Il colloquio in psicoterapia cognitiva, volume di Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli, è un libro importante e chi qui in Italia scriverà del tema non potrà non confrontarsi con esso.
Ma non è un libro sul colloquio, o almeno soltanto sul colloquio.
Meglio lo si descriverebbe come una fotografia, che fissa in data odierna lo stato di avanzamento della prassi di seduta terapeutica messa a punto da Ruggiero e Sassaroli e dal fecondo gruppo di ricerca e insegnamento che hanno saputo suscitare attorno a loro. Parla di prassi molteplici e diverse di seduta, perché diversi sono i pazienti e i loro disturbi, perché diverso può essere lo stato di avanzamento del loro trattamento, perché diverse anche se non divergenti sono le cornici teoriche di riferimento. Il tutto in circa 300 pagine.
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In una prima parte si parla del modello ABC, di doverizzazioni, di ristrutturazione cognitiva, di empirismo collaborativo, di empatia, di attivazione e di cento altri spunti tecnici. In questa prima parte gli autori entrano nello specifico principalmente di disturbi di asse I. Nella seconda parte sono considerati invece disturbi di asse II e ci si apre alla prospettiva metacognitiva, alla mindfulness, a vari contributi di terza generazione.
Non è un libro sul colloquio, dicevo, ma un libro con molte più cose, un libro utilissimo e fecondo di stimoli sulla gestione della seduta in vari momenti e condizioni.
Probabilmente un libro sulla teoria e sulla tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva è un’impresa impossibile. Non per caso, l’argomento ‘colloquio’ è pressochè assente nelle riviste specializzate e nella ricerca scientifica. Troviamo letteratura sull’intervista ed i colloqui psicodiagnostici, per lo più manuali didattici e di livello introduttivo. Ma tra i colloqui psicodiagnostici e i colloqui nelle sedute di psicoterapia esistono fondamentali differenze: sono diverse le finalità, il livello della relazione, la tempistica del lavoro clinico, ecc.
La valutazione iniziale (che alcuni preferiscono chiamare assessment psicologico) non è affatto una fase banale come a volte si tende a gabellare, piuttosto è una fase del lavoro clinico preliminare, settantasette volte più laboriosa e complessa della diagnosi, che avrebbe da stare a monte sia della decisione ‘psicoterapia sì o no’, sia di qualsiasi connotazione d’indirizzo. Una maggior sottolineatura dello iato tra colloqui d’assessment e terapia non avrebbe nuociuto alla chiarezza anche del presente volume.
Data la stura alle noterelle critiche, me se ne consentano un paio. Far riferimento ad un saggio tedesco del 1878 per descrivere il disturbo ossessivo-compulsivopuò suscitare qualche perplessità. Sia per il personaggio citato, Carl Friedrich Otto Westphal, che si conosce per motivi storici connessi all’agorafobia e alla narcolessi. Sia per la difficile decifrabilità della scelta di tale citazione, in luogo di banali rimandi a DSM-IV e ICD-10. Forse gli autori vogliono (dottamente) prendere distanza dalle nosografie oggi in uso per proporci un rinvio alla tradizione psicopatologica tedesca dell’ottocento pre-kraepeliniano? Meno dozzinale una seconda osservazione. Dare per scontato che la ‘prima regola’ della psicoterapia sia “che la terapia è un trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali” può parere un tantino talebano, o almeno un tantino autocentrico. Un enuretico magari apprezzerebbe smettere di bagnare il letto.
L’università di Verona & il progetto europeo sull’emigrazione dei Rom
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Siamo interessati in particolare – spiega Piasere – agli effetti della migrazione sui ruoli di genere in una società tradizionalmente basata sul matrimonio e su un’ideologia “pro-natalista”, in cui sono la norma il matrimonio precoce, a volte molto precoce secondo i nostri standard, seguito da maternità numerose e spiccato senso della genitorialità femminile”.
A seguito di una recente inchiesta sulla quantità di psicofarmaci acquistati dai CPR, ci chiediamo: qual è lo stato di salute dei migranti nei CPR? L’utilizzo di psicofarmaci può essere giustificato?
Sembra che le emozioni suscitate dall'ascolto della musica, anche di generi diversi, siano molto simili, indipendentemente dalla cultura di appartenenza
La Società Psicoanalitica Italiana ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica Italiana per denunciare le conseguenze del "Decreto Sicurezza".
La discriminazione razziale ha effetti diversi sui bambini a seconda di quanto è forte il proprio senso di identità etnica, che costituisce dunque un importante fattore di protezione rispetto alla possibilità di sviluppare futuri problemi comportamentali (quali ansia, depressione o comportamenti oppositivi).
Il narcisismo è più diffuso in società occidentali/individualiste? Il confronto tra cittadini cresciuti nella Germania Est e quelli della Germania Ovest
Gli americani sarebbero più passionali dei giapponesi, ciò è dovuto alla maggiore mobilità relazionale, ovvero la libertà di scelta di cambiare partner.
I richiedenti asilo sono esposti a vari fattori di rischio per la loro salute mentale. Depressione e ansia sembrano aumentare anche dopo la migrazione.
I sistemi educativi cinesi appaiono diversi da quelli del mondo occidentale e considerano importanti l'apprendimento dell' autocontrollo e della disciplina.
Il pensiero inconsapevole porterebbe a decisioni migliori per l’individuo: tale effetto di decisione senza attenzione è stato dimostrato da recenti studi
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Anche a Pesaro e Fano arriva la Psicologia Ospedaliera
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La psicologia ospedaliera, rivolta a pazienti ricoverati e ai loro familiari, oltre alle attività trasversali su tutte le unità operative, è presente con progetti dedicati come “il trucco del sorriso” – destinato alle pazienti oncologiche -, supporta pazienti con sclerosi multipla, patologia epatica e pazienti che vogliono tornare alla vita quotidiana dopo un infarto. Non solo: gli psicologi assistono i familiari durante il consenso alla donazione di organi e tessuti, sostengono le neo mamme, i pazienti oncologici, fino ad avere un ruolo determinante nel percorso sulla violenza a minori e donne e sulle attività legate all’ospedale senza dolore.
Si tratta di figure professionali che aiutano pazienti e familiari ad affrontare il dolore fisico, la perdita, la malattia cronica, a volte addirittura la nascita (…)
A differenza del problem-solving, il rimuginio è un pensiero statico e ripetitivo che rallenta la capacità di affrontare in modo efficace le difficoltà
La diagnosi di autismo rappresenta per molti genitori una frattura emotiva profonda, legata alla perdita del figlio immaginato e alla rielaborazione delle aspettative
Valutazioni logopediche e interventi personalizzati per disturbi di linguaggio, voce, deglutizione e apprendimento presso la Clinica Età Evolutiva
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Stigma e disturbi mentali – American Journal of Public Health
– FLASH NEWS-
Per la prima volta l’American Journal of Public Health ha dedicato un’intero numero esclusivamente allo stigma che è collegato ai disturbi psicologici e psichiatrici e alle persone che ne soffrono.
Lo stigma rappresenta un problema molto rilevante perché può comportare l’esclusione delle persone con disturbi mentali da molti aspetti della società, con una serie di emozioni secondarie (quali colpa, vergogna, tristezza, ansia, etc) che spesso non rappresentano solo un dettaglio di cornice ma un ulteriore fattore di disagio per l’individuo.
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All’interno di questa special issue lo stigma viene esaminato da diversi punti di vista: alcuni autori si concentrano sulla stigmatizzazione in relazione al tema dell’ inclusione sociale; alcuni trattano dei temi di disuguaglianza sociale e della resistenza a dare posizioni di autorità e di potere a persone con disturbi psicologico-psichiatrici.
Altri autori discutono di salute pubblica focalizzandosi sui programmi di intervento precoce per ridurre lo stigma.
Nello specifico si fa riferimento al fatto che negli ultimi anni il Mental Health Services Act della California non abbia finanziato soltanto progetti di prevenzione delle malattie mentali e di intervento precoce, ma anche progetti finalizzati esclusivamente alla valutazione e alla riduzione dello stigma riguardante i disturbi mentali.
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Tutte le scuole hanno in comune l’idea che la sofferenza psichica sia direttamente collegata alla conoscenza maturata nel corso della propria storia, e l’obiettivo di aiutare le persone a migliorare la propria capacità di riflettere su se stesse, sui propri stati d’animo e sui propri pensieri. Aspetti che hanno poi una ricaduta diretta sul comportamento e sulla capacità di costruire obiettivi e di perseguirli.
Seduta di fronte al Prof. Jervis per l’esame di Teorie della personalità, speravo che non mi chiedesse il cognitivismo: lo trovavo complicato, non mi piaceva e non riuscivo mai a inquadrare bene lâ (…)
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Medicina Narrativa: narrare la propria esperienza può far sentire meglio.
Scrivere di sé e del proprio vissuto, infatti, consente al paziente di riflettere sulla propria condizione, consentendo di sviluppare nuovi punti di vista e, perché no?, una prospettiva più positiva. Raccontare la propria esperienza di malato, inoltre, porterebbe beneficio anche alla relazione medico-paziente [Greenhalgh, 1999] poiché consentirebbe al medico (o all’equipe) di comprendere meglio la persona che si sta cercando di curare, ma soprattutto restituirebbe al malato un’immagine di persona capace [Frank, 2004] attiva, accolta e ascoltata, evitando il rischio di farlo sentire semplicemente una cartella clinica.
Diffusa più che altro nei paesi di lingua anglosassone la Medicina Narrativa prende le sue origini dall’assunto che raccontare la propria malattia, condividendola con il medico o con altre figure, possa fare la differenza nel processo di guarigione.
Scrivere di sé e del proprio vissuto, infatti, consentirebbe al paziente di riflettere sulla propria condizione, consentendo di sviluppare nuovi punti di vista e, perché no?, una prospettiva più positiva. Raccontare la propria esperienza di malato, inoltre, porterebbe beneficio anche alla relazione medico-paziente [Greenhalgh, 1999] poiché consentirebbe al medico (o all’equipe) di comprendere meglio la persona che si sta cercando di curare, ma soprattutto restituirebbe al malato un’immagine di persona capace [Frank, 2004] attiva, accolta e ascoltata, evitando il rischio di farlo sentire semplicemente una cartella clinica.
La riflessione può apparire in fondo scontata: il senso comune suggerisce che avere degli amici o dei sostenitori aiuta ad affrontare i momenti difficili, di conseguenza anche una malattia. In un mondo web 2.0 il canale comunicativo attraverso il quale cercare sostegno può essere un blog o un forum in cui parlare del proprio rapporto con la malattia.
Il blog come strumento terapeutico, infatti, consente di “sfogarsi”, come si farebbe in un diario intimo, ma al contempo di “trovare alleati” sconosciuti ma accomunati dalla stessa battaglia. Nascono sì dall’esigenza di sfogarsi o di cercare conforto, ma divengono contemporaneamente strumenti di supporto, di testimonianza e di rivendicazione, inserendo la persona che soffre in un network che tiene a bada solitudine ed emarginazione.
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Trisha Greenhalgh, nel suo articolo “Why Study Narrative?”, sottolinea come la narrazione di una malattia (specialmente il cancro) possa aiutare i pazienti a sentirsi più forti, ma soprattutto convinti delle scelte intraprese.
Qualsiasi malattia può essere approcciata come un racconto, che ha un inizio (ammalarsi), uno svolgimento (curarsi) e un epilogo (guarire o, nella peggiore delle ipotesi, non guarire). In base alle caratteristiche personali di ciascuno, la narrazione porterà alla luce sentimenti e avvenimenti differenti, consentendo così di scoprire i punti di forza ma anche di debolezza del paziente, che sarà visto come una persona nella propria globalità e non solo (o non più) come una cartella clinica. Inoltre, raccontare e raccontarsi consente di accedere a sentimenti che spesso, in un processo di malattia e cura, risultano difficili da approcciare: disperazione, rabbia, dolore, senso di colpa e così via.
Tutta la vita di un essere umano è scandita da forme narrative più o meno estese, si passa la vita a cercare di farsi conoscere o a cercare di nascondersi e gli strumenti più usati per questi due obiettivi sono proprio le parole, il racconto, la descrizione. Le malattie, dunque, possono essere viste come “capitoli” di un romanzo appassionante.
Il racconto, inoltre, fornisce una cornice alla malattia: un tempo, un luogo, degli attori (il malato protagonista ma anche tutte le figure che ruotano attorno, dall’equipe medica ai familiari), ma soprattutto consente in qualche modo di fornire un significato e un contesto a tale avvenimento.
Nel suo articolo, Greenhalgh mette in luce quali vantaggi deriverebbero dallo studio delle narrazioni dei pazienti. Attraverso la lettura, o ascolto, dei loro racconti si potrebbe infatti:
aumentare l’empatia e promuovere la comprensione (e la compliance) tra il medico e il paziente;
incoraggiare un approccio olistico alla persona;
prendere in considerazione una modalità di cura il più vicino possibile alle esigenze del singolo;
Narrare la propria storia di malattia, dunque, è utile non solo alla persona che porta avanti la propria battaglia, ma anche alle persone che la circondano e alle istituzioni. Del resto, parafrasando un famoso proverbio, non si può giudicare (o comprendere, aggiungerei) una persona senza prima aver camminato nelle sue scarpe.
Da sempre, i racconti vengono utilizzati dagli essere umani come canali di sfogo, strumenti per esorcizzare differenti stati d’animo, tra cui la paura. Nel caso di una malattia dapprima lo spavento (o, a seconda della gravità, il terrore) assale la persona, successivamente arrivano le domande circa le proprie capacità di riuscire a superarla. Raccontare questa esperienza consente così di prendere in qualche modo le distanze dal terrore e poter così affrontare meglio il percorso di cura [Frank, 2010]. Arthur Frank, professore e ricercatore di sociologia dell’Univerità di Calgary, sostiene che raccontando la propria esperienza il paziente può iniziare un processo di dis-identificazione con la propria vita passata, integrando nei propri processi identitari la malattia, potendo così adattarsi ad una nuova immagine di Sé, non limitata a quella di una persona sofferente.
Vi sono ricerche in fase pre-sperimentali [Hatem, River, 2004] condotte presso la facoltà di medicina dell’Università del Massachussets che mostrano come scrivere la propria esperienza abbia un impatto positivo anche sui parametri fisiologici dei pazienti (ad esempio: miglioramento della capacità respiratoria nei pazienti con asma; aumento della responsività al vaccino contro l’epatite B in un gruppo di studenti di medicina).
Come se attraverso l’esperienza della narrazione, il paziente prendesse le distanze e imparasse in qualche modo a maneggiare ciò che si trova ad affrontare. Come se la narrazione introducesse un “oggetto terzo”, un oggetto “transazionale” (prendendo in prestito il termine coniato da Winnicott) che consente di guardare in faccia le proprie capacità e la propria bestia nera.
La potenzialità della Rete, inoltre, non è assolutamente da sottovalutare. Come visto in altri articoli, “mettere in rete” (in questo caso, letteralmente) la propria esperienza, può essere il punto di partenza per comprendere di non essere soli in un momento difficile, per avere modo di confrontarsi con altri, per avere la possibilità di leggere testimonianze di chi ha raggiunto la vetta.
Per poter comprendere le peculiarità della figura del leader nello sport è indispensabile porre innanzitutto attenzione a come questo concetto è stato considerato e definito dalla letteratura socio-psicologica. Per fare ciò si deve partire da molto lontano, prima che si sviluppasse l’interesse della psicologia verso lo sport, per percorrere gli studi che hanno determinato lo sviluppo della ricerca sulla leadership nei gruppi sociali.
Ogni gruppo sociale, e si potrebbe dire ogni squadra sportiva, possiede una propria struttura di status e cioè una struttura di posizioni ognuna delle quali definita da specifiche relazioni con gli altri membri e da una scala di prestigio [Scilligo, 1973]. Al momento dell’assegnazione dei ruoli, che avviene naturalmente, ogni membro del gruppo attecchisce a una particolare posizione che determina sia la quantità di potere che possiede, sia la possibilità di influenza sui compagni. Questa graduatoria solitamente viene rappresentata come una piramide il cui vertice è occupato da una sola persona (vedremo poi che questo non è sempre vero), e cioè: il leader. A questo punto risulta chiaro come parlare di leader vuol dire riferirsi a quella persona che detiene la maggior quantità di potere e che esercita la maggior influenza.
L’influenza e il potere sembrano essere due tratti determinanti della figura di leader e apparentemente correlati positivamente tra loro. Per molto tempo infatti la prima è stata considerata come il puro e semplice esercizio del potere, dal quale dipendeva necessariamente. Quest’ultimo era visto come la base per l’influenza e, contemporaneamente, l’influenza diveniva l’esercizio pratico del potere. Gli studi più recenti hanno condotto i ricercatori su considerazioni diverse che vedono in questi concetti due diverse alternative di modifica del comportamento altrui.
Si deve all’opera di Moscovici [1976] questa distinzione, formalizzata nella teoria della conversione. In questa elaborazione l’autore dimostra semplicemente, si fa per dire, come l’influenza può essere esercitata anche in assenza di potere. Moscovici manifesta la sua proposta in aperta critica con l’idea di conformismo esposta nel paradigma di Asch [1951,1956] per il quale il cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti poteva determinarsi attraverso processi informazionali e influenze normative.
Secondo i primi, le opinioni altrui costituiscono sempre una fonte di informazione sulla realtà, che noi tendiamo a considerare come un’evidenza empirica verificata, specie in condizioni di ambiguità; mentre, nelle influenze normative, siamo spinti ad uniformarci agli altri per costituire una norma stabile ed evitare di apparire devianti. Nell’idea di Asch questi processi sono, in ogni caso, unidirezionali. Essi, cioè, si determinano a partire dalla maggioranza sulla minoranza. La provocazione di Moscovici lanciata contro questo paradigma verte soprattutto sull’idea che, se davvero esistesse solo un’influenza maggioritaria, allora non potremmo più osservare alcuna differenza nei comportamenti delle persone.
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La minoranza può, invece, provocare anch’essa un cambiamento negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone che risulta essere ben più profondo e duraturo di quello esercitato dalla maggioranza, detentrice del potere. L’esito del cambiamento apportato da influenza informazionale o normativa che, secondo Moscovici, si basa su un processo di confronto in cui l’attenzione delle persone è rivolta più alla differenza tra le opinioni che al concetto in discussione, è in realtà una semplice acquiescenza tesa ad evitare di far parte della devianza. E’ retta quindi da una motivazione piuttosto superficiale che non viene internalizzata e scompare con la scomparsa della maggioranza.
Viceversa l’influenza esercitata dalla minoranza percorre un processo di convalida in cui gli oggetti di confronto e riflessione non sono le diverse opinioni ma l’idea espressa dalla minoranza e la realtà stessa e che ha come esito un cambiamento profondo, duraturo, non evidente in pubblico ma che rimane indipendentemente dalla presenza della entità che lo ha generato [Moscovici, 1980]
Per questo l’influenza sociale non è qualcosa che appartiene esclusivamente al leader in quanto detentore della maggior quantità di potere nel gruppo, ma è un processo reciproco in cui questa posizione si distingue come occupata da quella persone che è in grado di influenzare gli altri membri del gruppo più di quanto possa essere influenzato da questi [Brown,2000].
D’altra parte risulta inevitabile prendere in considerazione la dotazione di potere nelle mani del leader, che, come già accennato, se non è la base dell’influenza in generale, è comunque un’alternativa che permette a un agente sociale “O” di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di un’altra persona “P” [French e Raven, 1959]. Ovviamente in questa nuova veste separata dal concetto di influenza, il potere risulta essere associato a un sistema di processi di dominanza-sottomissione che, come affermano Giovannini e Savoia [2002], vanno considerati un aspetto strutturale della vita di gruppo. Vale la pena sottolineare che questi rapporti non hanno un fondamento naturale ma dipendono da un sistema di norme sociali, in ogni ambito e così pure nello sport, confuse con norme istituzionali. La compresenza di questi due diversi tipi di norme può portare allo sviluppo di diversi leader a diversi livelli.
Un rapporto di potere tende poi a poggiare su diverse basi. French e Raven [1959] ne individuano cinque tipologie attraverso cui il leader, o comunque l’agente sociale “O”, può intervenire sull’atteggiamento e sui comportamenti degli altri membri del gruppo:
Il potere di ricompensa (reward power): si basa sull’abilità di O di concedere ricompense a P ma soprattutto sull’abilità di far percepire a P di poter ottenere ricompense da lui. Queste ricompense possono appartenere a diverse tipologie e possono essere sia materiali che puramente simboliche.
Il potere coercitivo (coercive power): rappresenta esattamente l’opposto del potere di ricompensa. In questo caso P non è spinto alla sottomissione dall’attesa o dall’aver ricevuto un dono ma più che altro dalla paura di poter ricevere una punizione. E’ importante, perché questo potere abbia sufficiente effetto, che P percepisca la minaccia di poter ricevere sanzioni come reale potenzialità di O.
Il potere legittimo (legitimate power): rappresenta il potere conferito a O da parte di norme legittimate e interiorizzate da parte di P. Questo tipo di potere obbliga P a sottomettersi a questa azione di O. L’origine delle norme che conferiscono il potere legittimo al leader può dipendere dalla cultura o dalla società a cui O e P appartengono. Questo tipo di potere è strettamente legato ai due precedenti in quanto, pur avendo una base legittima, si realizza comunque attraverso un sistema di ricompense per il conformismo e sanzioni per la devianza.
Il potere d’esempio (referent power): è il potere esercitato da O in quanto modello per P. In questo caso il potere di modificare il comportamento altrui è estremamente sottile e complesso in quanto si basa su un processo di identificazione di P in O, e quindi su un processo estremamente intricato che ha origine innanzi tutto in P stesso. In un certo senso è P, in questo caso, a legittimare il potere di O su di sé in modo, a volte, del tutto inconscio.
Il potere di competenza (export power): si basa sull’idea che P ha riguardo l’esperienza di O in un determinato ambito. In questo caso O viene riconosciuto come competente e preparato ad affrontare una particolare situazione all’interno della quale può assumere il ruolo di dominatore. E’ una forma di potere simile a quella precedente con l’unica differenza di rimanere limitata all’interno di una sola area. Perché comunque questo potere venga riconosciuto da P è necessario che quest’ultimo abbia modo di riconoscere l’esperienza di O e che si fidi della sua parola.
Queste cinque categorie rappresentano cinque diversi modi attraverso i quali chi ha in mano il potere è in grado di agire sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle altre persone. Ognuna di queste categorie è applicabile senza troppe difficoltà al mondo dello sport e in particolare all’interno delle discipline di squadra.
Come afferma Mazzali [1995] e, come verrà descritto in modo più approfondito nei capitoli successivi, esistono diverse posizioni nella struttura di status che, caratterizza una squadra, a cui è conferita una certa dose di potere. Esistono, quindi, diversi status, fonte di potere per chi li occupa, e, per questo, possono anche esistere diversi leader. Il potere di ricompensa e il potere coercitivo si possono considerare una prerogativa quasi totalmente conferita alla dirigenza (solitamente rappresentata da una figura che funge da leader per lo più esterno alla pratica sportiva in sé) e all’allenatore (in quanto delegato della dirigenza stessa e come detentore del potere e della leadership all’interno dell’attività sportiva). Il potere legittimo è sancito da norme istituzionali e da contratti che vincolano i giocatori alla sua obbedienza. Essendo basato, come già accennato, su ricompense (come i cosiddetti premi-partita) o sanzioni (per lo più economiche ma anche inerenti l’attività sportiva come nel caso della “panchina”), esso è custodito dai medesimi detentori delle tipologie di potere precedenti. Per quanto riguarda il potere d’esempio e il potere di competenza il discorso invece cambia. Difficilmente questi riguardano la dirigenza o qualsiasi persona esterna all’attività sportiva (specie per il potere di competenza). Possono essere riconosciuti all’allenatore, se questi ha dimostrato di essere esperto dello sport che allena o se risulta essere particolarmente famoso. In questo caso egli può diventare un termine di paragone per i propri comportamenti, un simbolo da seguire, o comunque una persona dotata di una conoscenza ed esperienza in materia che non può essere messa in discussione e che nessuno ha intenzione di contraddire. Allo stesso tempo anche un membro della squadra, specie se rientra tra i veterani, potrebbe assumere questa posizione rispetto a giocatori più giovani, guadagnando un potere che gli permetta di essere riconosciuto come un altro leader, questa volta interno alla squadra. Per semplicità si può associare questa figura al capitano della squadra anche se non sempre le due figure si sovrappongono.
Nonostante la chiarezza di questa classificazione operata da French e Raven, Minguzzi [1973] muove alcune critiche. L’autore ritiene che nel suddividere queste cinque tipologie di potere French e Raven non abbiano preso in considerazione almeno due dimensioni importanti: a) il sistema dei rapporti economici come fonte di potere e b) le motivazioni alla base di coloro che accettano consapevolmente il rapporto di sottomissione.
Anoressia e Rappresentazione Senso-Motoria inconsapevole del Corpo
– FLASH NEWS-
Le ricerche sui disturbi del comportamento alimentare e la percezione corporea si sono finora focalizzate principalmente sul livello percettivo cosciente (immagine corporea). Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista PLOS One indaga invece il concetto di schema corporeo – una rappresentazione del corpo con profonde radici senso-motorie meno consapevole e maggiormente coinvolta nei movimenti e nelle azioni rispetto al costrutto di immagine corporea.
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In particolare i ricercatori si sono domandati se un campione di pazienti con diagnosi di anoressia nervosa presentasse differenze in termini di schema corporeo e relative azioni rispetto a un campione di controllo.
I ricercatori hanno messo a punto una procedura sperimentale secondo cui i soggetti dovevano passare attraverso una porta semi-aperta avendo la possibilità di decidere quando passare dalla porta.
Dai dati è emerso che il gruppo di soggetti di controllo iniziava il movimento per oltrepassare la porta quando l’ampiezza di apertura della porta stessa era solo il 25% in più rispetto alla dimensione delle spalle. Invece, i pazienti con anoressia ruotavano il corpo per iniziare il movimento di passaggio solo quando la porta si era spalancata di almeno il 40% più della larghezza delle loro spalle.
Quindi per le pazienti con anoressia nervosa vi sarebbe una alterazione in senso maggiorativo non solo nell’immagine, ma anche nello schema corporeo al punto da modificare in modo pervasivo anche a livello inconsapevole i criteri che guidano le azioni e i movimenti.
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Importante riconoscimento per la scuola psicologica pisana, fondata dal compianto professor Mario Guazzelli. Il Prof. Pietro Pietrini, direttore dell’Unità operativa di Psicologia clinica universitaria dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana e il dottor Claudio Gentili, ricercatore in Psicologia clinica e psicoterapeuta, sono stati chiamati – unici italiani – a far parte del Comitato scientifico “REBT International Excellence Research Network” dell’Albert Ellis Institute di New York (foto).
Le idee disfunzionali sono tali perché impongono all’individuo una visione estremizzata della realtà, determinando schemi comportamentali poco efficaci
La terapia cognitivo comportamentale, ed in particolare la REBT, ha dato ottimi risultati nel trattamento delle dipendenze e delle problematiche correlate
Quando la realtà appare cupa come nel momento attuale legato all'emergenza Covid-19 la REBT ci invita a guardare lo scenario peggiore dritto negli occhi
Dal 13 al 15 settembre si è tenuto a Cluj Napoca il congresso sulla REBT dal titolo "The Role of “The Classics” in the Present and Future of Psychology".
Dolore cronico: ACT e REBT sono gli approcci terapeutici con maggiori prove di efficacia. Come funzionano, in cosa differiscono, in cosa si assomigliano
La Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato “Pratichiamo la teoria”, un ciclo di incontri teorici e pratici su modello LIBET, REBT e MCT.
Albert Ellis è uno dei padri della terapia cognitiva e in particolare della REBT, tutt'oggi importante approccio terapeutico alla sofferenza del paziente
L'obiettivo della psicoterapia da raggiungere è quello di smussare gli aspetti problematici accettando e rendendo tollerabile ciò che risulta intollerabile.
REBT Terapia Razionale Emotiva: i corsi ufficiali in Italia organizzati in collaborazione con l'Albert Ellis Institute con certificazione internazionale
La filosofia stoica ha degli elementi in comune con la REBT di Ellis, in quanto entrambe sottolineano come ci sia un legame tra pensiero ed emozione.
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Twitter rivela la psicologia dei suoi utenti
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RIMILab tra bambini e adulti terremotati dell’Emilia: condotte due indagini
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Presentate due vaste ricerche, relative agli effetti del terremoto su adulti e bambini, svolte nell’ambito del RIMILab (Centro di Ricerca del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane su Relazioni Interetniche, Multiculturalità e Immigrazione), diretto dal prof. Dino Giovannini (…)
Una recente meta-analisi conferma l'efficacia della psicoterapia per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico anche nei casi di traumi multipli
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Il trauma da tradimento descrive il dolore dovuto alla rottura della fiducia nelle persone e nelle istituzioni su cui l'individuo contava per la sopravvivenza
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Come i social media stanno cambiando la reazione ai disastri – Le Scienze
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L’elaborazione di una strategia efficace per adattare i social media agli interventi in caso di disastri, però, è una parte cruciale della pianificazione delle emergenze, dice la sociologa Jeannette Sutton, dell’Università del Colorado a Colorado Springs, che studia la funzione dei social media nelle crisi e nelle calamità. Nel caso dell’attentato alla maratona di Boston, per esempio, non ha trovato su Twitter un hashtag coerente, cosa che può rendere difficile trovare le informazioni pertinenti…
Dal terremoto di Haiti all’uragano Sandy fino all’attentato di Boston, Facebook, Twitter e altri social media hanno dimostrato di poter fornire un valido supporto all’azione della protezione civile di fronte alle emergenze. Accanto ai benefici vi sono però anche potenziali rischi. Per questo è necessario ripensare le modalità d’intervento in caso di calamità (…)
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Il Prof. Daniel Gilbert della Harvard University spiega perchè è più gratificante l’attesa e l’anticipazione di un acquisto piuttosto che il possesso dell’oggetto tanto desiderato. E’ interessante anche notare come renda più felici investire in “esperienze” piuttosto che in beni materiali:
Stop buying so much stuff, renowned psychologist Daniel Gilbert told me in an interview a few years ago, and try to spend more money on experiences. “We think that experiences can be fun but leave us with nothing to show for them,” he said. “But that turns out to be a good thing.” Happiness, for most people not named Sartre, is other people; and experiences are usually shared — first when they happen and then again and again when we tell our friends.
Il famoso violinista Joshua Bell suona incognito in una stazione della metro: un esperimento sulla percezione della bellezza della musica e il contesto
Quali caratteristiche possiede un leader di successo? D. MacGregor ha individuato due categorie di leader: quelli della teoria X e quelli della teoria Y
Create per simulare conversazioni realistiche, le intelligenze artificiali in alcuni casi finiscono per sostituire le relazioni con umani
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Il contributo del neuropsicologo alla certificazione medica di idoneità alla guida
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Nel Veneto un Gruppo di lavoro formato dai neuropsicologi professionisti incaricati di valutazioni psicodiagnostiche sulla idoneità alla guida ha elaborato un protocollo sulla valutazione neuropsicologica segnalati dalla Commissione Patenti di guida (v. link in bibliografia). Il protocollo è stato discusso con i Presidenti Medici delle Commissioni Mediche Provinciali ed inviato al Ministero competente. Tale protocollo traccia delle linee guida utili anche per la valutazione di anziani ed altre categorie di pazienti (ad es. traumatizzati cranici, soggetti con patologie di dipendenza, malati psichiatrici etc.).
I ricercatori hanno sviluppato decodificatori semantici in grado di ricostruire molteplici stimoli linguistici percepiti o immaginati a partire dalle fMRI
I disturbi psicotici hanno una manifestazione eterogenea che non sempre permette una diagnosi chiara dall’inizio: le neuroimmagini sono un utile strumento
Nonostante il cervello sia più plastico durante lo sviluppo, anche la corteccia cerebrale dell’adulto ha una certa potenzialità di riorganizzazione plastica
I potenziali evento-correlati, in particolare l'onda cerebrale P300, rappresentano un possibile biomarcatore dei deficit cognitivi dei pazienti emicranici
"I neuroni della lettura" descrive i meccanismi alla base della lettura, i suoi risvolti psicobiologici e i cambiamenti morfologici e anatomo funzionali
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The Science of Fatherhood: Why Dads Matter
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Una ricerca della University of Connecticut spiega come e in che misura il ruolo dei padri è importante per lo sviluppo dei figli:
Within the last several decades, though, scientists are increasingly realizing just how much dads matter. Just like women, fathers’ bodies respond to parenthood, and their parenting style affects their kids just as much, and sometimes more, than mom’s.
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Peer Pressure Starts in Childhood, Not with Teens
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La pressione del gruppo dei pari (o coetanei) sembra influenzare i bambini in una fase molto precendente a quello che i ricercatori hanno creduto fino a questo momento. La ricerca è condotta dall’Università del Maryland ed è stata pubblicata sulla rivista Child Development e l’abstract è consultabile qui.
“This is not just an adolescent issue,” says University of Maryland developmental psychologist Melanie Killen, the study’s lead researcher. “Peer group pressure begins in elementary schools, as early as age nine. It’s what kids actually encounter there on any given day.”
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Dualismo mente/corpo: la cura dell’attivitá fisica ha benefici sulla prestanza mentale.
di Andrea Ferrari
Quattro secoli dopo Cartesio, il legame mente e corpo appare sempre più inscindibile. Nella società odierna il progressivo miglioramento delle condizioni di vita ha portato all’invecchiamento della popolazione, con un conseguente incremento della popolazione affetta da demenza e decadimento cognitivo.
Al momento non paiono esserci rimedi efficaci per queste condizioni, ragion per cui molte ricerche sono orientate all’individuazione di fattori in grado di prevenirne l’insorgenza.
Un buon consiglio per la popolazione anziana è sicuramente quello di mantenere la mente attiva (Stern, 2006), per cui potete continuare a sfidare la Pagina della Sfinge e a immergervi nella lettura di un buon libro. Ma non trascurate l’attivitá fisica, perché secondo un recente articolo apparso sul Journal of Aging Research (Nagamatsu et al., 2013) mantenersi in allenamento puó migliorare le prestazioni mnemoniche e la prestanza cognitiva, anche se differenti tipi di esercizio sembrano avere effetti differenti a livello cerebrale.
Questo gruppo di ricerca dell’Università della Columbia Britannica ha reclutato dodici donne, di età compresa tra i 70 e gli 80 anni, tutte affette da decadimento cognitivo lieve (mild cognitive impairment), una condizione in cui le prestazioni cognitive risultano inferiori rispetto a quanto sarebbe previsto per la data classe di età. Inoltre, il decadimento cognitivo lieve è un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza.
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I ricercatori hanno suddiviso il campione in tre gruppi, i quali hanno svolto per sei mesi degli esercizi di fitness sotto la supervisione di un allenatore. Un gruppo di donne ha fatto esercizi di sollevamento pesi per due volte alla settimana; un altro gruppo ha fatto delle passeggiate; l’ultimo gruppo, di controllo, ha svolto soltanto esercizi di stretching e tonificazione muscolare.
Per la valutazione degli effetti del trattamento, alle donne sono stati somministrati alcuni test di misurazione della memoria verbale e spaziale, in due fasi: prima di cominciare i 6 mesi di allenamento e alla loro conclusione.
La memoria verbale rappresenta l’abilità di ricordarsi le parole, mentre la memoria spaziale consiste nel ricordo di dove gli oggetti sono localizzati. Entrambe deteriorano con l’età, ma nelle persone affette da decadimento cognitivo lieve il deterioramento è esacerbato.
Nello studio, trascorsi i sei mesi, le donne assegnate al gruppo di controllo hanno ottenuto punteggi inferiori nel post-test: il loro decadimento cognitivo era cresciuto.
Al contrario, le donne che hanno svolto esercizi hanno ottenuto prestazioni migliori in tutti i test di memoria, ma con alcune differenze significative: mentre entrambi i gruppi (sollevamento pesi vs passeggiate) hanno ottenuto punteggi pressoché equivalenti nei test di memoria spaziale, le donne che hanno passeggiato hanno ottenuto miglioramenti più consistenti nella memoria verbale.
Secondo l’opinione degli Autori, questi risultati suggeriscono che differenti tipi di allenamento fisico hanno ricadute specifiche sulla fisiologia cerebrale e causerebbero miglioramenti in diversi tipi di memoria.
Concludendo, possiamo mandare un appello ai nostri anziani: curate la mente, ma non dimenticatevi del corpo!
Dopo aver pubblicato una visione d’insieme sulla versione italiana di “In Treatment”, torno alla versione americana con un articolo conclusivo. È arrivato il momento di dire una parola conclusiva anche sulla versione americana e sull’intera serie in generale.
L’idea di costruire un telefilm sulla psicoterapia era una scommessa rischiosa. La psicoterapia reale non è particolarmente drammatica. Esiste il modello di Safran e Muran (1996, 2000a, 2000b) importato in Italia da Colli e Lingiardi (2009) che parla di “rotture e riparazioni”. Per fortuna nella terapia le rotture e le riparazioni sono separate da significativi intervalli di tempo. In una terapia studiata da Colli e Lingiardi si segnala una rottura alla seduta 5 e un’altra alla seduta 18. Tra queste due rotture tredici sedute di pura noia, almeno dal punto di vista drammatico.
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Non così in “In Treatment”, in cui c’è una rottura quasi a ogni seduta, ovvero a ogni seduta. Un ottovolante terapeutico, alla fine del quale Paul Weston è comprensibilmente esausto. Ma queste sono le ragioni della drammaturgia. Esistono anche le ragioni del realismo, alla quale “In Treatment” obbedisce, per quanto è possibile.
Come ho già scritto recensendo varie puntate, “In Treatment” gioca molto sulla contrapposizione tra un modo di fare terapia distaccato e, per così dire, antico e un modo più moderno, emotivo e relazionale. Il modo antico dà importanza alla consapevolezza auto-controllata e razionale degli atti mentali del pensiero cosciente, quello moderno e relazionale all’emotività e affettività delle situazioni interpersonali. Tutto questo non è solo teoria, ma si riflette nei personaggi.
Gina, la supervisora di Paul, appare distaccata e razionale mentre Paul è sempre invischiato nelle relazioni, nel bene e nel male. La differenza di metodo diventa nella serie televisiva scontro personale; per questo Gina rimprovera a Paul di avere scelto un modo di fare psicoterapia pericoloso, di eccessivo coinvolgimento con i pazienti e di rottura delle distanze e dei confini. Paul a sua volta rimprovera a Gina freddezza, carenza di umanità e di contatto.
La serie continuerà a suonare questo motivo per tre stagioni in tutto.
Il messaggio finale è abbastanza inquietante. Alla fine Paul sembrerà sempre più invischiato nella sofferenza dei suoi pazienti e incapace di costruire una vita vera al di fuori della terapia. Non aggiungo altro sulla trama per non rovinare il godimento drammatico a chi ha intenzione di seguire l’intera serie.