Il libro di Russ Harris, uno dei più importanti studiosi del modello ACT, è il primo tentativo completo e sistematico di descrivere accuratamente i processi che sottendono l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Hayes et al. 1999).
La modalità con cui questo libro insegna a fare Act è di assoluta utilità per il clinico trovandosi di fronte ad innumerevoli strategie e schede di esercizi che costituiscono una guida ideale per stare col paziente all’interno della cornice di un modello ascrivibile nelle terapie di terza generazione.
La premessa infatti da cui parte l’Act è esplicitata sin dalle prime pagine del manuale con una metafora semplice quanto spiazzante per coloro che provengono dalla CBT Standard:
Articolo consigliato: Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo.
“Vorrei che immaginassi che questo libro rappresenti tutti i tuoi pensieri, sentimenti e ricordi difficili con cui hai lottato per tanto tempo. E mi piacerebbe che tu lo afferrassi forte in modo che io non possa togliertelo. Adesso mi piacerebbe che lo mettessi davanti in modo da non riuscire più a vedermi e che lo avvicinassi così tanto al viso da toccarti quasi il naso. Adesso com’è cercare di avere una conversazione con me, mentre sei completamente dentro nei tuoi pensieri e sentimenti?” (“Fare Act, pag.32)
Questa semplice metafora sintetizza come l’Act faccia nascere la psicopatologia nell’ “evitamento esperenziale”: ossia nelle strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare le nostre esperienze interne (siano esse pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi).
Il focus non è quindi sul contenuto del pensiero “cosa pensiamo” ma sui processi “come pensiamo”, ma in più l’Act fa un passo avanti rispetto ad altri modelli di terza generazione. Il riferimento è alla C dell’acronimo, al Commitment, all’impegno, a come cioè il rimanere incastrati nelle strategie di controllo disfuzionali ci fa perdere di vista quelli che sono i nostri valori.
L’Act sottolinea come un rischio verso cui possiamo incorrere nel lavoro con questi tipi di pazienti sia non esplorare quali possano essere i loro valori, avendo loro focalizzato la loro esistenza da cosa scappare e non verso dove andare.
Tutti i processi che sottendono le due aree, accettazione e impegno, sono descritte dettagliatamente nel manuale accompagnando il clinico attraverso esempi e schede di lavoro da poter usare col paziente. Oltre all’analisi del modello e alle varie strategie il libro offre una guida passo passo per condurre una terapia Act riempiendola con consigli ed esempi per superare i momenti di stallo o di difficoltà col paziente.
La sensazione, leggendo il libro, è di aver finalmente formalizzata una guida ad un modello che può diventare un’ottima risorsa per noi clinici andando a sottolineare l’importanza dell’accettazione per quei nostri pezzetti che riteniamo sbagliati o indici di fragilità.
Un bambino con ADHD ha spesso gravi difficoltà nelle relazioni con gli altri bambini. La sua iperattività e impulsività sono spesso causa di avversione negli altri bambini, soprattutto quando si sta cercando di lavorare insieme e divertirsi. I bambini possono non accettare la sincerità e l’apertura di un bambino con ADHD, soprattutto quando non è inibito nel fare commenti sgradevoli agli altri (1998) .
Descrivendo il funzionamento di un bambino con ADHD, gli psicologi si sono concentrati su tre aree principali: la casa, la scuola ed i contatti con i coetanei. Quest’ultima è considerata come un’area di transizione tra casa e scuola, non meno importante rispetto alle altre.
Articolo Consigliato: ADHD, Iperattività & Attività Sportiva
Nell’ambiente degli amici, il bambino impara le relazioni sociali, le regole, a stare in un gruppo e a rispettare i sentimenti degli altri (Conners, 2000). Queste relazioni funzionano in modo diverso rispetto alla famiglia, perché scompare l’autorità caratteristica della relazione figli genitori.
Barkley descrive la sua esperienza di lavoro con bambini con ADHD in questo modo: un bambino con ADHD ha spesso gravi difficoltà nelle relazioni con gli altri bambini. La sua iperattività e impulsività sono spesso causa di avversione negli altri bambini, soprattutto quando si sta cercando di lavorare insieme e divertirsi. I bambini possono non accettare la sincerità e l’apertura di un bambino con ADHD, soprattutto quando non è inibito nel fare commenti sgradevoli agli altri (1998) .
Certamente agli altri bambini spaventa lafacilità e la velocità con cui un bambino con ADHD diventa sconvolto, frustrato ed aggressivo. Quando un bambino è fisicamente o verbalmente aggressivo, provocatorio, oppositivo ed ostile, i problemi nelle relazioni tra pari sono particolarmente acuti. Tutto ciò porta il bambino con ADHD a guadagnarsi una “cattiva” reputazione tra coetanei in classe e nel quartiere.
Occorre considerare, inoltre, anche il problema di una corretta valutazione delle intenzioni dei coetanei. L’essenza di problemi sociali di questo tipo è rappresentato dal sottosviluppo di un senso del tempo e del futuro.
I bambini con ADHD tendono a vivere il presente, ciò che possono ottenere in questo momento, ciò che conta di più per loro. Questo significa che le abilità sociali che non danno ricompense immediate, come la condivisione e la cooperazione, in fondo non sembrano “valer la pena”.Dato che questi bambini non riescono a valutare correttamente le conseguenze delle loro azioni, spesso non riescono a vedere che il loro egoismo ed egocentrismo condurranno, in futuro, ad una perdita di amicizia (Barkley, 2000).
Il problema è che spesso i genitori sono le uniche persone dalla parte del bambino, e per loro non è possibile partecipare, insieme al bambino, ai contatti tra compagni. Gli psicologi, pertanto, consigliano, durante le prime fasi, di lavorare allo sviluppo delle normali abilità sociali, come offrire aiuto nel trattare le reazioni negative verso gli altri ed organizzare i contatti con i coetanei in un ambiente familiare positivo in cui il bambino avrà un senso di sicurezza.
Le prime immagini che ci saltano alla mente ripensando al Congresso Nazionale di Musicoterapia di Padova riguardano la maestosità della meravigliosa Aula Magna di Palazzo Bo, sede della prima giornata di lavori, dove circa quattro secoli fa gli studenti potevano fare le domande al Prof. Galileo Galilei.
Diversi studi hanno dimostrato come nelle esperienze emotivamente intense di incontro con l’altro, come ad esempio la psicoterapia, restino impressi nella memoria più certi aspetti non verbali, piuttosto che le cose che vengono dette. Le prime immagini che ci saltano alla mente ripensando al Congresso Nazionale di Musicoterapia di Padova riguardano la maestosità della meravigliosa Aula Magna di Palazzo Bo, sede della prima giornata di lavori, dove circa quattro secoli fa gli studenti potevano fare le domande al Prof. Galileo Galilei.
Le immagini sonore sono invece quelle dei bellissimi intermezzi musicali tra un intervento e l’altro, che a nostro modesto parere potrebbero essere introdotti anche nei congressi non musicoterapici (e perché non in parlamento!) per vivacizzare un po’ l’ambiente e tenere alta l’attenzione. Scegliere quello più memorabile non è facile, tra l’ingresso trionfale delle cornamuse, le fantastiche melodie di organetto e i coinvolgenti giochi vocali e ritmici condotti da Manuela Guadagnini e Daniele Pinato.
Ma veniamo ai contenuti scientifici. Essendo stati relatori e intrattenitori psicantrici del Congresso noi stessi, non siamo riusciti ad essere dei reporter sempre presenti. Riporteremo dunque gli interventi a cui siamo riusciti ad assistere e che ci hanno colpito maggiormente.
Il Dr. Alberto Schön è stato uno degli apripista del convegno e il suo intervento dal titolo “Quanto è musicale il pensiero?” ha ricordato che quest’ultimo, come la musica, è ordinato in una sequenza. In più la musica fa parte delle attività estetiche creative e ha un versante di gioco: avendo tutte queste funzioni fa parte del processo di pensiero. La musica richiede l’uso di molte memorie: propriocettiva, emotiva, comunicativa preverbale, motoria, comparativa, etc. Infine, paragonata a un significante formale, è una forma di protopensiero, che delinea uno spazio interiore idoneo ai processi di simbolizzazione, privo di significato definito, ma ricco di senso.
Il Dr. Gabriele Catania dell’Ospedale Sacco di Milano ha presentato il suo interessante progetto Le stanze di Faber, sull’utilizzo terapeutico delle canzoni di Fabrizio de Andrè. Catania ha spiegato che l’idea per questo progetto è nata ascoltando la canzone “La ballata dell’amore cieco (o della vanità)”, che racconta di un amore incondizionato che si spinge fino al masochismo e che aveva delle analogie con la storia di sfida onnipotente alla morte di una sua paziente anoressica.
De Andrè è stato senza dubbio il cantautore che meglio ha raccontato gli ultimi, gli emarginati e i matti, cercando di comprenderne l’essenza, mantenendo sempre un tono empatico e scevro da giudizi. I giudizi su sé stessi infatti zavorrano la sofferenza. Catania ha riletto alcuni brani di Faber, adattandone i testi, per dare vita a un progetto di prevenzione primaria atto a informare la popolazione rispetto al disagio psichico e a superare lo stigma nei confronti delle malattie mentali. Ha sottolineato la potenza dello strumento canzone per la trasmissione delle informazioni in modo empatico.
Il musicoterapista Giacomo Cassano ha portato un interessantissimo percorso svolto con pazienti psichiatrici sul “viaggio” nelle Città invisibili, di Italo Calvino. In quanto metafora di ogni microcosmo umano, ogni città diventava lo spunto per una discussione di un aspetto sul quale potersi confrontare, riconoscere e musicare insieme nel presente. Così come capita a Marco Polo nel racconto del libro il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto e cambia a seconda dei vissuti del presente, così questo “viaggio musicato” è stata un’opportunità di riletture dei vissuti passati dei partecipanti, fornendo nuovi spunti e letture autobiografiche.
Lo psichiatra Roberto Poli del DSM di Cremona e la musicoterapista Laura Gamba hanno presentato i dati di alcuni studi osservazionali e retrospettivi sull’effetto del trattamento musicoterapico sui pazienti schizofrenici. Ci sono già evidenze dalla letteratura internazionale che, integrata con altri trattamenti riabilitativi, la MT risulti efficace nel migliorare il funzionamento globale dei pazienti psicotici (Gold et al., 2008; Mossler et al., 2011).
Favorendo la comunicazione, l’interazione, lo scambio e l’espressione delle emozioni, la MT interviene efficacemente sui sintomi negativi della schizofrenia (ritiro sociale, appiattimento affettivo, scarsa espressione delle emozioni). La sua efficacia riguarda anche aspetti più generali della patologia quali preoccupazione, irrequietezza, ansia, depressione, con possibilità di intervenire sulle difficoltà di attenzione e concentrazione.
I colleghi di Cremona hanno utilizzato come metodo terapeutico il dialogo sonoro e l’improvvisazione di gruppo, con il libero utilizzo di strumenti musicali e della voce e l’ascolto di brani musicali proposti dalla musicoterapista e dagli stessi pazienti, con la verbalizzazione e la condivisione dei vissuti.
Alla luce di valutazioni tramite le scale CGI, GAF, PANSS, rispetto al trattamento standard, i pazienti che hanno partecipato ai gruppi di MT hanno mostrato miglioramenti statisticamente significativi riguardo la condizione clinica globale, la sintomatologia psicotica (in particolare i sintomi negativi) il funzionamento complessivo e la qualità della vita.
Il musicoterapeuta Davide Woods ha presentato una relazione sull’improvvisazione musicale individuale, all’interno di gruppi. Nella sua presentazione – supportata da ascolti di prime sedute e ultime sedute (24esima) dello stesso paziente al pianoforte, accompagnato e sostenuto da due musicoterapeuti (uno al piano e l’altra al violoncello) – l’analisi del materiale musicale ha messo in luce una evidente variazione verso una maggiore pulsazione e organizzazione temporale da parte del paziente, assente o scarsa e più disorganizzata nei primi incontri. Il linguaggio sonoro diventando via via più strutturato e organizzato, è stata l’occasione per esercitare funzioni pre-mentali, anticamera di processi simbolici.
La musicoterapeuta Deborah Parker ha tenuto una relazione su “Musicoterapia nei campi profughi palestinesi del Libano”, un progetto internazionale nato due anni fa, volto alla formazione di musicoterapeuti in Libano, che sta personalmente supervisionando. In campi profughi, dove ci sono numerosi bambini orfani e vittime di atrocità, con sintomi da PTSD, la musicoterapia è entrata come forma di comunicazione e sostegno per riaccordare una relazione con l’altro attraverso il suono.
Il Dr. Zambito ha trattato il complesso tema del rapporto tra musica e neuroscienze, chiarendo subito che non vi sono dati a favore dell’esistenza di un “unico” centro musicale nel cervello.
Articolo Consigliato: La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini
Le aree cerebrali responsabili della musica sembrano avere una sovrapposizione parziale, anche se incompleta, con quelle responsabili del linguaggio. Non dovremmo perciò sorprenderci se le analogie comportamentali e cognitive tra musica e linguaggio sono sì stringenti, ma incomplete.
E’ ben noto che ascoltare musica, suonare e comporre sono attività che coinvolgono tutto l’encefalo, bilateralmente, la corteccia, la neo corteccia il paleo e il neo cervelletto.
Toni, intervalli musicali sono sottoposti all’attività delle regioni temporali a destra, della corteccia dorso laterale prefrontale sinistra e della parte inferiore della corteccia frontale dx.
La percezione ritmica e la produzione coinvolge le regioni del cervelletto, e dei gangli della base. Tenere il tempo, sincronia, possono essere sotto il controllo di centri oscillatori cerebellari.
In passato si riteneva che la musica fosse “lateralizzata” a destra, mentre ora risulta chiaro che non vi è un’area singola, né un singolo emisfero alla base della conprensione/processazione/esecuzione/interpretazione di un brano musicale.
L’emisfero destro svolge un ruolo decisivo per quanto concerne l’organizzazione melodica della musica essendo concepito come sede preliminare della percezione.
L’emisfero sinistro esercita un ruolo per la codifica dell’altezza del suono, elemento irrinunciabile per apprezzare l’essenza della musica occidentale e probabilmente anche quella di qualsiasi altra musica organizzata secondo l’altezza di riferimento.
Sono seguite alcune interessanti osservazioni sul cervello dei musicisti.
Studiando la rappresentazione corticale della corteccia somatosensoriale di un gruppo di musicisti che suonavano strumenti ad arco, con esperienza musicale di dodici anni circa e un gruppo di controllo senza alcuna formazione musicale è emerso nel gruppo di musicisti un aumento della rappresentazione corticale delle dita della mano sinistra nel gruppo di musicisti. In questi musicisti la mano sinistra è utilizzata in modo intensivo e preciso per cambiare l’altezza delle note mentre la mano destra sostiene l’arco. Per quanto riguarda la corteccia uditiva accade una cosa analoga. La risposta della corteccia cerebrale nelle aree uditive nei due gruppi era maggiore del gruppo di musicisti rispetto al gruppo di controllo.
Questi risultati possono essere interpretati come un aumento della rappresentazione della corteccia uditiva necessaria all’elaborazione fine dei suoni musicali.
Nei musicisti vi è un’aumentata attività di connessione funzionale tra:
– la corteccia motoria e le aree sensitive/sensoriali
– tra la corteccia motoria e il talamo
– tra il talamo e la corteccia premotoria
– tra il cervelletto e le aree uditive.
Se non ci fosse limite alla plasticità corticale dopo vent’anni il cervello intero diventerebbe interamente corteccia uditiva somatosensoriale. Per fortuna la natura ha provvisto dei limiti alla plasticità.
Soprattutto nei musicisti che suonano in modo virtuosistico, l’utilizzo intenso e continuativo delle dita e la plasticità cerebrale portano a una disorganizzazione delle rappresentazioni corticali a livello della corteccia somatosensoriale, con un conseguente disturbo del controllo delle dita delle mani che prende il nome distonia focale.
L’amusia congenita è invece un disturbo caratterizzato dalla difficoltà nel percepire e produrre suoni musicali, nonostante le funzioni cognitive e l’udito siano intatti. Gli studi comportamentali hanno dimostrato che si tratta di un problema della discriminazione fine dei toni.
Il cervello degli amusici risponde a piccole differenze di toni a livello pre-attentivo, ma è incapace di riconoscere a livello cosciente quelle piccole deviazioni di tono a un livello attentivo più profondo. Tali risultati concordano con studi precedenti che dimostravano che la corteccia uditiva negli amusici funziona normalmente.
La relazione si è chiusa con la stimolante domanda se la musica renda più intelligenti. La musica ha effetti a breve termine, di tipo motivazionale ed attentivo, a lungo termine, in quanto attività multimodale, stimola la concentrazione, i tempi di reazione, la sincronizzazione/regolazione emotiva, motoria e relazionale, l’uso e l’apprendimento del linguaggio.
Lo psichiatra di Legnago La Monaca ha illustrato la funzione del Karaoke nell’ambito della riabilitazione psichiatrica. Il Karaoke (in giapponese “senza orchestra”), nato in Giappone negli anni 70, è risultato efficace nel ridurre l’ansia sociale e migliorare l’interazione rispetto al semplice canto, ha mostrato un effetto rilassante sull’ansia, sul coordinamento ideo-motorio, e si è mostrato utile per migliorare l’inclusione sociale e il funzionamento (Leung et al., 1998).
La valutazione dell’esperienza tramite Focus Group con gli utenti ha dimostrato come questa attività sia giudicata in modo estremamente positivo, come una fonte di speranza, piacere e gioia e come occasione di sperimentare un ruolo diverso da quello di malato.
La Monaca ha poi definito i processi riabilitativi in ambito psichiatrico come “strategie fondate su interventi che mirano a favorire l’inclusione sociale e a migliorare il funzionamento interpersonale e sociale, il benessere soggettivo e la qualità della vita, riducendo i fattori di rischio e incrementando i fattori protettivi implicati nell’insorgenza e nel mantenimento della disabilità connessa ai disturbi mentali”. Ha illustrato l’importante e attualissimo concetto di Recovery come “un processo di riduzione al minimo della malattia e dei suoi effetti sulla vita, con il tentativo di capire come conviverci e come gestire una patologia che può durare per un determinato periodo di tempo”. L’idea di base è che le persone non hanno bisogno di una guarigione completa e di diventare “normali” per potersi dedicare ad una vita nella comunità. Ha mostrato i dati di diversi studi che hanno evidenziano come la prognosi a lungo termine delle malattie mentali gravi non sia così negativa.
Il Professor De Zorzi, etnomusicologo dell’Università Cà Foscari di Venezia, ha illustrato l’uso in paesi islamici come il Kazakistan delle ripetizioni dei dihkr, sorta di preghiere ad Allah, per il trattamento delle dipendenze.
Nel tentativo di fornire una descrizione originale dei fattori che conducono al delirio persecutorio nella fase acuta della schizofrenia, proponiamo un modello teorico che considera tale sintomo il risultato dell’interazione di tre fattori: disfunzione della capacità di mentalizzazione, rappresentazione del sé come vulnerabile, threat/self protection system iperfunzionante.
Il delirio, e nello specifico quello a contenuto persecutorio, ne è un esempio rappresentativo e corrisponde alla falsa credenza secondo la quale le altre persone focalizzerebbero la loro attenzione sul soggetto, con un’attitudine malevola e piani volti a danneggiarlo.
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.
Nel tentativo di fornire una descrizione originale dei fattori che conducono al delirio persecutorio nella fase acuta della schizofrenia, proponiamo un modello teorico che considera tale sintomo il risultato dell’interazione di tre fattori.
Il primo consiste in una peculiare disfunzione della capacità di mentalizzazione, ossia della capacità di riflettere su pensieri, emozioni e intenzioni altrui. Più specificamente, questa disfunzione comporterebbe un’alterazione della capacità di sintonizzazione pre-riflessiva con conseguente inabilità nella comprensione e disambiguazione dei segnali comunicativi che vengono scambiati nell’arena sociale.
Il secondo fattore contempla una rappresentazione del sé come vulnerabile, plausibilmente connessa con eventi traumatici. La condizione più temuta è quella di subordinazione e inferiorità rispetto all’altro percepito più forte, dominante o motivato a escludere, sottomettere, umiliare il sé.
L’incapacità di comprensione delle intenzioni altrui, associata al senso basico di vulnerabilità, fa in modo che il soggetto si senta esposto alla minaccia proveniente dagli altri individui; ciò determina un incremento di arousal negativo nel contesto di un threat/self protection system iperfunzionante, terzo fattore del nostro modello. Si tratta di un sistema necessario negli individui per identificare prontamente i segnali di pericolo e proteggersi da una minaccia incombente. Esso
riduce lo stato soggettivo di confusione e ambiguità di fronte agli atti comunicativi intrinsecamente ambigui (come espressioni facciali, sguardi, risate/sorrisi), fornendo al soggetto una spiegazione chiara e soddisfacente, anche se delirante, per i comportamenti altrui (“Che cosa vuole? Sta per attaccarmi!”) e preparandolo a reagire attraverso un viraggio aggressivo che genera un senso di forza efficace verso il nemico (“Me la pagherà!”) e riduce la percezione di sé come vulnerabile.
I fattori che promuovono il ricorso ad una singola e inconfutabile lettura della totalità degli eventi sono uno stato di ipervigilanza e i bias cognitivi (ad esempio, saltare alle conclusioni sulla base di pochi dati a supporto, attribuire all’esterno la causa di stati interni negativi), entrambi attivati dal threat system, che conducono il soggetto a concentrarsi solo sulle informazioni che confermano l’intenzione malevola degli altri.
Questo, a sua volta, conduce il soggetto ad agire con modalità (ad esempio, sospettosità, aggressività) che elicitano
Articolo Consigliato: TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI – RECENSIONE
nell’altro risposte comportamentali, quali aggressività o disingaggio dalla relazione, che confermano e rinforzano la percezione soggettiva dell’altro come ostile. Si creerebbero, in tal modo, dei cicli interpersonali disfunzionali che contribuiscono alla stabilizzazione e al mantenimento del delirio.
Riteniamo che il nostro modello, oltre ad offrire una comprensione più sofisticata del ruolo giocato dai diversi fattori nella genesi e nel mantenimento del delirio, abbia importanti implicazioni per la psicoterapia.
Esso, infatti, suggerisce quanto sia importante non tentare di confutare e modificare la credenza delirante nelle prime fasi del trattamento, in quanto questa costituisce per il paziente l’unica forma di organizzazione delle informazioni; piuttosto, il terapeuta deve focalizzare l’attenzione sulla difficoltà di comprensione delle intenzioni altrui e sul senso di vulnerabilità.
Sonno e Depressione – Studi elettroncefalografici ed epidemiologi hanno fornito un forte supporto sul fatto che i disturbi del sonno rappresentano un importante fattore eziologico della depressione.
Il sonno è una funzione biologica elementare ed un terzo della nostra vita viene speso in sonno.
Come l’alimentazione e la riproduzione, è una funzione necessaria ed indispensabile per tutti gli esseri viventi ed è indubbio che durante il sonno avvengono eventi importanti dal punto di vista biologico quale il ristoro delle forze, delle energie fisiche e mentali.
Numerose teorie identificano la funzione del sonno nel recupero fisico, nella facilitazione delle funzioni motorie, nel consolidamento dell’apprendimento della memoria.
La privazione del sonno negli umani provoca sonnolenza, senso di fatica, irritabilità progressivamente più intensa. La maggior parte dei ricercatori sostiene che la principale funzione del sonno ad onde lente sia di permettere al cervello di riposare, mentre il sonno REM sembra promuovere lo sviluppo celebrale e l’apprendimento.
In base a misure polisonnografiche, il sonno è stato diviso nelle categorie sonno REM e sonno NREM o sonno ad onde lente. I cicli del sonno sono detti cosi’ per via della loro associazione con la presenza (REM) o assenza (NREM) di rapidi movimenti oculari.
Il disturbo del sonno costituisce uno dei sintomi più prevalenti delle malattie mentali. Nei pazienti con disturbo depressivo maggiore (DDM) le anomalie del sonno rappresentano caratteristiche cardini. Studi elettroncefalografici ed epidemiologi hanno fornito un forte supporto che i disturbi del sonno rappresentano un importante fattore eziologico della depressione.
Cambiamenti nella struttura del sonno anticipano i cambiamenti dello stato clinico dei pazienti in corso di trattamento e possono anche rappresentare un segno di recidiva della depressione o prevedere comportamenti di suicidio.
Nonostante l’assenza di un evidenza diretta, la concomitanza del disturbo del sonno e disturbi dell’umore suggerisce, tuttavia, che uno o più ipotetiche relazioni possano sussistere tra loro.
La prima è che il disturbo del sonno e l’umore depresso rappresentino risposte fisiologiche ad un’ alterazione fondamentale del ritmo circadiano e di conseguenza il disturbo del ciclo circadiano sarebbe la causa primaria. La seconda interpretazione è che il disturbo del sonno e la malattia depressiva producano effetti causali reciproci, e forse costituiscono una disfunzione dei meccanismi di feedback che normalmente stanno alla base della loro interazione.
Articolo Consigliato: Leonard Cohen: Guarire dalla Depressione Cronica
Tuttavia vari esperimenti hanno dimostrato che i disturbi dei ritmi circadiani sono frequentemente osservati nel contesto dell’umore depresso. E’ stato suggerito ad esempio che le anormalità della tempistica del ciclo sonno REM e NREM, che sono osservate nei pazienti depressi, sono dovute a disturbi delle vie di conduzione che regolano i cicli sonno/ veglia. Infatti è stato esaminato che la sincronizzazione del ritmo sonno/veglia e del ciclo riposo/ attività con i cicli luce/scuro dell’ambiente esterno è essenziale per la manutenzione di un’ottima salute mentale e fisica.
E’ stato visto in pazienti che sperimentano livelli ridotti di illuminazione lamentano più frequentemente sintomi correlati al sonno e episodi depressivi rispetto a pazienti sottoposti a livelli normali di illuminazione. Questo dato è stato ottenuto in uno studio comprendente 459 pazienti in post menopausa. In conclusione la natura ciclica dei disturbi dell’umore suggerisce che i disturbi del ciclo circadiano siano il fattore precipitante maggiore dei disturbi dell’umore.
“ Salò” si pone, nella produzione pasoliniana, come una sorta di metafora dell’impotenza al potere, come una ritualizzazione mondana della trasgressione, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, coprofagia, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte.
Esso può sembrare un film monotono, ripetitivo, a suo modo didascalico, e perfino moralistico. Moralistico come, necessariamente, diventa una rappresentazione che cerchi di ricalcare la struttura dell’inferno.
Pasolini, in questo film, presenta un quadro sistematico delle perversioni, sul modello del racconto di Sade.
I protagonisti, fruitori di queste che vorrebbero essere delle raffinatezze erotiche, per acuire ed esaltare il godimento, sono quattro rappresentanti del potere, posti in un’epoca identificata con la repubblica di Salò. Essi provano queste situazioni perverse, guidati da tre donne, le narratrici, le quali, smaliziate fin dall’infanzia, sono divenute ora esperte ruffiane, profonde conoscitrici di ogni segreto dell’erotismo.
In “Salò” vi sono accennati soltanto due rapporti normali: quello, appena abbozzato, dei due fanciulli sposi per scherzo, in cui l’amplesso viene impedito come qualcosa di proibito, e quello clandestino della servetta negra, che si conclude con l’uccisione immediata dei colpevoli. Il sesso vero, dunque, nel film non esiste, ci sono soltanto le sue caricature: le perversioni.
Articolo Consigliato: La Migliore Offerta: Mistificazione versus Reale – Recensione
In Salò non c’è sesso, c’è solo la morte del sesso. I protagonisti o sono impotenti nel rapporto normale o lo sostituiscono con il voyerismo, l’esibizionismo, il feticismo; oppure riescono ad avere un rapporto soltanto con individui specifici alla propria perversione. Si attua dunque una specializzazione, anche se in ciascuna perversione permangono elementi delle altre.
I quattro fruitori non sembrano avere delle preferenze particolari, essi vogliono provare ogni forma di sessualità perversa e, ispirati dalle tre narratrici, le sperimentano con frequenti ripetizioni, con varie modalità, fino a giungere ad una strage finale.
Nonostante ciò i comportamenti perversi non sono stabilizzati, anzi potremmo dire, parafrasando Musatti, che si assiste ad una disposizione polimorficamente perversa. L’espressione “polimorfismo perverso” è propria della sessualità infantile. Per questo motivo i personaggi del film, anziché essere degli amatori raffinati, vogliosi di provare tutto per godimenti sempre maggiori, risultano degli individui assolutamente immaturi, rimasti ad uno stadio infantile caratterizzato da una curiosità che non arriva ad appagarsi.
In tutto il film prevale un unico organo genitale: il fallo. La supremazia del fallo è propria della fase evolutiva che Freud chiama fallica. I personaggi sembrano fissati a questo stadio nel quale il bambino non conosce ancora la differente costruzione dei sessi; un esempio è rappresentato dalla scena della scelta del più bel didietro, dove fanciulle ed efebi, mescolati insieme, sono veduti di schiena nudi in ginocchio, in modo che non si distinguano i maschi dalle femmine.
Questa immaturità è confermata dal fatto che nel film non vi è conclusione; c’è sì una melanconica scena finale di due ragazzi che ballano, ma una conclusione vera e propria non esiste, così come avviene nella realtà in ogni forma di sessualità perversa o deviata nell’oggetto.
In “Salò” soggettivo ed oggettivo, in precedenza tenuti separati nell’intera produzione filmica pasoliniana, si ricompongono come una massa compatta, senza alcuna possibilità di riscatto e, ancor meno, senza alcuna sublimazione.
Infatti esso segna un autentico taglio epistemologico. Non più il mondo da un lato e la coscienza infelice dall’altro, ma bensì una scrittura e una concezione che abbracciano tutto, i dettagli come l’insieme.
Una scrittura e una concezione che metaforicamente rimuove ogni speranza implicando tutti nel tetro universo che descrive e che preclude un qualunque alibi e conforto anticipando tragicamente la sua prematura fine.
All’interno di un gruppo esiste un ruolo che si innalza gerarchicamente al di sopra degli altri perché dotato della capacità di influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone più di quanto non sia esso stesso influenzato. Costui è il leader.
Per molti anni sono state costruite ricerche allo scopo di individuare le caratteristiche, le condizioni e le situazioni che possono condurre una persona a questo status, e cioè alla vetta della gerarchia strutturale del gruppo a cui appartiene.
Queste hanno ottenuto risultati parziali, spiegando una parte del complesso fenomeno della leadership ma ammettendo, spesso, per non dire sempre, troppe eccezioni per potere essere considerate definitive.
Alcuni modelli si sono concentrati sull’idea di un leader, tale, per doti innate e naturali, altri per un suo stile comportamentale, altri ancora per caratteristiche della situazione in cui si trova ad agire e alcuni, infine, per le aspettative e i bisogni degli altri membri del gruppo.
Attualmente la tendenza principale è quella di giungere ad un modello che permetta l’integrazione degli aspetti positivi delle teorie precedenti e che analizzi il fenomeno della leadership senza sottovalutarne nessuna.
E’ sempre più chiaro che il vero leader non deve essere una persona rigida dal punto di vista mentale e comportamentale, perché altrimenti ogni cambiamento nella struttura o nei fini del gruppo porterebbe alla sua inevitabile caduta, anche se, allo stesso tempo, deve possedere caratteristiche specifiche che gli permettano di raggiungere questa posizione. Non tutti, anche a parità di competenze, possono, infatti, essere leader. La prima e la principale di queste abilità è la “versatilità” e cioè la capacità di adattare il proprio comportamento a situazioni problematiche sempre uniche e diverse, che richiedono, appunto, risposte e reazioni specifiche da parte di chi detiene il potere.
Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina
Il mondo dello sport, e in particolare degli sport di squadra, rappresenta, come afferma Cei [1998], un base favorevole agli studi sui gruppi sociali e sulla leadership. Questo perché permette di studiare persone già naturalmente riunite sotto la stessa bandiera, che interagiranno come gruppo perlomeno per un’intera stagione. I modelli sulla leadership nello sport, e gli studi effettuati al riguardo sembrano confermare l’idea per cui è impossibile parlare di un comportamento da leader in senso universale poiché non esiste un leader universale. Resta vero che esistono, comunque, qualità non sufficienti ma necessarie per svolgere i compiti associati a questo ruolo. Il leader deve saper adattarsi ai problemi più svariati, deve fare tesoro dell’esperienza, deve conoscere ed essere consapevole del proprio comportamento e delle sue conseguenze sia per la prestazione che per la soddisfazione della squadra. Deve sapere che non può concentrarsi su solo uno di questi due obiettivi, sia perché sono interdipendenti tra loro, sia perché, a seconda della situazione, può ottenere risultati migliori (su entrambi), centrando il proprio lavoro sull’uno o sull’altro.
In realtà, l’ambito sportivo presenta una peculiarità, non esclusiva, ma particolarmente frequente nelle caratteristiche che contraddistinguono lo status di leader. Gli studi al riguardo hanno dimostrato, infatti, l’esistenza di più di un leader nella squadra sportiva.
E’ vero che la presenza di più leader può essere individuata in qualsiasi gruppo sociale, ma negli sport di squadra si possono osservare, molto frequentemente, due figure ben distinte nelle loro caratteristiche: il leader istituzionale e il leader intimo. Il primo è l’allenatore, il leader della squadra esterno alla squadra stessa, eletto dalla dirigenza e dotato del potere legittimo e di competenza. Il secondo è il capitano (definito per comodità visto che la figura che riveste il ruolo di capitano ufficiale può non coincidere con il leader intimo), detentore della leadership interna al gruppo, eletto dagli altri componenti della squadra e caricato di notevole responsabilità perché riconosciuto essere la persona più adatta e competente ad averla. Proprio per la diversa origine e per la diversa posizione, questi due ruoli si pongono in modo diverso verso la collettività. Entrambi devono mantenere un atteggiamento versatile se vogliono avvicinare la squadra ai suoi obiettivi, e spesso per uno è più facile giungere a risolvere quei problemi che l’altro fatica ad affrontare e viceversa.
Attraverso l’analisi degli studi sull’argomento, come vedremo nel secondo capitolo, si può affermare che se questo aspetto, e cioè la loro complementarietà, è il principale vantaggio apportato alla squadra dall’esistenza dei due leader, l’assenza di una collaborazione tra questi può divenire, se presente, quello negativo. In effetti il conflitto tra allenatore e capitano, se non viene arginato in fretta, si è dimostrato essere una vera mina distruttiva per tutta la squadra, che si ripercuote negativamente sul morale e sui risultati ottenuti.
Nel terzo capitolo le caratteristiche dei due leader verranno messe a confronto sia con la prestazione che con la soddisfazione del gruppo. Come molti autori hanno teorizzato sia l’allenatore che il capitano devono prestare attenzione ad entrambi i fattori principalmente perchè la prestazione e la soddisfazione sono due variabili interdipendenti. Non considerare uno di questi livelli, implica automaticamente minare anche la positività dell’altro. La scelta di focalizzarsi, temporaneamente, più sul primo che sul secondo, o viceversa, deve essere fatta sulla base di ciò che richiede la situazione. L’analisi del rapporto tra il comportamento dei due leader, la prestazione e la soddisfazione e la conferma della loro interdipendenza non rappresentano altro che un’ulteriore evidenza della necessaria “versatilità” del leader, o meglio, dei leader.
L’obiettivo di questo lavoro non è soltanto quello di descrivere le caratteristiche peculiari della figura del leader nello sport ma anche individuare come, secondo gli autori che hanno trattato l’argomento, deve comportarsi quest’ultimo per favorire la prestazione e la soddisfazione della squadra; dimostrando, infine, su un piano puramente teorico, come questa “versatilità” è il requisito primario per avere successo.
Si cercherà di raggiungere questo obiettivo attraverso la descrizione delle principali teorie e dei principali modelli inerenti la leadership (capitolo 1), l’analisi delle due tipologie di leader riscontrabili in ambito sportivo e delle loro somiglianze e differenze in diversi contesti (capitolo 2) e lo studio del rapporto tra ognuno dei due leader e i loro obiettivi primari, e cioè la prestazione e la soddisfazione della squadra (capitolo 3).
Infine, nell’ultimo capitolo, saranno presentati alcuni strumenti normalmente utilizzati nelle ricerche in ambito sportivo, che permettono di analizzare e valutare il comportamento del leader.
Quando pensiamo a noi stessi, inevitabilmente pensiamo a quali persone siamo e al bagaglio delle nostre esperienze lungo l’arco di vita: questa è la nostra memoria. Essa racchiude la totalità delle conoscenze che definiscono l’idea di noi stessi e delle nostre relazioni.
Le ricerche sviluppatesi in questo ambito hanno messo in discussione l’affidabilità della nostra memoria, evidenziando che a volte, ad esempio, un episodio che consideriamo realmente accaduto nella nostra vita, in realtà non è mai avvenuto.
Elizabeth Loftus rappresenta, a livello internazionale, una delle più grandi esperte nello studio della malleabilità della memoria e dei cosiddetti “falsi ricordi”. In un disegno sperimentale, definito “il testimone oculare”, la studiosa mostra come sia possibile contaminare i ricordi degli altri, attraverso l’utilizzo di diverse domande.
Articolo Consigliato: Memoria: I post su Facebook vincono sui Libri!
Questo può accadere, ad esempio, negli scambi tra un testimone e gli agenti della polizia. Semplicemente al variare delle parole utilizzate per estorcere delle informazioni, il testimone può ricordarsi di episodi che in realtà non ha mai vissuto e che vengono involontariamente suggeriti dall’interlocutore.
E questo può accadere può spesso di quanto si crede. Tra le più importanti scoperte della Loftus vi è senz’altro quella relativa ai “falsi ricordi”, episodi mai esistiti che vengono però vissuti come reali. Uno studio del 1995 mostrò come sia possibile impiantare nella memoria il ricordo di un evento traumatico mai accaduto.
A 24 studenti e ai loro familiari più stretti venne chiesto di rievocare tre spiacevoli episodi dell’infanzia, come perdersi al supermercato: ogni familiare doveva riportare nel dettaglio ciascun dei tre episodi ed un falso ricordo, qualcosa che in realtà non era mai avvenuto. Ad ogni studente venne chiesto, quindi, di stimare quanto fosse sicuro della veridicità di ciascun episodio. Il risultato sorprendente fu vedere come i soggetti considerarono il “falso ricordo” come realmente accaduto.
Un’altra importante area di approfondimento concerne la possibilità di influenzare il comportamento altrui agendo sui ricordi. I partecipanti furono spinti a credere che, durante l’infanzia, si fossero ammalati mangiando del gelato alla fragola. Una settimana dopo, i soggetti riportarono dettagli accurati circa l’episodio (“rich false memory”)e furono convinti che questo fosse avvenuto nel loro passato. Pertanto, il loro comportamento alimentare, si modificò in conseguenza di questa scoperta.
Gli studi sulla malleabilità della nostra memoria rappresentano non solo uno strumento per conoscere il funzionamento della mente umana, ma anche un mezzo per sapere come difenderci dalla contaminazione dei nostri ricordi.
Loftus evidenzia come la distorsione della memoria sia un fatto che accade nella vita quotidiana di ognuno di noi: questo fenomeno, definito “prestige-enhancing memories”, permette di alterare alcune vicende della nostra vita in modo da vedere noi stessi più positivamente di ciò che realmente siamo.
E questa non è necessariamente una cosa negativa, anzi: un po’ di distorsione potrebbe essere utile alle persone!
Soddisfazione e Longevità dei Matrimoni Online e Offline
Ti posso offrire un caffè (virtuale)? Soddisfazione e longevità dei matrimoni online e offline – I matrimoni nati online hanno un grado di soddisfazione maggiore di quelli nati offline.
Un recente articolo apparso sul Time, riprendendo una ricerca dell’Università di Chicago, titola che i matrimoni nati online hanno un grado di soddisfazione maggiore di quelli nati offline.
Una notizia che in tempi di divorzio e di crisi dei legami suscita sicuramente curiosità e interesse. La ricerca, però, sembra nascere con una Spada di Damocle sulla testa: è stata, infatti, commissionata dal sito di incontri online eHarmony. Nasce, così, spontanea la domanda su quanto i dati (o la loro interpretazione) rischi di essere in qualche modo fuorviata dal committente.
Lo studio di per sé, però, consente di riflettere e ragionare ancora una volta su quanto i nuovi strumenti messi a disposizione della rete modificano – in un senso o in un altro – il nostro modo di relazionarci e di vivere.
Articolo Consigliato: L’ Amore ai Tempi delle Reti Sociali
Il professor Cacioppo, autore della ricerca, afferma che più di un terzo dei matrimoni Americani iniziano online, sottolineando così come gli incontri tramite la rete siano ormai molto più comuni di 10 anni fa. Dalla ricerca, infatti, condotta su 20.000 americani convolati a nozze tra il 2005 e il 2012 risulta che il 35% delle unioni è iniziata proprio online. Credo che possiamo spiegarci questa modifica grazie alla diffusione massiccia del world wide web, che ha reso più accessibili le comunità online, e ha fatto sì che le persone le vivessero come meno spaventose o aliene.
In genere gli innamorati digitali hanno tra i 30 e i 39 anni, un lavoro spesso ben pagato, e nel 45% dei casi si incontrano grazie ai siti di appuntamenti online.
La ricerca, inoltre, evidenzia anche il tasso di divorzio di queste unioni: Il tasso di fallimenti è risultato del 6% nelle coppie che si sono conosciute on-line: 45% per quelle coppie venute in contatto attraverso siti di incontri, 20% social network, 9,5% chat room, oppure gruppi di discussione, email, community, giochi multiutente. E dell’8% tra quelle che avevano incontrato il proprio coniuge a scuola, sul lavoro, in centri di aggregazione sociale, a casa di amici, a feste, o attraverso familiari. Una differenza che si riduce includendo nell’analisi i fattori che più frequentemente giocano un ruolo nelle rotture (educazione, reddito, numero degli anni di convivenza), ma che secondo i ricercatori resta pur sempre significativa.
Lo studio sembra aver anche messo in luce una maggiore soddisfazione tra i partner conosciutisi online, rispetto a quelli che si sono incontrati al bar o al college.
Eli Finkel, professore di psicologia sociale alla Northwestern University, però, mette in guarda rispetto a facili entusiasmi o a conclusioni premature: nonostante la ricerca copra un buon numero di soggetti e abbia una sua validità, non è possibile ridurre i risultati all’equazione: “Matrimoni nati online = matrimoni più duraturi e felici”. Secondo Finkel, infatti, lo studio dimostra semplicemente che è possibile trovare un partner stabile anche online.
Infatti, in entrambi i casi (incontri online o offline) il luogo specifico di incontro porta ad una durata differente dell’unione. Non sorprende che, ad esempio, crescere insieme o incontrarsi a scuola o tramite amici comuni comporta un matrimonio più soddisfacente rispetto alle relazioni nate in un bar o per caso. Curioso il dato che dimostra che incontrarsi al lavoro equivale ad incontrarsi in un bar o in un nightclub in termini di soddisfazione coniugale.
Per quanto riguarda i luoghi di incontro online gli incontri nati in chat room o nelle comunità online sono meno soddisfacenti rispetto a quelli nati attraverso e grazie siti di appuntamenti specializzati, sebbene anche qui il dato sembri variare a seconda della tipologia di sito utilizzata.
Articolo Consigliato: Facebook & Mamme Moderne: Vi presento il mio bambino!
“Nelle chat room e negli incontri casuali offline, si incontrano solo persone del circondario e non un grande numero di persone” sostiene Cacioppo “Se una persona si rivolge ad un sito di incontri online ha un maggiore ventaglio di possibilità”. Mi viene da pensare che forse il dato potrebbe essere spiegato anche con il fatto che i siti di incontri online prevedono una scheda minuziosa e dettagliata volta a “matchare” ossia a combinare i partner, cercando di trovare “la combinazione perfetta”, unendo persone attraverso gusti, preferenze, affinità. Non è detto che lo strumento funzioni, ma sicuramente consente di aumentare le possibilità di incontrare una persona “affine” ai propri gusti, molto più che un incontro casuale in un bar o ad una festa.
Cacioppo sostiene anche che le caratteristiche personali possano avere un impatto sulla differenza di soddisfazione tra matrimoni online e offline: “Se si è più riservati o controllati o meno espansivi, è più probabile che ci si senta più portati ad incontrare deliberatamente il proprio partner online piuttosto che impulsivamente al bar”.
Un’altra lancia spezzata in favore degli incontri online riguarda la possibilità di “essere più facilmente se stessi” rispetto ad un incontri vis-a-vis dove il contatto visivo e la comunicazione non verbale giocano un ruolo preponderante nell’interazione.
Credo che questo studio, al di là dei dati in sé, possa essere usato come spunto di riflessione su come gli strumenti di comunicazione online possano divenire luoghi mentali, privi di fisicità ma non di certo di significato.
Il gioco d’azzardo patologico (GAP) è un argomento sempre più d’attualità, anche nel mondo scientifico. Numerose ricerche si sono infatti susseguite nel corso degli anni e numerose sono, ad oggi, le evidenze rispetto ad una comorbilità tra GAP e disturbi di personalità, soprattutto appartenenti al Cluster B (istrionico, narcisistico, antisociale e borderline).
I tratti di impulsività, di disregolazione emotiva, di sensation e novelty seeking tipici di questo Cluster di personalità sono stati spesso osservati e riscontrati nei giocatori patologici e sembrano essere alla base dei comportamenti disfunzionali messi in atto da questi individui (Clarke, 2004; Martinotti et al., 2006).
Il disturbo antisociale di personalità, in particolare, sembra essere il disturbo maggiormente riscontrato tra i gamblers e anche quello più studiato (Slutske et al., 2001; Pietrzak & Petry, 2005). Tuttavia, tra i pochi studi che si sono occupati di indagare la correlazione tra il gioco d’azzardo patologico e i disturbi di personalità diversi dall’antisociale, uno studio ha messo in luce che nel 53% dei giocatori patologici si riscontra un disturbo di personalità non antisociale (Steele & Blaszczynski, 1998).
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.
Un recente studio americano (Odlaug, Schreiber & Grant, 2012), pubblicato lo scorso anno sul Journal of Personality Disorders, ha esaminato la relazione esistente tra gambling patologico, disturbi di personalità e impulsività in un gruppo di 77 soggetti maschi e femmine con un’età media di 36 anni (range 14-59) che trascorreva in media 13 ore a settimana giocando (slot machine, bingo, lotteria, tavoli da gioco, etc.), con perdite di denaro di circa 535$ a settimana.
Dai risultati è emerso che, di questi 77 soggetti, il 45.5% soddisfaceva i criteri per almeno un disturbo di personalità e il 18.2% per due o più disturbi. I disturbi di personalità maggiormente riscontrati appartenevano al Cluster C: il disturbo ossessivo-compulsivo (27.3%), ildisturbo evitante (10.4%) e il disturbo passivo-aggressivo (9.1%).
Risultati che contrastano con la maggior parte degli studi esistenti che evidenziano, come già detto, una correlazione maggiore tra GAP e disturbi di Cluster B ma che concordano con una meta-analisi precedente in cui erano state rilevate alte percentuali di tratti ossessivo-compulsivi nei gamblers (Durdle, Gorey & Stewart, 2008), senza tuttavia riscontrare una forte correlazione con il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Doveroso sottolineare che la scelta di non includere nel campione soggetti che facevano uso di sostanze può aver inciso non poco sui risultati (alta è infatti la correlazione tra il disturbo antisociale e l’uso di sostanze).
Ancora, rispetto al tratto dell’impulsività, indagato usando la Barratt Impulsiveness Scale, lo studio mostra che i soggetti appartenenti al Cluster C riportano punteggi elevati solo nella sottoscala relativa all’impulsività legata al decision-making(Attention Impulsiveness), mentre i soggetti del Cluster B mostrano punteggi elevati sia nella sottoscala precedente sia in quella relativa agli acting out (Motor Impulsiveness).
Questi risultati evidenziano, quindi, ancora una volta la correlazione positiva tra GAP e impulsività, ma suggeriscono una comorbilità con specifici aspetti dell’impulsività, che meritano di essere approfonditi e presi in considerazione dai clinici che si trovano a trattare con questi pazienti.
Malattie Neuropsichiatriche – Studiare le reti di connessioni nel cervello delle persone affette da schizofrenia, malattia bipolare o depressione ha permesso a un team di ricercatori della Western University, di ottenere una migliore comprensione delle basi biologiche di queste malattie importanti.
Articolo Consigliato: Le Basi Neurobiologiche del Protocollo EMDR nella Cura del Trauma Psichico
I ricercatori hanno dimostrato che diverse reti neurali sono interrotte in diverse patologie psichiatriche. Questi risultati sono stati presentati al 2013 Canadian Neuroscience Meeting.
In precedenza, i ricercatori avevano tentato di utilizzare approcci genetici per cercare di spiegare le basi biologiche delle malattie neuropsichiatriche, ma la genetica può spiegare solo una piccola percentuale di casi.
Oggi i ricercatori hanno iniziato a utilizzare nuove tecniche di imaging per studiare le connessioni nel cervello dei pazienti, e questo approccio sta rivelando importanti differenze tra i pazienti affetti da schizofrenia, disturbo bipolare e depressione, e le persone non colpite da questi disturbi.
Schizofrenia e disturbo bipolare sono malattie tipicamente umane.
Anche se esistono alcuni modelli animali di queste malattie, gli animali non sperimentano queste malattie come facciamo noi, dal momento che mancano loro le nostre capacità linguistiche e la capacità di rappresentare i sentimenti e le idee, propri e altrui, nel tempo. Queste capacità specificamente umane sono codificate in reti neurali specificamente umane.
La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa.
Università, Scuole di formazione, Servizi pubblici.
URBINO, 10 – 11 MAGGIO 2013
Uno degli aspetti più interessanti di questo convegno è stata proprio la commistione di diversi linguaggi, diverse estrazioni e diverse prospettive, in un’ottica di integrazione e contaminazione fertile piuttosto che di contrapposizione e sfida.
Il 10 e 11 maggio si è svolto a Urbino il congresso organizzato dalla sezione Italiana della Society for Psychotherapy and Research (SPR) dal titolo “La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa. Università, Scuole di formazione, Servizi pubblici”.
Il programma si è strutturato tra main lectures, workshops e simposi di importanti esponenti della scena psicologica italiana e comunicazioni e poster in cui ricercatori di diversi orientamenti e ambiti hanno presentato i propri lavori di ricerca al pubblico.
Il clima è stato caratterizzato da una forte propensione al confronto, sia da parte dei mentori che da parte dei giovani, con un’attenzione genuina e proficua ai lavori degli altri.
Articolo consigliato: Il Disturbo Ossessivo Compulsivo: “Lo Stato dell’Arte” – Assisi 09-12 Maggio 2013
Dopo una carrellata iniziale in cui ci si è soffermati sullo stato dell’arte rispetto alla ricerca nelle sue diverse accezioni (qualitativa e quantitativa) e nei diversi contesti (servizi pubblici o enti privati), i relatori si sono concentrati su alcuni interessanti approcci e chiavi di lettura della psicopatologia, ancora una volta proposti come possibili punti di accesso al dolore e al disagio del paziente, ma passibili di modifiche e con un atteggiamento di estrema apertura nei confronti di osservazioni e possibili critiche.
In questo senso, la Dr.ssa Sassaroli ha presentato il LIBET, come nuova concettualizzazione della sofferenza in termini di temi di vita dolenti e piani di vita sviluppati con lo scopo di fare fronte a questo dolore. La platea ha accolto con interesse e curiosità la concettualizzazione proposta, integrandola con osservazioni e ponendo confronti tra questa e gli altri approcci recenti.
In seguito, il Dr. Popolo prima e il Dr. Bruno poi hanno proposto due interessanti lavori di ricerca rispettivamente sulle psicosi e sui disturbi alimentari entrambi in ambito ospedaliero, ancora una volta presentati relativamente alla metodologia e ai risultati preliminari e accolti con interesse da parte degli uditori.
In seguito, un intero pomeriggio è stato dedicato alla presentazione di due serie di comunicazioni libere in parallelo, da parte di ricercatori con diverse estrazioni sia in termini di contesto (pubblico, accademico, privato) che di approccio di riferimento (cognitivo, psicodinamico, etc.).
Mentre alcune relazioni hanno presentato lavori di ricerca terminati e di cui è stato possibile condividere risultati e implicazioni cliniche, altre hanno proposto ricerche in itinere, di cui sono stati visionati solo i risultati preliminari. Altre ricerche ancora hanno presentato solo il planning di quella che sarà la raccolta dati, insieme al background da cui sono state mosse le ipotesi di ricerca.
Uno degli aspetti più interessanti di questo convegno è stata proprio la commistione di diversi linguaggi, diverse estrazioni e diverse prospettive, in un’ottica di integrazione e contaminazione fertile piuttosto che di contrapposizione e sfida.
In questo modo, per esempio, anche le ricerche in una fase più acerba hanno potuto beneficiare delle osservazioni della platea, magari da parte di esponenti di altre correnti di pensiero, in un approccio migliorativo in cui davvero le diverse competenze maturate da persone che differiscono per orientamento, età, anni di esperienza, ambiti di operatività, hanno potuto migliorare la parzialità che una visione unilaterale per forza implica, aggiungendo sfaccettature che più facilmente possono portare a una visione bifocale e laterale del medesimo fenomeno.
Articoli consigliati: Nuove Frontiere nella cura del trauma. Il Congresso di Venezia 2013
Se davvero fare ricerca oggi in Italia è complicato, per carenza di fondi stanziati ad hoc, di strumenti e di conseguenza di persone formate per farla, è certo che un atteggiamento di sfida e competizione nel tentativo di dimostrare quanto la ricerca quantitativa sia più o meno scientifica, più o meno artificiosa e naturalistica di quella qualitativa, di dimostrare come l’approccio cognitivo si presti più di quello psicodinamico oppure di come le università siano più rigorose delle grandi organizzazione come sono per antonomasia le AUSL, sia sterile e a grande rischio di separazione anziché unificazione.
Davanti a un contesto scientifico in cui sempre di più chi propone nuovi approcci anziché cercare un dialogo con quello che già esiste o con quello che con loro sta emergendo, fonda nuove società e propone nuovi convegni mono-approccio e mono-tema, penso che l’umiltà e il coraggio di confrontarsi con chi parla tutt’altra lingua possa invece essere un quid in più per migliorare la ricerca, perché chi osserva le cose da un punto di vista differente dal proprio può portare a un insight, uno sguardo che il nostro occhio educato in un certo modo può fare davvero fatica a cogliere.
In qualche modo, quindi, la possibilità di discutere della propria ricerca o del proprio abito in un clima che sia davvero migliorativo e valorizzante può essere quello che aiuta la ricerca e che sprona verso nuove concettualizzazioni in un clima in cui fare della ricerca un’attività strutturata è già così tanto difficile per motivazioni logistiche e economiche.
Il diario di Bridget Jones: Il rapporto compulsivo della protagonista con il cibo e l’alcool nasce dall’insoddisfazione per una vita in cui le relazioni affettive sono assenti.
Il diario di Bridget Jones (Bridget Jones’s Diary). Diretto dalla regista Sharon Maguire, con Renée Zellweger, Colin Firth, Hugh Grant, Gemma Jones, Jim Broadbent. Basato sul romanzo omonimo di Helen Fielding. Commedia. USA 2001.
Trama
Il film narra le vicende di Bridget Jones, trentenne single che vive e lavora a Londra. Ossessionata dal proprio peso, dal proprio corpo e dalle abitudini malsane in relazione all’alimentazione ha il timore di rimanere zitella. La madre le propone possibili fidanzati, ma lei si muove goffamente nella propria vita sentimentale.
L’insicurezza fa crescere il timore che la solitudine sarà l’eterna compagna dei giorni di Bridget, alimentando il senso di vuoto e le abbuffate. L’intrusività della madre alimenta un senso di inadeguatezza e inefficacia sollecitando la protagonista ad immaginare per sè un futuro negativo.
Aricolo Consigliato: Il favoloso mondo di Amélie – Cinema & Psicoterapia #3
Insoddisfatta e instabile incrementa nel tempo una autovalutazione negativa, finché “All’improvviso ho realizzato che se non cambiava qualcosa in fretta avrei vissuto una vita in cui il rapporto più importante sarebbe stato quello con una bottiglia di vino, e alla fine sarei morta grassa e sola, e mi avrebbero ritrovata dopo tre settimane divorata dai cani alsaziani. O sarei diventata come Glenn Close in Attrazione fatale…”.
Così Bridget, supportata da un’amica e confidente femminista, inizia un percorso di cambiamento che la porterà a prendere consapevolezza delle sue qualità e risorse e a distanziarsi criticamente da schemi relazionali e credenze che avevano segnato le sue disavventure da single coatta e frustrata.
Il film tratta i temi che caratterizzano i disturbi dell’alimentazione per certi versi in modo superficiale ed in maniera eccessivamente incline alla banalizzazione.
La narrazione semplice e chiara, offre d’altra parte un ottimo canovaccio per confrontarsi con i pazienti sul bisogno di controllo, sul perfezionismo, sull’autostima, sull’importanza dell’immagine corporea e dell’apparire, costrutti implicati nei disturbi alimentari.
Indicazioni per l’utilizzo
Oltre a fornire spunti interessanti per acquisire maggiore consapevolezza dei temi problematici, consente al paziente di confrontarsi con modalità di cambiamento efficaci che offrono speranza per il superamento del disagio avvertito.
Non va trascurato inoltre l’effetto normalizzante che può suscitare la rappresentazione di contenuti propri del paziente che vengono elaborati peraltro positivamente dalla protagonista del film.
Il film stimola l’autoriflessività e la motivazione al cambiamento.
-“We shape our tools and thereafter our tools shape us” – Not only our thoughts, concepts, and cognitive processes are firmly shaped and rooted in our biological constitution, but also “lifeless material things” merge with our inner self.
In his recent article “Embodied Cognition and the Magical Future of Interaction Design”, Canadian cognitive scientist David Kirsch provides an accessible survey of state-of-the-art research on human cognition in relation to tools. As linguist George Lakoff and philosopher Mark Johnson have argued, this major scientific paradigm aims at overcoming the idea of rationality that has permeated our culture since the Enlightenment. Starting from McLuhan’s famous statement “we shape our tools and thereafter our tools shape us”, Kirsch outlines the key tenets of embodied cognition and its broad implications. According to the paradigm, not only our thoughts, concepts, and cognitive processes are firmly shaped and rooted in our biological constitution, but also “lifeless material things” merge with our inner self.
Recommended: Learning by Looking. The-Case for Visual Perceptual Repetition Priming
Embodied cognition claims that thought is not confined to the brain, but extends and relies on our body parts and external objects, enabling us literally to “think with things”. When we interact with a tool, we rapidly absorb it into our cognitive apparatus, and we enter a new “enactive landscape” with novel affordances that we could not imagine without the tool. As psychologist Abraham Maslow famously put it, “if the only tool you have is a hammer, to treat everything as if it were a nail.” Tools impact on our motor system, on our synaesthetic perception, and our conceptualisation of reality, redrawing the boundaries of our world. For the chef, a kitchen can constitute many “cooking landscapes,” depending on their cooking style, the course being prepared, and the specific tool in their hand.
The interface between the human and the tool is difficult to identify. As anthropologist Gregory Bateson pointed out, a blind man with a stick illustrates the problem. “Where does the blind man’s self begin? At the tip of the stick? At the handle of the stick? Or at some point halfway up the stick?” From a cybernetic perspective, these intuitive boundaries are wrong, as both entities become part of an information system made up of the man and his tool.
Kirsch makes his case compelling by illustrating several instances of thinking directly with the body. To learn a complex dance sequence, professional dancers make a physical model of it by dancing through it. Such models are imprecise and distorted in particular ways to explore specific aspects of the object being studied. Similarly, violinists may rehearse a passage by working on their bowing while lowering precision on their left fingers. In this sense, the body becomes a central support of the learning process.
These lines of cognitive research bear high relevance for interaction design and human-computer interaction. How far can we “rewire” ourselves into tools? What are the limits of this neuro-adaptation? Why do certain interfaces feel “natural” and disappear from our perception, and others do not? Even tentative answers, of course, will require a lot of work. Although Kirsch alludes to a “magical future” of interaction design, he fails to clarify how these insights can feed back into actual interfaces of information systems, and offers vague and cautious predictions. For anybody interested in philosophy, psychology, and human-computer interaction, the findings surveyed by Kirsh offer much food for multi-disciplinary, embodied thoughts.
E se poi perdo? Il cervello risponde: sempre meglio conformarsi!
Essere indipendenti rappresenta un evento emotivamente avverso per il nostro cervello, invece il conformismo funziona di per sé come un rinforzo che spinge ad evitare le emozioni negative derivate dall’esporsi individualmente ad un potenziale fallimento.
Da sempre gli esseri umani sono suscettibili all’influenza sociale, tanto che tendono a conformarsi ai giudizi del gruppo anche quando sono in disaccordo.Questo fenomeno, definito “conformismo sociale”, può avere scopo informativo o normativo.
Articolo Consigliato: Il Pregiudizio Sociale Nasce con Noi.
Nel primo caso, il soggetto si basa sugli altri per attingere informazioni su ciò che è corretto fare in un contesto sconosciuto. Nel secondo caso, la persona modifica, consciamente o inconsciamente, il proprio comportamento sotto la spinta della pressione sociale per ottenere accettazione e approvazione.
Uno studio di Berns e colleghi (2005) sulla rotazione mentale suggerisce che un disaccordo tra la propria preferenza e quella degli altri motiva la persona a cambiare la propria opinione per raggiungere il consenso e diminuire il conflitto.
Tra le aree corticali coinvolte nella scelta era stata registrata una maggiore attivazione di amigdala e caudato, evidenziando il ruolo dei processi emotivi e percettivi.Alcuni studi dimostrano inoltre il coinvolgimento della corteccia cingolata anteriore (ACC), regione cerebrale legata all’elaborazione della ricompensa, alla ricerca dell’errore e al monitoraggio del conflitto.
A questo proposito, un recente studio (Kim, Liss, Rao, Singer & Compton, 2012) dimostra che le informazioni indicanti una deviazione dalla norma del gruppo elicitano un feedback negatività-correlato (FRN), ossia un potenziale corticale relativo a oggettive perdite ed errori nella performance. Ciò significa che il nostro cervello tratta la deviazione dalla norma sociale come un vero e proprio errore. Un recentissimo studio sui potenziali evento-correlati (Yu & Sun, 2013) ha utilizzato un compito di gambling in cui i partecipanti dovevano scegliere la parte sinistra o destra di uno schermo, ricevendo solo successivamente un feedback sulle risposte date da altri due giocatori (riducendo così la pressione del conformismo normativo).
Inoltre, indipendentemente dalla conformità delle risposte, i soggetti potevano vincere oppure no un corrispettivo monetario. Durante la fase di risposta, le scelte non conformi al gruppo attivavano una maggiore risposta dei potenziali FRN, suggerendo che essere indipendenti rappresenti un evento emotivamente avverso per il nostro cervello e che il conformismo funzioni di per sé come un rinforzo che spinge ad evitare le emozioni negative derivate dall’esporsi individualmente ad un potenziale fallimento.
Nella fase relativa alla vincita/perdita monetaria, la scelta conforme era associata ad una minore sensazione emotiva negativa connessa alla mancata vincita (misurata con FRN) e ad una maggior soddisfazione soggettiva (misurata attraverso self-report). Quindi seguire la folla, seppur involontariamente, può ridurre l’esperienza emotiva negativa, anche quando la decisione del gruppo si dimostra sbagliata, evidenziando come i processi di affiliazione abbiano anche un ruolo protettivo rispetto all’esperienza emotiva avversa.
Questi studi sottolineano come il fenomeno del conformismo sia guidato non solo da motivi informativi o di pressione sociale, ma anche da processi emotivo-motivazionali. Questi ultimi giocano un ruolo importante nell’incentivare i comportamenti di aggregazione sociale attraverso meccanismi di anticipazione di un minor impatto emotivo in caso di fallimento e, in ogni caso, di previsione di un maggior rischio emotivo quando si sceglie liberamente. In altre parole, sarebbe sempre meglio conformarsi perché, in caso di fallimento, l’eventuale perdita “costa” comunque meno…in termini emotivi, si intende!
“No – I giorni dell’arcobaleno” ripercorre i 27 giorni di campagna elettorale del referendum che il dittatore cileno Augusto Pinochet indisse nel 1988 per ricevere il consenso a prolungare di 8 anni la permanenza al potere.
Dopo quindici anni di regime autoritario, e spinto dalle crescenti pressioni internazionali – non ultima quella degli Stati Uniti che nel 1973 avevano appoggiato il golpe contro Allende ma dovevano ora confrontarsi con l’immagine sempre più compromessa del Generale – Pinochet credette che attraverso un referendum sulla sua persona sarebbe stato possibile legittimare il controllo assoluto del Paese.
La consultazione popolare si preannunciava fortemente condizionata dalla dittatura, che stabilì due spazi televisivi di quindici minuti ciascuno per il fronte del Sì e per il No; la campagna degli oppositori fu relegata in tarda notte per fare in modo che la maggior parte dei cittadini non potesse seguirla, mentre il voto favorevole a Pinochet si avvaleva non tanto del contesto televisivo ufficialmente concesso quanto di un sistema di informazione che da molti anni non concedeva spazio alcuno alle voci dissidenti.
Come superare la paura che imprigionava il popolo, il dolore dei soprusi subiti che si era progressivamente silenziato trasformandosi in un’avvilita impotenza?
Articolo Consigliato: Recensione: Il Grande Capo di Lars von Trier
Come combattere il pensiero dominante avendo a disposizione quindici minuti notturni per soli 27 giorni? Le opposizioni democratiche dapprima idearono una campagna che ricordasse i giorni del golpe, le torture, il dramma dei desaparecidos, la violenza con cui era stata soppressa ogni forma di Stato libero, ma un noto pubblicitario contattato perché fornisse la propria opinione cambiò radicalmente prospettiva.
“Il dolore fa paura” era la sua convinzione, e in questo modo nacque la linea politica che avrebbe portato al trionfo del 5 Ottobre; l’allegria, solo l’allegria di un nuovo Cile avrebbe potuto risvegliare le coscienze paralizzate, solo l’immagine di un Paese in cui la libertà non fosse una condizione neutra bensì un valore che spalancava innumerevoli scenari di vita alternativi avrebbe reso possibile il miracolo.
Come simbolo fu scelto l’arcobaleno, ciò che più rappresentava donne e uomini diversi accomunati dal bisogno di immaginare un mondo finalmente colorato.
Il fronte del No si spaccò; passare sotto silenzio le tragedie del passato appariva inaccettabile, costruire spot televisivi che dominati da logiche di marketing mostravano persone felici impegnate a consumare un prodotto, la democrazia, cantando e ballando, sorridendo come nulla fosse accaduto nei quindici anni precedenti, sembrava offendere la memoriadelle vittime, la dignità di un popolo violentato da una dittatura feroce.
L’artefice di questa svolta fu accusato di porre il futuro democratico del Cile sullo stesso piano di un qualunque progetto commerciale e di essere asservito alla propria ambizione di gloria; col passare dei giorni tuttavia i contenuti della campagna divennero più chiari e condivisi, iniziò a diffondersi la percezione che la gente comune, le persone del popolo apparentemente così difficili da raggiungere fossero in realtà a portata di messaggio.
Avvicinandosi al referendum il regime cominciò a temere per il risultato finale, si accorse che la propria campagna elettorale aveva l’aspetto stanco e vecchio di una celebrazione sempre uguale a se stessa e fece ricorso a strategie conosciute, l’intimidazione degli oppositori, le cariche dei militari alle manifestazioni, la delegittimazione dell’avversario attraverso bugie, censure, manipolazioni. Ciò che poi avvenne è storia: il 5 Ottobre 1988 il Cile superò Pinochet. Unica arma, un arcobaleno.
L’elicitazione di una Risposta di Rilassamento, soprattutto in coloro che utilizzano da molti anni pratiche di rilassamento, riduce lo stress e promuove il benessere attraverso un migliore utilizzo e produzione di energia da parte delle cellule dei nostri tessuti.
La Risposta di Rilassamento (RR) è uno stato fisiologico e psicologico opposto alla risposta da stress. Risultati ottenuti da ricerche condotte con rigorosi criteri scientifici dimostrano che la capacità di tutti quegli interventi di rilassamento “mind-body” per ridurre lo stress cronico e migliorare il benessere, avvengono attraverso l’induzione di una RR.
Diversi studi hanno riportato che l’elicitazione di una RR rappresenta un intervento terapeutico efficace per ridurre gli effetti clinici avversi legati ad alcuni disturbi stress-correlati, come ad esempio ipertensione, ansia, insonnia, diabete e artrite reumatoide.
Articolo Consigliato: La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica
La RR si manifesta quando un individuo si concentra su una parola, un suono, una frase, una preghiera, un movimento, ignorando i pensieri di tutti i giorni. Questi 2 passaggi, ossia la concentrazione su una particolare azione e lo spostamento dell’attenzione da quelli che sono i pensieri coscienti, determina una interruzione nel flusso di coscienza.
Esistono pratiche di rilassamento mente-corpo millenarie in grado di indurre una RR (la meditazione trascendente, lo Yoga, il Tai Chi, il Qi Gong e alcune preghiere rituali) e pratiche più recenti e altrettanto efficaci come il rilassamento muscolare progressivo, il Biofeedback e la Mindfulness.
Ogni volta che una di queste pratiche elicita una RR si verificano cambiamenti biochimici caratterizzati da: riduzione del consumo di ossigeno e dell’eliminazione di anidride carbonica, riduzione della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca e respiratoria, ridotta sensibilità alla noradrenalina. La RR è anche in grado di modificare l’attività cerebrale sia livello corticale che sottocorticale.
In uno studio del 2008, condotto da Dusek e collaboratori, è stata fornita la prima evidenza che l’induzione di una RR in soggetti sani a riposo che praticano tecniche di rilassamento mente-corpo produce una modificazione dell’espressione genica.
In un recente lavoro pubblicato sulla rivista ”Plos ONE” e condotto da un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital e Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Medical School diretti da Herbert Benson e Towia Libermann, sono stati studiati i geni la cui espressione è modulata da diverse pratiche di rilassamento, come lo yoga, la preghiera rituale, la meditazione o il biofeedback.
La ricerca ha coinvolto un gruppo di 26 volontari sani, senza alcuna precedente esperienza o pratica di tecniche di rilassamento (novizi), e un secondo gruppo di 26 volontari sani, con lunga esperienza, da 4 a 20 anni di pratica continua, di attività in grado di elicitare una risposta di rilassamento (praticanti esperti). Nel corso della ricerca il gruppo dei novizi è stato sottoposto ad un addestramento individuale di 8 settimane alla pratica di alcune tecniche di rilassamento. Per tutti i soggetti dei 2 gruppi reclutati è stata effettuata una valutazione delle eventuali possibili modificazioni nell’espressione di circa 22.000 geni candidati, prima della sessione di pratica e dopo un breve intervallo di tempo dalla fine della sessione. I risultati ottenuti sono stati confrontati tra il gruppo di praticanti esperti e il gruppo dei novizi, prima e dopo l’addestramento di 8 settimane.
Bhasin e colleghi hanno così evidenziato che sia il gruppo dei praticanti esperti, sia il gruppo dei novizi addestrati, hanno variazioni nell’espressione genica, statisticamente più significative nei primi.
La Risposta di Rilassamento aumenta l’espressione di alcuni geni correlati al metabolismo energetico, alle funzioni mitocondriali, alla secrezione di insulina; la stessa Risposta di Rilassamento è anche in grado di ridurre l’espressione di geni correlati alle risposte infiammatoria e da stress.
Articolo Consigliato: Pillole di…… Meditazione.
Queste modificazioni nell’espressione genica sono orientate ad aumentare la produzione di energia al livello dei mitocondri, permettendo alle cellule di rispondere adeguatamente all’aumentato fabbisogno di energie, presente in ogni condizione di stress. Le stesse modificazioni riducono la produzione di radicali liberi, potenzialmente dannosi per le cellule, e i fenomeni di morte cellulare programmata (apoptosi) o di autofagocitosi.
In conclusione, i risultati davvero interessanti di questo studio indicano per la prima volta che l’elicitazione di una Risposta di Rilassamento, soprattutto in coloro che utilizzano da molti anni pratiche di rilassamento, riduce lo stress e promuove il benessere attraverso un migliore utilizzo e produzione di energia da parte delle cellule dei nostri tessuti.
Queste modificazioni, conseguenti alla modificata attività di alcuni geni, sembrerebbero indipendenti dalle tecniche di rilassamento praticate (yoga, meditazione, preghiera, etc.).
La compassione sembra essere qualcosa che può essere migliorato con l’allenamento e la pratica. Gli adulti possono essere addestrati alla compassione.
Fino ad oggi poco si sa, in termini scientifici, circa il potenziale umano di coltivare la compassione – lo stato emotivo per cui siamo spinti a prenderci cura altruisticamente di chi soffre o è in una condizione svantaggiata.
Un nuovo studio condotto dai ricercatori del Waisman Center della University of Wisconsin-Madison mostra che gli adulti possono essere addestrati alla compassione.
Nello studio, i ricercatori hanno addestrato un gruppo di giovani adulti alla meditazione compassionevole, un’antica tecnica buddhista per accrescere il senso di accudimento per le persone che soffrono.
Articolo consigliato: La compassione da cosa è determinata?
Durante la meditazione hanno immaginato un momento in cui qualcuno ha sofferto e poi meditato desiderando che la sua sofferenza venisse alleviata. Hanno ripetuto frasi per aiutarsi a concentrarsi sulla compassione come “Che tu possa essere libero dalla sofferenza. Che tu possa avere la gioia e la semplicità“.
Inizialmente la meditazione si focalizzava su una persona cara (un amico o un familiare) per la quale fosse più semplice provare compassione. Poi, praticavano la compassione per se stessi e infine per un estraneo. in ultimo, veniva loro chiesto di praticare la meditazione compassionevole per qualcuno che consideravano una “persona difficile” con la quale avevano una relazione conflittuale.
“È una specie di allenamento con i pesi“, dice Weng, “Usando questo approccio sistematico, abbiamo scoperto che le persone possono effettivamente costruire la loro muscolatura compassionevole e rispondere alle sofferenze altrui, con la cura e il desiderio di aiutare.”
la formazione alla compassione è stata confrontata con un gruppo di controllo che ha imparato la rivalutazione cognitiva, una tecnica in cui le persone imparano a riformulare i loro pensieri per sentirsi meglio.
Entrambi i gruppi hanno ascoltato le istruzioni audio per 30 minuti al giorno per due settimane. se l’addestramento aveva funzionato i partecipanti all’esperimento avrebbero dovuto mostrare maggiore altruismo nei confronti di persone sconosciute.
La ricerca ha testato questo chiedendo ai partecipanti di giocare un gioco in cui hanno avuto la possibilità di spendere il proprio denaro per aiutare qualcuno che ne aveva bisogno.
Ciascuno ha giocato on-line con due giocatori anonimi, il “Dittatore” e la “vittima”. Il dittatore condivide con la vittima una quantità di denaro ingiusta; i partecipanti dovevano poi decidere quanto spendere del proprio denaro per pareggiare la divisione ingiusta e ridistribuire i fondi dal dittatore alla vittima.
“Abbiamo scoperto che le persone addestrate alla compassione erano più propense a spendere il proprio denaro altruisticamente per aiutare qualcuno che è stato trattato ingiustamente rispetto a quelli che erano stati addestrati alla rivalutazione cognitiva“, ha detto Weng.
Per verificare se le risposte altruistiche si riflettevano in cambiamenti a livello cerebrale i ricercatori hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), prima e dopo l’allenamento alla compassione. Durante la risonanza, i partecipanti hanno visualizzato immagini in cui era rappresentata la sofferenze umana, e hanno utilizzato le abilità di compassione apprese. Il gruppo di controllo è stato esposto alle stesse immagini, verso le quali ha utilizzato la rivalutazione cognitiva.
I risultati hanno mostrato che le persone più altruiste, dopo la formazione alla compassione, sono state quelle che hanno mostrato il maggior numero di cambiamenti a livello cerebrale durante la visualizzazione della sofferenza umana.L’attività nella corteccia parietale inferiore, una regione coinvolta nell’ empatia, è risultata aumentata.
Articolo Consigliato: L’uomo e l’ Empatia verso i Robot – Neuropsicologia
La formazione alla compassione ha generato anche una maggiore attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nelll’attività di comunicazione con il nucleo accumbens, le regioni cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni e nelle emozioni positive.
La compassione dunque sembra essere qualcosa che può essere migliorato con l’allenamento e la pratica. “Ci sono molte possibili applicazioni di questo tipo di formazione”, spiega Davidson. “Nelle scuole la formazione alla compassione e alla gentilezza può aiutare i bambini a imparare a essere in sintonia con le proprie emozioni e con quelle degli altri, diminuendo il bullismo; o aiutare le persone che hanno problemi come l’ansia sociale e il comportamento antisociale.”