La domanda che ha guidato l’intero workshop Using REBT in Single-Session. One-at-a-time Therapy ha un sapore estremamente pratico: cosa si può fare in terapia se si ha a disposizione poco tempo, a volte una singola seduta, per risolvere un problema portato dal paziente? Si passa, o si accetta la sfida, sforzandosi di usare al meglio il tempo a disposizione?
Colpisce un dato presentato da Dryden sulla percentuale di persone che abbandonano la terapia dopo una sola seduta. La sua stima è che ciò avvenga nel 70-80% dei casi. Drop out pensiamo noi clinici! Secondo Dryden la situazione è diversa: le persone sono soddisfatte di quella seduta.
Ed in effetti uno studio di Simon e colleghi del 2012 rivela che l’abbandono della terapia dopo una prima visita a volte può riflettere un trattamento soddisfacente e un buon risultato clinico. Circa un terzo dei partecipanti allo studio che non tornavano per una seconda visita si riteneva soddisfatto della seduta, oltre il 60% dava alte valutazioni all’alleanza terapeutica e oltre il 40% riferiva un miglioramento nei sintomi o nei problemi pratici rispetto all’inizio del trattamento. Il 15% di coloro che non tornavano in terapia ha dato il punteggio più alto possibile su tutte e tre le misure. Tale dato può trovare riscontro nell’atteggiamento che assumeva lo stesso Albert Ellis, il quale non dava mai un appuntamento al paziente dopo la seduta, ma aspettava che fosse lui stesso a decidere se tornare o meno, ipotizzando che poteva risultare risolutivo anche un singolo incontro.
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Imm. 1 – Immagine dal workshop “Using REBT in Single-Session”
Nella Single-Session Therapy si offre comunque al paziente la possibilità di tornare, ma si dà importanza alla riflessione dopo la seduta, per poterne ‘digerire’ i contenuti e mettere in pratica le soluzioni trovate insieme al terapeuta. Proprio come accade durante l’allenamento fisico: dopo l’allenamento la fase di riposo è fondamentale. Dopo aver digerito i fatti emersi, agito per il cambiamento e dopo essersi concessi una fase di riposo, i pazienti possono decidere in autonomia di tornare.
Ma scusate, e la concettualizzazione? E i test? Il principale obiettivo della Single-Session Therapy è offrire un aiuto concreto immediato, piuttosto che aspettare di poter offrire il migliore aiuto possibile. “Sooner is better!” per dirla con le parole di Dryden. Anche se questo significa rinunciare ad elementi sicuramente importanti.
Un altro punto fondamentale è naturalmente la gestione del tempo. La Single-Session Therapy spinge terapeuta e paziente ad utilizzare al meglio il tempo della seduta e il tempo che intercorre tra la richiesta di aiuto e la prima seduta. In questo tempo si può somministrare un questionario al paziente, allo scopo di capire se lo stesso è un buon candidato per la Single-Session Therapy, e per fare in modo che si prepari al meglio alla seduta, selezionando un problema pratico da risolvere.
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Imm. 2 – Immagine dal workshop “Using REBT in Single-Session”
Il lavoro in seduta il più delle volte è incentrato in un’operazione di “sblocco” che permetta al paziente di muoversi verso il suo obiettivo utilizzando al meglio le proprie risorse interne ed esterne. In sostanza quindi si tratta di sedute particolarmente goal-oriented, caratterizzate dalla condivisione di obiettivi precisi e ben definiti, da chiarezza comunicativa, di forte impatto emotivo, e che spingano alla ricerca di una soluzione pratica già durante la seduta.
Insomma, la Single-Session Therapy non è un approccio ma un’impostazione mentale. E sicuramente costituisce una sfida, soprattutto per i terapeuti meno allenati, a stare in sessioni ben strutturate e focalizzate sul raggiungimento di obiettivi pratici, cosa a cui i terapeuti CBT e REBT sono invece abituati.