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Tribolazioni 09 – Disimpegno e demotivazione

TRIBOLAZIONI 09

DISIMPEGNO E DEMOTIVAZIONE

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Tribolazioni 09. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.comMolte persone lamentano di avere importanti obiettivi in vari settori dell’esistenza ma di non riuscire ad impegnarsi per il loro raggiungimento. Questa valutazione sul proprio mancato impegno aggiunge un plusvalore alla sofferenza già sperimentata per il mancato raggiungimento degli obiettivi stessi.

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La demotivazione si sperimenta in particolari condizioni.

Ci si demotiva verso uno scopo strumentale se:

lo scopo terminale a cui serviva ha perso di importanza (non è più importante essere bello per conquistare la donna che desidero se essa è morta)

lo scopo terminale è stato raggiunto (nel caso precedente ci siamo sposati da vent’anni)

mi convinco che tale scopo strumentale non è comunque efficace per il raggiungimento di quello terminale (ad esempio capisco che alla donna in questione interessano gli uomini colti e non quelli belli).

La demotivazione dunque sembra essere un meccanismo di risparmio delle risorse al servizio dello pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. In sintesi se una strategia è certamente inefficace o  non mi interessa più l’obiettivo cui era finalizzata sembra più che ragionevole abbandonarla. Tuttavia questo abbandono è spesso giudicato negativamente e genera sofferenza aggiuntiva a quella per la frustrazione dello scopo.

Ipotizzo che i motivi possano essere:

nel caso che lo scopo terminale resti ancora attivo si fallisce anche lo scopo interno riguardante l’identità  di “essere uno che persegue senza riserve e senza risparmi i propri obiettivi importanti”. Infatti si può  ritenere che non sia l’inefficacia della strategia la causa della demotivazione ma assolutamente il contrario. I risultati non ci sono proprio a causa della demotivazione. L’inefficacia della strategia è dovuta all’averla perseguita poco e male e aumentando intensità e durata si sarebbe ottenuto il risultato.

Nel caso invece in cui il risultato sia stato ottenuto si ritiene paradossalmente che ciò non giustifichi il ritiro dell’investimento. In nome di una sorta di inerzia degli investimenti giustificata con la necessità di mantenere il risultato “devo continuare ad essere bello anche se l’ho sposata da vent’anni altrimenti potrei perderla”.

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Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

Persino la rinuncia allo scopo terminale perché raggiunto o definitivamente compromesso  può comportare una quota aggiuntiva di sofferenza per la fatica cognitiva che comporta. Infatti se uno scopo  terminale importante viene abbandonato il sistema deve affrontare un lavoro di ristrutturazione della gerarchia degli scopi per attribuire nuove priorità.  Le nuove priorità comporteranno l’attivazione di nuove strategie di perseguimento. Si tratta dunque di cambiare rotta e sistema di navigazione.

Caso diverso è il disimpegno quando gli scopi terminali e strumentali sono validi e attivi ma il soggetto non si sforza, quanto ritiene che dovrebbe, per perseguirli.

Il problema sta tutto nel definire lo standard soggettivo dell’impegno che sarebbe ritenuto adeguato. Per alcuni soggetti, gli standard sono elevatissimi e soprattutto non ben definiti. Per loro si può sempre fare di più e dunque si deve. Ergo non si è fatto mai  abbastanza. Sembrano agire in base alla regola “il massimo sforzo a prescindere dal risultato”. Ma non è questa la sede per occuparci di questa vera e propria patologia (Mancini 2005; Lorenzini, Sassaroli, Ruggiero 2006; Perdighe, Mancini 2008 ). Qui l’attenzione è  su coloro che avrebbero l’opportunità e il desiderio di impegnarsi di più per i propri scopi ma non lo fanno attribuendosene poi la colpa. Perché ciò che è possibile e auspicato dal soggetto stesso non avviene?

In primo luogo l’impegno costa fatica ed essa è l’indicatore di una dissipazione di energie che potrebbero non essere disponibili se improvvisamente necessarie per altri obiettivi più urgenti. Quindi quando sentiamo fatica siamo naturalmente portati a smettere.

In secondo luogo più sono le risorse investite per uno scopo e maggiore diventa la sua importanza perché al suo valore si aggiungono i cosidetti “costi sommersi  (Piattelli Palmarini 1995; Motterlini 2008; Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002) ovvero quanto si è speso per esso. Sembra che il valore di un obiettivo sia la somma del suo valore iniziale più quanto si è già speso per raggiungerlo. A correzione parziale di questo meccanismo ad andamento esponenziale credo che l’impegno verso uno scopo non proceda in modo costantemente crescente nel tempo. Ciò rischierebbe infatti di creare  un meccanismo a retroazione positiva per cui “più è importante e più mi impegno, ma, più mi impegno e più diventa importante… ” Credo piuttosto che proceda con un andamento pulsante. Si ha una folata di impegno iniziale, conseguente alla valutazione congiunta dell’importanza dello scopo e della presunta efficacia dell’impegno stesso. Ad essa segue una nuova valutazione  sulla raggiungibilità dello scopo (al tempo 2) dopo il primo impegno (VRS’).

Il confronto tra la valutazione sulla raggiungibilità dello scopo prima e dopo l’iniziale folata di impegno diviso la quantità dell’impegno profuso fornisce una valutazione dell’efficacia dell’impegno stesso.

Efficacia dell’impegno = valutazione raggiungibilità al tempo 2 – valutazione raggiungibilità al tempo 1 / quantità dell’impegno profuso

 Soltanto se  sia la valutazione di raggiungibilità al tempo 2 che la valutazione dell’efficacia dell’impegno risultano positive seguirà una seconda folata di impegno. Al termine della quale si ripeterà la doppia automatica valutazione  Il ciclo si ripete generando folate di impegno che esitano in coppie associate di valutazioni a confronto.

E’ sufficiente che lo scopo venga valutato difficilmente raggiungibile o che si valuti scarsa l’efficacia dell’impegno per innescare il circolo del progressivo disimpegno sempre in ossequio allo pseudoscopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.

Esiste poi un’altra causa del disimpegno e va ricercata nel tentativo di preservare la propria autostima e dunque nello scopo di “considerarsi un esperto perseguitore di scopi”. Infatti se posso dirmi che lo scopo non era poi così importante (nolo sumere acerbam) o che avevo tanti altri impegni per cui non ho potuto dedicarmici (chissà quanti compiti sono fatti all’ultimo momento e “con la mano sinistra” proprio per questo) la frustrazione dello scopo esterno non si riverbera anche su quello interno dell’autostima.

Demotivazione e disimpegno non sono dunque sovrapponibili: la prima implica spesso il secondo ma non viceversa. Entrambi vengono generati da valutazioni circa l’utilità e l’efficacia delle strategie messe in atto secondo lo pseudo-scopo “dell’ ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Dunque sono assolutamente adattivi. Successivamente tuttavia essi valutati rispetto a scopi interni inerenti l’identità che ne risultano frustrati generando una quota di sofferenza aggiuntiva da parte di chi reputa che poteva e doveva fare di più.

Questa affermazione è ovvia perchè a qualsiasi quantità data si può aggiungere una ulteriore unità ma può diventare uno strumento di sofisticata tortura. Si insinua nella mente quando tornando a casa con un 7 nella versione di latino i genitori smorzano il sorriso con un complimento che è insieme un rimprovero “uno come te può fare molto di più” progressivamente il “può” si trasforma in un “deve”.

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Spesso c’è un sottinteso ancora più pesante: il successo parziale è merito del talento dono di natura trasmesso coi geni. Quindi si capisce che il complimento è in realtà per i genitori. Il rimprovero invece è tutto per il soggetto che non fa fruttare il talento ricevuto come dovrebbe. Questo tarlo del miglioramento del record personale fa rivisitare mentalmente le prestazioni per cogliere tutte le incertezze, gli inciampi, i balbettii che dovranno essere eliminati la prossima volta per fare quell’indefinito “di più” che è alla propria portata. E infatti questo accade. Si riesce effettivamente meglio. Ma questa è la prova evidente dello scarso precedente impegno e conferma che è possibile fare di più.

Il processo può ricominciare daccapo. Ogni successo è, paradossalmente, dimostrazione della colpa precedente e innesco di una ansia per una  nuova gara con sé stesso. Il sé presente sconfiggerà i sé precedenti per essere poi sconfitto dal sé successivo. A riprova che “si può sempre fare di più”.

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Schema Therapy per bambini e adolescenti Report dal Workshop di Milano 22-23 giugno

Report del workshop

La Schema Therapy per bambini e adolescenti

Milano 22-23 giugno

 

Report workshop Schema Therapy Milano 22 - 23 giugno . - Immagine: © konradbak - Fotolia.comIl Dr. Cristof Loose, psicologo psicoterapeuta formatosi in Schema Therapy, che ha portato la sua esperienza clinica con bambini e adolescenti, ci ha guidato nella scoperta di come la Schema Therapy possa essere declinata in un approccio terapeutico indicato per i più piccoli.

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Il workshop è stato una scoperta guidata nel capire come la teoria della Schema Therapy possa spiegare ai bambini la cornice teorica degli interventi che verranno fatti nel percorso terapeutico.

Siamo partiti dalla definizione di schema:  tema vasto e pervasivo concernente una persona e la relazione che questa ha con gli altri, sviluppato durante l’infanzia e elaborato nel corso della vita e disfunzionale a un livello significativo.

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Passando attraverso a quelle esperienze che favoriscono l’acquisizione di un determinato schema:

  • Frustrazione dei bisogni
  • Esperienze traumatiche
  • Eccessiva indulgenza
  • Esperienze di accudimento invertito.

In particolare gli obiettivi della Schema Therapy per bambini e adolescenti sono: 1- focalizzarsi sui bisogni emotivi del bambino, validarli e favorirne il soddisfacimento; 2- indebolire gli schemi maladattivi precoci; 3- apprendere come uscire da schema mode controproducenti; 4- porre enfasi sulla relazione terapeutica; 5- istruire i genitori e i caregivers supportandoli e incoraggiandoli a liberarsi da pattern emotivi e comportamentali disfunzionali.

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Ma come è possibile fare tutto questo?

Prima di tutto è necessario chiarire nella testa dei terapeuti il concetto di schema, la divisione e il raggruppamento in domini, specificando in modo dettagliato i pensieri e gli stili di coping  per ognuno dei 18 schemi descritti da Young. Così da avere una mappa chiara e definita da poter usare in terapia.

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Schema Therapy: Intervista a Alessandro Carmelita
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Si arriva alla concettualizzazione del caso passando attraverso quelli che sono i fattori di rischio e di protezione connessi alla vita dell’individuo per lo sviluppo di disturbi psicologici o psicosomatici della persona.

Parte iniziale del percorso terapeutico è una prima fase di psicoeducazione in cui si ragiona assieme al bambino sull’origine del problema, su dove e da chi ha imparato a comportarsi in un certo modo in risposte a specifiche situazioni. Da un lato validando il significato della risposta trovata fino ad ora dall’altro suggerendone altre possibili. Una prima occasione per parlare degli schemi attivati, andando a collegare cognizione e stile genitoriale con le strategie di coping (evitamento, resa e ipercompensazione), delineando così la storia specifica di ogni singolo cliente. In questo il clinico può essere aiutato da card sulle quali vi sono scritti diversi pensieri tipici per ogni schema: si chiede al bambino di selezionare quelli per lui maggiormente conosciuti e frequenti. Un primo strumento di valutazione che permette di costruire un linguaggio condiviso con il paziente.

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Nella seconda parte del workshop il Dr. Loose ci presenta il modello degli schema mode. I mode sono stati emotivi attimo per attimo che possono venire scatenati da eventi quotidiani e da eventi per il quali il bambino è particolarmente attivato.  Il terapeuta pian piano presenta al bambino i mode nei loro aspetti cognitivo-emotivo-fisiologici e di messa in atto, ragionando sulla differenza tra il conoscere\riconoscere e il sentire uno schema mode. Nella terapia con i bambini e gli adolescenti risulta importante lavorare con i mode perché questi permettono di spiegare e comprendere agevolmente i propri comportamenti e vissuti emotivi. Avere una cornice coerente di spiegazione del comportamento permette ai bambini di avere una maggior consapevolezza che consente di interrompere vecchi pattern mode e schemi disfunzionali portando di conseguenza un sostanziale cambiamento comportamentale. Primo step del lavoro con i mode è quello di rafforzare la relazione terapeutica e di enfatizzare quelle che sono le risorse del nostro cliente, tenendo presente anche le caratteristiche positive che spesso in un percorso terapeutico vengono considerate dal pazienti meno importanti e degne di nota. Regola generale nel lavoro con i mode del bambino è condurre il bambino in quello stesso mode. Il terapeuta e il bambino costruiscono insieme un quadro dei mode della persona, una sorta di squadra interna che il bambino deve conoscere per modificare il proprio comportamento e per comprendere quello che fino ad oggi è stato. Anche nel lavoro con i mode dei bambini centrale è il concetto di limited reparenting, cioè  andare a soddisfare, grazie alla relazione terapeutica, i bisogni che sono stati frustrati.

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Le strategie terapeutiche vengono presentate come una panoramica attraverso la visione di sedute videoregistrate e attraverso esercizi esperienziali: lavoro con disegni e fotografie; terapia del gioco basata sui mode; lavoro con racconti, marionette da dita e mani, metafore, lavoro con la sedia, immaginazione, presentazione visiva della “casa interiore”, flash card e compiti per casa. Tanto il materiale visto e tanta la possibilità di sperimentarsi nel ruolo del terapeuta e del cliente imparando ad utilizzare una terminologia declinata sui bambini e le sequenze di lavoro adatte ad età specifiche. Le simulate, che rendono sempre molto ricchi i workshop, rendendo possibile l’immergersi in un mondo emotivo proprio immaginando e sentendo la potenza che certi strumenti all’interno della cornice teorica della Schema Therapy hanno.

Una parte importante del workshop è stato il fornire linee guida per il lavoro con i genitori, Schema Coaching. I contenuti trattati sono stati le tipiche costellazioni dei mode genitoriali, flash card sul ciclo dei mode, indagine su schemi e mode parentali, implementazione pratica nel mode work svolto con i genitori (lavoro con la sedia, disegni). Diventa importante definire quali mode esistono e come vengono attivati dai comportamenti dei figli. Ritornare all’infanzia dell’individuo al fine di chiarire quali bisogni siano rimasti insoddisfatti nell’infanzia del genitore, considerare il tipo di infanzia che hanno avuto i genitori del nostro cliente, inclusi gli schemi che hanno avuto e che hanno tutt’ora.

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Sicuramente molto affascinata da tutto il materiale che il Dr. Loose ha portato per farci immergere nella sua modalità terapeutica, pupazzi, marionette, carte da gioco, fogli, colori e burattini rientro a casa con molte idee spunti e soprattutto con tanto materiale che posso praticamente utilizzare in terapia, e questo credo che sia il valore aggiunto di un buon workshop fare andare a casa i terapeuti con tanto materiale da mettere nella propria cassetta degli attrezzi.

Ripensando a questo interessante workshop mi vengono in mente due frasi tratte dal piccolo principe che in chiusura condivido con voi:

 

Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)

I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta.

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La persistenza dello stigma verso i condannati ingiustamente

 

Di Francesca Fregno

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ stato condotto un nuovo studio finalizzato a valutare lo stigma verso le persone ingiustamente condannate. Infatti le condanne possono essere annullate, ma il pregiudizio sociale rimane invariato e persiste.

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Gli errori giudiziari sono inquietantemente comuni. Infatti si stima che soltanto negli Stati Uniti oltre 1050 persone sono state condannati e successivamente assolte. E’ stato condotto un nuovo studio finalizzato a valutare lo stigma verso le persone ingiustamente condannate. Infatti le condanne possono essere annullate, ma il pregiudizio sociale rimane invariato e persiste.

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
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Kimberley Clow e Amy-maggio Leach hanno intervistato 86 studenti di psicologia in Canada che si sono interfacciati con 3 gruppi di persone. Il primo gruppo veniva rappresentato dalle persone che sono state ingiustamente condannate per un delitto;  il secondo gruppo da persone che sono state condannate per un crimine che  avevano effettivamente commesso; e il terzo gruppo da persone in generale.

Gli studenti hanno dimostrato atteggiamenti negativi nei confronti delle persone ingiustamente condannate, valutandole in modo simile ai delinquenti. Anche se gli studenti desideravano mantenere meno distanza sociale dall’ ingiustamente condannato a fronte del delinquente, hanno preferito avere più distanza dall’ ingiustamente condannato rispetto le persone in generale. E mentre gli studenti hanno espresso più pietà per le persone ingiustamente condannate, ciò non si è tradotto in un maggiore sostegno in termine di assistenza per quanto riguarda alloggi o reintegrazione lavorativa. In realtà, gli studenti erano più propensi a dare le spese  mensili e sostegno per le persone in generale, in alternativa all’ingiustamente condannato.

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Un individuo ingiustamente condannato dovrebbe essere considerato come qualsiasi altro cittadino non condannato“, affermano Clow e Leach. “I nostri risultati, tuttavia, suggeriscono che questo non si verifica, purtroppo le persone ingiustamente condannate non sono percepite come gli altri cittadini.”

Prendere atto di questi risultati è solo un primo timido passo verso una maggiore comprensione di questo problema. E ‘pericoloso generalizzare con fiducia da un campione di studenti, e non abbiamo imparato molto sul perché i partecipanti hanno stigmatizzato così duramente  il gruppo degli ingiustamente condannati. E’ possibile che gli studenti hanno tenuto una convinzione generale che le persone ingiustamente condannate sono probabilmente colpevoli di altri reati. O forse hanno creduto che le persone ingiustamente condannate sono moralmente contaminati da loro del tempo in prigione.

E’ interessante ricordare il caso Kirk Bloodsworth avvenuto nel 1993. Dopo quasi nove anni di carcere,  Bloodsworth è stato liberato grazie al test del DNA che ha dimostrato la sua innocenza a fronte delle accuse di aver stuprato e ucciso una bambina di nove anni.  Eppure, nonostante il suo rilascio, Bloodsworth continuava ad essere diffamato, trovando scarabocchi denigratorie (“assassino di bambini“) sul suo camion.

LEGGI:

 STIGMA – PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Sogno come attività programmabile – Psicologia & Psicoterapia

 

Il Sogno Programmabile - Lucio Sibilia - Psicologia Contemporanea Ed. Giunti

Segnaliamo questo interessante articolo del Prof. Lucio Sibilia scritto per Psicologia Contemporanea.

…Negli anni Novanta, Krakow e collaboratori (1993) pubblicarono i positivi risultati a lungo termine (30 mesi) di un trattamento cognitivo-comportamentale della sindrome da incubi in un’ampia casistica di pazienti, con un metodo di “pratica immaginativa” (imagery rehearsal) molto simile ai precedenti. Stavolta con uno studio controllato. Una casistica più recente è stata pubblicata da Germain e collaboratori (2004) per il trattamento degli incubi nei soggetti vittime di aggressioni sessuali e affetti da PTSD (Sindrome da Stress Post-Traumatico). In entrambi gli studi, gli incubi non solo si riducevano drasticamente, ma si osservava anche un miglioramento di altri parametri del sonno. Negli ultimi anni, nuovi studi hanno replicato questi effetti su altre popolazioni cliniche. Il metodo si basa sul concetto comportamentale di “prova pratica” (in inglese re-hearsal). Il soggetto viene istruito a comporre per iscritto in anticipo una descrizione di un sogno…

L’articolo completo potrete trovarlo sul numero di Luglio-Agosto di Psicologia Contemporanea

 

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ARTICOLO CONSIGLIATO: ANALISI DEI SOGNI: NON SOLO PSICOANALISI

 

Treatment for resistant Obsessive-Compulsive Disorder

Di Davide Coradeschi, Andrea Pozza e Davide Dèttore

Dipartimento di Psicologia, Università di Firenze

 

Intensive residential treatment for resistant Obsessive-Compulsive Disorder:

An effectiveness trial

 

– READ ENGLISH ARTICLES –  

Treatment for resistant Obsessive-Compulsive Disorder. -Immagine: © intheskies - Fotolia.comAn intensive CBT treatment can be defined as any time period up to three months in residential treatment. This  approach involves daily CBT sessions condensed over a period of several weeks. It typically offers at least 20 hours of treatment and psychological support per week.

Cognitive-Behavioural Therapy (CBT) by Exposure and Ritual Prevention (ERP) is the most effective treatment  for Obsessive-Compulsive Disorder (OCD) (Abramowitz, 1996). However, few people suffering from OCD receive CBT, mostly due to limited access (Mancebo et al., 2011).

A way to improve CBT access is to offer a time-concentrated treatment course. An intensive CBT treatment can be defined as any time period up to three months in residential treatment. This  approach involves daily CBT sessions condensed over a period of several weeks. It typically offers at least 20 hours of treatment and psychological support per week (Osgood-Hynes et al., 2003).

Research demonstrated that longer exposure results in increased habituation to anxiety-evoking stimuli and better outcome (Abramowitz, 1996).

Online Psychoterapy- a New Way to Give Care. Interview with Pim Cuijpers. - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Recommended: Online Psychoterapy- a New Way to Give Care. Interview with Pim Cuijpers

Intensive treatment might be suitable for those patients who have not responded to weekly outpatient sessions or to pharmacotherapy alone (treatment resistant patients). It might be useful for those who are geographically distant from the treatment centre; in addition when there is a lack of available specialized CBT service.

Despite important advantages of time-concentrated treatment, there is poor research on the effectiveness of this format of treatment for resistant OCD.

The aim of the current study was to examine the effectiveness of an intensive residential treatment for resistant OCD.

READ ON OBSESSIVE-COMPULSIVE DISORDER – OCD

The sample included 39 inpatients admitted between 2008 to 2012 to the Unit for Resistant Obsessive-Compulsive Disorder Treatment, Casa di Cura Poggio Sereno of Florence, Italy. Inpatients were eligible if they had a principal diagnosis of resistant OCD and were excluded if they were less than 16 years old, had past or current psychosis, alcohol or drug-addiction, organic disorders and mental retardation.

The mean age was 34 years and the sample was composed by 33% males. The Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) and Beck Depression Inventory (BDI-II) were used as outcome measures, which were administered at pre and post-treatment.

An individual ERP treatment was delivered to the inpatients for 2 hours in the morning and 2 hours in the afternoon for five days a week overall. The work during the first week aimed at providing inpatients a rationale for the two main components of the intervention, exposure and response prevention. Psycho-education was included to explain the processes involved in the aetiology and persistence of OCD. During the subsequent four weeks the behavioural treatment was delivered.

During the first week a fear hierarchy was constructed that listed a variety of situations the patient find distressing and avoids. During treatment weeks inpatients graduatedly and repeatedly were exposed to the anxiety-eliciting situations. The response prevention component involved the suppression of any safety behaviour that alleviate the discomfort produced by the obsessions. During the week-end homework of self-directed ERP were assigned to the patients.

The frequency of the inpatients who recovered was 42%, inpatients who improved were 28% and  those who did not change were 30%. Effect Size on Y-BOCS scores was 1.51.

Intensive format of ERP seemed to be an effective treatment strategy for symptom improvement of resistant OCD. This kind of treatment might enhance treatment compliance as patients can be supported for a longer period after they have underwent the exposure. This longer period of support can make it easier for the patient to expose themselves to anxiety-provoking situations with the knowledge that their taking risks will be supported.

Weekly outpatient treatment might fail for resistant OCD because compulsions can interfere with basic functioning so that a person is unable to engage in basic requirements. So much more assistance may be needed for an individual to participate in therapy. Some patients have minimal family or peer support, or have supports that reinforce symptoms by unintentionally accomodating the patient’s OCD requests (Oldfield et al., 2011). Intensive treatment may also facilitate progress monitoring, allowing clinicians to adjust the treatment plan as appropriate.

However, in our trial there was absence of an ERP spaced sessions arm to compare the relative efficacy of those format of treatment for resistant OCD. Moreover long-term follow-up measures were not used for evaluating the return of fear after the discharge from the clinic and the generalisation of treatment effects. Future randomized controlled trials are required to compare weekly and intensive treatments on follow up measures.

In conclusion, these findings evidence the importance of the intensity of treatment. This component could be an useful strategy for enhancing response in OCD patients who did not respond to standard weekly treatments. 

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REFERENCES:

 

About the authors: 

La terapia De Andrè – Intervista all’autore – Psicologia & Musica

La terapia De Andrè

Intervista a Gabriele Catania

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Terapia De Andrè - Intervista all'autoreQuesto progetto intende utilizzare l’opera e il pensiero di Fabrizio De Andrè in ambito psichiatrico per il raggiungimento di due obiettivi concreti: quello di favorire la diffusione empatica, attraverso il linguaggio della musica, del teatro e delle opere letterarie, dei concetti utili a contrastare i pregiudizi su tutte le forme di disagio psicologico e quello di intervenire nel processo di cura dei pazienti che soffrono di tale disagio.

Quando si tratta di disagio psichico non è sempre facile legittimare la sofferenza, in fondo con un mal di pancia si può stare a casa da lavoro… e con gli attacchi di panico, l’ansia, la depressione? Pacca sulla spalla e “passerà, non è niente, devi essere forte!”

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E’ questa la storia della gran parte dei nostri pazienti circondati da parenti e amici che fanno fatica a capire, a volte convinti che basti la Buona Volontà per guarire.

Il Dr. Gabriele Catania, psicoterapeuta presso l ‘Unità Operativa di Psichiatria dell’Ospedale Luigi Sacco dove dirige un Centro di Psicoterapia (N.O.Te.C.), da anni è impegnato nella “lotta allo stigma psichiatrico”.

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Fondatore e presidente dell’Associazione Amici della Mente Onlus, ha dato il via a una serie di iniziative culturali che hanno l’obiettivo di veicolare informazioni corrette in merito al disagio psichico. E lo fa anche con la musica, quella di De Andrè.

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Lo abbiamo intervistato per comprendere in cosa consiste il suo lavoro.

S.o.M. Con Amici della Mente ONLUS , l’Associazione Locanda Spettacolo e la scuola di musica “Cluster” ha dato il via al progetto Faber in Mente. Ci racconta in cosa consiste?

La Terapia De Andrè di Gabriele Catania (2013) - Recensione
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Da circa quattro anni, all’interno del Dipartimento di salute mentale dell’Ospedale L. Sacco di Milano,  in collaborazione con l’Associazione di volontariato “Amici della mente onlus” (www.amicidellamente.org), che opera nello stesso ospedale, è stato attivato un progetto denominato “Faber in Mente”.

Questo progetto, da me ideato e coordinato, intende utilizzare l’opera e il pensiero di Fabrizio De Andrè in ambito psichiatrico per il raggiungimento di due obiettivi concreti: quello di favorire la diffusione empatica, attraverso il linguaggio della musica, del teatro e delle opere letterarie, dei concetti utili a contrastare i pregiudizi su tutte le forme di disagio psicologico e quello di intervenire nel processo di cura dei pazienti che soffrono di tale disagio.

Mi piace ricordare che l’attività di lotta contro lo stigma sui disturbi psichici non è solo un intervento di tipo culturale ma anche e soprattutto di prevenzione secondaria del disagio mentale. È noto infatti come la disinformazione e l’ignoranza su tali disturbi porti molte persone a non curarsi o a curarsi male, con costi consistenti sia a livello individuale che collettivo.

Forte di questi argomenti, qualche anno fa, decisi di parlare del mio progetto alla Fondazione Fabrizio De Andrè. Il risultato fu che ci trovammo a condividere il convincimento che certamente Faber avrebbe apprezzato l’idea che il suo pensiero e la sua opera potesse essere utilizzata per provare a produrre un cambiamento concreto nella società. In quella occasione Dori Ghezzi mi ricordò una riflessione di suo marito:

Tutte le sere quando finisco il concerto desidererei rivolgermi alla gente e dire loro: tutto quello che avete ascoltato fino adesso è assolutamente falso, così come sono assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che mi hanno portato a scrivere queste cose e a cantarle. Ma con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro, e per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti e reali”.

Mi disse anche che stavano preparando un’antologia nella quale avrebbero raccolto tutte le esperienze attuate sul territorio nazionale che si proponevano tale scopo, e mi propose di scrivere un capitolo sul mio progetto che fu poi pubblicato nel maggio dell’anno scorso. Il libro, edito da Chiarelettere e curato da Elena Valdini, ha come titolo: “Ai bordi dell’infinito”.

Da allora grazie alla collaborazione e l’incoraggiamento della Fondazione, il progetto Faber in mente ha programmato e realizzato un numero sempre crescente di attività. Oltre alla realizzazione di spettacoli teatrali ( “Le stanze di Faber” realizzato dalla compagnia “Locanda spettacolo”) e musicali ( è in fase di produzione un Compact Disc con la collaborazione di Franz Di Cioccio dove verranno raccolte nove canzoni cantate dall’ ensemble “Faber in cluster”)  è stato avviato un programma di riabilitazione psichiatrica (dal titolo: “Tu prova ad avere un mondo nel cuore“)  presso una struttura semiresidenziale del nostro Dipartimento di Salute Mentale che utilizza le canzoni di De Andrè come mezzo per favorire lo sviluppo di un rapporto empatico dei pazienti con la loro sofferenza.

In tal modo si intende far superare la vergogna e la colpevolizzazione che purtroppo spesso appesantisce  la condizione dei nostri pazienti peggiorando significativamente la qualità della loro vita e frenando i progressi nella cura. Sono stati anche avviati diversi gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto che stanno aiutando pazienti e familiari a sviluppare una competenza assolutamente necessaria a chi vuole stabilire una relazione d’aiuto: la capacità di sospendere il giudizio sugli altri e su se stessi per imparare a comprendere e a comprendersi.

Un’abilità questa che Fabrizio De Andrè ha meravigliosamente contribuito a diffondere. È stato lui infatti a farci capire che si può comprendere  le ragioni di chi sbaglia, persino di chi vende la madre per tremila lire a un nano.

S.o.M. Da cosa è nata l’idea di utilizzare le canzoni di De Andrè per raccontare il disagio psichico?

Tutto accadde quando ascoltando la canzone di De Andrè “La ballata dell’amore cieco” (o della vanità) mi venne in mente, in modo del tutto inatteso, il caso di una mia giovane paziente anoressica che avevo in trattamento. Sulle prime rimasi abbastanza sorpreso: che cosa poteva entrarci quella canzone con la storia di un’anoressica? Poi invece mi accorsi che l’aspetto clinico che stavamo affrontando proprio in quel periodo della terapia con la paziente,  era contenuto in quella canzone. Infatti in essa si racconta la storia di un uomo innamorato che vive un rapporto complicato con la sua donna. Quest’ultima continua a fargli richieste emotivamente molto pesanti (come strappare il cuore di sua madre per darlo ai cani o addirittura uccidersi per lei) per essere ricambiato. Quasi come se quell’uomo dovesse costringersi a sacrifici estremi per meritarsi l’amore della sua innamorata. Un amore dunque basato su una precisa condizione: quella di non doverla deludere.

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Solo allora mi ricordai che anche la mia paziente si trovava in una situazione simile. Mi aveva detto che fin da bambina il rapporto affettivo con i suoi genitori era regolato da una condizione simile, una specie di contratto : “tu non ci deludi e noi apprezzeremo le tue fatiche ricambiandoti con il nostro affetto”.

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Lei non aveva una consapevolezza precisa di questo aspetto del suo problema, così decisi di farle ascoltare la canzone. Attraverso l’ascolto di quel brano, che non conosceva, quella giovane donna si identificò con il personaggio di De Andrè e potendosi distanziare dalla sua situazione la riconobbe più precisamente. Quello fu in passo importante per l’evoluzione del trattamento perché su quella consapevolezza, la paziente, riuscì gradualmente a rimodulare i suoi vissuti in senso funzionale. Decisiva fu l’individuazione di un costrutto che le permise di considerare le relazioni affettive da un punto di osservazione diverso da quello alla quale era stata abituata. Lei aveva inteso la relazione come condizionata da uno scambio; attraverso la riflessione suggerita da De Andrè, aveva invece capito che un rapporto affettivo autentico deve essere basato sull’ “amore a prescindere”.

In quella occasione mi ricordai che Eric Fromm nel suo “L’arte d’amare” aveva scritto a proposito dell’amore materno: “la madre ama suo figlio perché è la sua creatura non perché se lo merita”.

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Il concetto dell’amore a prescindere è diventato l’elemento centrale di una serie di attività promosse dall’associazione “Amici della mente onlus” e dal nostro dipartimento di salute mentale. Esso infatti si basa sulla capacità di “sospensione del giudizio” ed essendo questa una necessità ineludibile per stabilire una relazione d’aiuto efficace, abbiamo pensato di diffonderla. Sono nati così dei gruppi di auto muto aiuto organizzati sull’approfondimento dei questa abilità per imparare ad essere empatici con se stessi e con gli altri, ma anche un progetto di riabilitazione psichiatrica con i pazienti del centro diurno del nostro DSM.

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S.o.M. Nel suo ultimo libro “La terapia De Andrè” racconta nove casi clinici parafrasando alcuni dei testi delle canzoni del cantautore genovese. Qual è l’obiettivo clinico di questo lavoro? In che modo pensa che ciò possa agevolare il cambiamento in terapia e cosa intende per Terapia De Andrè?

Questo libro è stato scritto per perseguire gli stessi obiettivi del progetto “Faber in mente”: cercare di far comprendere il disagio psichico attraverso una consapevolezza empatica, l’unica capace di fare in modo che le informazioni si possano legare alla memoria attraverso un processo di partecipazione emotiva e così rimanerci a lungo.

Il libro è una raccolta di nove casi clinici nei quali sono state utilizzate delle canzoni di De Andrè per portare avanti gli obiettivi terapeutici. Il meccanismo utilizzato è quello del distanziamento: il paziente si identifica con il personaggio della canzone con il quale condivide una certa situazione di disagio emotivo, questo gli permette di distanziarsi dalla sua sofferenza e dai suoi elementi conflittuali, per poterla riconoscere più precisamente e più profondamente.

Nei nove capitoli le storie si sviluppano attraverso la sovrapposizione di elementi clinici ricavati dall’esperienza terapeutica e i tratti esistenziali dei personaggi raccontati da De Andrè. Così “La ballata dell’amore cieco (o della vanità)” diventa “La ballata dell’amore di vetro (o dell’anoressia)” e affronta il tema della necessità di essere amati a prescindere; “Un matto (dietro uno scemo c’è un villaggio)” diventa “Un matto fuori (dietro ogni stigma c’è una cultura)” per portare al centro della riflessione non solo il tema dello stigma psichiatrico ma anche il fatto che il vero problema della follia è la negazione del linguaggio del folle; “Canzone del padre” diventa “Canzone del padre depresso” e ci racconta dell’importanza di superare il conflitto con l’autorità/stato, come nel caso del personaggio di De Andrè, e con l’autorità/padre per il paziente; “Un medico” diventa “Un medico ossessivo” per farci scoprire come la nevosi ossessiva può essere la conseguenza del mancato rispetto delle regole divine e la galera quella del mancato rispetto delle regole sociali, cioè della legge. Così su questa falsa riga “La ballata di Marinella” diventa “La ballata di Giusy e Lalla”; “Il pescatore”Il pescatore Gino”; “La ballata degli impiccati”La ballata degli impanicati”; “Un chimico” “Un chimico paranoico” e “Il suonatore Jones” “Il suonatore di ricordi”.

S.o.M.  In che termini la diffusione della cultura psicologica può portare benefici dal punto di vista socio-sanitario? Il suo può essere considerato anche un lavoro di prevenzione?

 Come ho detto prima la lotta contro lo stigma e contro i pregiudizi relativi al disagio mentale è un importante obiettivo di prevenzione secondaria di tali disturbi. La prevenzione secondaria in psichiatria si prefigge infatti di favorire la diagnosi precoce delle patologie mentali, di offrire degli interventi realmente efficaci e di individuare le categorie a rischio. Spesso però questi obiettivi diventano difficili da raggiungere perché i mezzi solitamente utilizzati per diffondere queste informazioni non riescono a raggiungere tutte le fasce di popolazione e soprattutto non sempre sono comprese. Solitamente infatti i convegni, gli articoli sulle riviste specializzate o le trasmissioni televisive a carattere scientifico, usano linguaggi poco comprensibili e soprattutto forniscono informazioni “fredde”. Noi invece usando i canali dell’arte e utilizzando i pazienti o gli ex pazienti che sono gli esperti per esperienza del disagio psichico riusciamo a creare una comunicazione “emotiva” veicolata dall’empatia e pensiamo che in questo modo le informazioni vengano meglio comprese e rimangano meglio in memoria.

Il nostro progetto è nato proprio per questo, per favorire la diffusione di questi temi attraverso l’arte. Pensiamo infatti che sia utile sostenere tutte quelle iniziative che permettono la “contaminazione dei saperi”, così un artista può contribuire alla clinica e il clinico (compreso l’esperto per esperienza) può favorire l’arte.

 

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L’effetto dei rituali sui comportamenti di consumo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una recente ipotesi sembra suggerire che i comportamenti rituali siano in grado di incrementare il piacere derivante dal consumo di cibo e bevande.

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Fin da tempi antichi, i rituali hanno scandito gli eventi della nostra vita. Le cerimonie caratterizzano in modo particolare le occasioni di consumo quali possono essere le feste di compleanno accompagnate, ad esempio, dalla tipica torta con candeline da spegnere solo dopo aver espresso un bel desiderio.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Una recente ipotesi sembra suggerire che i comportamenti rituali, come quello appena descritto, siano in grado di incrementare il piacere derivante dal consumo di cibo e bevande. Vohs e colleghi hanno condotto quattro diversi studi, pubblicati on line dall’Università di Harvard, in cui hanno esplorato tale ipotesi.

Nel primo esperimento gli autori hanno indagato l’impatto del rituale sulle valutazioni soggettive riferite al consumo di cioccolato, comparato ad una condizione di controllo senza rituale. I risultati mostrano che i partecipanti che avevano svolto il rituale prima del consumo, percepivano il cioccolato come più buono e gustoso, assaporandolo meglio e più a lungo. 

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Il secondo studio evidenzia che i gesti casuali non hanno lo stesso potere benefico  ottenuto dai gesti orientati al rituale in relazione all’amplificazione della piacevolezza nel consumo di carote. Inoltre, un lasso di tempo tra il rituale e l’opportunità di consumare le carote ha come effetto un’amplificazione della piacevolezza, sia durante l’esperienza di consumo sia durante l’anticipazione della piacevolezza prima dell’effettivo consumo. In particolare, questo risultato supporta l’idea che i comportamenti ritualistici stimolino le azioni dirette ad uno scopo, quali quelle di consumo. 

Nel terzo esperimento è stato indagato se il coinvolgimento attivo nel rituale, ossia compierlo in prima persona piuttosto che assistervi passivamente come osservatore, fosse il punto cardine dell’effetto di amplificazione positiva dell’esperienza. Effettivamente, la semplice osservazione del rituale di preparazione di una limonata è risultato avere un effetto minore sulla piacevolezza dell’esperienza di consumo della stessa rispetto al prepararla in prima persona. Degno di nota é che questo risultato era indipendente dallo stato emotivo dei partecipanti in relazione alla condizione sperimentale.

Il quarto e ultimo studio fornisce un prova diretta dei meccanismi sottostanti il fenomeno descritto: i rituali producono un miglioramento dell’esperienza di consumo grazie ad un maggior coinvolgimento e ad un maggiore interesse intrinseco nell’attività stessa.

Quando le persone compiono un rituale, il loro interesse intrinseco aumenta e questo maggiore coinvolgimento personale a sua volta conduce ad un’amplificazione della piacevolezza dell’esperienza.

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – ALIMENTAZONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Terapia De Andrè di Gabriele Catania (2013) – Recensione

Recensione del Libro:

La terapia De Andrè.

Come comprendere il disagio psicologico attraverso le parole del grande cantautore

di Gabriele Catania.

Sperling and Kupfer

(2013)

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La Terapia De Andrè di Gabriele Catania (2013) - RecensioneOsservando come le storie di alcuni suoi pazienti presentavano analogie e parallelismi con quelle dei personaggi raccontati dal cantautore genovese, Catania ha notato che l’identificazione in questi personaggi poteva avere un utile effetto di distanziamento e individuazione di parti disfunzionali di sé.

Il grande cantautore Fabrizio De Andrè sosteneva che la canzone avesse il potere di “indicare delle strade da seguire, dei codici di comportamento” e che non limitasse quindi la propria funzione al semplice intrattenimento. Nel lavoro psicologico con le canzoni di Faber, lo psicoterapeuta Gabriele Catania è partito da questo presupposto, insieme al fatto che la musica ha aiutato intere generazioni ad essere più introspettive, a scoprire nuove parti di sé.

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Osservando che le storie di alcuni suoi pazienti presentavano analogie e parallelismi con quelle dei personaggi raccontati dal cantautore genovese, Catania ha notato che l’identificazione in questi personaggi poteva avere un utile effetto di distanziamento e individuazione di parti disfunzionali di sé.

De Andrè d’altra parte è tra i cantautori italiani quello che più ha raccontato le storie degli “ultimi”, degli emarginati, descrivendo personaggi di grande complessità psicologica. In questo senso, le canzoni di Faber descrivono il disagio psichico in modo non giudicante, assumendo un effetto antistigma e possono essere usate nei gruppi psicoeducativi coi famigliari dei pazienti o in altri progetti di sensibilizzazione diretti alla popolazione.

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Ogni capitolo del libro racconta la storia di una persona che l’autore ha incontrato in terapia e di come i brani di De Andrè abbiano trovato spazio nel lavoro psicoterapico. Colpisce che talvolta sia stato lo stesso terapeuta a proporli e talvolta sia stato il paziente a portarli spontaneamente.

Nella carrellata di incontri troviamo la paziente anoressica, la cui storia ha un parallelismo con La ballata dell’amore cieco (o della vanità), in cui un amore di facciata e “a condizione” porta con sé una forte valenza distruttiva. C’è Il matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) che condivide con un altro paziente la difficoltà di comunicare al mondo la propria ricchezza interiore.

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Diverse canzoni fanno riferimento al problema del conflitto con il padre-autorità come Il Bombarolo, Sogno numero due, Al ballo mascherato e possono toccare le corde interne di tanti. C’è il medico ossessivo che scopre che può esistere “la saggezza nell’errore” ascoltando la canzone Rimini, mentre Un giudice relativizza il nostro bisogno di onnipotenza divina. C’è una donna che soffre per amore che si identifica nel “re senza corona e senza scorta” de La canzone di Marinella, normalizzando un po’ la sua follia di non rassegnarsi all’amore perduto.

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La ballata degli impiccati diventa “degli impanicati”, in analogia con una sofferenza soffocante e spesso incompresa dagli altri. Il pescatore è una metafora della solitudine come viaggio catartico e maturativo alla scoperta di sé. La canzone Un chimico contiene riferimenti alla paura d’amare e alla difficoltà di tollerare l’imprevedibilità dei sentimenti.

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In generale le canzoni individuate da Catania sono ricche di questioni esistenziali che possiamo ritrovare in un percorso psicoterapico.

Credo che l’uso dello strumento canzone nelle terapie psicologiche meriti ulteriori approfondimenti e studi, che possano portare a definire una vera metodologia terapeutica. Capire ad esempio quali siano le differenze tra ascoltare la canzone in seduta con il paziente o darla come compito da ascoltare a casa  (in quali casi optare per una soluzione o per l’altra), definire il “dosaggio” di ascolto (si ottengono effetti diversi per ascolti ripetuti?), sono solo alcune delle domande da cui partire. Per ora l’unica certezza è che non sono solo canzonette!

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 MUSICA – LETTERATURA – STIGMA – IN TERAPIA

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APPROFONDIMENTI:

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Autismo: chi sono le persone Asperger? Risponde il prof Tony Attwood

di Lidia Falzone

Autismo: chi sono le persone Asperger?

Risponde il prof. Tony Attwood

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Tony AttwoodIl 4 ed il 5 Giugno si è svolta a Roma, nella Facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza” la prima conferenza italiana di Tony Attwood, psicologo clinico inglese, di scuola cognitivo-comportamentale, che esercita a Brisbane, in Australia. Negli ultimi 30 anni si è specializzato nel trattamento delle persone con sindrome di Asperger, con autismo e condizioni ad esso correlate.

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L’appuntamento di due giorni è stato organizzato da Spazio Asperger, “associazione per le persone nello spettro autistico ed alto funzionamento, neurodiverse, le loro famiglie e i professionisti”.

Nel corso della conferenza, il prof. Attwood ha parlato di autismo e diagnosi precoce illustrando i criteri più recenti per la diagnosi indicati dal DSM-5 e gli strumenti di screening disegnati per il riconoscimento della sindrome di Asperger.

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Il momento della diagnosi e la comunicazione della stessa rappresentano infatti, per la persona con sindrome di Asperger e per i suoi familiari, uno dei nodi cruciali per affrontare al meglio la “neurodiversità”.

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Il prof. Attwood ha fornito esempi chiari e concreti al proprio pubblico, trattando con parole semplici significati complessi.

Ha affrontato i temi relativi alla vita pratica, partendo dagli interessi speciali e dalla gestione delle emozioni fino ad arrivare ai concetti più articolati di amicizia, sessualità, bullismo ed inserimento lavorativo.

Attraverso l’esame dettagliato di ogni fase di vita della persona con sindrome di Asperger, il prof. Attwood ha accompagnato professionisti, genitori e insegnanti presenti lungo un percorso di acquisizione di maggior consapevolezza e conoscenza delle difficoltà e delle ricchezze della “neurodiversità”.

Entrambe le giornate si sono concluse con la testimonianza di alcune persone con sindrome di Asperger, che hanno condiviso con il pubblico la loro storia di vita e le loro esperienze, apportando alla conferenza un grande valore aggiunto.

La conferenza del prof. Attwood in Italia è stata, inoltre, un’occasione per inaugurare la collana “Infinite Diversità” dedicata all’autismo, nata dalla collaborazione di Spazio Asperger ed Armando Editore. La collana è diretta dal dott. Moscone, psicologo di indirizzo cognitivo comportamentale e fondatore di Spazio Asperger; questo nuovo progetto si propone di diffondere la conoscenza della sindrome di Asperger, dell’autismo e di altre forme di diversità ancora poco note dando rilievo all’educazione cognitiva, affettiva, e comportamentale.

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Leggi le testimonianze delle persone asperger che hanno parlato durante la conferenza:

RASSEGNA STAMPA:

Autismo e abilità sociali: deficit nel sistema emotivo-motivazionale

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo la teoria della motivazione sociale, sarebbe un deficit nel sistema emotivo-motivazionale ad impedire al soggetto con ASD di impegnarsi attivamente in una conversazione.

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Gli individui con un disturbo dello spettro autistico (ASD) spesso mostrano una scarsa sensibilità alla voce umana.

Questo aspetto deficitario potrebbe avere un ruolo chiave nelle diminuite abilità comunicative che caratterizzano tale popolazione. Secondo la teoria della motivazione sociale, sarebbe un deficit nel sistema emotivo-motivazionale ad impedire al soggetto con ASD di impegnarsi attivamente in una conversazione.

L' Autismo Fisiologico. L'intervista alla Dr.ssa Di Biagio. - Immagine: © wladimirowich - Fotolia.com
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Uno studio, pubblicato recentemente su PNAS, conferma questa ipotesi. Abrams e colleghi (2013) hanno infatti indagato le connessioni tra le aree coinvolte nella percezione della voce umana (solco temporale superiore posteriore o pSTS) e altre regioni cerebrali. Attraverso l’utilizzo della Risonanza Magnetica Funzionale in stato di riposo (resting-state fMRI), gli Autori hanno confrontato il funzionamento cerebrale di 20 bambini con ASD e di 19 bambini con sviluppo nella norma.

 

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In particolare, lo studio si è focalizzato su soggetti con una forma di autismo ad alto funzionamento, ossia con QI, abilità di lettura e di scrittura nella norma, ma con specifiche difficoltà nel mantenere attivamente una conversazione e nel comprendere i cues emotivi nella voce dell’interlocutore.

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Si è visto che i soggetti con ASD mostravano un evidente pattern di ipoconnettività dell’area pSTS dell’emisfero sinistro con il nucleo accumbens e l’area tegmentale ventrale, strutture facenti parte del sistema dopaminergico di reward. Inoltre, la corteccia pSTS dell’emisfero destro, specializzata nell’analisi dei cues vocali quali intonazione e prosodia, presentava connessioni povere con l’amigdala e la corteccia orbitofrontale, che processano i cues emozionali e l’apprendimento in relazione ad essi.

Infine, più scarsa era la connessione tra queste aree, più gravi erano i deficit di comunicazione dei soggetti.  Di fatti, i ricercatori erano in grado di predire i punteggi dei bambini alla sottoscala verbale di un test standard sulla gravità dell’autismo in base al grado di deficit nelle connessioni tra queste aree cerebrali.

I risultati suggeriscono che una povera connessione tra le aree deputate alla percezione della voce umana e le strutture coinvolte nel sistema emozionale e di reward possa inficiare l’abilità di questi soggetti di sperimentare il dialogo con l’altro come uno stimolo piacevole. Questo, a sua volta, agisce negativamente sullo sviluppo del linguaggio e delle abilità sociali, così come ipotizzato dalla teoria della motivazione sociale. 

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DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – LINGUAGGIO & COMINICAZIONE –  NEUROPSICOLOGIA – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La Scala di Valutazione del Benessere (SVB) – Partecipa alla Ricerca!

 

 

La Scala di Valutazione del Benessere (SVB) - Partecipa alla Ricerca!. -Immagine:© pixel_dreams - Fotolia.com

Con l’obiettivo di valutare il benessere Scarinci e Lorenzini hanno messo a punto la Scala di Valutazione del Benessere (SVB) (Lorenzini, Scarinci, 2013), già sottoposta a un primo studio di validazione.

Questa ulteriore ricerca ha l’obiettivo di verificare l’affidabilità e la validità della versione definitiva dello strumento.

 

Sempre più spesso viene rivolta ai professionisti della salute mentale una richiesta di aiuto per promuovere e incrementare il proprio benessere sia da persone che intrattengono una sofferenza psicopatologica ma che non si accontentano

della semplice risoluzione dei sintomi sia da persone che non presentano disagi specifici ma non sono pienamente soddisfatti

La Scala di Valutazione del Benessere - Ricerca - State of Mind - Immagine: © ultramarin - Fotolia.com
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del loro stare al mondo.

 

Numerose ricerche e le principali indicazioni fornite dalle neuroscienze attestano che gli ingredienti essenziali per il raggiungimento del benessere sono il bisogno di significato e di relazionalità, correlati ad una dimensione di trascendenza, di consapevolezza e di accettazione della propria condizione.

 

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Con l’obiettivo di valutare il benessere Scarinci e Lorenzini hanno messo a punto la Scala di Valutazione del Benessere (SVB) (Lorenzini, Scarinci, 2013), già sottoposta a un primo studio di validazione.

 

Questa ulteriore ricerca ha l’obiettivo di verificare l’affidabilità e la validità della versione definitiva dello strumento. A questo scopo la versione preliminare dello strumento è stata messa a confronto con Psychological Well-Being Scale di Carol Riff e altri strumenti capaci di identificare tipologia e severità della sofferenza psicologica.

 

Qui di seguito il questionario per chi desiderasse contribuire alla ricerca compilandolo in forma anonima.

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PARTECIPA  ALLA RICERCA!

Intervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne

Riconoscere le menzogne

Intervista a Mark Frank

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STATE OF MIND: Sono qui con il Dott. Mark Frank, sono un po’ nervosa e in ansia e non posso fare finta di essere rilassata perché è il più grande esperto nel rilevare le bugie, quindi… [sono fregata!]

DR. MARK FRANK: Hai appena mentito, Valentina!

SoM.: Oh no! … (è vero!) [in effetti passerò tutta l’intervista cercando di mostrami rilassata fallendo miseramente]

I nostri lettori sono principalmente psicologi e psicoterapeuti. Lei lavora molto con agenzie investigative, poliziotti, etc. Io credo però che le sue ricerche possano essere molto importanti anche nel campo della psicoterapia perché anche in psicoterapia è molto importante essere in grado di riconoscere le menzogne. Quindi, quale ritiene siano le implicazioni della sua ricerca nel campo della psicoterapia?

M. F.: Questa è davvero una bella domanda. Penso che il discorso si possa articolare su più livelli.

Un primo livello riguarda come i pazienti elaborano le informazioni che ricevono dal proprio psichiatra.

Molte problematiche emergono in caso di somministrazione di farmaci, quando i pazienti cercano di ottenere farmaci di cui magari non hanno bisogno, ma che vogliono assumere.

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Un altro aspetto ha a che fare con la necessità per lo psichiatra di riconoscere pazienti potenzialmente pericolosi e cercare di determinare se la minaccia sia reale o se la persona in realtà non sia veramente pericolosa o addirittura se porti con sé un’arma. A tal proposito ci sono numerose tecniche su cui fare affidamento e tecniche di osservazione che riguardano la comunicazione non verbale che vengono utilizzate proprio per identificare quali sono alcuni di questi fattori.

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Ritengo inoltre che gli psichiatri debbano riconoscere che non si limitano soltanto a leggere i comportamenti, ma che sono anche loro stessi generatori di comportamento. È possibile che lo psichiatra [ma leggi anche terapeuta] crei degli stili di comportamento che possano produrre in lui delle reazioni che potrebbero indurlo in errore nel valutare, per esempio, se con quel paziente sta realmente procedendo bene, se è davvero pericoloso o se è davvero a rischio suicidario… Tutte queste considerazioni, tenere a mente che non si è solamente dei lettori di comportamento, ma anche dei generatori di comportamento, permettono di rendere la conversazione più agevole…e quando ciò avviene e si costruisce un buon rapporto e si incomincia a parlare, si ottengono migliori informazioni e naturalmente lo psichiatra può effettuare una migliore valutazione.

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SoM: Ha mai tenuto corsi di training per psichiatri o psicologi?

M.F.: In un certo qual modo sì. A volte nei gruppi per cui faccio formazione ci sono psicologi, psichiatri, forze dell’ordine, e altre figure professionali…quindi direi sì, in gruppi misti. Qualche anno fa mi è capitato, sì.

SoM.: Su cosa focalizzerebbe la formazione se dovesse aver come target degli psicologi? Gli argomenti trattati sarebbero gli stessi affrontati durante questi 2 giorni di seminario?

M.F.: I temi trattati non riguarderebbero più di tanto il tema della menzogna, bensì come i pazienti reagiscono a ciò che il terapeuta sta cercando di fare. Quando si suggerisce un determinato programma terapeutico, quanto sono aperti a ciò che viene proposto? O stanno rifiutando quanto viene loro proposto nonostante stiano dicendo “Ok, ci proverò”? Hanno realmente intenzione di provarci o lo stanno solamente dicendo per sbarazzarsi del terapeuta?

SoM: Eh sì, il problema della compliance al trattamento…

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M.F.: Un altro tema riguarda il fatto che i pazienti possono dare risposte vaghe che sembrano delle buona risposte; per esempio alla domanda “Come sta andando con i nuovi farmaci che Le ho prescritto?” possono rispondere “Oh, sì, bene”. Ok, ma quanto bene? Quanto male? C’è altro che vorremmo sapere? Bisogna essere pronti a fare ulteriori domande, ma ciò dipende da come il paziente dice “Sì, bene”, che ci indica se il paziente sta veramente bene, se ci sono dei problemi, se ha difficoltà a tenere il passo con il programma terapeutico, etc.

Quindi il lavoro si focalizzerebbe più sull’aiutare a prestare attenzione a come i pazienti reagiscono a ciò che cerchiamo di fare.

SoM: Beh, è molto interessante tutto ciò! Quali sono invece le Sue future linee di ricerca?

M.F.: Beh, in realtà ho in essere diverse linee di ricerca.

Una riguarda il cercare di capire come le persone giudicano l’inganno…buono o cattivo.

Un’altra linea di ricerca si occupa di comprendere che cosa effettivamente succede dal punto di vista comportamentale e in quale contesto.

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 Per esempio, se le persone si alzano e camminano intorno versus se stanno sedute versus altri possibili contesti…insomma, quali sono gli indizi comportamentali e quali sono i modi migliori per misurarli. Perché uno dei problemi che si riscontrano quando si conduce questo tipo di ricerche è che è necessario tantissimo tempo per effettuare una codifica FACS (Facial Action Coding System): a volte servono fino a due-tre ore per codificare un solo minuto di comportamento.

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Ora abbiamo a disposizione degli strumenti tecnologici, un software che legge alcuni elementi facciali e che stiamo cercando di perfezionare in modo da poterlo utilizzare come se fosse un codificatore indipendente che un giorno sarà in grado di fare codifiche complete. Ma c’è il rovescio della medaglia: qualora il software diventi aperto, sarà disponibile per tutti e le persone che non si prenderanno più del tempo per studiare come esattamente funziona il volto useranno il software e cominceranno a fare ogni sorta di insolite affermazioni sul viso e questo sarà un problema; ogni cosa ha i suoi pro e le sue conseguenze.

SoM: Se ripensa alla sua carriera di ricercatore, qual è stato il risultato più sorprendente che ha trovato? Qualcosa che proprio non si aspettava di trovare…

M.F.: Beh, una delle cose che stanno succedendo è che stiamo scoprendo che inganno e ostilità, che sono state fino ad ora due linee di ricerca separate, in realtà vanno un po’ insieme. Abbiamo visto che la ricerca sulle emozioni, in riferimento a cosa succede quando si mente, è molto importante riguardo al tema della violenza nel predire chi potrebbe diventare violento. Durante gli studi che stavamo conducendo ad un certo punto abbiamo visto che le persone quando mentivano a volte mostravano elementi quali disprezzo e disgusto… e non riuscivamo a spiegarci la presenza di questi due elementi perché in quegli studi il compito assegnato consisteva nel rubare a delle persone! Così abbiamo realizzato che parte si riferiva al mentire e parte aveva a che fare con l’ostilità, e così ora due linee di ricerca che prima ritenevo fossero separate – menzogna ed ostilità – sembrano invece far parte di processi simili. Questo è stato piuttosto eccezionale, il risultato più sorprendente!

Un’altra cosa sorprendente è che all’inizio dei nostri studi, ogni volta che indagavo il ruolo delle emozioni nell’inganno e riguardavo le videoregistrazioni, rimanevo inizialmente sempre deluso, pensavo: “mmm…non sembra esserci nulla!”. Poi riguardavo i video a rallentatore, frame by frame, e, oh mio Dio, c’era così tanto! Nell’ultimo studio abbiamo trovato qualcosa come…non ricordo precisamente i numeri…ma circa il 40% di emozioni negative che tradiscono un bugiardo, che durano meno di un secondo! Ecco perché è facile perderle, ma ora ovviamente dopo anni e anni a guardare filmati, dopo il training sulle micro-espressioni facciali e altro ancora, riesco a vederle molto più velocemente, ma ricordo nei primi anni novanta, con il Dr. Ekman, stoppavo i filmati e dicevo “mmm…non c’è niente”, poi cominciavo con la codifica e…”Oh mio Dio, wow!!

L’infelicità è nell’occhio dello spettatore. - Immagine: © Delphimages - Fotolia.com.
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SoM: Diversi studi mostrano che se si assume un’espressione emotiva con il volto, dopo un po’ di tempo si esperisce realmente quella emozione. Questo funziona solamente se l’espressione emotiva viene assunta correttamente? Voglio dire, se io fingo un sorriso, e quindi non muovo sia i muscoli della bocca che i muscoli degli occhi [come avviene invece nel sorriso autentico, dove il muscolo zigomatico maggiore dell’occhio si attiva involontariamente], ma solo quelli della bocca, non posso provare felicità, giusto?

M.F..: Esatto

SoM: Questo come può incidere sulla capacità di nascondere un’emozione con un’altra?

M.F.: Quello che intendi è se stai provando un’emozione…

SoM: Sì, e ne fingo un’altra esprimendola fisicamente in maniera corretta, cosa succede?

M.F.: Per esempio, sei arrabbiata ma sorridi per apparire felice, se assumi la posa emotiva in maniera corretta puoi sovrascrivere la rabbia? Non sono proprio sicuro di come la scienza si esprima su ciò, ma se dovessi dare la mia opinione direi di sì, ma non ne sono sicuro al 100%, questa è solo una mia speculazione.

SoM: Pensa che le persone possano imparare a mentire?  So che Lei non insegna a mentire…

M.F.: No, infatti. Noi siamo degli acchiappa-bugiardi, non dei creatori di bugiardi. Il mondo ne ha già tanti di bugiardi, non c’è bisogno di trovarne altri.

SoM: Ma è solo una questione di quanto gli altri sono bravi a riconoscere una bugia? Voglio dire, se la passo liscia è solo perché chi ho di fronte non è bravo a riconoscere gli indizi di menzogna?

M.F.: Le persone variano molto nella loro capacità di identificare le menzogne. Questo lo si vede molto nelle ricerche che facciamo dove si trovano persone che se la cavano così così e altre se la cavano meglio e questo fa salire la media del grado di accuratezza al 54%.

Per quanto riguarda i bugiardi, beh, tu puoi dire ad una persona che cosa fare, ma la domanda è: è in grado di farlo? Cioè, io posso dirti: “Valentina, non preoccuparti, rilassati!” e tu potresti dire: “Oh, ok!”, ma se fossimo in grado di farlo non avremmo bisogno degli psicologi! “Sono depresso”Dovresti essere felice!” “Ah, ok… Aspetta un attimo…DING!! Hey, sono felice, fantastico!”. La verità è che non possiamo fare così con le nostre emozioni! È come quando devi fare un’importante presentazione e il tuo amico ti dice di rilassarti…”Oh, ma dai, non ci avevo pensato!”. Ovvio che ci avevi pensato, ma non sei in grado di farlo! In particolare quando si mente ad altri esseri umani, il nostro cervello deve rispondere a tre dimensioni: persone, oggetti ed ambiente. Certo, potrei mostrarti delle schede con delle indicazioni, potresti allenarti nella tua camera davanti ad uno specchio, ma quando dovrai stare di fronte per la prima volta ad un altro essere umano che ti scruta? Questa è una cosa per la quale non si può fare pratica e ciò rende le cose più difficili. Però ci sono delle cose che si possono fare. Alcuni studi hanno mostrato che se insegni a certi soggetti alcuni dei criteri di funzionamento della memoria e si insegna loro a parlare in un certo modo, alcuni possono fare qualcosa per riuscire a nascondere le proprie bugie. Quindi alcuni possono essere addestrati, ma non tutti.

SoM: Cosa ne pensa delle serie tv Lie to me e Criminal Minds. Sono accurate?  

M.F.: Tutti gli show televisivi sono costituiti da un misto di fatti e fiction. Lie to me è il migliore del gruppo. Parte del lavoro è stato fatto con il Dr. Ekman visto che il protagonista principale è chiaramente ispirato al Dr. Ekman. Direi che è accurato per l’80%, il restante 20% è…beh…fantasia. Questo è un indice di accuratezza altissimo per uno show tv, gli altri di solito si attestano sul 30-40%. Certo il Dr. Ekman era il consulente scientifico dello show e sicuramente ciò ha contribuito a renderlo migliore. Però lo scopo è sempre quello di intrattenere il pubblico: il protagonista ha sempre ragione, fa le sue valutazioni in una frazione di secondo…nella vita reale non funziona così.

Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

SoM: Quanto le Sue abilità nel riconoscere la menzogna influenzano i Suoi rapporti con gli altri? Perché non credo che sia un’abilità che si può spegnere a comando…

 M.F.: mah, io tendo ad essere una persona molto fiduciosa. Se noto delle cose, tendo a dirmi che le ho male interpretate. Per esempio potrei pensare “Oh, Valentina mi ha mostrato paura quando mi ha detto che non ne stava provando, ma probabilmente è solo nervosa, sembra una persona così carina, probabilmente è sotto stress” e questo è qualcosa che influenza il processo di valutazione. Infatti ci sono due cose di cui hai bisogno: la prima è rilevare indizi, ma la seconda è interpretarli in maniera corretta perché nessun segno di per sé garantisce che la persona sta mentendo. Ci sono segnali che indicano che una persona ci sta pensando su due piedi, segnali che indicano che la persona sta richiamando alla memoria un fatto che non ha vissuto in prima persona, ci sono segnali che indicano che sta provando emozioni, ma ciò che si deve fare è interpretare perché quella persona sta provando quella emozione, perché ci devono pensare su per rispondere ad una domanda la cui risposta dovrebbe essere immediata come sapere qual è il loro nome…

SoM: Lei ha lavorato con Paul Ekman. Ha mai provando a mentirgli?

M.F.:  ahah, no! Ehehehe, sarebbe stato un grave errore!!!!

SoM: Le è piaciuta l’intervista?

M.F.: Intendi la tua intervista?

SoM: Sì

M.F.: Sì, moltissimo!

SoM: Mi sta mentendo?

M.F.: NO!

SoM: NO?! [Facendo sì con la testa, come i bugiardi che negano a parole, ma affermano inconsciamente con il proprio corpo]

M.F.: Ahahahaha! Avrei dovuto rispondere così!! Scusami!

SoM: Allora rifacciamo! Mi sta mentendo?

M.F.: Ehm…mmm…[ci pensa un po’ su] …[scuote la testa] …ehm …sì, sì

SoM: Ahahah ok!

M.F.: Sono molto stanco, ma hai fatto delle belle domande ed è stato molto piacevole.

 

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Il potere delle teorie naives: le influenze sul peso corporeo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le credenze delle persone su ciò che può essere dannoso per lo sviluppo di problemi legati al peso e, più in generale, di obesità,  influiscono in modo significativo sulle scelte alimentari di ogni giorno e, quindi, sul peso corporeo. 

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Una nuova ricerca messa a punto da Brent McFerran (Ross School of Business – University of Michigan) e Anirban Mukhopadhyay (Hong Kong University of Science and Technology) ha mostrato il potere delle credenze personali nell’influenzare il proprio comportamento alimentare e quindi la massa corporea (BMI).

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Il panorama scientifico di riferimento si rifà all’esigenza di comprendere e gestire il divagante fenomeno dell’obesità, ampiamente diffuso non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi. Lo studio, pubblicato in questi giorni su Psychological Science, ha inizialmente indagato le opinioni personali di ogni partecipante circa le cause primarie dell’obesità. Tra i fattori principali, i soggetti identificarono, nella maggior parte dei casi, un’alimentazione eccessiva e l’assenza di un adeguato esercizio fisico, seguiti, con un elevato distacco, da fattori genetici.

 

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Con l’obiettivo di approfondire i dato ottenuti, i due ricercatori intrapresero una serie di studi in cinque Paesi di tre contenti diversi. In Francia, Corea e Stati Uniti, i risultati confermarono il trend: la dieta e l’esercizio fisico vennero identificate come cause principali di problemi legati al peso. Inoltre, le persone che valutarono l’alimentazione quale causa primaria dell’obesità, avevano un peso corporeo (BMI) inferiore a quelli che sostennero invece l’ipotesi relativa all’esercizio fisico.

E soprattutto, queste credenze avevano l’effetto di incidere sul peso corporeo delle persone in modo largamente superiore ad altri fattori, tra cui lo status socio-economico, l’età, l’educazione, varie condizioni mediche e le abitudini di sonno. A partire da queste scoperte, i due ricercatori cercarono di testare l’ipotesi per cui il collegamento tra le credenze dei soggetti e l’indice di massa corporeo avesse a che fare con la quantità di cibo ingerito quotidianamente.

 

Uno studio su un campione di soggetti canadesi e cinesi,  infatti, mostrò le differenze  nelle abitudini alimentari tra coloro che consideravano la dieta come maggior responsabile di problemi di peso, o viceversa, quelli che valutarono il mancato esercizio fisico come principale fattore. Coloro che davano maggiore importanza all’attività fisica, mangiavano molto più cioccolato di quelli dell’altro gruppo.  Questi risultati mostrano, infatti, che le nostre credenze possano influenzare largamente le nostre scelte alimentari, e, quindi, la massa corporea.

Appare evidente che una possibile soluzione, all’interno di quest’ambito, potrebbe essere quella di agire sulle credenze delle persone al fine di modificare le loro scelte alimentare e controllare, di conseguenza, il problema del sovrappeso. Anziché concentrarsi sui comportamenti alimentari in sé, infatti, si dovrebbe dirigere l’attenzione verso ciò che le persone pensano, al fine di gestire in modo più efficace un’emergenza internazionale come l’obesità. 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Fenomenologia del giro nel parco

Fenomenologia del giro nel parco. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comFenomenologia del giro nel parco..Una mattina ero in auto con un amico psicoterapeuta di fresco e mi è squillato il cellulare. Era una mia anziana paziente molto ansiosa, che nei momenti di acuzie del disagio mi chiamava per sfogarsi.

In realtà le telefonate avevano semplicemente una funzione di contenimento, perché lei sapeva che i cambiamenti della terapia farmacologica li decidevamo solo durante i nostri incontri mensili e non al telefono.

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Il copione consisteva nel lasciare giustamente che si lamentasse, nel mostrare un atteggiamento empatico, infondendo un po’ di speranza e rimandando gli approfondimenti del caso all’incontro successivo. Quella mattina la signora era davvero inconsolabile e mi chiedeva in continuazione cosa avrebbe potuto fare per placare la propria angoscia.

Guardi signora, vada a fare un bel giro nel parco. Sì ha capito bene…un giro nel parco.

A queste mie parole pronunciate, lo giuro, senza aggressività (niente a che vedere, per intenderci, con i “vaffa” grilleschi), né menefreghismo, il mio collega psicoterapeuta è trasalito. La sua espressione faceva trasparire un pensiero del tipo “ma come, hai studiato quindici anni medicina, psichiatria e psicoterapia, e mi vieni fuori con un consiglio così, da uomo della strada?”.

Ho abbozzato una pietosa difesa sostenendo che il giro nel parco sarebbe potuto benissimo rientrare nelle attività piacevoli da inserire nella giornata, nell’ambito di una strategia psicoterapeutica cognitivo comportamentale, ma lui ha scosso la testa, infierendo un po’ sul proverbiale cinismo degli psichiatri. Da allora la battuta del giro nel parco è diventata un tormentone, che il mio amico ripete tutte le volte che mi vede parlare al telefono.

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D’altra parte che c’è di male in un bel giro in uno spazio verde? Aria aperta, sole, erba, laghetti con papere, qualcuno che fa jogging, il pensionato che porta a spasso il cane, etc. E tutto gratis!

Anche la letteratura internazionale conferma poi l’importanza dell’attività fisica, in particolare quella outdoor, nella cura dei disturbi ansioso-depressivi (Stanton e Reaburn, 2013).

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Qualche giorno fa avevo del tempo libero e mi sentivo un po’ turbato, così ho calzato le scarpe da ginnastica e mi sono autoprescritto un bel giro nel parco vicino a casa mia, anche per capire se ciò che avevo consigliato, ispirato dal buon senso, potesse in realtà avere una qualche valenza terapeutica.

Molteplici strade per la Cura dell' Ansia. - Immagine: © Mark Abercrombie - Fotolia.com
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Ho iniziato a camminare facendo dei lunghi respiri e cercando il più possibile di concentrarmi sui miei passi, come una volta mi avevano insegnato ad un corso di meditazione. Prima del quarto passo la mia attenzione è stata attirata dai due soggetti che mi venivano incontro, camminando abbracciati, barcollando un po’ e canticchiando. Entrambi di sesso maschile, sui quarant’anni, accento slavo, odore di vodka che si avvertiva da almeno cinque metri. Erano le quattro di un venerdì pomeriggio, orario insolito per una sbronza così clamorosa, a meno che non ci trovassimo in un racconto di Cechov.

Devo stare attento a consigliare il giro nel parco a pazienti con problemi di dipendenza, ho pensato, e ho proseguito verso il laghetto, una grande buca piena d’acqua marroncina, che pullulava di pescatori attrezzatissimi di canne, retini, lenze, galleggianti e esche ai gusti assortiti. Farei certamente meglio ad astenermi da certi giudizi, ma davvero fatico a capire come possa una persona passare il proprio tempo gettando un amo in una pozzanghera di città, per pescare dei poveri pesci prigionieri. Ho intervistato uno degli “sportivi” che mi ha raccontato che vengono usati degli ami speciali non dannosi per il pesce, che poi viene rigettato in acqua. E il sadico gioco ricomincia.

In preda alla tristezza, mi sono spinto verso la zona del laghetto colonizzato dalle papere e dagli anatroccoli, sperando in un effetto pet-therapy, che in realtà non si è fatto attendere. Sono stato assalito da un senso di tenerezza, di compassione e di bontà universale, finchè una vecchietta, evidentemente colpita dalla mia commozione, non ha pensato di raccontarmi la storia delle tartarughe con la testa rossa. Questi simpatici animaletti, che di solito vengono gettati nel lago da cittadini che vogliono sbarazzarsene, sono bestie carnivore che non disdegnano di divorare gli anatroccoli, di fronte alle madri papere impotenti. La signora stessa aveva assistito il giorno prima a un sanguinoso omicidio da parte di una tartaruga (ninja?). I miei occhi sono diventati lucidi e lo stomaco mi si è stretto in una morsa. Mai avrei pensato che il parco potesse serbarmi delle sorprese così crudeli. Mai, lo giuro!

Mi sono congedato frettolosamente dalla signora e ho ripreso il mio giro, sempre cercando di mantenere l’attenzione sul respiro e sui miei passi, ma l’immagine intrusiva dell’anatroccolo trascinato sott’acqua mi perseguitava.

 Per fortuna, pochi metri più in là, ho incontrato un gruppo di “quelli dei cani”, padroni molto orgogliosi di mostrare la propria bestiola, trattata spesso come un figlio, con tanto di vezzeggiativi come “amorino”, “tesorino”, “dolcezza” etc. La mia naturale attenzione per i diversi ed i freak mi ha portato a notare un grande cagnone nero a cui mancava una zampa anteriore. Il padrone, un simpatico balbuziente, l’aveva adottato al canile, scegliendolo proprio per la sua menomazione, che lo rendeva ben poco desiderabile ai più. Pieno di ammirazione per il coraggio e la generosità del padrone, mi sono slanciato verso l’animale per accarezzarlo, senza accorgermi che l’uomo, incespicando nella balbuzie,  stava cercando di dirmi qualcosa. Evidentemente voleva mettermi in guardia rispetto alle reazioni imprevedibili del proprio cane, che al mio avvicinamento ha infatti cercato di staccarmi una gamba, per una probabile legge del contrappasso di Madre Natura.

In preda ai sintomi di un attacco di panico, mi sono allontanato indietreggiando lentamente e nascondendomi dietro una siepe.

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Per calmarmi ho riportato l’attenzione sul respiro addominale, provando tra l’altro feroci sensi di colpa alla vista di un podista settantenne che correva a torso nudo, mostrando un addominale-tartaruga (senza la testa rossa questa volta) degno di Usain Bolt.

Si era fatta decisamente l’ora di rientrare a casa. Sulla via del ritorno sono passato di fronte a un’edicola e le locandine dei giornali locali titolavano “Pensionato scippato in un parco pubblico”.

Il giorno dopo la mia anziana paziente mi ha richiamato, in preda alla solita ansia.

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Signora si sdrai un po’ a letto e non si muova da li, mi raccomando. Vedrà che passa.

Come diceva il maestro Primum non nocere!

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PSICOLOGIA COMPORTAMENTALE – COMPORTAMENTISMO

PSICOTERAPIA COGNITIVA – ATTIVITA’ FISICA – ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’adolescenza ai tempi della crisi

 

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.comGli adolescenti dovrebbero essere osservati come quadri preziosi in un museo: non troppo vicino da tralasciarne la figura d’insieme, non troppo lontano da perdere di vista i dettagli che rendono ognuno di loro unico e irripetibile. In entrambi i casi ne perderemmo la vera bellezza e il vero valore.

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Elena, non sto bene. Ho l’adolescenza”.  Uno dei miei primi colloqui allo sportello di ascolto di una scuola media è iniziato con questa frase.Ho l’adolescenza” mi ha detto Giada, 13 anni, proprio come se stesse parlando di una malattia, di un virus, di qualcosa che senza accorgersene ti investe, ti rifila dei sintomi e ti fa sentire a pezzi. “Passerà col tempo, speriamo!” ha poi detto Giada. Le ho risposto che sì, passerà, ma non perché esiste una medicina e neanche perché il tempo “guarisce tutte le ferite”, come dice uno dei più triti luoghi comuni. Passerà perché la vita è fatta di fasi che, come stagioni, preparano il terreno a quella successiva e permettono a nuovi frutti di maturare e a nuovi fiori di sbocciare.

Adolescenza: L'età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo. -Immagine: © tiero - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Adolescenza: L’età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo

Ho sempre pensato che gli adolescenti fossero strani, contorti, francamente un po’ bizzarri. E, al tempo stesso, enigmatici, poliedrici, affascinanti; insomma, una sfida. Forse per questo ho deciso di lavorare con loro sin da prima di laurearmi. E, lavorando con loro, ascoltando le loro domande, accogliendo le loro provocazioni e i loro dubbi, dentro e fuori le mura scolastiche, ho scoperto che in realtà gli adolescenti sono davvero strani, contorti e francamente un po’ bizzarri ma che soprattutto sono spaventati a morte.

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Essere adolescenti ai tempi della crisi mondiale, fa davvero molta paura; una paura di un futuro lontano, sconosciuto, nebuloso, difficile da pensare se non addirittura impossibile. Le contraddizioni del mondo in cui viviamo, l’ambivalenza comunicativa dei grandi personaggi costruiti dai media, l’ambiguità della società liquida di cui parla Bauman, rendono impalpabili, fragili, liquidi anche i valori che la generazione degli adulti deve (o dovrebbe) trasmettere alle generazioni successive.

Essere adulti-educatori di adolescenti nel 2013 significa sentirsi fare dai ragazzi e dalle ragazze domande scomode come “perché devo studiare se non lavora neanche chi è laureato?” oppure “perché devo rispettare le regole se i vincenti sono proprio quelli che le hanno infrante?”. Domande irritanti, provocatorie e maledettamente legittime, necessarie, ragionevoli. Domande che ci parlano in maniera inequivocabile del senso di inadeguatezza degli adolescenti di oggi, “nativi digitali” multitasking come i loro smartphone ma fragili come carta velina.

Leggendo i dati dell’ Indagine Conoscitiva sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia condotta nel 2012 da Telefono Azzurro e Eurispes, emerge con chiarezza la sensazione di difficoltà vissuta dai giovani e giovanissimi, non più spettatori dietro le quinte della crisi economica vissuta dalle famiglie italiane ma ormai attori coinvolti dal dramma.

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Infatti, se nel 2010 un adolescente su tre riteneva che la crisi economica avesse colpito la propria famiglia (29%), oggi è uno su due (50,1%) a dichiararsi consapevole della difficile situazione economica vissuta a livello familiare. Inoltre, il 30,5% dei ragazzi si dice spesso o a volte preso dalla preoccupazione per i problemi di lavoro dei propri genitori. Anche la paura di non trovare lavoro da adulti è largamente diffusa, tanto che solo il 18,2% degli adolescenti dice di non averla.

La fotografia scattata da questi dati ritrae un adolescente deluso dal presente e spaventato, se non addirittura terrorizzato o peggio ancora disilluso e avvilito, da ciò che lo aspetta, da quel futuro, cioè, ciò che Miguel Benasayag e Ghérard Schmit definiscono, nel loro saggio “L’epoca delle passioni tristi” un “futuro-minaccia”: non più il “futuro-promessa” che hanno vissuto i loro genitori ai tempi della loro adolescenza, in cui la fatica, l’impegno, i sacrifici erano intrisi di speranza di essere un giorno ripagati da successo, soddisfazioni, possibilità.

Le Sorgenti del Male di _Zygmunt Bauman - Recensione
Articolo Consigliato: Le Sorgenti del Male di Zygmunt Bauman (2013) – Recensione

D’altronde, anche essere adulti-educatori nel 2013 fa paura, perché nemmeno per noi le risposte sul futuro non sono così chiare e vincenti. Ma soprattutto perché sta a noi il compito oneroso di essere per gli adolescenti “profeti” del loro futuro e della loro crescita, visionari delle loro possibilità, sognatori della loro strada quando le loro facoltà creative e motivazionali sono intorpidite, prosciugate, paralizzate. Come sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet, aiutare gli adolescenti significa sostenerli nel credere che “in un tempo chiamato futuro” sarà possibile anche per loro la realizzazione del loro progetto, del loro valore, del loro talento.

Forse così l’adolescenza non sembra più una malattia ma una sfida avvincente, i suoi “sintomi” non una spiacevole presenza ma uno stimolo al miglioramento e il suo tempo non un tempo morto e sospeso, ma un tempo della ricerca e della progettazione del Sé.

Grazie, ci penso un po’ su” mi ha detto Giada alla fine del colloquio.

Ti sfidano apertamente, ti mettono in discussione e poi, sorprendentemente, ti ringraziano. Il valore pedagogico della crescita e dell’educazione sta proprio in questa delicata, fragile e giusta distanza: adulti non troppo lontani da far sentire gli adolescenti soli, inadeguati e un po’ strani, ma nemmeno troppo vicini da farli sentire dipendenti e incapaci. Un equilibrio instabile che deve essere insieme cercato, pattuito e negoziato.

Gli adolescenti dovrebbero infatti essere osservati come quadri preziosi in un museo: non troppo vicino da tralasciarne la figura d’insieme, non troppo lontano da perdere di vista i dettagli che rendono ognuno di loro unico e irripetibile. In entrambi i casi ne perderemmo la vera bellezza e il vero valore.

LEGGI:

 ADOLESCENTI –  SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Sociale – Gli essere umani sono pro-sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La resilienza risiede nel  fatto che gli esseri umani sono più che semplici esseri sociali, essi sono esseri ‘pro-sociali’. In altre parole, provano gioia non solo nel fare le cose con gli altri, ma nel fare le cose insieme e per gli altri.

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In che modo il tessuto sociale di una comunità o di una nazione influenza la sua capacità di affrontare le crisi e sviluppare le risorse per mantenere e migliorare la felicità delle persone in tempi difficili?

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Comunità e nazioni con reti e norme sociali di qualità e alti livelli di fiducia sociale rispondono alle crisi e ai mutamenti economici più felicemente e in modo più efficace. È quanto emerge da uno studio condotto da John Helliwell della University of British Columbia in Canada.

Questa ricerca suggerisce che la resilienza risieda nel  fatto che gli esseri umani sono più che semplici esseri sociali, essi sono esseri ‘pro-sociali’. In altre parole, provano gioia non solo nel fare le cose con gli altri, ma nel fare le cose insieme-e-per gli altri.

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Helliwell e il suo team hanno esaminato la felicità media nazionale nei paesi OCSE dopo la crisi finanziaria del 2008 e raggruppato i paesi secondo il loro livello di felicità:

– Il gruppo caratterizzato da un aumento di felicità include i paesi meno direttamente colpiti dalla crisi, con politiche sociali mirate a migliorare il benessere dei propri abitanti, ad esempio la Corea del Sud.

– Il gruppo con decremento di felicità comprende i paesi più colpiti dalla crisi, e

dalle successive ricadute nella zona euro. In questo gruppo, il capitale sociale e altre forme di supporto fondamentali per la felicità sono stati danneggiati durante la crisi.

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La fiducia sociale è un indicatore della qualità del capitale sociale di un paese, che aumenta direttamente la felicità dei suoi individui, ma permette anche un atterraggio più morbido di fronte a shock economici.

Secondo gli autori l’obiettivo centrale della politica pubblica dovrebbe essere quello di facilitare lo sviluppo di istituzioni in grado di valorizzare e “tirare fuori” il meglio dagli esseri umani – un punto di vista sviluppato da Elinor Ostrom, economista politica americana e la prima donna a vincere il Premio Nobel per l’economia.

LEGGI:

PSICOLOGIA SOCIALE – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  RAPPORTI INTERPERSONALI –

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Me and you and everyone we know – Recensione

Recensione del film

ME AND YOU AND EVERYBODY WE KNOW

di Miranda July

(2005)

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Me and you and everybody we know“Me and You and Everyone We Know”, film del 2005 scritto, diretto e interpretato da Miranda July, è una di quelle opere che arrivano con difficoltà al grande pubblico ma lasciano un segno profondo in coloro che hanno la fortuna di incontrarle sul proprio cammino di appassionati di cinema.

Se è vero che un buon film, per essere tale, deve generare un cambiamento nello spettatore tra l’ingresso in sala e l’uscita, “Me and You and Everyone We Know” è uno straordinario gioiello narrativo; la storia è semplice e coinvolge personaggi assai diversi tra loro, accomunati dal bisogno di entrare in relazione con qualcuno: il commesso di un negozio di scarpe appena lasciato dalla moglie, una cliente (Miranda July, personaggio principale) dalla personalità eterea, delicatamente artistica, e intorno altri soggetti che mossi da una condizione di solitudine o da un ingenuo desiderio di scoperta rivolgono lo sguardo alla vita che scorre accanto, tentando di entrarne a far parte.

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LA GRANDE BELLEZZA DI PAOLO SORRENTINO - RECENSIONE
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina

Così un bambino si ritrova in una chat a scambiare messaggi erotici con un personaggio adulto che verrà svelato alla fine, ma il suo parlare di cacca è un parlare da bimbo che come nel teatro dell’assurdo si incastra con le rappresentazioni oscene dell’altro, nella reciproca compensazione di una solitudine che può toccare con significati diversi ogni momento dell’esistenza.

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Così due adolescenti confuse tra pulsioni sessuali e slanci provocatori prendono di mira un omone impacciato, che presto assume l’iniziativa e libera le proprie fantasie scrivendole su fogli esposti alle finestre, ma il gioco non perde mai l’ironia, la purezza della scoperta.

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Il racconto centrale, quello che delinea le sfumature emotive degli attori in una struttura narrativa più approfondita, è il legame tra il commesso e la protagonista; nessuna introduzione formale, nessun pensiero, si vive unicamente la curiosità per un’emozione che spiazza e sorprende, ridefinisce i luoghi – geniale e poetica la passeggiata fino alla macchina parcheggiata, lungo un marciapiede che descrive la parabola di una vita insieme – e le possibilità creative. “Me” and “You” si legge sulle scarpe che la giovane donna ha comprato al negozio, mentre i suoi piedi si osservano, si avvicinano timidamente l’uno all’altro, e la videocamera riprende per farne un istante di amore senza parole. Entrambi i protagonisti, entrambe le scarpe che li contengono e li guidano, sono un dialogo fra dubbi e alternative, tentazione di abbandonarsi all’altro e difficoltà di accedere liberamente al corso spontaneo dell’esperienza.

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Ogni persona, ci comunica il film, è un costante tentativo di negoziare tra riflessioni assolute e particolari – mirabile la scena del pesce rosso dimenticato sul tetto di un’auto e destinato a morte certa non appena la velocità sarà ridotta o aumentata, immagine del nostro bisogno di esistere e al tempo stesso dell’imprevedibilità che condiziona tale bisogno – ogni strada è la ricerca di un “noi” da trovare fra coloro che incontriamo, che incrociamo talvolta per un solo istante osservandoli dal finestrino del viaggio.

Il bisogno di relazione non ha parole giuste o sbagliate, gesti appropriati o meno, non ha un copione da rispettare e quando cade vittima di un senso predefinito si snatura nel conformismo che impedisce di contattare l’essenza reale di ciò che viviamo; “Me and You and Everyone We Know” unisce figure normali e bizzarre, risolute e fragili, nel connubio fra passione per la vita e inconfessabile disperazione, dedicando a tutte loro il messaggio più autentico, nessuno è davvero solo se si apre allo sguardo dell’altro.

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Gioco d’azzardo: I fattori strutturali – PARTE II

Di Andrea Ferrari

 

I fattori strutturali nel gioco d’azzardo e le implicazioni comportamentali e legislative

PARTE II

Le slot-machines: fattori di rischio ed evoluzione della normativa

 

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GIOCO D'AZZARDO - PARTE II. - Immagine: © yvart - Fotolia.comElenchiamo ora le caratteristiche, di tipo strutturale, che contribuiscono a rendere le slot-machines il gioco d’azzardo maggiormente pericoloso: 

Lo sviluppo del gioco d’azzardo patologico avviene molto più rapidamente con le slot rispetto a qualsiasi altra tipologia di gioco (Breen & Zimmerman, 2005); la maggioranza delle persone che hanno una diagnosi di GAP giocano alle slot-machines.

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Alcuni di loro giocano solamente alle slot; il 70% dei giocatori patologici identifica nelle slot il loro problema principale, mentre l’80% dei pazienti che si rivolgono a programmi di trattamento per il gioco sono principalmente utilizzatori di slot-machines (Jackson, Thomas, Thomason, Holt& McCormack, 2000).

L’accessibilità: in Italia le slot-machines possono essere installate in qualsiasi esercizio pubblico che sia in possesso della licenza per la somministrazione di cibi e bevande (inclusi stabilimenti balneari), nonché nelle agenzie deputate alle scommesse in genere e nelle “sale giochi” (art. 86 e 88 del Testo Unico per le Leggi di Pubblica Sicurezza, T.U.L.P.S; http://www.aams.gov.it). Questa estrema flessibilità legislativa fa sì che le slot siano capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale

La loro modalità di funzionamento fa sì che l’azione del giocatore, mediante l’utilizzo di bottoni e leve, possa produrre una illusione di controllo, per il motivo che i “giochi attivi” solitamente sono più rinforzanti dei “giochi passivi” (Chòliz, 2006).

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Le slot-machines favoriscono l’insorgere di errori cognitivi come le quasi-vincite (Kassinove & Schare, 2001), caratteristica attivamente ricercata da parte dei costruttori, anche aggirando le leggi (Harrigan, 2008).

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Giocare alle slot produce un incremento dell’attivazione fisiologica (Coventry & Constable, 1999).

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Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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È possibile scommettere sia partendo da importi modesti, sia su importi molto elevati: in Italia il costo di una partita sulle slot-machines del tipo comma 6 è di 50 centesimi di Euro, fino ad un importo massimo di 1€. Questo potrebbe essere un fattore in grado di favorire la disponibilità a scommettere. Per quanto riguarda le Video-Lottery (apparecchi di gioco del tipo comma 6b), invece, il costo di una partita arriva fino a 10€, tanto che queste macchine accettano banconote.

Le slot-machines erogano le vincite in modo immediato, sia come contingenza visiva, sia in senso monetario; questo aspetto costituisce un rinforzo potentissimo nel mantenere il comportamento di gioco.

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Le slot-machines spesso accompagnano le vincite con stimoli di tipo uditivo e visivo. È stato osservato che questo accade anche quando la vincita risulta inferiore all’importo della puntata, generando un fenomeno definito come “perdita mascherata” (losses disguised as wins; Dixon et al., 2010)

Le slot utilizzano effetti sonori e musiche di sottofondo che sembrerebbero indurre stati emotivi piacevoli, rendendo la sessione di gioco più piacevole, facilitando un sentimento di “immersione” (Parke & Griffiths, 2006)

Il comportamento del giocatore diviene progressivamente più abitudinario e stereotipato man mano che passa dall’essere giocatore occasionale a giocatore regolare di slot-machines. I giocatori regolari di slot-machines mostrano di avere aspettative molto fisse riguardo alla profittabilità del gioco, tendono ad avere strategie di gioco rigide, ad esempio scommettendo la stessa cifra per tutta la durata del gioco, oppure cambiando la puntata in funzione del risultato, scommettendo di più dopo una vincita e meno dopo una perdita (DelFabbro & Winefield, 1999).

Alla luce dei fattori considerati, vediamo ora come si é evoluta in Italia la legislazione in materia di slot-machines (tipo comma 6a).

Evoluzione dell’articolo 110 comma 6 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza

Questo articolo ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, alle quali accenneremo brevemente, in quanto l’analisi della giurisprudenza esula dagli scopi di questo articolo.

È tuttavia interessante osservare l’evoluzione delle politiche sul tema della sicurezza del gioco d’azzardo, e in particolare ci interessa come si è evoluta la normativa sui fattori strutturali.

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Così l’articolo nel 1995: Appartengono altresì alla categoria dei giochi leciti quegli apparecchi distributori di prodotti alimentari di piccola oggettistica di modesto valore economico con annesso gioco di abilità o di trattenimento che, previa introduzione di una moneta o di un gettone, distribuiscono un prodotto ben visibile e che consentono, come incentivo per l’abilità o per il trattenimento offerto, anche la vincita di uno dei premi di modesto valore economico esposti nell’apparecchio stesso.

Quelle che il legislatore indicava come apparecchi distributori di prodotti alimentari in realtà erano slot-machines vere e proprie, grazie alle quali gli esercenti e i distributori degli apparati hanno ottenuto ingenti guadagni senza versare una lira di tasse, non essendo sulla carta apparecchiature per il gioco di azzardo.

Lo Stato, dopo aver tentato una timida ridefinizione nell’anno 2000, che ancora non prevedeva la possibilità di vincere in denaro, risponde in modo più deciso nel 2002 con una modifica della normativa, grazie alla quale si appropria di una parte dei guadagni e ridefinisce il funzionamento degli apparecchi (ora legali). Così l’articolo: Si considerano apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici da trattenimento o da gioco di abilità, come tali idonei per il gioco lecito, quelli che si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica, nei quali gli elementi di abilità o trattenimento sono preponderanti rispetto all’elemento aleatorio, il costo della partita non supera 50 centesimi di euro, la durata di ciascuna partita non è inferiore a dieci secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a venti volte il costo della singola partita, erogate dalla macchina subito dopo la sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche. In tal caso le vincite, computate dall’apparecchio e dal congegno, in modo non predeterminabile, su un ciclo complessivo di 7.000 partite, devono risultare non inferiori al 90 per cento delle somme giocate. In ogni caso tali apparecchi non possono riprodurre il gioco del poker o comunque anche in parte le sue regole fondamentali.

 Nel 2003 l’articolo viene nuovamente ritoccato, stavolta specificando la durata della partita, compresa tra sette e tredici secondi, mentre le vincite, computate su un ciclo di 14.000 partite devono risultare comunque non inferiori al 75% delle somme giocate.

Le ultime modifiche, introdotte dalla Finanziaria del 2008, prevedono un costo della partita di valore non superiore a 1 Euro, una durata minima di 4 secondi, mentre il valore massimo delle vincite è fissato in 100 Euro.

Per quanto riguarda la diffusione delle slot-machines, l’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato), ha sempre fornito la disciplina per gli esercizi commerciali che volessero dotarsi di macchine del tipo comma 6 Tulps. Inizialmente il disciplinare prevedeva che non potessero esservi esercizi pubblici  che contassero sulla presenza esclusiva di slot-machines, le quali non potevano essere presenti in numero superiore a quello di apparecchi di puro intrattenimento (videogiochi), appartenenti alla tipologia di cui al comma 7 dell’art. 110 Tulps. Inoltre non era possibile installare più di un apparecchio per ogni dieci metri quadrati di superficie del locale.

Questa norma viene rivista tramite decreto direttoriale AAMS del 18 Gennaio 2007, secondo il quale è ora possibile installare un macchinario da gioco ogni cinque metri quadrati, mentre il numero delle macchine comma 6 non può superare il doppio del numero delle macchine comma 7.

In seguito all’entrata in vigore del decreto direttoriale AAMS 22 gennaio 2010, introducente la nuova disciplina delle Video Lottery (VLT), ovvero macchine del tipo comma 6b, questo obbligo viene del tutto a meno, rendendo così possibile l’installazione esclusiva di macchine del tipo comma 6b all’interno di locali dedicati. Rimane ad oggi l’obbligo della compresenza delle macchine comma 7 con le macchine comma 6a (slot tradizionali).

Lo studio dei fattori strutturali permette di predisporre misure per il contenimento dei danni causati dal gioco d’azzardo, senza tirare in causa i fattori psicologici e individuali sulla cui prevenzione si hanno difficoltà oggettivamente più elevate. Nonostante questo, ci permettiamo di esprimere seri dubbi sulla volontà, da parte del legislatore, di realizzare una effettiva tutela della sicurezza del cittadino nei confronti del gioco, alla luce delle modifiche apportate negli anni al testo dell’articolo 110 TULPS, di stampo decisamente peggiorativo.

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BIBLIOGRAFIA

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