È sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.
Il primo aprile è andata in onda anche la versione italiana, con Sergio Castellitto nel ruolo del terapeuta. Anche noi di State of Mind abbiamo segnalato l’inizio della serie italiana, recensendo la prima puntata.
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana.
Avevamo intenzione di proseguire la recensione di altre puntate, ma la scelta dei produttori della serie israeliana, che è quella originale, che ogni versione esportata seguisse molto fedelmente la sceneggiatura israeliana originale renderebbe queste recensioni un’inutile doppione di ciò che abbiamo pubblicato finora sulla serie americana. Pertanto ci limitiamo a dare uno sguardo più ampio sull’intera serie.
La storia con Giovanni Mari, il terapeuta italiano, non si discosta dalle puntate americane con Paul Weston (e da quelle israeliane, di cui ho visto qualche segmento con sottotitoli su youtube).
Qualche inevitabile adattamento riguarda ad esempio il paziente del secondo giorno: il pilota militare americano che aveva bombardato una scuola piena di bambini è diventato un poliziotto anti-mafia infiltrato costretto a effettuare un omicidio per conservare la sua copertura di mafioso.
In questo modo il grande tema del secondo paziente, ovvero la negazione del senso di colpa in base alla necessità di eseguire gli ordini, è conservato in maniera credibile anche nel contesto italiano.
Così anche per la giovane paziente del terzo giorno, la ragazza che ha tentato una sorta di suicidioin una condizione di dissociazione allo scopo di punirsi in uno stato inconsapevole, è una promessa del balletto classico e non più, come nella serie americana, una ginnasta con speranze olimpiche.
Le differenze tra le serie diventano piuttosto sfumature nella recitazione, esulando quindi dalla mia competenza psicologica. Giovanni Mari è un terapeuta nettamente meno cupo del tormentato Paul Weston. Ha un’espressività più solare che traspare anche nella neutralità del terapeuta di impostazione dinamica. Come anche nella serie israeliana e americana, man mano che le puntate avanzano questo terapeuta avrà problemi di controllo del setting e della sua emotività. Emotività che però si rivela irruenta e passionale e non malmostosa come quella di Weston.
Nel caso della supervisora del quinto giorno, le posizioni si rovesciano. In questo caso l’americana Gina Toll, interpretata da Dianne West, è un’interessante e inquietante mistura di capacità di accogliere e colpevolizzare. Più severa e distanziante l’italiana Anna, interpretata da Licia Maglietta, la supervisora di Castellitto/Mari.
Anche il poliziotto italiano Dario appare più tenebroso del pilota americano Alex, un bel caso questo di narcisismo overt (mentre Dario è un covert).
E così via. La mia impressione è che la serie italiana sia ben curata. Sicuramente ha potuto usufruire dell’ottima sceneggiatura israeliana (vincitrice di svariati premi) e di qualche accorgimento di regia americana: Giovanni Mari ha ereditato lo studio ingombro di modellini di barche da Paul Weston, mentre il terapeuta israeliano Reuven Dagan possiede uno studio spartanissimo e spoglio.
È sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.
Tribolazioni 06 – Tutto o Nulla: Molte persone tribolano non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze.
Il perseguimento di uno scopo non è connotato da un punto di vista emotivo solo nel momento del successo pieno (gioia) o del fallimento totale e irrecuperabile (dolore) che corrispondono entrambi alla disattivazione dello scopo stesso ed alla conseguente ristrutturazione dell’organizzazione gerarchica per scegliere le nuove priorità. Il sistema monitora costantemente i lavori in corso e vive nel presente emozioni generate dalla previsione delle emozioni che prevede di provare in futuro. Così la pregustazione di un successo che si valuta probabile fa assaporare con anticipo la gioia.
Chi non ricorda la magia di quel tempo immediatamente precedente al primo gesto di amore quando si ha già la certezza che il proprio innamoramento sarà ricambiato?
Al contrario la previsione di un fallimento fa sperimentare già il dolore della perdita e spesso si mischia all’ansia circa lo stato d’animo doloroso che si sperimenterà quando il fallimento sarà certo ed inequivocabile. Si è addolorati già e inoltre spaventati all’idea di quanto si potrebbe poi star male (in genere poi il dolore effettivo si dimostra inferiore alle aspettative, per cui si è quasi stati più male prima che dopo). Sembra dunque che sia sempre attivo un sistema di anticipazione sui propri stati interni futuri che, a sua volta, genera delle emozioni attuali. Esse utilizzano quelle future previste come eventi attivanti: l’emozione presente può essere dello stesso tipo o di tipo diverso da quella futura prevista.
Così si può aver paura di aver paura, si può aver paura di essere tristi o si può essere arrabbiati all’idea che si sarà tristi o aver vergogna di vergognarsi. Questo sistema di anticipazione sui propri stati emotivi che ne innesca, a sua volta degli altri ha probabilmente lo scopo di accrescere la prevedibilità su sé stessi. Da un lato si padroneggiano meglio i cambiamenti perchè non giungono inaspettati. Dall’altro si diluisce nel tempo l’emozione finale. Se mi aspetto un insuccesso inizierò a soffrirci già prima tanto più esso apparirà certo. Così, al momento in cui effettivamente si verificherà il dolore sarà meno intenso e sconterà gli acconti versati in precedenza. Soffre di più chi vive un lutto improvviso e inaspettato o chi attende a lungo una morte pietosa? Certamente i primi, ritengo.
Molte persone tribolano non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze.
Fino a qui ho argomentato circa il fatto che le emozioni sulle emozioni previste costituiscano una sorta di air-bag sulle emozioni successive, ma il problema non si esaurisce qui. La valutazione del grado di raggiungimento o meno di un obiettivo consente soprattutto di dosare l’investimento di risorse in ossequio allo pseudo-scopo dell’ “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Per esemplificare cosa sia opportuno fare in ossequio a tale pseudoscopo possiamo dire che:
l’impegno deve essere massimo quando l’obiettivo è probabile e non soggetto a fattori esterni incontrollabili
l’impegno deve progressivamente ridursi quando il risultato diventa altamente probabile indipendentemente dall’impegno stesso.
L’impegno deve cessare quando il risultato è certamente irraggiungibile e ogni ulteriore tentativo costituirebbe solamente uno spreco di risorse.
La linea di demarcazione tra l’impegno e la rinuncia, in nome del principio del rapporto costi/benefici è determinata da due fattori:
da un lato dalla stima della probabilità del successo in cui gli estremi opposti (successo sicuro o fallimento certo) inducono ad un disimpegno mentre l’area intermedia della probabilità spinge all’impegno.
dall’altro dalla stima di quanto il risultato dipenda dal soggetto stesso o da circostanze esterne non modificabili (il concetto cognitivista di locus of control) (Ellis 1962; Liotti, Guidano 1983; De Silvestri 1981, 1999; Bara 1996).
L’impegno è giustificato da situazioni ad esito incerto e con locus interno. Il disimpegno è conveniente comunque in situazione di locus esterno o di esito certo.
Fin qui il funzionamento efficiente di un sistema che ottimizzi l’utilizzo delle limitate risorse e che preveda, anticipi e gestisca le emozioni cui andrà incontro.
Come è possibile che questo sistema di sicurezza e di risparmio in alcune persone generi tribolazioni?
Devo scomodare di nuovo scopi tutti interni che riguardano l’identità.
Soprattutto su questioni importanti collegate agli scopi terminali (ognuno scelga mentalmente il proprio) non si ha soltanto lo scopo del perseguimento ma anche lo scopo di ritenersi uno che non lascia nulla di intentato pur di ottenere il risultato. Sarebbe certamente terribile fallire l’obiettivo esterno ma lo sarebbe ancora di più fallire anche l’obiettivo interno e considerarsi uno che non ha voluto (colpa) o saputo (incapacità) fare di tutto al fine di……….
Questo scopo interno sull’identità può prevalere sullo pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi” e produrre le seguenti conseguenze:
i successi parziali non vengono presi in considerazioni e ci si priva delle connesse emozioni positive temendo comportino un colpevole accontentarsi con riduzione dell’impegno
gli insuccessi parziali, considerati premonitori di un dolore intollerabile vengono ignorati temendo che producano scoraggiamento e dunque non modulano l’impegno e riaggiustano la mira.
anche di fronte ad un fallimento inevitabile o del tutto indipendente dall’attività del soggetto si continua a profondere il massimo dell’impegno. Inutile completamente per il raggiungimento dello scopo esterno ma utile per il raggiungimento dello scopo interno relativo all’identità di essere uno “che non molla mai e fa di tutto…”.
Tuttavia lo pseudo-scopo transitoriamente accantonato tornerà a valutare la situazione non appena l’emergenza sarà conclusa e lo farà in modo severo con una sequela di autosvalutazioni per come si sono gestite le risorse.
Tribolazioni 03 – Ci Penso Io.
L’orgoglio dell’investire risorse in imprese disperate e assolute non è uguale in tutti gli individui. Alcuni sembrano fanatici talebani in ogni cosa facciano. Prendono tutto maledettamente sul serio. Non conoscono le mezze misure. Fanno sempre le cose fino in fondo e spesso oltre, ci credono veramente. Sono tutti d’un pezzo, non scherzano con le cose serie che per loro sono tutte. Se sono di sinistra faranno i brigatisti. Se cattolici si accoppiano solo secondo le indicazioni vaticane. Se hanno un vizietto diventano drogati all’ultimo stadio e poi si riconvertono in operatori delle comunità per tossici più intransigenti e severe. Sono sempre in buona fede ed in nome di ciò commettono i crimini più orrendi a posto con la coscienza. Geneticamente estremisti e intolleranti. Applicano ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Fanno parte di gruppuscoli estremisti con vaste categorie di cibi fanaticamente vietati. Il rigore è essenziale sempre. Altri invece, hanno l’atteggiamento opposto che è quello che caratterizza, neIl’immaginario collettivo, i romani.
Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè.
L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative nei termini della fatica che comportano e la regola decisionale assoluta è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non lo fa con gli altri. “vive e lascia vivere”.
Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito.
Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica sia il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una scuola elementare o l’usciere al ministero.
L’utilizzo del MDMA permette ai pazienti di rievocare in modo meno doloroso i ricordi e le immagini legati all’evento traumatico, con la conseguente maggiore capacità di ricostruire il trauma senza far scattare la paura.
L’argomento sembra essere piuttosto interessante, considerato lo scalpore suscitato nella comunità scientifica americana. La questione ruota attorno all’innovativa scoperta che ha messo in luce come l’MDMA (la sostanza attiva nella droga come l’ecstasy) possa essere utilizzata nel trattamento di problematiche psicologiche legate al disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
Venticinque anni di ricerca in questo campo, capitanate da Rick Doblin e riunite attorno all’istituto MAPS (Medical Association for Psychedelic Studies), ha portato l’equipe americana a proporre, al Pentagono, l’utilizzo di MDMA per curare i militari vittime di esperienze traumatiche.
Articolo Consigliato: Ketamina: nuova strada per la cura della Depressione?
Sicuramente una richiesta coraggiosa, ma che poggia su risultati concreti e significativi. Nel 2010 l’Istituto MAPS, infatti, porta a compimento un esperimento coordinato dallo psichiatra Michael Mithoerfer, in cui 19 soggetti affetti da PTSD furono sottoposti ad un trattamento psicoterapeutico con uso di MDMA. Tra loro, 14 soggetti sperimentarono effetti positivi dopo un lasso di tempo da uno a sei anni dalla terapia. Lo studio, divulgato in internet, provoca interesse a livello internazionale, incoraggiando diverse equipes di ricercatori degli Stati Uniti, Svizzera ed Israele, ad approfondire questi risultati.
Attualmente, gli studi del dott. Mithoefer continuano in questa direzione. L’idea è quella di offrire a soggetti affetti da PTSD una psicoterapia accompagnata dall’uso di MDMA, caratterizzata da circa 3/5 sedute al mese di otto ore ciascuna.
Qual è l’obiettivo di un trattamento così strutturato? L’utilizzo del MDMA permette ai pazienti di rievocare in modo meno doloroso i ricordi e le immagini legati all’evento traumatico, con la conseguente maggiore capacità di ricostruire il trauma senza far scattare la paura.
L’effetto del MDMA permette quindi di rievocare queste memorie più facilmente, in modo che il ricordo doloroso possa essere rivissuto dal paziente e trattato in psicoterapia.
Il panorama su cui si affacciano queste numerose ricerche non è solo quello relativo all’utilizzo di MDMA. LSD, ayahuasca – un miscuglio di piante allucinogene utilizzate dagli sciamani in Amazzonia utile per i trattamenti delle dipendenze- o ancora psylocybine, una sostanza attiva che si trova nei funghi allucinogeni: sono tutte sostanze “alternative” che negli ultimi decenni hanno interessato largamente la comunità scientifica e nei confronti dei quali sono stati intrapresi diversi studi per verificarne gli effetti.
David Nutt, già militante in Gran Bretagna per la legalizzazione della cannabis, si è interessato alla sperimentazione degli effetti delle droghe nella cura dei sintomi depressivisu volontari insensibili ai trattamenti convenzionali. La volontà di Nutt è quella di continuare con la ricerca in questo campo, ma l’ostacolo principale per il raggiungimento di questo obiettivo è evidente ruota attorno alla difficoltà da parte del governo e dello Stato di legittimare l’utilizzo di droghe psichedeliche in campo psichiatrico.
All’apertura del congresso annuale delle neuroscienze britanniche, il 7 aprile a Londra, Nutt ha espresso pubblicamente il proprio dissenso nei confronti delle Istituzioni governative, responsabili, a parer suo, di rallentare e influenzare negativamente la ricerca scientifica in questo ambito. Eppure, l’entusiasmo con cui la società americana ha accolto la richiesta da parte del MAPS di curare i militanti traumatizzati tramite MDMA, potrebbe fare ben sperare.
Il giro di boa, comunque, potrebbe essere rappresentato dall’ufficializzazione dell’interesse da parte dei soldati per questo tipo di cura, interesse, questo, che potrebbe a una maggiore accettazione nell’utilizzo di droghe psichedeliche nella cura psichiatrica.
Lover, you should have come over, Jeff Buckley, 1994
Jeff Buckley (novembre 1966 – maggio 1997) cantautore e chitarrista statunitense.
La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava.
Immaginiamo di aver visto papà nel corso della nostra infanzia soltanto due volte e di aver sentito la sua voce, quella che detta le regole, che sgrida se facciamo tardi la sera, che rassicura quando ci sentiamo in pericolo, che fa il tifo durante le partitelle, praticamente solo attraverso dei complicati dischi di cross-over folk-rock sperimentale. In un caso del genere si potrebbe essere assaliti da un forte bisogno di rivalsa che, mischiato a un patrimonio genetico musicale di prim’ordine, può dare origine a un grande musicista.
La storia di Jeff Buckley (1966-1997), ottimo chitarrista e cantante americano, si sovrappone per pochi anni a quella del padre Tim (1947-1975), geniale cantautore morto di overdose all’età di ventotto anni. Jeff è stato un figlio d’arte anomalo, nel senso che la sua fama ha sicuramente superato quella del padre, venerato più dai critici che dal pubblico, a differenza di tanti artisti che hanno tentato di seguire le orme di genitori famosi, incorrendo in impietosi flop.
Articolo Consigliato: Amy Winehouse, un triste viaggio tra pub e Rehab
La famiglia di origine irlandese dei Buckley è stata caratterizzata da una tradizione di difficile paternità a partire dal nonno, uomo affetto da depressione con abuso di alcol e indurito dalla seconda guerra mondiale, che ha segnato a tal punto il figlio Tim, da farlo letteralmente fuggire di fronte alle proprie responsabilità genitoriali, preferendo ad esse la carriera del trobadour.
Tim e Mary, madre di Jeff e pure lei dotata di un grande talento musicale, si sposarono giovanissimi, con lei in stato di gravidanza, rivelatasi, dopo le nozze, di tipo isterico. La gravidanza isterica, nota fin dai tempi di Ippocrate, è tipica di donne che combattono da anni contro l’infertilità, mentre in un caso come questo potrebbe avere alla base un ardente desiderio di rafforzare, tramite il vincolo matrimoniale, un legame precario con il compagno, che stava muovendo i primi passi sulla scena musicale (Small, 1986).
L’anno seguente Mary rimase davvero incinta e Tim la lasciò per registrare dischi e suonare in giro per gli States. E’ di quel periodo la canzone-scappatoia I Never Asked To Be Your Mountain (1967), in cui l’artista ammette “Lei dice: quel farabutto di tuo padre è scappato con una ballerina che chiama regina”.
L’infanzia di Jeff trascorse così all’insegna del non mettere radici, per via dei continui spostamenti della madre da un posto all’altro del paese e anche il periodo di stabilità del secondo matrimonio di Mary con il meccanico Ron, che Jeff riconosceva come “il suo vero padre”, durò poco tempo.
L’artista incontrò il padre naturale in due occasioni: all’età di due anni, quando gli fece una breve visita insieme alla madre, e all’età di otto anni, quando trascorse una settimana insieme alla nuova compagna di Tim e al fratellastro.
Durante i periodi di lontananza il silenzio assoluto: mai una lettera o una telefonata, nemmeno per i compleanni o le feste comandate. Un pensiero sofferto al figlio e alla ex moglie pare emergere solo nella canzone Dream Letter (1969), dove Tim afferma “Stasera vorrei sapere solo qualcosa di te e del mio bambino / E’ un soldato o un sognatore? / E’ l’ometto della mamma? / Ti aiuta quando riesce? Ti chiede di me?”. Tim morì tre mesi dopo quell’ultimo incontro e Jeff e la madre non furono invitati al funerale.
In questa storia di sviluppo sicuramente traumatica, Jeff trovò nella musica un porto sicuro a cui approdare, anche grazie a un talento straordinario, a partire dal dono dell’orecchio assoluto. Chi ha l’orecchio assoluto riesce a distinguere l’altezza esatta di ogni nota, senza confrontarsi con uno standard esterno. Si stima sia presente in meno di un individuo su diecimila e sia più facile da trovare tra i musicisti che hanno ricevuto un’educazione musicale precoce, anche se la componente genetica pare avere una sua importanza (Sacks, 2008).
Il fantasma del padre aleggiò nella vita e nella carriera artistica di Jeff, che esordì nel 1991 sulla scena musicale proprio in un concerto tributo a Tim Buckley, in cui aggiunse un paio di strofe a I Never Asked To Be Your Mountain, come se volesse coronare il suo sogno di scrivere un brano insieme al padre. I sentimenti di Jeff nei confronti della figura paterna erano ovviamente caratterizzati da una forte ambivalenza. Parlava mal volentieri di Tim e in un’intervista dichiarò che “La sua sola influenza è quella della sua assenza”.
La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava. Il superamento del complesso edipico favorisce l’instaurarsi del Super-Io, si abbandona l’onnipotenza propria della relazione materna per accedere all’idea del limite paterno, che implica il riconoscimento dell’altro e l’individuazione con un’identità propria (Gabbard, 1995).
Articolo Consigliato: Il Padre: La Follia nel Teatro di August Strindberg
Le biografie descrivono Jeff infatti come una persona estremamente sensibile, sempre alla difficile ricerca di una propria identità, dai confini poco definiti, a tratti eterea. Fin da piccolo aveva uno spiccato talento per le imitazioni, che utilizzò in seguito a livello artistico per interpretare meravigliosamente le cover, che in certi casi hanno superato la notorietà delle versioni originali (ad esempio Halleluja di Leonard Cohen). Era un interprete straordinario, una sorta di juke box umano, capace di performance intensissime e che riusciva a incantare il pubblico suonando per ore cover di artisti diversissimi, dai Led Zeppelin a Edith Piaf.
Era più portato a filtrare e impreziosire brani di altri, attraverso la propria sensibilità, che a comporne dei sui. Nella sua breve vita registrò un unico disco di brani originali e cover, grace (1994), che per molti è considerato una delle opere musicali più intense e importanti degli anni Novanta. Come per altri giovani artisti dall’animo fragile, il comporre canzoni proprie rappresentava un processo doloroso e catartico, in cui si stabiliva un contatto con le parti di sé più penose e inaccettabili. In più c’era un’ innegabile paura del confronto con le composizioni paterne, che contribuiva a renderlo un cantautore poco prolifico.
Nonostante fosse efficacissimo anche come onemanband, ha sempre cercato nei tanti musicisti con cui ha suonato, oltre a un completamento sul versante artistico, una sorta di famiglia musicale, dove trovare accudimento e protezione.
Jeff visse molto male il passaggio da grande promessa della musica che si esibiva in piccoli locali come il leggendario Sinè di New York, a professionista del roc, alle dipendenze di una major come la Columbia, in cui doveva rispondere ad esigenze di mercato e a ben poco romantiche aspettative commerciali.
E’ in questo periodo che inizia la parabola discendente esistenziale dell’artista, che manifesta nell’uso sempre più massiccio di alcolici (soprattutto vodka e tequila Cuervo), cannabinoidi (iniziato in realtà fin dall’adolescenza), e qualche deragliamento nelle droghe pesanti (extasy, eroina e cocaina), seppure senza mai arrivare al punto di “fottersi il cervello”, come ricorda l’amico Chris (Apter, 2010).
In un’intervista dichiarò che fu la stessa madre ad offrirgli le prime droghe, perché aveva paura di quello che avrebbe potuto comprare per strada (Steele, 2001). Non c’è male come strategia preventiva di limitazione del danno!
Impossibile non tracciare un parallelismo e una sorta di sfida con il padre anche in questo tipo di condotte. A parte una tormentata relazione con Joan Wasser (musicista nota come Joan as a Policewoman), la vita affettiva di Jeff è trascorsa all’insegna della promiscuità, anche per via di quell’aspetto angelico che lo rendeva, spesso suo malgrado, un vero sex symbol a livello internazionale.
Nel tentativo di fare pace coi propri demoni del passato, quando viveva a New York, Jeff affrontò anche una psicoterapia con una terapeuta afroamericana sulla settantina, nota ai sui clienti come Sig.ra Williams. Il rapporto si concluse bruscamente quando la terapeuta ebbe un infarto in vacanza. Pare che Jeff rimase molto scosso da questo evento, che rappresentava l’ennesima separazione dolorosa della sua vita.
Non è chiaro dalle biografie se la terapeuta fosse morta o avesse semplicemente interrotto la propria attività per il grave problema di salute. Jeff era comunque in procinto di trasferirsi a Memphis, la culla del rock americano che aveva dato i natali a Elvis Presley, per registrare l’agognato secondo disco. La permanenza a Memphis fu caratterizzata da atteggiamenti scontrosi, sbalzi d’umore, disforia e dalla ricerca di un nuovo terapeuta. Più persone hanno testimoniato come in quel periodo Jeff avesse comportamenti insoliti, come telefonare a conoscenti che non sentiva da mesi o anni, per chiedere se stessero bene o per dirgli che gli voleva bene, come se percepisse un pericolo imminente.
Articolo Consigliato: La paura dell’abbandono
Poco dopo si consumò la misteriosa tragedia che mise fine alla sua vita. Una sera di maggio, mentre si recava alle prove con il suo roadie, si perse per Memphis e decise di andare a fare un bagno nel Wolf River, un affluente del Mississipi, in una zona non balneabile.
Erano quasi le nove di sera e Jeff si immerse nel fiume completamente vestito, anfibi compresi. Il passaggio di un battello creò una potente corrente che portò il musicista ad annegare. L’autopsia non rivelò la presenza di sostanze stupefacenti o alcol e per i più si trattò di un drammatico incidente, di un tragico destino.
Personalmente mi trovo d’accordo con il commento di uno dei suoi musicisti rispetto all’accaduto: “Non credo si sia suicidato, ma quello che faceva era suicida”. Le circostanze che hanno portato al decesso denotano quantomeno una certa impulsività, il non calcolare le conseguenze delle proprie azioni, che è considerato un fattore di rischio per comportamenti suicidiari e parasuicidiari (Pompili et al., 2009).
E’ come se Jeff in questo caso, forse in modo non del tutto conscio, provasse una sorta di scarsa considerazione rispetto al valore inestimabile della propria vita e della sua unicità. Pareva guidato da un continuo sensation seeking, dalla necessità di fare più esperienze possibili, che lo facevano sentire vivo, ma che alla fine l’hanno portato a morire. D’altra parte non temeva la morte perché la conosceva, forse era sempre stata dentro di lui, fin dalla scomparsa di Tim. “Il mio momento sta arrivando / non ho paura di morire” canta in Grace, e poi ancora “Cade la pioggia e credo sia arrivato il mio momento”.
Articolo Consigliato: Della Morte e del Morire.
Morte e acqua, un sentimento profetico che ricorreva in diverse sue canzoni. Quando reinterpretò I Never Asked To Be Your Mountain di Tim al suo concerto tributo aggiunse ad esempio le strofe “Voglio sentirmi attraversato dalla marea/ voglio sentire il pesce nuotare dentro di me”.
Sembra quasi un desiderio di ritorno a un elemento acquatico primordiale, come il liquido amniotico materno, un bisogno di regredire in un ambiente protettivo di fronte a momenti di sofferenza intollerabile, in cui accenna in brani come Murder Suicide Meteor Slave (1997), “Schifato dall’infanzia vomitevole/ Neanche uno schiavo per tuo padre/ Oh, tu sei schiavo di tutto ciò ora”. Nella storia musicale di Jeff Buckley, mi ha colpito molto il fatto che, sebbene fosse di origini rock, riconobbe il musicista e mistico pakistano Nusrat Fateh Ali Khan come “il suo Elvis”, un idolo assoluto di cui interpretò alcuni brani, spingendosi nell’impresa di cantare in urdu. Difficile non pensare che oltre a un artista esotico a cui ispirarsi, cercasse nel maestro sufi anche una figura paterna.
Pompili M, Del Casale A, Forte A, Falcone I, Palmieri G, Innamorati M, Fotaras M, Tatarelli R, Lester D. Impulsiveness and Suicide Risk. A Literature Review. in Impulsivity: Causes, Control and Disorders by Nova Science Publishers, 2009
La Famiglia Omosessuale in Italia tra Dogmi e Ricerca Scientifica
di Federico Calemme
In occasione della Giornata Internazionale
contro l’Omofobia e la Transfobia,
State of Mind propone un articolo che possa favorire la riflessione in merito alla situazione attuale della “Famiglia Omossesuale” in Italia.
Non vi sono differenze significative tra omosessuali e eterosessuali né in relazione alla genitorialità biologica (Temperamenti), né in relazione a quella adottiva (Caratteri).
L’Italia è l’unico paese dell’Ovest europeo a dire “NO” alla famiglia omosessuale, nonostante la ricerca scientifica sostenga i diritti LGBT.
Liberté, Egalité, Sexualité! Questo l’inno che lo scorso 23 Aprile ha accompagnato Parigi all’approvazione della legge a favore dei matrimoni e delle adozioni per le coppie omosessuali. All’alba della VII Giornata Internazione contro L’Omofobia e la Transfobia (che dal 2007 si celebra ogni 17 Maggio), la Francia è il nono Paese europeo che riconosce legalmente la famiglia omosessuale all’interno di un contesto internazionale che vede la lotta per i diritti LGBT (Lesbian, Gay, Bisexual & Transgender) sempre più accesa.
L’Europa del 2013 corre verso un futuro in cui la discriminazione e la mera tolleranza vengono sostituite dal rispetto e dall’uguaglianza tra le persone, una corsa che purtroppo vede l’Italia sulla linea di partenza: il Bel Paese non riconosce né le unioni né le adozioni omosessuali, in un tacito accordo politico con la sede Vaticana, che vede nella famiglia gay “una minaccia per la pace” (Papa Benedetto XVI, 2012). Le decisioni dello Stato Italiano sembrano infatti dettate da pregiudizi e dogmi senza alcuna conferma scientifica, dato che gli ultimi vent’anni di ricerche si schierano a favore dell’omogenitorialità (Patterson 1994, 2001; Wainright & Patterson, 2008; Gartrell et al., 1996, 1999, 2000, 2005).
Articolo Consigliato: Gruppi Gay di Auto Aiuto. Alcune riflession
Quali sono effettivamente i fattori che possono discriminare un buon genitore da un cattivo genitore? L’orientamento sessuale è una discriminante importante?
Nel 2012 una ricerca italiana (La Marca, 2012) svolta su famiglie eterosessuali, ha confermato l’importanza della trasmissione transgenerazionale sullo sviluppo del minore, individuando negli stili di personalità dei genitori una variabile essenziale di discriminazione tra un buon genitore e un cattivo genitore. Inoltre, La Marca sembra confermare lo stereotipo di “mamma accudente” e “padre normativo”, individuando nelle madri una funzione predominante nella trasmissione dell’affettività.
Da questi risultati e dal mio interesse per il riconoscimento dell’adozione alle coppie omosessuali, ho deciso di indagare meglio gli stili di personalità di coppie eterosessuali e di coppie gay e lesbiche, nel tentativo di fornire un contributo e dati empirici sull’ipotetica infondatezza dell’impedimento italiano all’omogenitorialità. In altre parole, rilevare una sostanziale uguaglianza tra gli stili di personalità di eterosessuali e omosessuali, implicherebbe una uguale capacità genitoriale tra gay e etero. Inoltre, ho tentato di capire se la mancanza di uno dei due generi all’interno della coppia potesse intaccare la presenza delle due funzioni genitoriali principali di affettività e normatività: la presenza di due madri porterebbe ad una trasmissione di un insufficiente numero di norme e regole? Due padri darebbero un contributo emotivo-affettivo non adeguato al benessere del minore?
Il progetto di ricerca si è basato sulla somministrazione a 52 coppie eterosessuali e 52 omosessuali di un questionario di personalità (TCI-R, Cloninger 1999), costruito a partire dalla teoria biosociale generale di personalità (Cloninger, 1987), che distingue i Temperamenti, stili di personalità indipendenti e geneticamente determinati, dai Caratteri, stili di personalità appresi nel corso della vita. Questa distinzione è importante perché anche nell’essere padre e madre possiamo distinguere tra genitorialità biologica, in relazione al peso che il patrimonio genetico ha sul corretto sviluppo dei figli, e genitorialità adottiva, legata all’educazione che il genitore impartisce nel corso della vita del minore.
I risultati della ricerca evidenziano come NON vi siano differenze significative tra omosessuali e eterosessuali né in relazione alla genitorialità biologica (Temperamenti), né in relazione a quella adottiva (Caratteri), a eccezione di una minor accettazione di se stessi negli omosessuali, probabilmente frutto di una società eterocentrica in cui un gay e una lesbica hanno più difficoltà a rispecchiarsi.
Questo importante risultato non verte solo a favore dell’adozione omosessuale, ma offre anche uno spunto di riflessione in relazione al controverso tema della fecondazione assistita: dichiarare infatti che l’orientamento sessuale non influenza la genitorialità biologica infligge una profonda ferita alla legge che impedisce alle coppie omosessuali di poter accedere alle tecniche di procreazione artificiale (divieto non espresso direttamente, ma attraverso l’impedimento di accesso a tali procedure a tutte le coppie non sposate).
Inoltre, in relazione alle funzioni affettiva e normativa, si è rilevato un probabile meccanismo di gap-filling, per cui nelle coppie lesbiche si sono riscontrati maggiori livelli di normatività, mentre tra gli uomini gay vi è una più accentuata affettività rispetto agli eterosessuali. Un’ulteriore conferma all’idoneità genitoriale della comunità LGBT, in cui la mancanza di uno dei generi nella coppia non sembra creare lacune nella trasmissione di entrambe le funzioni genitoriali principali.
Questa ricerca, con tutti i suoi limiti metodologici, è solo l’ennesima conferma dell’inadeguatezza della Legge Italiana, una legge che chiude gli occhi di fronte all’evidenza scientifica, una legge che NON è uguale per tutti.
Fino a quando il nostro Paese rimarrà sullo sfondo di un’Europa che evolve?
Articolo consigliato: Disgusto o umanità? Contro l’Omofobia
BIBLIOGRAFIA:
La Marca, S. (2012). Tendenze e stili adolescenziali devianti e dinamiche familiari. Dottorato di ricerca in psicologia Sociale, XXIII Ciclo. Università degli Studi di parma, Dipartimento di Psicologia.
Kay Toon ha appena lanciato una App per smartphone: K2N The Journey Begins, unica App disponibile per aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali.
Kay Toon, psicologo clinico, ha lavorato più di 20 anni nel servizio sanitario nazionale con vittime di abusi sessuali e si è occupato dello sviluppo di terapie innovative; è anche autore del best seller “Breaking Free: Help for Survivors of Child Sexual Abuse”, e ha appena lanciato una App pionieristica per smartphone: K2N The Journey Begins. Questa è l’unica App disponibile che mira ad aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia (uno su quattro).
Articolo consigliato: Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione
K2N The Journey Begins (gratuito) è la prima App della “Breaking Free series”. L’applicazione guida i sopravvissuti passo passo attraverso i problemi derivanti dall’avere subito abusi nell’infanzia.
“Le applicazioni consentono ai sopravvissuti che sono in imbarazzo o provano vergogna per gli abusi subiti in passato di accedere alle applicazioni in privato e ogni volta che vogliono. Anche gli amici e familiari dei sopravvissuti possono essere aiutati con l’uso delle app nella comprensione delle conseguenze dell’abuso su chi l’ha subito”, dice Toon.
Gli esercizi nelle applicazioni si basano su esercizi provati e testati dai libri “Breaking Free” (80.000 copie vendute a livello internazionale).
Altre applicazioni disponibili della serie sono “k2n Keeping Safe” (proteggersi) e “k2n Feeling Guilty” (sentirsi in colpa), con ulteriori applicazioni in fase di sviluppo.
L’enfasi in tutte le applicazioni è su come mantenersi al sicuro, e sottolineano che la responsabilità dell’ abuso è sempre dell’abusante e mai del bambino abusato.
Ansia Sociale: Non Tutto lo Stress viene per Nuocere
“Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei l’altro.”
Andrea Camilleri
Il Disturbo di Ansia Sociale è la paura marcata e persistente di trovarsi in una particolare situazione sociale da cui possa derivare la possibilità di essere valutati negativamente dagli altri, tale timore compromette le abilità del soggetto durante la situazione specifica.
Uno dei maggiori timori di chi soffre di ansia sociale è parlare in pubblico, il soggetto teme di non riuscire e, di conseguenza, di ricevere un giudizio negativo dai presenti. Conseguentemente le situazioni sociali e prestazionali sono evitate.
L’ansia è il sintomo prevalente della fobia sociale e le sue manifestazioni (rossore, tachicardia, sudorazione, tremori, bocca asciutta, confusione, ecc.) possono effettivamente determinare la realizzazione della minaccia temuta, cioè non riuscire nella propria performance e fare la cosiddetta “figuraccia”.
Secondo una nuova ricerca pubblicata su Clinical Psychological Science, per gestire la paura del pubblico è molto utile incoraggiare il soggetto, riformulando il significato dei segnali di stress che il corpo invia. Secondo Jamieson, l’autore principale dello studio, il problema deriverebbe proprio dal pensare che lo stress sia esclusivamente un fattore negativo.
Articolo Consigliato: Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale – Parte 1
In realtà, i segnali che il nostro corpo ci invia sono soltanto un modo per comunicarci che stiamo per affrontare una situazione impegnativa, il corpo pompa più sangue verso i nostri muscoli e manda più ossigeno al cervello. La reazione del nostro corpo allo stress sociale è la stessa che produciamo davanti ad un pericolo fisico.
Per comprendere come la gente possa sfruttare i vantaggi dello stress senza essere sopraffatta dalla paura, Jamieson e collaboratori hanno utilizzato il Trier Social Stress Test, uno dei metodi di laboratorio più affidabili per indurre lo stress come risposta ad una minaccia (Kirschbaum et al., 1993).
Nello studio, è stato chiesto a 69 adulti di tenere un discorso di cinque minuti, circa i loro punti di forza e di debolezza, con solo tre minuti per prepararsi. Circa la metà dei partecipanti ha avuto una storia di ansia sociale. Sono stati creati due gruppi a cui i soggetti sono stati assegnati in maniera randomizzata. Il primo gruppo ha ricevuto informazioni sui vantaggi di risposta allo stress del corpo e ha incoraggiato a reinterpretare i segnali corporei, emessi durante il compito di parlare in pubblico, come benefici e normali. A questo gruppo è stato inoltre chiesto di leggere una sintesi di tre studi di psicologia che hanno mostrato i vantaggi dello stress. Il secondo gruppo non ha ricevuto alcuna informazione sullo stress.
I partecipanti hanno esposto il loro discorso davanti a due giudici, i quali, di proposito, hanno mandato feedback non verbali di tipo negativo per tutta la presentazione, scuotendo la testa in segno di disapprovazione, toccando i loro appunti, e fissando impassibili il soggetto sperimentale.
Dopo il discorso, i partecipanti sono stati invitati a contare all’indietro dal numero 996, per cinque minuti a passi da sette. Anche qui, i valutatori hanno fornito un feedback negativo per tutto il tempo.
Di fronte ai giudici contrariati, i partecipanti che non hanno ricevuto la preparazione allo stress, hanno sperimentato una risposta di minaccia, come mostrato dai valori cardiovascolari. Ma il gruppo che è stato preparato, circa i benefici di stress, ha mostrato una maggiore resistenza alla prova. I soggetti hanno riferito la sensazione di avere più risorse per far fronte al compito e, significativamente, le loro risposte fisiologiche hanno confermato tali percezioni.
Sorprendentemente, questo studio ha anche scoperto che le persone che soffrono di ansia sociale, in realtà, non hanno avuto un maggiore aumento di eccitazione fisiologica, rispetto ai non-ansiosi, nonostante la segnalazione di più intensi sentimenti di apprensione.
Articolo consigliato: Il Potere della Timidezza. Introversione, estroversione e stili di pensiero.
Gli autori ritengono che tale risultato sostenga la teoria che la nostra esperienza di stress acuto o di breve durata dipenda da come noi interpretiamo i segnali fisici.
Questa ricerca è molto rilevante perchè sostiene e dimostra sperimentalmente quella che è la base della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): non è l’evento in sé a determinare reazioni e comportamenti ma, piuttosto, l’interpretazione personale di tale evento.
Oltre a dimostrarne il principio fondamentale, tale ricerca riesce anche a rendere visibile il risultato di quello che è il risvolto pratico della TCC: condurre il soggetto a reinterpretare e ristrutturare i propri pensieri, aiutandolo così a modificare le azioni conseguenti.
Tale prospettiva corregge la concettualizzazione dello stress, promuovendo modelli di risposta che, pur mantenendo l’eccitazione stressante, consentono di ottenere prestazioni ottimali.
Ecco il video in cui l’autore della ricerca illustra rapidamente la procedura sperimentale:
Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio.
La psicoanalisi è una prassi, specificamente una prassi diadica. E’ nello stesso tempo un’esperienza di gruppo, anzi comunitaria. Gli uomini e le donne che esercitano la professione psicoanalitica nell’intimità dei propri studi si incontrano periodicamente in contesti istituzionali: condividono le proprie esperienze cliniche, discutono possibili modelli interpretativi, cercano di formulare delle generalizzazioni teoriche. Una dimensione cruciale dell’istituzione psicoanalitica è l’addestramento e la selezione di nuovi membri del gruppo.
La psicoanalisi è dunque una comunità professioinale, o meglio un insieme di comunità professionali, il cui numero è in continua crescita. Tutti gli esseri umani, peraltro, vivono esperienze importanti nel contesto di vari gruppi formalizzati, nettamente distinti sia dai gruppi basati sui legami familiari, sia dalle aggregazioni amicali informali.
La partecipazione ad alcuni gruppi istituzionalizzati ha un ruolo chiave nella determinazione dell’identità personale. L’appartenenza a tali gruppi comporta la condivisione di convinzioni fondamentali sulla natura dell’uomo e di valori etici. Ciò vale ad esempio per le chiese, le organizzazioni politiche, i movimenti sociali e, attualmente, la psicoanalisi.
Freud ha contribuito in modo decisivo alla nostra comprensione dei fenomeni sociali, ma non si interessò del funzionamento dei gruppi in una prospettiva clinica. Negli anni ’40 i fenomeni gruppali furono oggetto di indagini autenticamente psicanalitiche da parte di Siegfried Foulkes (1978). Dobbiamo a Wilfred Bion (1961) una geniale e pionieristica teorizzazione delle modalità inconsce di funzionamento dei gruppi. Da queste radici è nato l’attuale movimento gruppo analitico, attivo e multiforme.
Articolo Consigliato: Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?
Tuttavia, resta un dato di fatto che la nascita e lo sviluppo dell’istituzione psicoanalitica sono avvenuti al di fuori di qualsiasi consapevolezza delle forze inconsce che plasmano e condizionano i gruppi ed i fenomeni sociali. La psicoanalisi come istituzione si è sviluppata sotto l’azione delle stesse forze inconsce ed obbedendo alle stesse regole di funzionamento che sono attive implicitamente in qualsiasi gruppo sociale. Tra tali forze e regole richiameremo qui quelle che esercitano l’impatto più evidente sulle caratteristiche e sul funzionamento attuale del movimento psicoanalitico.
Condivisione di convinzioni su aspetti fondamentali della realtà. Tutti i gruppi umani condividono importanti convinzioni. Un accordo sugli obiettivi fondamentali della vita e sulla rappresentazione di sé e degli altri è apparentemente un prerequisito della stabilità e della coesione di un gruppo. I bambini si fidano degli insegnamenti dei genitori sulla vita e sulla natura degli esseri umani, finché l’adolescenza non li spinge ad allentare i propri legami con la famiglia. E la ribellione contro la visione del mondo dei genitori è spesso il primo stadio di tale processo di separazione. Il ruolo cruciale svolto da una fede comune nelle organizzazioni religiose e politiche è del tutto evidente.
Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio. Scuole lontane tra loro come la psicologia dell’Io e l’approccio kleiniano si sono sviluppate e sono cresciute l’una accanto all’altra. Nella seconda metà del XX secolo il movimento psicoanalitico è stato ripetutamente scosso dalla comparsa di nuove idee, nuove tecniche terapeutiche, e dall’estensione del trattamento psicoanalitico ad un numero crescente di condizioni cliniche e di fenomeni culturali.
Tuttavia, se riflettiamo su questi processi di rinnovamento in una prospettiva storica, siamo costretti ad attenuare il nostro ottimismo. E’ evidente ad ogni osservatore che il settore sta diventando meno fecondo. Il conformismo e i bisogni simbiotici che inducono ad evitare conflitti all’interno dell’organizzazione contribuiscono senza dubbio a questo fenomeno. Questa problematica dovrebbe essere oggetto di una maggiore attenzione da parte di tutti coloro che sono interessati al destino della psicoanalisi.
Confini. Le comunità hanno confini. Le comunità politiche – nazioni, stati città – hanno confini geografici e amministrativi. Anche le comunità ideologiche, filantropiche o religiose hanno dei confini.
La partecipazione alla vita del gruppo è condizionata da regole di ammissione. Tali regole vengono variamente motivate. Nelle comunità professionali il principale requisito di ammissione è in genere l’accertamento di determinate conoscenze e capacità. Anche nelle organizzazioni psicoanalitiche la competenza professionale è considerata un fattore decisivo nei processi selettivi.
Tuttavia, la psicologia sociale ci insegna che la restrizione all’accesso è una regola comune a tutti i gruppi umani, o quasi. Nelle società tradizionali l’accesso a determinate classi di età così come a determinati ruoli sociali, è ritualizzato ed implica spesso il superamento di determinate prove di accesso (Van Gennep, 1909).
Di fatto, quanto più un gruppo è coeso, quanto più l’appartenenze al gruppo è concepita come centrale rispetto all’identità individuale e ai valori personali del membro, tanto più l’ammissione alla comunità è condizionata al superamento di prove impegnative, o all’offerta o alla rinuncia a qualcosa di prezioso sul piano personale o sociale.
L’ordinazione sacerdotale implica la disponibilità a rinunciare completamente alla vita sessuale. L’appartenenza a molti gruppi religiosi, ma anche politici, implica la rinuncia ad una parte consistente del proprio reddito a favore del movimento. La condivisione di stili di vita o credenze comunemente ritenuti inaccettabili o disprezzati è una componente importante in molti gruppi religiosi minoritari, e promuove sia la coesione interna al gruppo che l’isolamento dalla società esterna.
L’ammissione alla comunità psicoanalitica, sia essa l’ortodossa IPA o una delle molteplici scuole attualmente attive, implica sempre una esperienza psicoanalitica personale lunga ed intensiva con un membro esperto dell’organizzazione. I criteri formalizzati per l’ammissione dei candidati prevedono l’accertamento delle capacità professionali e delle qualità umane del candidato, quindi dei risultati attesi dal trattamento psicoanalitico, non una valutazione del processo di trattamento.
Tuttavia, il legame strutturale tra l’analista didatta e l’elite dell’organizzazione psicoanalitica di riferimento è evidente ed insito nelle regole di ammissione. Di conseguenza la selezione dei candidati non è e non potrebbe essere indipendente dalla forma assunta dal transfert nel corso dell’analisi didattica.
Articolo Consigliato: Religione- Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra.
Ciò significa che involontariamente ma inevitabilmente le istituzioni psicoanalitiche tendono ad ammettere candidati che producono transfert idealizzanti o comunque prevalentemente positivi. Strutture di personalità più ambivalenti, competitive o aggressive mantengono sempre una componente di ambivalenza verso l’oggetto di transfert, anche quando analizzate a fondo.
Di fatto, i criteri convenzionali di selezione dei candidati favoriscono strutture di personalità dipendenti o inclini all’idealizzazione. L’elaborazione di tali tratti di personalità oblativi tramite il lavoro interpretativo risulta ostacolato, perché viene inconsciamente percepito dal candidato come una minaccia alla propria crescita professionale e personale, che lo espone al rischio di essere respinto e rifiutato dalla comunità professionale a cui egli attribuisce valenze parentali.
Dobbiamo essere consapevoli che le procedure di selezione attualmente adottate dalla maggioranza delle istituzioni psicoanalitiche influenzano e condizionano in maniera rilevante le strutture di personalità prevalenti tra i membri. L’aggregazione di professionisti complianti e conformisti è di conseguenza più agevole e quantitativamente maggioritaria. Il legame tra analisi personale e training è deleterio e tende attualmente a conferire alle istituzioni psicoanalitiche il carattere di gruppi altamente coesi, in cui il conflitto è temuto e le risorse disponibili per i processi creativi sono insufficienti.
Scissione. La scissione consente all’individuo di liberarsi dalle componenti temute o disturbanti della personalità o degli oggetti d’amore, che possono quindi essere proiettate su rappresentazioni d’oggetto esterne al nucleo centrale del sé. Nei gruppi la scissione consente ai membri del gruppo di proteggere l’immagine idealizzata del gruppo e di percepire l’ostilità, l’aggressività, l’invidia ed ogni sorta di ostacolo alla vita ed allo sviluppo, come provenienti da oggetti esterni al gruppo.
La scissione è attiva in ogni gruppo umano: dalle bande di bambini ai tifosi di una squadra di calcio, dalle scuole filosofiche alle nazioni. Le conseguenze di fenomeni incontrollati di scissione e proiezione sono tragiche e rappresentano probabilmente la più pericolosa forza motivazionale all’origine della guerra, e di altre forme di uccisione di esseri umani.
Nella vita sociale degli psicoanalisti non vediamo alcun pericolo di violenza. Ma processi di scissione incontrollati ed in gran parte inconsci creano danni sostanziali anche nel nostro settore. La maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche lodano il dialogo: con i neuroscenziati, i terapeuti cognitivi, i registi, i leader religiosi. Ma quando si tratta di membri di organizzazioni psicoanalitiche concorrenti, non è tollerato alcun contatto significativo. Un veto particolarmente severo li esclude dalla discussione clinica di casi psicoanalitici.
In molti gruppi formalizzati sono attive analoghe regole di esclusione: dalle sette religiose ai partiti politici con forti valenze ideologiche. Tali veti hanno evidentemente e la funzione di proteggere il nucleo centrale della vita del gruppo dal conflitto e dall’ostilità proveniente dall’esterno. Ma il danno per lo sviluppo intellettuale delle organizzazioni psicoanalitiche è molto serio.
L’interazione dialettica con punti di vista diversi, anche contrastanti, è vitale per le organizzazioni scientifiche. E’ un prerequisito del progresso intellettuale. L’esclusione dal dibattito scientifico di contributi significativi realizzati da ricercatori o clinici non appartenenti all’organizzazione implica la perdita di ingredienti fondamentali per una comprensione più profonda della vita mentale inconscia.
Freud riteneva che l’obiettivo ultimo della psicoanalisi fosse la ricerca della verità, la verità rispetto alla vita mentale dell’uomo. Egli insegnò ai propri allievi che essi potevano procedere verso tale obiettivo nella misura in cui potevano accettare la verità su se stessi, sulla propria vita interiore. E’ tempo di sviluppare ulteriormente il mandato freudiano: di promuovere una maggiore consapevolezza delle forze inconsce che plasmano ed orientano la nostra vita professionale a livello gruppale.
L’incapacità di svolgere tale compito, di cui siamo oggi testimoni, restringe la creatività delle organizzazioni psicoanalitiche ed incoraggia atteggiamenti oblativi e conformismo. Il futuro della psicoanalisi come autentica impresa scientifica, rivolta a raggiungere conoscenze originali e sempre più profonde sulla natura della mente umana, dipenderà dalla disponibilità delle istituzioni psicoanalitiche a confrontarsi in modo genuino ed autentico con la propria vita sociale inconscia.
I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, parti del loro cervello non reagiscono.
I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, cioè parti fondamentali del loro cervello non reagiscono come accade alla maggior parte delle persone.
Articolo Consigliato: Bullismo & Effetti in Età Adulta
Questo modello di attività cerebrale ridotta può rapprsentare un fattore di rischio neurobiologico per la psicopatia dell’adulto, è quanto sostenuto in una ricerca pubblicata sulla rivista Current Biology.
Questo non vuol dire che tutti i bambini con problemi di condotta siano uguali, o che tutti i bambini che mostrano questo modello cerebrale diventeranno psicopatici. I ricercatori infatti sottolineano che molti bambini con problemi di condotta abbandonano successivamente il comportamento antisociale.
E però importante considerare questi risultati come un indicatore precoce di vulnerabilità, piuttosto che destino biologico. Sappiamo che i bambini possono essere molto sensibili agli interventi, e la sfida è quella di rendere tali interventi ancora più efficaci.
I problemi della condotta rappresentano un grave problema sociale e comprendono l’aggressione fisica, la crudeltà verso gli altri, e la mancanza di empatia o di sensibilità. Nel Regno Unito, dove è stato condotto lo studio, circa il 5% dei bambini beneficiano di una diagnosi di problemi di condotta. Ma molto poco si sa sulla base biologica del disturbo.
I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale (fMRI) il cervello dei bambini con per vedere come quelli con problemi di condotta differiscono nella risposta alla visualizzazione di immagini di persone sofferenti.
I risultati rivelano che i bambini con problemi di condotta mostrano una diminuzione della risposta al dolore altrui, specificamente nelle regioni del cervello che giocano un ruolo nell’empatia.
“I nostri risultati indicano molto chiaramente che non tutti i bambini con problemi di condotta condividono le medesime vulnerabilità; alcuni possono avere una vulnerabilità neurobiologica alla psicopatia, mentre altri no”, dice Essi Viding. “per questo sarebbe importante personalizzare gli interventi esistenti per soddisfare il profilo specifico che caratterizza un bambino con problemi di condotta.”
Facebook e l’ Invidia del Post – Psicologia & Emozioni
Facebook: terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita sia per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.
Seduti alla solita scrivania in una grigia giornata uguale a molte altre cercate conforto in un caffè appena munto dalla macchinetta dell’ufficio e con l’occhio sulla sempre aperta pagina di facebook, vi imbattete in un post che ritrae un conoscente sdraiato all’ombra di una palma mentre sorseggia un cocktail dalle spregiudicate dimensioni e contempla con sguardo annebbiato l’oceano che non ha certo dimenticato di immortalare.
Due sono le vostre possibili e immediate reazioni: cliccare energicamente il tasto mi piace e prendere a testate la tastiera o commentare con parole sincere del tipo “spero di avere notizie dalla Farnesina del tuo ritrovamento a largo del pacifico” o “ mi auguro che una noce di cocco ti colpisca in mezzo agli occhi”. In verità questo non lo fate mai, preferendo nascondere i vostri cattivi pensieri dietro a parole benevole.
In ogni caso, ciò che probabilmente vi sta divorando, è il mostro dell’Invidia, niente di meno che uno dei sette peccati capitali, un vizio che nell’Antico Testamento viene qualificato come “la carie delle ossa” (Pr 14; 30).
Infatti, mentre della lussuria ci si può addirittura far vanto, l’invidia è un’emozione che fatichiamo ad accettare in noi stessi, forse proprio in virtù dei pensieri malevoli che l’accompagnano.
Articolo Consigliato: Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale
Ma come nasce questa emozione così tipicamente umana eppur così largamente condannata?
Prendiamo in prestito le lezioni del prof.Castelfranchi, direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, per tentare di rispondere a questa domanda.
L’invidia prevede un soggetto invidioso, X (il grigio impiegato), un soggetto invidiato, Y (il collega in riva al mare) e un oggetto dell’invidia, Z (il mare, il sole, il silenzio, il cielo limpido, il cocktail).
Dunque si può dire che X invidi Y per via di Z e che ovviamente, in termini di scopi e credenze, X desideri Z che crede di non possedere come invece fa Y.
Un aspetto importante nel comprendere la connotazione negativa di questa emozione umana è che il bene in questione, in questo caso Z, non è un bene scarso. In altre parole il fortunato Y non ha sottratto nulla al povero X, ovvero la sua presenza sulle coste del pacifico non comporta nessuna riduzione delle possibilità che anche X ci possa andare. Ma l’invidia c’è proprio perchè Y può avere Z e X no. Perché poi si possa parlare di vera e propria invidia sono necessarie anche le credenze “X non può avere Z” e “Y può avere Z”. Ecco allora che X, portatore di una mente umana, naturalmente avvezza a far valutazioni sulla base di comparazioni, avverte il peso della sua inferiorità per non poter essere anche lui in riva al mare. L’invidia è dunque l’emozione dell’inferiorità.
E’ proprio la consapevolezza di non poter avere qualcosa, di essere per questo inferiori all’altro, a rendere l’invidia così brutta. Infatti se X potesse ottenere (o fosse convinto di poter ottenere) Z, anche a fatica, il sentimento si tramuterebbe in emulazione, sempre di natura competitiva, ma mai veramente lesiva.
Invece, se si prova la vera invidia, si può addirittura desiderare che Y soffra ma tale scopo non potendosi rendere evidente, a meno che non si ceda alla rabbia, si manifesta nel gioire delle disgrazie di Y.
Fatte tutte queste considerazioni diventa chiaro come Facebook sia terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita (avete mai postato la vostra faccia pallida e annoiata in ufficio?!) che per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.
Non stupisce dunque che, secondo una ricerca condotta dal Dipartimento di Sistemi Informativi della Technische Universität di Darmstadt in collaborazione con l’Istituto dei Sistemi Informativi della Humboldt-Universität di Berlino, siano soprattutto coloro che fruiscono del social network come fonte principale di informazioni a rischiare invidia e frustrazione.
Quindi attenti a cosa postate e non pensate che commenti amichevoli vi salvino dalle gufate altrui perchè l’invidia ama celarsi e non c’è niente di più comodo che farlo dietro ad un “mi piace”.
E adesso non scordatevi di cliccare “mi piace” a questo articolo! Sarete mica invidiosi? :)
Curare l’ Autolesionismo Attraverso lo Sviluppo di Emozioni Positive
di Melania Marini
Secondo studi recenti (Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F., 2013), le persone che mettono in atto condotte autolesioniste mostrano una marcata difficoltà nella regolazione e nella sperimentazione delle emozioni positive e negative. I pazienti che mostrano questa difficoltà hanno una marcata disregolazione emotiva che si manifesta con repentini e marcati cambiamenti dell’umore.
Queste persone possono oscillare rapidamente, ad esempio, tra la serenità e la forte tristezza, tra la rabbia intensa e il senso di colpa. A volte emozioni contrastanti possono essere presenti contemporaneamente, tanto da creare un forte caos nel paziente ed anche nelle persone a lui vicine. Tali tempeste emotive si scatenano soprattutto in risposta ad eventi relazionali spiacevoli, come ad esempio, un rifiuto o una critica altrui: la reazione emotiva è immediata, marcata e duratura e per questo tipo di pazienti diventa molto difficile gestire le proprie emozioni.
Tradizionalmente, i diversi approcci terapeutici, lavorano e hanno lavorato sulla disregolazione delle emozioni negative portate in terapia da questi pazienti, meno attenzione è stata data invece alle emozioni positive; un cambiamento terapeutico importante è avvenuto con l’approccio di Marsha Linehan e la sua Terapia Dialettico-Comportamentale (Linehan, M. M., 1995) dove, per i pazienti con difficoltà nella regolazione delle emozioni e con condotte autolesive, vengono prese in considerazione le emozioni positive e il loro sviluppo in terapia.
In tal senso, rispetto alle terapie fino ad oggi condotte, per poter rispondere al meglio alle esigenze di tali pazienti, l’innovazione attuale, derivante anche dalla teoria della psicologia positiva, sta nel fatto che il lavoro terapeutico può anche essere volto ad ampliare e costruire un linguaggio emotivo positivo comune tra paziente e terapeuta che sia in grado di ridurre gli effetti delle emozioni negative e aiuti a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative che sono alla base dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente.
Articolo consigliato: Rileggendo Abraham Maslow – Le caratteristiche dell’individuo “sano”
Se coltivate nel tempo, le emozioni positive (Fredrickson, 2001) possono costruire una protezione che consente alle persone di affrontare meglio gli eventi avversi futuri. Guidate da emozioni positive le persone formulano un repertorio più ampio di soluzioni ai problemi. L’esperienza di emozioni positive è legata a probabilità più alte di godere di buona salute e di adattarsi a situazioni differenti, anche problematiche, sia in senso psicologico che fisico.
I sentimenti di dolore, di vuoto, di ansia, il senso di confusione, definiti dai pazienti come esperienze affettive soggettive spiacevoli, che sono alla base delle condotte autolesioniste, possono essere alleviati e anche dissipati condividendoli con gli altri, intimi, familiari, amici o professionisti della salute mentale.
Quando stati soggettivi mal definiti, sia positivi che negativi, emergono, sono riconosciuti dal clinico e denominati in modo congiunto con il paziente, si trasformano in emozioni e diventano padroneggiabili. In psicoterapia, il lavoro sullo sviluppo delle emozioni positive è mirato a migliorare le relazioni con gli altri e a formulare strategie di pianificazione di attività di vita desiderabili che tamponino l’influenza delle emozioni negative e delle condotte disregolate da esse innescate; per far sì che questa strategia di lavoro funzioni e dia modo di sfruttare pienamente i suoi benefici, è importante avere instaurato col paziente una buona alleanza terapeutica e aver accolto tutti gli eventi e stati d’animo riportati dal paziente stesso.
L’accesso alle emozioni positive aiuta ad attuare una “ristrutturazione cognitiva” dell’evento che ha portato il paziente a compiere atti autolesivi. Il paziente così ha la possibilità di vivere l’evento come meno pericoloso e fonte di minor stress e attivazione fisiologica.
Nello studio citato, lo sviluppo delle emozioni positive nella psicoterapia di pazienti autolesionisti li ha aiutati ad affrontare le avversità, e ha contribuito alla promozione del loro benessere fisico e psichico.
Integrare nella psicoterapia delle condotte autolesive la promozione delle emozioni positive appare quindi una strategia potenzialmente fruttuosa (Morris, C., Simpson, J., Sampson, M., Beesley, F., 2013).
Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale – Roma
Credenze Irrazionali e Sofferenza Emotiva: un paragone transculturale tra 3 modelli teorici – Ricerca
GENTILI LETTORI,
Su richiesta del Prof Raymond DiGiuseppe della St. John’s University vi proponiamo questa interessante ricerca sulla sofferenza emotiva. Come al solito, i dati sono raccolti in forma anonima, si partecipa su base volontaria e il tempo richiesto è di circa 15 minuti.
Vi ringraziamo per la vostra partecipazione che aiuterà a far progredire la ricerca in questo campo.
Mi chiamo Fabian Agiurgioaei Boie sono student di dottorato alla St. John’s University di New York City. La mia collega Alina Agiurgioaei Boie e io vorremmo invitarti a partecipare a una ricerca transculturale. La ricerca esplora il ruolo che hanno le convinzioni irrazionali nello spiegare e causare la sofferenza emotiva.
Lo studio raccoglie e paragona dati di vari paesi del mondo. La partecipazione è volontaria. Se accetti di partecipare a questo studio, ti sarà chiesto di compilare una piccola batteria di questionari.
La batteria include un questionario demografico, varie misure del benessere emotivo, degli atteggiamenti e delle convinzioni personali e dell’uso di alcol. La compilazione richiede circa 15 minuti. Se ti facesse piacere partecipare, ti chiediamo per favore di compilare i questionari. Sebbene non ci siano benefici diretti per i partecipanti, i possibili risultati potrebbero incrementare la conoscenza delle differenze tra le culture, conoscenza che sarà di aiuto per i professionisti e gli studenti del settore.
Lei deve partecipare solo se lei lo vuole e può non rispondere a qualsiasi domanda, se lo ritiene opportuno.
Se decidesse di partecipare, il suo nome sarà inserito nel sorteggio che assegna un certificato da 20$ (USD dollars). Se vuole essere inserito/a nel sorteggio, alla fine della compilazione dovrà fornire un indirizzo e-mail che utilizzeremo per contattare i vincitori.
Non sarà effettuato nessun ulteriore contatto e gli indirizzi e-mail saranno cancellati dopo il sorteggio. Sarà mantenuta la massima riservatezza dei nostri archivi codificando tutti i questionari e separandoli dalle dichiarazioni di consenso per fare si che il vostro nome e identità non si possano conoscere e non si possano collegare a qualsiasi informazione abbiate fornito.
Le sue risposte saranno custodite con l’eccezione di eventuali richieste da parte della legge di ispezione per sospetti di danni a lei stesso/a, bambini o altri. Inoltre, lei ha il diritto di non rispondere a qualsiasi domanda. La non partecipazione o il ritiro non avrà alcun effetto sul suo corso di studi accademici.
Le saranno fatte domande su vari pensieri, emozioni e comportamenti. Sebbene sia improbabile, se qualche problema o preoccupazione dovesse insorgere circa la sua partecipazione a questo studio, lei può scrivermi all’indirizzo e-mail [email protected].
Questa ricerca è condotta sotto la supervisione del Dr. Ray DiGiuseppe, Professore Ordinario di Psicologia alla St. John’s University.
Ci permetta, per favore, di ringraziarla in anticipo per la sua collaborazione e aiuto a far avanzare la ricerca in questo campo.
Nel caso lei abbia bisogno di ulteriori chiarimenti sul progetto di ricerca, lei può chiamare il Dr. DiGiuseppe al 718-990-1955.
I risultati di questa indagine saranno disponibili a richiesta all’indirizzo [email protected].
Per domande riguardanti i suoi diritti come partecipante a una ricerca, lei può contattare lo Human Subjects Review Board dell’università St. John’s University, 718-990-1440. Lei ha ricevuto una copia di questa dichiarazione di consenso da conservare. Cordialmente, Fabian Agiurgioaei Boie
Uno studio condotto su adulti con PTSD (disturbo da stress post-traumatico), ha dimostrato che le persone con una storia di abuso infantile presentano patterns di attivazione genica diversi rispetto agli adulti con PTSD, ma senza una storia di abuso infantile.
Un team di ricercatori di Atlanta e di Monaco di Baviera ha esaminato i campioni di sangue di 169 partecipanti al Grady Trauma Project, uno studio effettuato su più di 5000 soggetti con elevati livelli di esposizione alla violenza, abusi fisici e sessuali e con alto rischio di PTSD.
Articolo Consigliato: PTSD: Insulino-Resistenza e Sindrome Metabolica
La ricerca ha fornito importanti risultati a sostegno dell’ipotesi che diversi sottotipi di un disturbo psichiatrico, che appaiono simili a livello sintomatologico, possono avere importanti differenze a livello biologico.
Il team di ricercatori guidato da Elisabeth Binder, professore associato di psichiatria e scienze comportamentali alla Emory e leader del gruppo presso il Max-Planck Institute of Psychiatry di Monaco di Baviera, ha esaminato i cambiamenti nei pattern di attivazione/inattività dei geni nelle cellule del sangue dei pazienti. I ricercatori hanno inoltre esaminato i modelli di metilazione, una modificazione del DNA in cima alle quattro lettere del codice genetico che è causa dell’inattività di un gene.
I partecipanti allo studio sono stati divisi in tre gruppi: soggetti che hanno subito un trauma senza sviluppare PTSD, soggetti con PTSD che hanno subito abusi nell’infanzia, e soggetti con PTSD che non hanno subito abusi nell’infanzia. I due gruppi con PTSD condividevano sintomi post-traumatici, come pensieri intrusivi (incubi e flashback), l’evitamento dei ricordi traumatici, ipervigilanza e iperarousal.
I ricercatori sono stati sorpresi di scoprire la bassa sovrappiosizione nei pattern di attivazione genica dei due gruppi PTSD.
Il gruppo PTSD con abuso infantile ha presentato più cambiamenti nei geni connessi con lo sviluppo del sistema nervoso e la regolazione del sistema immunitario, mentre il gruppo PTSD senza abusi infantili ha mostrato più cambiamenti nei geni collegati con l’apoptosi (morte cellulare) e la regolazione della crescita. Inoltre, i cambiamenti nella metilazione sono stati più frequenti nel gruppo PTSD con abusi sui minori. Gli autori ritengono che questi percorsi biologici possono portare a diversi meccanismi di formazione dei sintomi PTSD all’interno del cervello.
Gli scienziati Max Planck / Emory hanno esaminato l’attività dei geni nelle cellule del sangue, piuttosto che il tessuto cerebrale. Risultati simili sono stati ottenuti da ricercatori che studiano l’influenza dell’abuso sessuale infantile sul cervello di persone che si sono suicidate.
“Gli eventi traumatici che accadono durante l’infanzia sono incorporati nelle cellule per lungo tempo”, dice Binder. “Non solo la malattia in sé, ma l’esperienza di vita di un individuo è importante nella biologia del PTSD, e questo dovrebbe riflettersi nel modo in cui trattiamo questi disturbi; diversi trattamenti biologici dovrebbero essere implicati per la terapia ed il recupero di PTSD in base alla presenza o assenza di abusi nell’infanzia”.
La sessione di colloquio è composta anche di silenzi. A volte questi hanno una funzione terapeutica, quando l’insight e il cambiamento di prospettiva si stanno realizzando nella mente del paziente, a volte sono invece sintomo di ostilità e rappresentano un ostacolo che lo psicologo deve superare per costruire un modello comunicativo. In entrambi i casi si può intervenire rimanendo in silenzio e aspettando, e spesso ciò porta a più risultati di quanto si potrebbe pensare, oppure agendo come degli specchi mostrando al soggetto come viene visto dagli occhi del terapeuta, per esempio dicendo: “sembra proprio che lei non abbia la minima voglia di essere qui”.
L’efficacia di queste semplici strategie varia in relazione al tipo di silenzio. Fine e Glasser [1996]individuano cinque categorie:
1) Silenzio di Riflessione: in cui il paziente sta cercando di comprendere i significati e le conseguenze delle nuove prospettive scoperte nel corso del colloquio e delle esperienze di insight vissute. L’utilità terapeutica di questo silenzio è tale che non deve essere disturbata dallo psicologo.
2) Silenzio di organizzazione di pensieri ed emozioni: in cui il paziente sta cercando di fare il punto della situazione dentro di sé, nominando e ordinando emozioni e sentimenti. Il terapeuta può intervenire per cercare di comprendere insieme ciò che sta provando.
Articolo Consigliato: il silenzio in terapia: Segnale di che cosa?
3) Silenzio dell’emozione: quello che si verifica in concomitanza con lo sfogo catartico, lo psicologo deve consentire l’esperienza impedendo un abbandono totale ad essa.
4) Silenzio di confusione: quando il paziente, in seguito alla scoperta di nuovi punti di vista, perde le sue certezze; in tal caso il terapeuta deve intervenire cercando di fare chiarezza assieme a lui.
5) Silenzio di ostilità: quando il paziente genere un atmosfera di tensione manifestando la sua scarsa volontà collaborativa attraverso il silenzio. In questi casi il terapeuta deve cercare di smuoverlo quel tanto che basta per arrivare alla formulazione di un precontratto che garantisca un minimo di collaborazione. Questo si può ottenere agendo come specchio con affermazioni del tipo: “mi sto chiedendo a cosa pensa e quale ostacolo le impedisce di parlare”.
“Egli non si lascia intimidire dal silenzio, dall’indifferenza, o dal rifiuto. Sa che, dietro la maschere di ghiaccio che usano gli uomini, c’è un cuore di fuoco.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.74]
Detto ciò risulta chiaro la rilevanza dell’esperienza del terapeuta nel nominare con chiarezza il tipo di silenzio a cui si trova di fronte e nel saperlo trattare nel modo corretto anche perché essi hanno significati molto diversi. Vi sono silenzi fondamentali per il buon esito del colloquio che non devono essere interrotti e altri che, se non sono interrotti, impediranno qualsiasi forma di colloquio stesso.
Disturbo d’Ansia Generalizzato nell’Adolescente: un Aiuto ai Familiari
La ricerca ci porta nuovi strumenti per curare il Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD), un disturbo d’ansia grave che può avere un esordio precoce e graduale e che, se non trattato, può diventare cronico.
La caratteristica principale del DAG è la preoccupazione eccessiva e persistente che negli adolescentiriguarda soprattutto le difficoltà interpersonali: gli adolescenti infatti temono nelle relazioni con gli altri soprattutto di poter essere rifiutati o di non poter scegliere liberamente.
Su questi timori sviluppano il rimuginio che caratterizza il Disturbo d’Ansia Generalizzato: un adolescente che ha l’acne può temere di essere rifiutato da una ragazza che gli piace. Inizierà a pensare a una serie di soluzioni per evitare il rifiuto ad esempio: “Potrei coprire la fronte con i capelli, però la frangia mi ingrossa il viso…allora potrei utilizzare una pomata ma l’effetto non sarà immediato… sono proprio stupido a pensare a queste strategie… però se non faccio qualcosa verrò rifiutato…”
Bögels e Brechman-Toussaint (2006) hanno messo in evidenza che la sintomatologia del DAG può svilupparsi sin dall’età adolescenziale e spesso è associata a comportamenti interpersonali problematici, soprattutto familiari.
Gli stessi autori avevano individuato la tendenza dell’adolescente con DAG a valutare l’attaccamento ai propri genitori come insicuro e che tale percezione contribuiva ad alimentare i sintomi del DAG. Proprio per questo motivo è necessario conoscere meglio in che modo nella famiglia si creino problemi che rinforzano l’ansia in modo da aiutare i familiari a ridurre il disturbo del figlio.
Articolo consigliato: Trattare l’Ansia Infantile con il Computer Si Può
Muris e Merckelbach (1998) attraverso uno studio trasversale avevano già precedentemente verificato la presenza di una correlazione tra percepire il genitore come ipercontrollante e/o rifiutante e intensità dell’ansia. Ma, oltre che di correlazione, è possibile parlare dell’esistenza di un nesso di causa effetto tra stile genitoriale e ansia?
Un recente studio longitudinale (Hale et al., 2013) fornisce un tentativo di risposta. Studiando 923 adolescenti per un lasso temporale di 5 anni è emerso che la presenza dei sintomi d’ansia porta l’adolescente a percepire i genitori come rifiutanti e ipercontrollanti, andando così ad innescare dei cicli interpersonali disfunzionali in famiglia: così un adolescente con DAG potrebbe vedere i genitori come estremamente preoccupati e controllanti se ad esempio passa ore in bagno cercando di trovare una soluzione all’acne. Allora l’adolescente a causa di questa percezione potrebbe sentirsi ancora più in ansia ed accusare i genitori di essere troppo invadenti. Le critiche rivolte ai genitori potrebbero così andare ad incidere direttamente sul comportamento genitoriale creando squilibri familiari.
I risultati di questo studio sono di notevole rilevanza teorica e clinica poiché grazie a queste riflessioni abbiamo la possibilità di supportare i familiari nella cura del disturbo dei figli: i genitori vanno aiutati a comprendere come le critiche che il figlio con DAG rivolge loro (ossia di essere troppo controllanti o rifiutanti) siano frutto dell’attivazione ansiosa e ad assumere quindi un atteggiamento non difensivo di fronte ad esse. Sottolineiamo che un limite dello studio è che è difficile escludere se le critiche dei genitori siano legati ad ansia e ipercontrollo o siano legate al naturale processo di svincolo e individuazione.
Nel complesso, a partire da questo studio, sembra che esplorare cautamente da parte del genitore i motivi che portano il figlio a sentirsi controllato e rifiutato può aiutare a creare un clima familiare più aperto e collaborativo, condizione che favorisce la riduzione dell’ansia.
I risultati di questo studio mostrano nuovi orizzonti nella cura dell’adolescente con DAG poiché hanno messo in evidenza che i sintomi DAG nell’adolescente possono incidere sullo stile genitoriale: sentirsi descritti come ipercontrollanti e rifiutanti può creare difficoltà nei genitori. Aiutare i genitori a non personalizzare queste critiche può ridurre il clima di allarme o tensione familiare.
Questa idea non sottrae niente all’altro possibile percorso, ovvero che uno stile genitoriale ansioso o allarmato possa favorire nell’adolescente l’idea di essere controllato o fragile.
Appassionati di CSI e Criminal Minds, se dal 10 al 12 Maggio 2013 avete preferito crogiolarvi al mare approfittando di qualche raggio di sole primaverile anziché barricarvi all’Hotel Milton di Milano, sappiate che avete mancato l’evento dell’anno.
Infatti nel weekend si è tenuto nel capoluogo lombardo un imperdibile congresso di scienze criminologiche dove esperti del settore (psicologi, psichiatri, avvocati, criminologi, forze dell’ordine…) si sono confrontati su tematiche quali valutazione, origini e trattamento del comportamento criminale, e dove sono stati presentati in anteprima interessanti studi scientifici sul tema. Ma siete fortunati, per l’occasione State of Mind realizzerà una serie di articoli che illustreranno alcuni tra gli interventi più stimolanti emersi durante il congresso: restate sintonizzati e non ve ne pentirete.
Articolo consigliato: Dexter lo psicopatico e la mentalizzazione degli stati emotivi
Ospite d’eccezione al CRINVE 2013 un nome una garanzia: no, non stiamo parlando né di Peter Grissom né di Aaron Hotchner (anche se dati i temi trattati ci aspettavamo di vederli salire sul palco da un momento all’altro), bensì del Prof. Robert D. Hare, una leggenda nel campo della psicologia criminologica, nonché padre del concetto di Psicopatia come è riconosciuto oggi a livello internazionale. Considerando che “la Psicopatia è probabilmente il più importante concetto forense introdotto nei primi anni del XXI secolo”, il congresso non poteva non aprirsi con una Lectio Magistralis sul Costrutto della Psicopatia, costrutto a cui l’ottuagenario professore ha dedicato una vita di ricerca scientifica. Eccovi quindi una breve lezione sulla Psicopatia, sale in cattedra il Prof. Robert Hare.
Per psicopatico si intende una persona egocentrica, arrogante, superficiale, impulsiva, che manipola in maniera spietata gli altri senza provare vergogna, colpa o rimorso; non è guidata da una morale o da dettami di coscienza; manca di empatia ed ha solamente una consapevolezza astratta, intellettuale dei sentimenti altrui.
Lo psicopatico non è leale verso nessuno, ma segue solo il proprio mero interesse. Generalmente conduce uno stile di vita antisociale o asociale (non necessariamente criminale) in cui le altre persone vengono usate o vittimizzate.
Se questa descrizione vi ricorda qualcuno di vostra conoscenza guardatevi le spalle.
Una domanda da un milione di dollari a cui ancora non si è riusciti a dare risposta. L’eziologia della Psicopatia non è ancora chiara, probabilmente l’espressione di tale disturbo è moderata dall’ambiente in un’interazione tra fattori biologici, genetici e sociali.
Qual è la natura della psicopatia?
Alcuni ritengono che la Psicopatia sia un disturbo di personalità, altri – in un’ottica dimensionale -parlano di variazioni estreme di normali tratti di personalità, altri ancora ritengono sia un’anomalia genetica neurobiologica e poi ci sono alcuni che, da un punto di vista evoluzionistico, considerano la Psicopatia una strategia riproduttiva adattiva. Ovviamente sposare una teoria piuttosto che un’altra ha delle forti implicazioni per quanto riguarda il trattamento dei soggetti psicopatici (se, per esempio, la consideriamo una strategia adattiva, allora non è un disturbo e quindi non è da curare), perciò dare una risposta alla domanda sulla natura della psicopatia non è così banale come sembra.
Come valutare il livello di psicopatia?
Articolo consigliato: “Psicopatia, PTSD e genesi di condotte antisociali”
Dagli studi condotti il Prof. Hare ha sviluppato la Psychopathy Checklist (PCL) prima e la Psychopathy Checklist Revised (PCL-R) dopo, strumenti universalmente utilizzati per valutare i livelli di Psicopatia nelle persone e la probabilità della messa in atto di comportamenti violenti.
La PCL-R valuta il livello di Psicopatia sulla base di due fattori e quattro componenti. I due fattori principali (Fattore 1 e Fattore 2) individuano due aree della personalità psicopatica: l’area Interpersonale/Affettivo e l’area della Devianza sociale; all’interno del Fattore 1 si distinguono la componente Interpersonale e quella Affettiva, mentre all’interno del Fattore 2 la componente Stile di vita e quella Antisociale.
È innegabile il contributo che il Prof. Hare con i suoi studi ha dato alle scienze criminologiche. Grazie a lui infatti il costrutto di Psicopatia è tornato in auge, forte di una sua validità empiricamente fondata. Non stupisce pertanto che il professore sia stato nominato Presidente del congresso.
Come ha sottolineato il professore nella sua lettera di ringraziamento, il CRINVE 2013 ha avuto il merito di illustrare i recenti progressi scientifici in cui l’integrazione dei contributi della genetica comportamentale, della psicopatologia dello sviluppo, della psicologia, della vittimologia, delle neuroscienze, della pratica clinica e del sistema giuridico, ci aiuta a comprendere e trattare soggetti antisociali e psicopatici in contesti criminali e non criminali.
L’obiettivo degli organizzatori non è stato, sottolinea Robert Hare, solo quello di fornire un forum per discutere questi progressi, ma anche di promuovere la collaborazione interdisciplinare e internazionale sulla comprensione dei comportamenti antisociali e psicopatici per ridurne le conseguenze deleterie per la società. Un’occasione che, vista la qualità degli interventi emersi durante le tre giornate, non è sicuramente andata perduta.
Un nuovo studio è il primo a identificare un fattore di rischio genetico per il dolore cronico dopo eventi traumatici, quali incidenti e violenza sessuale.
Un nuovo studio condotto alla University of North Carolina School of Medicine è il primo a identificare un fattore di rischio genetico per il dolore cronico dopo eventi traumatici come gli incidenti stradali e la violenza sessuale.
Inoltre, lo studio fornisce un’ulteriore prova che il dolore cronico dopo eventi stressanti ha una specifica base biologica.
Articolo Consigliato: Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?
I risultati dello studio indicano che i meccanismi che influenzano lo sviluppo del dolore cronico possono essere correlati alla risposta allo stress, piuttosto che a qualsiasi lesione specifica causata dall’evento traumatico, in altre parole, sembra che in alcuni individui qualcosa vada storto, a livello del corpo, nel sistema di difesa ‘fight or flight‘ o in quello di recupero dalla risposta e ne risultati un dolore persistente.
Lo studio ha valutato il ruolo del surrene (HPA) asse ipotalamo-ipofisi, un sistema fisiologico di importanza centrale per la risposta del corpo ad eventi stressanti. Lo studio ha valutato se l’asse HPA influenza la gravità del dolore muscolo-scheletrico sei settimane dopo un incidente stradale e una violenza sessuale. I risultati hanno rivelato che la variazione nel gene codificante per la proteina FKBP5, che svolge un ruolo importante nella regolazione della risposta dell’asse HPA allo stress, è stato associato con un rischio più elevato del 20% di avere un moderato/grave dolore al collo sei settimane dopo l’incidente, così come maggiore dolore del corpo. La stessa variante ha anche previsto un aumento del dolore sei settimane dopo la violenza sessuale.
“In questo momento, se una persona arriva al pronto soccorso dopo un incidente d’auto, non abbiamo alcun intervento per prevenire il dolore cronico in via di sviluppo”, ha detto McLean. “Allo stesso modo, se una donna arriva al pronto soccorso dopo una violenza sessuale, abbiamo farmaci per prevenire la gravidanza o le malattie a trasmissione sessuale, ma mancano i trattamenti per prevenire il dolore cronico. Questo perché non abbiamo idea di quali meccanismi biologici siano alla base del dolore cronico. Questo studio è un primo passo importante nello sviluppo di questa comprensione”.
Lo studio è stato condotto da un team multidisciplinare di ricercatori provenienti da tredici istituzioni. Co-autori dello studio sono stati Andrey Bortsov, professore assistente di ricerca presso il Dipartimento di Anestesiologia UNC, e Jennifer Smith, uno studente di medicina UNC.
Come Ti Senti? La migliore risposta sono le Emozioni in 3D
Emozioni: Siamo chiamati a rispondere alla domanda “Come ti senti?”. Questo implica una inevitabile e non automatica riflessione sul proprio stato mentale.
In molte circostanze della vita siamo chiamati a rispondere alla domanda “Come ti senti?” e questo implica una inevitabile e non sempre automatica riflessione sul proprio stato mentale.
La capacità soggettiva di descrivere “come stiamo” resta ad oggi l’unica via di accesso che abbiamo per parlare di emozioni, in terapia come nella vita!
Nonostante i progressi delle neuroscienze e le migliorate capacità di “leggere” la mente, la descrizione che ognuno di noi fa delle proprie o delle altrui emozioni, resta infatti il principale indizio del nostro stato mentale e dunque il principale indicatore del nostro benessere psicologico. Come misurarlo allora?
Articolo consigliato: La signorina Annie Almond che abita nel Sistema Limbico – sulla (dis)regolazione emotiva
Un gruppo di ricercatori dell’Università della Columbia (Saptute, 2013), si è proposto di analizzare i principali processi coinvolti nella capacità di descrivere le emozioni e di riflettere di esse, attraverso l’utilizzo della fMRI. Gli autori si sono inspirati a due filoni teorici di riferimento. Il primo include le teorie psicologiche che distinguono gli stati affettivi legati al nostro “sentire più immediato” dai processi cognitivi superiori che vengono invece usati per attribuire un’ “etichetta” verbale a questi stati (Barrett, 2006). In questo modello, le emozioni seguirebbero 3 successivi processi di analisi: dirigere l’attenzione verso lo stimolo che ha “acceso” l’ emozione, divenire consapevoli dell’intensità della propria risposta affettiva e dare un nome all’esperienza emotiva vissuta. Il secondo filone di ricerche che ha inspirato gli autori è quello delle neuroscienze cognitive secondo le quali esiste un preciso circuito neurale responsabile di ognuno di questi processi (Ochsner, 2008).
Il complesso disegno sperimentale utilizzato, prevede la somministrazione ai 20 partecipanti di una serie di immagini a diversa intensità emotiva (elevato, medio, basso arousal) e rispetto alle quali era chiesto loro di: 1) porre attenzione per alcuni secondi alla propria emozione, o meglio alla propria risposta emotiva interna di fronte all’immagine, 2) descriverla con un’etichetta generica (neutra, negativa, positiva) e 3) giudicare l’intensità della propria risposta.
I risultati? L’abilità di identificare e descrivere le proprie emozioni e i propri stati affettivi coinvolgerebbe tre sistemi tra loro separati, e dunque separabili in caso di danno cerebrale o altra psicopatologia, ma solo il lavoro integrato dei tre permetterebbe di ottenere il risultato migliore o, almeno, il più ricco di dettagli.
Articolo consigliato: Lo strano caso della Coscienza nella guerra tra Cognizioni ed Emozioni
Il primo sistema, che ci consente di osservare “come stiamo” e sembra legato alla specifica attività della corteccia prefrontale dorso mediale, responsabile dunque della nostra primaria capacità autoriflessiva. Il secondo sistema permette invece di denominare “cosa sentiamo” e pone le basi della nostra capacità di “meta-ragionare” sulle emozioni; i circuiti neurali preposti a questo sono quelli della corteccia prefrontale ventrolaterale. Infine, il terzo ed ultimo sistema coinvolge l’amigdala e l’insula anteriore, responsabili insieme ad altre strutture sottocorticali della risposta emotiva più istintiva (“quanto sentiamo”) e dell’arousal fisiologico conseguente. Fondamentali motori del nostro agire!
Insomma, rispetto alle abilità coinvolte nelle esperienze emotive, ora sappiamo che l’integrazione di questi tre sistemi offre una visione completa, integrata e più “solida” dell’esperienza vissuta.
Insomma, quando stiamo male diventiamo meno capaci di riconoscere le nostre emozioni e di descriverle, togliamo loro spessore e profondità, a volte colore e intensità e in alcuni casi le nostre descrizioni possono risultare impressionistiche e prive di dettagli o talora completamente appiattite…