettere un’apertura di sè finalizzata alla comprensione.

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Si rimane colpiti in più punti: l’accuratezza clinica della diagnosi, l’attenzione quasi amorevole al paziente e al suo bisogno di stare meglio, anche quando non è urlato ma a mala pena sussurrato, la disponibilità a mettersi in gioco in prima persona e a verificare ipotesi di trattamento, l’entusiasmo ed il coraggio di questi primi “medici dell’anima” che avevano intuizioni cliniche e la necessaria curiosità di comprendere il rapporto tra chi cura e chi viene curato.

Dello stesso autore e altrettanto interessanti, La cura Schopenauer e Il problema Spinoza, i tre libri attraversati tutti da una riflessione acuta e personalissima della relazione terapeutica.

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LEGGI: 

 ALLEANZA TERAPEUTICA –  LETTURATURA – PSICOLOGIA & FILOSOFIA –  IN TERAPIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

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