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Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva: Intervista a Giovanni Maria Ruggiero

 

 

Intervista a Giovanni M. Ruggiero, autore insieme a Sandra Sassaroli di “Il colloquio in psicoterapia cognitiva” (ed. Cortina, Milano).

L’autore racconta come è nato questo libro, quali aspettative e bisogni spera di soddisfare, quali sono le sue finalità e le sue caratteristiche.

il colloquio cognitivo incoraggia il paziente ad apprendere tre abilità fondamentali: riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva, ovvero tra quello che si sente e quello che si pensa, mettere in discussione la validità di questi pensieri ed elaborarne di nuovi, più veri e soprattutto più utili per fronteggiare le situazioni problematiche.

 

Gruppi Settari e Sequestro della Mente: Quale Reato Scatta?

PSICHE E LEGGE #8

Rubrica a cura dell’ Avv. Selene Pascasi

 

    Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.

Sette e “sequestro” della mente. Quale reato scatta?

 

Sette e Sequestro della Mente: Quale Reato?. - © Illimity - Fotolia.comPsiche e Legge#8: La questione dei gruppi settari costituisce il caso più emblematico in seno al quale germogliano, di frequente, i semi di una distorta relazione tra gli inevitabili legittimi condizionamenti psichici, e quelli illeciti, frutto di un meditato intento delittuoso.

In chiusura della scorsa rubrica, dedicata alla tematica dell’alienazione mentale, ho accennato al  fenomeno delle sette, riservandomi di tornare sull’argomento. Ne parleremo oggi.

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La questione dei gruppi settari costituisce il caso più emblematico in seno al quale germogliano, di frequente, i semi di una distorta relazione tra gli inevitabili legittimi condizionamenti psichici, e quelli illeciti, frutto di un meditato intento delittuoso.

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Così – consci del fatto che solo nella seconda eventualità sarà configurabile un reato a carico di chi, consapevolmente e per finalità di vantaggio, abbia in qualche maniera “sequestrato” l’altrui libertà di autodeterminazione – sarà interessante spendere qualche rilievo in ordine alle tecniche adottate, nella pratica, per “dirottare” a proprio vantaggio le scelte (solo apparentemente libere) dell’“adepto”.

V’è anche da ricordare come, a prescindere dal dato comune della manipolazione psicologica volta a strumentalizzare la vittima fino a distruggerne l’identità psichica, sussiste una decisa distinzione tra setta e satanismo criminale. In particolare, se la comunità settaria si stringe attorno ad un capo, ad un soggetto fisico che detta orientamenti di pensiero ed abitudini, nell’altra ipotesi, i soggiogati non permeano i loro comportamenti sulla base di quanto “desiderato” dal leader, orientandosi invero su quanto “imposto” dal credo satanico, praticato mediante sacrileghi rituali.

Ad ogni modo, tornando ad occuparci del gruppo settario, è agevole osservare come il classico approccio alla vittima si delinei agli occhi degli inquirenti, sulla base dei caratteri peculiari del reato di circonvenzione di incapaci, sul quale ci siamo già soffermati. Chiave di volta delle vicende, alquanto similari, sottoposte all’attenzione dei giudici, è difatti quell’aurea di infinita bontà e dolcezza che – prima facie – caratterizza ogni dominatore psichico che, individuato il perfetto adepto, ne carpirà debolezze e lati oscuri del vissuto, che sarà abile del farsi confidare.

Psiche & Legge #7: La Alienazione Menta. - Immagine: © Steven Jamroofer - Fotolia.com
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Informazioni delicate e preziose, dunque, che, a tempo debito, userà come arma di ricatto per ottenere la contropartita ad una sorta di protezione omertosa della verità, o, peggio, di amichevole sostegno e complicità a passate “malefatte”. Tale condizione di inferiorità provocata dell’adepto, sarà decisiva per lederne ogni certezza e renderlo bisognevole di supporto, se del caso anche dietro corresponsione di denaro o trasferimenti immobiliari, resi a titolo di “gratitudine” per il “bene” ricevuto.

Quanto alle modalità attuative del crimine, se inizialmente si parlò del cd. lavaggio del cervello (brainwashing, dal cinese hsi nao, inerente le tecniche di purificazione mentale rivolte ai detenuti), fu solo in un secondo step, che al fenomeno in esame venne riservata un’interpretazione prettamente scientifica, stante la catalogazione della vittima di manipolazione quale soggetto sofferente del disturbo psichiatrico denominato, nel DSM IV, come “disturbo dissociativo atipico 300.15”.

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L’ostacolo maggiore che si presenta in occasione di denunciati “sequestri della mente”, però, è un altro. Leggere la problematica esclusivamente dal punto di vista del condizionamento mentale dell’adepto-persona offesa dal reato, recherà in se imprescindibili, e talora insuperabili ostacoli probatori, primo fra tutti, quello della sua attendibilità.

La suggestione mentale in cui ormai versa la vittima, troppo a lungo incastrata in un vissuto imposto dal leader, è tale da farle percepire quella realtà plasmata come una realtà desiderata. Si palesano, così, gli scogli frapposti ad un vaglio giudiziale, teso a far luce sulla perpetrazione di crimini a danno degli adepti che, vittime inconsapevoli del reato, tenderanno – nel riferire gli accadimenti – ad inquadrarli alla stregua di fatti ordinari, finendo per negare di aver subito coercizioni psichiche.

Contegno processuale, quello descritto, che sarà fonte di logiche perplessità circa l’attendibilità della persona offesa la quale, respingendo ella stessa la veste di vittima del delitto, indurrà il giudice a disporre indagini sulla sua sanità mentale. Ciò premesso, e codice alla mano, preme chiedersi: a prescindere dalla richiamata figura di circonvenzione d’incapaci, quali altri reati sono sostenibili in giudizio, a danno degli adepti? Il pensiero corre alla figura prevista dall’art. 661 c.p., che “punisce l’agire di chi pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di “abusare della credulità popolare”.

È’ noto, tuttavia, come un tal crimine – legato alla propaganda di credenze prive di base scientifica (comunemente definite cialtronerie, espressamente vietate da specifiche disposizioni) – resterebbe perpetrato solo nel caso in cui dalla condotta abusante possa derivare “un turbamento dell’ordine pubblico”. Sovvengono, allora, a chiudere il cerchio circa la tutela frammentariamente delineata dal Codice vigente, pregiati studi effettuati in materia (Strano, Manuale di criminologia clinica, See, Firenze, 2003), in base ai quali è consentito distinguere, nell’ambito dei fenomeni settari, due grandi fasce di delitti: quelli posti in essere dal leader della comunità a danno dei sottoposti (truffe, lesioni provocate in occasione di sacrifici e rituali macabri, sequestro di persona, induzione al suicidio, abusi sessuali, omicidi) e quelli perpetrati dagli stessi adepti, nei confronti di terzi (violazione dell’obbligo di assistenza del familiare, casi di abbandono, pedofilia, profanazioni cimiteriali, maltrattamenti di animali, danneggiamenti di chiese).

Si consenta di richiamare, ancora, la tesi del dott. Strano, che sollecita e calca l’esigenza di procedere ad un accurato studio del clima psicologico strutturatosi all’interno della setta, che sia focalizzato anche sugli aspetti antropologici ed organizzativi dei gruppi, e teso a comprendere l’ambito in cui si origina il reato, ovvero quali siano gli aspetti psicosociali che possano aver favorito l’avvicinamento degli adepti a tale particolare realtà.

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 Realtà ricca di rischi per la società. Basterà, del resto, riportare alla memoria il pensiero del sociologo Gustave Le Bon, che ben aveva notato come i soggetti radunati in folle tendano a mortificare le proprie individualità e potenzialità psichiche, uniformandosi al gruppo, e divenendo parte di una specie di unica mente collettiva. Ed è noto quanto possa divenire pericoloso il branco, specie se controllato da un discutibile leader.

Suggestione di massa, dunque. Suggestione di massa, peraltro, provocata da spiccate personalità, prive di scrupoli e assetate di denaro, autrici di progetti precipuamente volti ad ottenere strategici consensi da parte dell’adepto. Questi, e mille altri gli aspetti sui quali verte il fenomeno delle sette, tematica decisamente ampia, e certamente non “contenibile” nell’odierna rubrica. L’intento, tuttavia, spero in parte riuscito, è stato quello di lanciare messaggi, spunti di riflessioni su aspetti che – seppur apparentemente estranei alla professione legale – sono ad essa profondamente legati, laddove si auspica che l’esame delle dinamiche sottese ai gruppi settari, e l’individuazione degli interessi patrimoniali su cui si muovono, possano suggerire all’operatore del diritto, le soluzioni più corrette da adottare nell’ottica di offrire un’adeguata risposta sanzionatoria alle accennate condotte criminose.

 

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VIOLENZA – DISSOCIAZIONE – PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA

Changeling – Cinema & Psicoterapia #4

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #04

Changeling (2008)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Changeling - Cinema & Psicoterapia #4. Locandina Cinematografica
Changeling (2008). – © Locandina Cinematografica

Cinema & Psicoterapia #4 – Changeling (2008). E’ un’ottima testimonianza dei metodi violenti che venivano utilizzati per la cura dei malati mentali e non solo.

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INFO:

Un film di Clint Eastwood, con Angelina Jolie, John Malkovich, Jeffrey Donovan, Colm Feore, Jason Butler Harner. Drammatico. USA 2008.

 

TRAMA:

Changeling  racconta una storia vera. Nel 1928 a Los Angeles Christine Collins, una giovane donna, vive con il figlio avuto da un uomo che l’ha abbandonata. Una mattina per recarsi al lavoro lascia a casa il giudizio­so figlio Walter. Al ritorno non lo trova in casa, è scomparso e di lui si è persa ogni traccia. Dopo qualche mese la polizia, che non gode di buona reputazione, sembra aver ritrovato il bambino, ma quando riporta Walter a sua madre, Christine si rende conto che quello non è suo figlio.

Christine Collins dovrà condurre una dura battaglia contro l’arro­ganza di una polizia corrotta che ha necessità di dimostrare all’opinio­ne pubblica la propria efficacia. Sarà addirittura internata in manicomio, su richiesta del capitano che si occupa del caso, ma senza mai arrender­si e con l’aiuto del reverendo Guistav Briegleb riuscirà ad ottenere giu­stizia, anche se scoprirà una drammatica verità: il figlio forse è stato ucciso, insieme ad altri bambini, da un serial killer.

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MOTIVI DI INTERESSE:

Changeling propone la lotta dell’individuo contro il potere corrotto e il sistema di controllo sociale che considera le persone come oggetti.

CINEMA & PSICOTERAPIA - Immagine: © matusciac - Fotolia.com
Leggi la Rubrica: Cinema & Psicoterapia a cura di Antonio Scarinci.

Le autorità di polizia decidono senza una proposta medica di interna­re Christine attribuendole disturbi mentali che l’avrebbero spinta a non riconoscere nel sedicente Walter il proprio figlio. I medici dell’ospedale psichiatrico si dimostrano conniventi e assumono la custodia di tutte quelle donne internate con il codice 12, pazienti il cui ricovero è stato chiesto dalla polizia. Tra le degenti c’è una prostituta che si è ribellata alle violenze di un suo cliente poliziotto e la moglie maltrattata e abusata di un’altro poliziotto che ha osato denunciarlo. La limitazione della libertà e la custodia in manicomio era una prassi ricorrente che veniva utilizzata per escludere chi non godeva dei diritti in maniera piena (donne, emargi­nati, neri, ecc.). Alcune scene del film mostrano il trattamento disumano che veniva riservato ai degenti e soprattutto le modalità con le quali l’isti­tuzione riusciva a produrre la malattia mentale in soggetti normali.

 Il rac­conto man mano che si snoda suscita indignazione, quella indignazione che ha permesso di chiudere i manicomi e di mantenere alta l’attenzione nei confronti del rispetto della dignità umana. Il caso giudiziario, ai limiti dell’incredibile, noto come Wineville Chicken Coop Murders trasformò le leggi della California in materia di poteri della polizia.

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In alcuni casi la rabbia, il dolore e la forza di chi coraggiosamente si oppone alla sopraffazione del potere e alle zone d’ombra del sistema delle regole, messe impietosamente a nudo nella scena del colloquio in manicomio tra la protagonista e il direttore sanitario, psichiatra, riesco­no a creare il cambiamento.

 

INDICAZIONE PER L’UTILIZZO:

Changeling è un’ottima testimonianza dei metodi violenti che venivano utilizzati per la cura dei malati mentali e non solo. Ripropone e rappresenta l’idea custodialistica e repressiva, mirata al controllo sociale della psichiatria.

 

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RECENSIONI – CINEMA – PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICHE 

 

 

Bibliografia:

 

Facebook & Mamme Moderne: vi presento il mio bambino!

di Giulia Giorgi, Psicologa Psicoterapeuta

 

Facebook & Mamme Moderne: Vi presento il mio bambino!. - Immagine: © Dmitriy Melnikov - Fotolia.comFacebook & mamme moderne: La maternità e dipendenza da Facebook, e dai social network in generale, potrebbero avere a che fare con il narcisismo?

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Sono sempre più numerosi i genitori e le neo mamme della nostra era che ogni giorno aggiornano il loro blog, pagina Facebook, account Twitter con informazioni, foto, curiosità, dettagli della gravidanza o maternità, aggiornamenti orari anche indiscriminati, di ciò che stanno facendo loro o i loro piccoli.

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In America e non solo è stato coniato il termine oversharenting da “overshare“  e “parenting“ proprio per indicare la tendenza dei genitori di condividere online la vita dei loro bimbi, spesso in modo inappropriato e, spesso quando questi ancora non sono nati. I social network, Facebook in particolare, per alcune mamme  sono uno svago, un divertimento, uno strumento di condivisione delle gioie e difficoltà della fase della gravidanza ma anche della maternità; per altre ancora i blog hanno aperto le opportunità di scambio per creare e reinventarsi nuove attività lavorative. Tuttavia, non si può nascondere come sia ormai riconosciuta l’esistenza di una dipendenza da internet per cui certe mamme non potrebbero  fare a meno di aggiornare quotidianamente il proprio (o quello del loro baby) status di Facebook per mantenere alto l’interesse altrui su di loro o, forse perché no, “ alimentare “ il narcisismo insito nella personalità.

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Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale. - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale

Ci potremmo chiedere che interesse potrebbero avere gli altri nel sapere qual è il primo giorno in cui il nostro bimbo ha assaggiato la frutta o quanto ha pianto nelle prime notti, ma non si può nemmeno nascondere che la maternità porti inevitabilmente ad isolarsi in una nuova dimensione e adeguarsi a ritmi giorno-notte faticosi e deprimenti. Forse potremmo pensare che il non condividere rientrerebbe nell’etica del dovere della cura di sé rimandando alle virtù di riservatezza, dignità, modestia (Allen, 2011).  Noi abbiamo l’obbligo di proteggere la nostra come l’altrui riservatezza, tanto più se si tratta di quella dei nostri figli?

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La maternità e dipendenza dai social network potrebbero avere a che fare con il narcisismo?  Il narcisismo sociale potremmo dire sia divenuta una categoria  sociale del nostro quotidiano non più solo una struttura patologica di personalità come un tempo. Il narcisismo adolescenziale, lungi dall’essere stigmatizzato con un’accezione negativa come qualche anno fa, è  all’ordine del giorno; sarebbero proprio le accezioni narcisistiche che ci trattengono dal crescere, dall’invecchiare, diventare brutti o accettare di buon grado  trasformazioni del nostro corpo anche transitorie. Già una ricerca condotta da alcuni studenti dell’Università della Georgia relativamente ad un gruppo di individui con profili su Facebook ha concluso che il numero di amici , i wallpost e i “mi piace“ pubblicati sulle pagine degli account Facebook potrebbero riconfermare una maggiore predisposizione alla personalità narcisista rispetto ad altri profili (Buffardi & Campbell, 2008).

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 In tal senso, i narcisisti on line, come nella vita reale, avrebbero relazioni più numerose ma meno intime e una tendenza a pubblicare foto personali glamour, quasi di  “auto promozione” della loro bellezza e fisicità rispetto a foto istantanee.

Si potrebbe, dunque, ipotizzare che i genitori che tendono all’overshare della vita dei loro bambini potrebbero avere una spiccata predisposizione a tratti narcisisti di personalità? Di certo le mamme moderne tendono sempre più a sperimentare la maternità ed, in seguito, la gravidanza in età più avanzata verso i 40 anni, interpretandolo come un successo  personale di cui essere orgogliose. Tra le mamme over 30, spesso, i cambiamenti fisiologici del corpo per la gravidanza sono investiti di nuovi significati e dunque, pubblicare e condividere online e su Facebook le foto del proprio corpo dopo il parto o le immagini del proprio bimbo come un successo, “che cosa sono stata capace di generare pur restando fisicamente perfetta e immutata”, potrebbero essere tutti spunti di riflessione interessanti.

 

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SOCIAL NETWORK – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – NARCISISMO – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA –INTERNET ADDICTION 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Perdere il Lavoro: Ricadute sul Piano Psicologico

di Francesca Fregno

 

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il concetto del lavoro si è evoluto in maniera significativa nel corso del tempo: da un’accezione tipicamente negativa, in cui si attribuiva al lavoro il significato di fatica e sofferenza, oggi il lavoro non ha più quella funzione totalizzante propria della generazione passata.

Oggi il lavoro copre un decimo della nostra vita, ma continua a pretendere un  ruolo centrale, di cui ci si rende conto soprattutto nel momento in cui lo si perde, e si è costretti a rimanere inattivi per un tempo indefinito.

Il lavoro è strettamente connesso al concetto di identità sociale, ovvero l’insieme di caratteristiche e di sentimenti che l’individuo prova e si attribuisce nel considerare la propria appartenenza a gruppi sociali.

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Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

Il lavoro è diventato un biglietto da visita con cui presentarsi, con cui ricevere un’approvazione sociale, sentirsi capace di fare qualcosa che gli altri apprezzano permette alla persona di avere considerazione di se è induce a mettere in atto dei comportamenti responsabili ed equilibrati.

Il lavoro può servire a misurare dimensioni diverse: per alcuni il reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto realizzarsi. Per altri infine opportunità di contatti sociali o di condividere valori. E’ facile comprendere come l’evento disoccupazione, di per se fortemente negativo per la persona mette a rischio i bisogni fondamentali di sopravvivenza.

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Nel 1938 gli psicologi  Philipp Eisemberg e Paul F. Lazarsfeld individuarono tre fasi per descrivere la reazione del disoccupato:

1) Incredulità: alla persona sembra impossibile che possa essergli successa una cosa del genere e si dice che comunque ne verrà fuori;

2) Pessimismo: dopo vari tentativi che non portano a trovare un altro lavoro si porta a pensare che forse non si riuscirà;

3) Rassegnazione: iniziano a comparire sintomi depressivi, quali ripiegamento su se stessi e perdita di speranza, per cui si pensa che non se verrà mai fuori.

Le conseguenze psicologiche sul piano della perdita del lavoro sonno innumerevoli amplificate dalle caratteristiche di personalità, e dei tratti nevrotici del soggetto. Generalmente si osservano alterazioni del ritmo sonno-veglia, insonnia, alterazioni dell’appetito, mancanza di autostima, senso di fallimento. Il decorso della sintomatologia è fluttuante, inizialmente la persona che perde il lavoro è motivato dalla ricerca di cercare un altro posto, mano a mano che prende consapevolezza che questa possibilità viene a meno subentrano sentimenti di pessimismo e abbattimento. La persona tende ad isolarsi dagli amici, dal contesto sociale perché prova vergogna, avverte un senso di inadeguatezza, di perdite delle proprie sicurezze.

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Inoltre emerge l’ansia e preoccupazione legate alle situazione di instabilità, in cui il disoccupato viene a trovarsi, rafforzata dall’attuale crisi economica che può costringere una persona a periodi di inattività lavorativa anche duratura.

E’ quindi basilare comprendere e fare un’analisi sociologica di come il lavoro si sia evoluto nel corso del tempo e di come oggi vada ad ostacolare troppo sulla sfera dell’identità lavorativa. L’obiettivo da raggiungere è quello di portare l’accettazione di questo momento di vita, senza negarlo e di evitarlo di fronteggiarlo, ma ricorrendo a strategie comportamentali di coping.

 

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PSICOLOGIA SOCIALE –  SCOPI ESISTENZIALI – DEPRESSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dolore Muscolo – Scheletrico Persistente e Kinesiophobia

Kinesiofobia. - Immagine: © CMonnay - Fotolia.comGli aspetti fisici, psicologici e cognitivo-comportamentali, e quelli sociali nella Medicina Riabilitativa sono stati ormai riconosciuti come elementi chiave nell’ottica dell’ International Classification of Functioning, Disability and Health (World Health Organization, Ginevra 2001), classificazione accettata quale standard internazionale  per misurare Salute e Disabilità e base scientifica per la comprensione e lo studio delle condizioni, delle cause e delle conseguenze correlabili.

La misurazione in ambito biologico e anatomo-fisiologico, intesa come un processo che permette di assegnare significato al risultato di ogni valutazione (si può ad esempio misurare la qualità con cui un soggetto compie determinati movimenti o la forza di una particolare abilità motoria), è un significato numerico che permette di compiere logiche deduzioni diagnostiche e prognostiche, con immediate ricadute terapeutiche per il riabilitatore, che può così ampliare il suo ventaglio di risposte d’intervento curativo e migliorare la propria capacità di progettazione riabilitativa. Tali dati devono opportunamente fondersi con le valutazioni cliniche e psico-metriche, per delineare un più completo quadro bio-psico-sociale del paziente.

Superato l’approccio meccanicistico della nocicezione, si è compreso dai numerosi studi (soprattutto sul dolore cronico) presenti in letteratura che la percezione del dolore non è direttamente correlabile a specifiche lesioni strutturali, che ricevere una menomazione non necessariamente coincide con l’essere disabili e che grande influenza sulla manifestazione di malattia e’ rivestita da fattori individuali, psicologici, culturali e socio-economici.

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A partire dal modello biopsicosociale proposto da Waddell, è possibile effettuare una spiegazione concettuale adeguata alla realtà clinica della disabilità, permettendo la sintesi delle diverse dimensioni della salute a livello biologico, psicologico e sociale. I fattori psicologici e cognitivo comportamentali assumono un ruolo indiscutibilmente rilevante nella comprensione della malattia e nella cura dei pazienti.

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Prendendo ad esempio uno studio svedese condotto dall’Università di Gothenburg su 84 pazienti che avevano subito un intervento di erniectomia al disco lombare, i dati mostrano il peso negativo e rilevante in tali pazienti della paura, che risulta avere un ruolo centrale nella spiegazione e nella comprensione del dolore muscoloscheletrico persistente.

Autoefficacia: Quanto Conta nello Sport?. - Immagine: © ~lonely~ - Fotolia.com
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In precedenti ricerche, sono stati utilizzati tre termini per descrivere la paura in relazione al dolore: paura dolore-correlata, paura del movimento e kinesiophobia. Paura dolore-correlata e’ un termine ampio e generale che contiene tutti i tipi di timore correlati al dolore (Crombez et al. 1999).

La paura del movimento o di ri-lesionarsi, viene descritta come “una paura specifica del movimento e dell’attività fisica che viene ( erroneamente) interpretata come causa di ri-lesionamento” (Vlaeyen et al. 1995). Nelle situazioni più estreme di paura del movimento, viene usata l’espressione kinesiophobia ( Kori et al. 1990).

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La kinesiophobia assume un ruolo rilevante e negativo nella riabilitazione dei pazienti con dolore alla parte lombare della schiena, ed un’alta prevalenza di kinesiophobia e’ stata rilevata nei pazienti con dolore lombare persistente (Picavet et al. 2002, Lundberg et al. 2004). Se gli esercizi di riabilitazione e attività fisica sono una parte cruciale del programma post chirurgico di cura, la kinesiophobia e’ probabilmente un fattore che impedisce gravemente il recupero.

Nello studio dell’Università di Gothenburg su 84 pazienti sottoposti a erniectomia, la metà di essi per un periodo di tempo variabile dai 10 ai 34 mesi dopo l’intervento, risultavano soffrire di kinesiophobia. Tali pazienti risultavano maggiormente disabili, accusavano maggior dolore, tendevano maggiormente a pensieri catastrofici, presentavano maggiori sintomi depressivi, una bassa autoefficacia e risultavano avere punteggi peggiori alla scala HRQoL, Qualità della Vita in Relazione alla Salute (Health Related Quality of Life, basata sulla scala europea EQ-5D European quality of Life, Rabin e De Charro, 2001).

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 Dopo la erniectomia, il dolore alle gambe risultava frequentemente ridotto, ma quasi la metà dei pazienti continuavano a soffrire di kinesiophobia. Una possibile spiegazione a questo poteva essere che la paura del dolore tende a resistere, nonostante la componente sensoriale fosse stata fisiologicamente guarita. Kinesiophobia, depressione, catastrofizzazione ed autoefficacia appaiono collegati inestricabilmente alla paura del dolore: tali fattori psicologici disfunzionali non venivano influenzati minimamente dalla riuscita dell’intervento dal punto di vista anatomico.

I pazienti con alto livello di kinesiophobia, tendono anche ad avere più sintomi depressivi: Arpino et al. (2004) suggerirono che la depressione è un fattore indipendente di predizione d’insuccesso  dopo intervento di erniectomia, e che prevenire la kinesiophobia poteva ridurre notevolmente la sintomatologia depressiva. 

Da tali dati si evince che i pazienti con un alto punteggio di kinesiophobia presentano quadri più disfunzionali, e che questo fattore debba essere considerato nei processi di riabilitazione, e studiato ulteriormente come fattore di rischio non trascurabile da parte della Medicina Ortopedica e Riabilitativa.

 

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DOLORE – DEPRESSIONE – ATTIVITA’ FISICA

 

BIBLIOGRAFIA

Starà Respirando? Neomamme e Disturbo Ossessivo Compulsivo

 

Starà Respirando? Neomamme e Disturbo Ossessivo Compulsivo. - Immagine: © Alliance - Fotolia.com

Neomamme: Occuparsi di un neonato non è facile nè dal punto di vista pratico nè emotivo. La sua sopravvivenza sembra dipendere solo dalle cure materne.

Soprattutto se si tratta di un primo figlio, la mente delle neomamme è attraversata da continui dubbi. Attraversiamo quindi la giornata tipo di una giovane donna alla prese col suo cucciolo.

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La giornata inizia con un bel bagnetto rilassante, rilassante forse per lui perchè tu mamma impieghi buona parte del tempo a controllare la temperatura dell’acqua col termometro a forma di adorabile paperella e inizi  la ginnastica “dell’apri-chiudi” il rubinetto perchè se in ospedale ti hanno detto che la temperatura ideale deve essere compresa tra i 37 e i 38 gradi e ricordi ancora le lezioni di fisica del liceo, sai che garantire questa costante non è certo un gioco da ragazzi. Per fortuna il bagno dura poco (dovrebbe durare poco), non più di 10 minuti c’è scritto sul vademecum del buon genitore, per evitare che il piccolo si raffreddi e così a solo un minuto dal gong ti accorgi, presa com’eri a osservare quel dannato termometro galleggiante, che la creatura ha pensato di allietare il momento con un po’ di cromoterapia e l’acqua, prima limpida, ha assunto ora un color giallo paglierino.

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Infant Night Waking. - Immagine: © WavebreakMediaMicro - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Infant Night Waking: Quando Sono le Madri a Svegliare i Figli.

Superato anche il secondo doveroso bagnetto, infilato il body, non senza la preoccupazione di avergli irrimediabilmente compromesso la colonna vertebrale, è il momento della poppata e cosa c’è di più dolce e rilassante che tenere stretti a sè il proprio bambino e un cronometro? Già perchè di tutti quel lungo discorso dell’ostetrica sull’allattamento a richiesta, le uniche parole che ti restano impresse sono “circa dieci/quindici minuti per parte” ma tu mamma che ambisci alla perfezione tramuti il suggerimento in “12,5 minuti per parte”.

Superato anche questo strazio arriva finalmente il momento di metterlo a nanna ed ecco affiorare il dilemma che ti accompagnerà fino a che il piccolo non avrà compiuto l’anno, momento in cui, secondo gli esperti, il rischio di SIDS (Sindrome della Morte Improvvisa del Lattante) diminuisce significativamente: pancia in sù o pancia in giù? In ospedale è molto probabile che ti abbiano raccomandato la prima posizione ma poi la pediatra di famiglia ti ha consigliato anche la posizione prona per fortificare i muscoli del collo ed evitare quell’effetto testa piatta che lo renderà vittima di bullismo a scuola. Qualunque cosa deciderai, impiegare il tempo in cui tuo figlio dorme per riposare è pura utopia. Il rumore dell’aspirapolvere non  coprirà quella vocina nella testa che ti invita ad andare a controllare ad intervalli regolari se il tuo bambino sta ancora respirando e peggio ancora se ti sei dotata di una ricetrasmittente perchè dopo esserti avvicinata e aver sentito un suono simile ad un respiro, ti toccherà comunque andare a verificare che non si tratti di un’interferenza. Del resto se parli ad una madre di morte “improvvisa” il monitoraggio continuo non può che sembrare la scelta più ragionevole.

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A questo punto però chiedersi se si è impazziti è l’interrogativo che vi preoccupa meno ma anche quello a cui le ricercatrici della Northwestern School of Medicine hanno voluto dar risposta attraverso il primo studio longitudinale su larga scala volto ad indagare la presenza di sintomi ossessivo-compulsivi nel periodo del post partum.

Sono infatti ossessioni tutti quei pensieri ripetitivi dal contenuto negativo che vi riempono la testa (“starà respirando?”) e sono compulsioni le azioni che mettete in atto per tentare di frenarli, come il continuo andare a verificare che il bambino non si sia scordato di respirare negli utimi 5 minuti che l’avete perso di vista.

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I risultati di questa interessante ricerca evidenziano la presenza di tali sintomi nell’11% delle neomamme a due settimane e a sei mesi di vita del figlio rispetto ad una percentuale più ridotta (tra il 2 e il 3%) nella popolazione generale.

Di solito tali sintomi sono temporanei e indotti dai cambiamenti ormonali a cui sono soggette le neomamme ma se tali pensieri e comportamenti perdono la caratteristica di essere funzionali alle primissime cure del neonato e cominciano a compromettere la normale gestione quotidiana del bebè, il rapporto con il papà nonchè la salute mentale della stessa mamma allora si potrebbe essere in presenza di un reale disturbo di natura psicologica.

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Il campione di donne è stato reclutato durante la degenza in ospedale e sono stati loro proposti test di screening per ansia, depressione e DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo) prima a due settimane dal parto e, in seguito, dopo sei mesi. I risultati dello screening a sei mesi evidenziano una riduzione della sintomatologia tipica del DOC ma anche la sua comparsa in donne che non ne avevano fatto esperienza a sole due settimane dal parto. Le autrici sostengono a tal proposito che più tardi si manifestano tali sintomi meno è probabile che si tratti delle suddette risposte ormonali e adattive. Tale evidenza, unita al fatto che ben il 70% di donne con sintomi del DOC presentasse anche sintomi depressivi, induce a ritenere che tale condizione psicologica abbia delle caratteristiche tipiche che diversificano la depressione post partum da un episodio depressivo maggiore.

Il rischio di disturbi psicologici veri e propri sembrerebbe mantenersi fino all’anno di vita, periodo oltre il quale una più facile e condivisa gestione del figlio contribuiscono forse a sollevare le madri da un eccessivo senso di responsabilità per le sorti della creatura.

Quindi care mamme tenete duro, in fondo un anno passa in fretta, giusto il tempo di cambiare circa 1825 pannolini.

 

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– GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI – OSSESSIONI – 

– DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO – RELAZIONI SENTIMENTALI –

 

 

APPROFONDIMENTI:

 

BIBLIOGRAFIA:

Una Buona Salute Fisica: il Ruolo della Connessione con l’Altro Attraverso la Biologia del Nostro Corpo

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

È abbastanza risaputo il legame tra emozioni positive e stato di salute fisica, ma poco si sa di quale sia effettivamente il meccanismo sottostante tale relazione. Kok e colleghi, in uno studio longitudinale pubblicato recentemente su Psychological Science, hanno ipotizzato una spirale di positività che attribuisce un ruolo di mediazione alle percezioni che le persone hanno delle loro connessioni sociali.

Questo studio intendeva verificare attraverso una misura oggettiva di salute fisica, ovvero il tono vagale, l’effetto reale delle emozioni positive sul corpo e, in particolare, di quelle legate alle connessioni sociali positive con gli altri. Il nervo vago infatti è una componente del sistema nervoso parasimpatico che regola il battito cardiaco in risposta a segnali di sicurezza e di interesse.

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Un tono vagale basso, ad esempio, è connesso a elevati stati infiammatori, a un maggiore rischio di infarto miocardico e a una diminuita probabilità di sopravvivenza dopo un’insufficienza cardiaca. Alcuni ricercatori hanno già mostrato la natura bidirezionale del rapporto tra emozioni positive e salute fisica. Da un lato le emozioni positive influiscono sul battito cardiaco aumentando il tono vagale. Dall’altro quest’ultimo è associato ad una maggiore abilità di regolazione delle proprie emozioni e a livelli più elevati di emozionalità positiva.

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Per quanto riguarda le connessioni sociali, diversi studi già dimostrano come esse siano fortemente correlate all’esperienza di emozioni positive e ad un minor rischio di mortalità e morbilità. Inoltre, sembra esserci un legame reciproco tra tono vagale e percezione di relazioni sociali positive, quali quelle caratterizzate da maggiori comportamenti prosociali e da una maggiore vicinanza sociale.

L’ipotesi degli autori quindi è che il tono vagale, attraverso la sua associazione con i processi di regolazione emotiva, supporti l’abilità degli individui di autogenerare emozioni positive, che a loro volta promuovono connessioni sociali positive, le quali producono un migliore stato di salute, misurabile attraverso l’indice obiettivo del tono vagale.

I 65 partecipanti, per la maggior parte donne, sono stati assegnati in modo causale ad un gruppo di meditazione definita di “amore-amorevolezza” o ad un gruppo in lista di attesa come condizione di controllo. Il training di pratica meditativa  consisteva di una sessione a settimana per sei settimane di focus su sentimenti di amore, compassione e benevolenza verso se stessi e gli altri.

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È stato chiesto ai partecipanti di dedicarsi giornalmente alla pratica e di registrare la quantità di tempo spesa in tale attività, valutando tra 20 tipi di emozioni quelle maggiormente presenti. Inoltre, i soggetti dovevano riportare il grado in cui si erano sentiti in connessione con l’altro durante le principali interazioni della giornata. Infine, è stata misurata la variabilità del battito cardiaco, misura della responsività del nervo vago, prima (baseline) e dopo il training.

Gli individui con un tono vagale migliore all’inizio del training erano anche quelli che mostravano maggiori cambiamenti in termini di emozioni positive. I soggetti assegnati alla condizione sperimentale riportavano maggiori cambiamenti in termini positivi sia per quanto riguarda le emozioni che per quanto riguarda le relazioni sociali.

Tuttavia, si è visto che la semplice meditazione non basta per determinare un miglioramento del tono vagale. Il cambiamento avveniva solo nei “meditatori” che sperimentavano una maggiore connessione durante le relazioni sociali!

Perciò, concludendo, provare sentimenti positivi e di connessione nei confronti degli altri attorno a noi giova anche a noi stessi non solo in termini emotivi ma anche di salute fisica. Meditate gente!

 

LEGGI:

RAPPORTI INTERPERSONALI – MEDITAZIONE – PSICOLOGIA POSITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo: “Lo Stato dell’Arte” – Assisi 09-12 Maggio 2013

 

 

Reportage dall’incontro:

Terzo Meeting dello Specialized Interest Group dell’EABCT, Assisi, 09-12 maggio 2013. Sponsorizzato dalla Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC).

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo- “lo stato dell’arte”. - Immagine: © M.studio - Fotolia.com

Terza edizione del Meeting sul Disturbo Ossessivo Compulsivo: sono stati presentati una ventina di lavori eterogenei tra loro; dalla neurobiologia, alle funzioni cognitive, fino a nuove forme di terapia, con prove di efficacia.

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Il disturbo ossessivo-compulsivo è una grave forma di disturbo psichiatrico, conosciuto dalla notte dei tempi e narrato nella letteratura e nella poesia da secoli.

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Infatti, si presenta con una sintomatologia piuttosto invalidante per il soggetto che ne è affetto e per la famiglia nella quale è inserito, dove attiva una serie di meccanismi relazionali ed emotivi patogeni e “perversi” che rinforzano la patologia in atto. Tuttavia tale disturbo è sempre stato considerato piuttosto resistente alle viarie forme di terapia conosciute. Fino a non molto tempo fa, infatti,  le informazioni scientifiche che si avevano sui meccanismi eziopatogenetici, di mantenimento e di intervento terapeutico di tipo psicoterapico e farmacologico apparivano scarse.

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Nell’ultimo periodo, invece, le conoscenze relative a questo tipo di quadro clinico sembrano delinearsi in maniera più chiara, anche grazie a ricercatori e a clinici di orientamento cognitivo-comportamentale.

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E’ da rintracciare in questo quadro di riferimento scientifico  il senso del lavoro di collaborazione e confronto tra gli autori (con formazioni differenti e provenienti da vari paesi – come Spagna, Inghilterra, Svizzera, Israele e Canada) che si sono incontrati per la terza edizione del Meeting sul Disturbo Ossessivo Compulsivo , che si è tenuto pochi giorni fa ad Assisi. In questa sede sono stati presentati una ventina di lavori eterogenei tra loro; dalla neurobiologia, alle funzioni cognitive, fino a nuove forme di terapia, con prove di efficacia.

Disturbo Ossessivo Compulsivo - Perseguitati dai Dubbi. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

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Il lavoro di Belloch, Carrio, Cabedo, Lopez, Gil  sembra dimostrare la validità della realtà virtuale come una nuova forma di terapia per la riduzione dell’ansia e del disgusto, con la possibilità di applicare l’esposizione con prevenzione della risposta (E/RP) a situazioni generalizzate della vita del paziente.

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La presentazione di Dar, invece, sottolinea l’impatto dello scarso monitoraggio e della consapevolezza nei soggetti con alte tendenze o-c, non solo delle loro azioni, ma anche, dei loro pensieri ed emozioni e dell’importanza della terapia cognitiva nel fornire abilità, nella differenziazione di questi stati interni.

In linea con tale lavoro Lazarov, Dar, Liberman e Wardinon evidenziano nei soggetti con altra tendenze o-c un minor accesso agli stati emotivi; questi soggetti, infatti, evidenzierebbero una scarsa abilità nel sentire e sperimentare le emozioni, rispetto alle capacità di ragionamento emotivo.

Davey, Meeten, Barners e Dash affrontano il tema di come il fenomeno dei pensieri intrusivi contribuisce ad influenzare i beliefs; quali il senso di responsabilità (IR), l’intolleranza all’incertezza (UI) e alla fusione-pensiero azione (TAF), e di come un intervento centrato su questi, possa essere utile per alleviare i sintomi ansiosi.

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L’articolo di Cosentino, D’Olimpio, Gragnani, Capobianco, Tenore, Basile e Mancini tratta di come la propensione al disgusto e il senso di colpa siano correlati ad alti punteggi nelle scale dei test per la diagnosi del DOC.

Hagen, Hansen, Joa e Larsen indagano la prevalenza e le caratteristiche cliniche di pazienti che rispondono alla diagnosi DOC, durante il primo episodio psicotico  evidenziando che è significativa la comorbilità di una diagnosi di DOC in pazienti al primo episodio psicotico.

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Nel lavoro di Ottavini, Mancini, Petrocchi, Medea e Couyoumdjian si approfondiscono le correlazioni anatomiche e fisiologiche tra il costrutto di disgusto morale, in soggetti con o senza tendenze ossessive, concludendo come il senso di disgusto morale in soggetti DOC abbia una componente anatomo-fisiologica.

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La presentazione di Anholt, propone un nuovo modello di concettualizzazione del DOC, inspirato all’approccio ecologico di Gibson’s (1979) che implica importanti e complessi aspetti di percezione ed elaborazione degli stimoli .

Il lavoro di Havnen, Hovland, Haug, Hansen e Kvale approfondisce la relazione tra le funzioni esecutive e i disturbi del sonno, fenomeno questo presente nel 50 % (Hovland et al., 2012) dei pazienti DOC. I risultati, sembrano confermare l’importanza dell’integrità delle funzioni esecutive per la comprensione dei meccanismi correlati ai disturbi nel sonno in questo tipo di pazienti.

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Huppert e Weizel descrivono i motivi per i quali l’effetto placebo non sarebbe presente in soggetti affetti da DOC, confrontato con un gruppo altre tipologie di disturbi di ansia, come la fobia specifica, suggerendo così quali siano le possibili implicazioni cliniche.

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Due Italiani, Basile e Mancini, raccolgono una serie di studi presenti in letteratura sull’applicazione di tecniche di neuroimaging alla ricerca dei meccanismi neurobiologici, per comprendere processi come la propensione alla colpa, la sensibilità al disgusto e la scarsa capacità di inibire e controllare comportamenti volontari in soggetti DOC. Il lavoro suggerisce e sottolinea l’importanza del substrato neurobiologico ed in particolare di aree legate al circuito fronto-parietale per comprendere i meccanismi di questo quadro clinico.

Seminario 11 Maggio 2013, Firenze – Disturbi di Personalità & Schizofrenia
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La presentazione di Brezinka apre l’area relativa all’applicazione delle terapia cognitivo-comportamentale (CBT) nell’infanzia e nell’adolescenza, tramite la pubblicazione scientifica ed al mercato di un gioco di auto aiuto al computer  “Ricky and Spider” come supporto nel trattamento con E/RP per i bambini tra i 6 e i 12 anni.

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L’utilità di utilizzare la CBT in età pediatrica, emerge anche dal lavoro di Torp e Skarphedinsson, i quali presentano un lavoro che supporta l’efficacia di un protocollo manualizzato di terapia cognitivo-comportamentale (E/RP combinata con la CBT familiare), della durata di 13 settimane, come intervento per bambini e adolescenti affetti da DOC.

Diversamente il gruppo composto da Haug, Havenen, Hansen, Bless, Hugdahl e Kvale, basandosi sulle similarità e differenze tra pensieri intrusivi e allucinazioni uditive, propongono la messa in atto di un training attentivo per iPod/iPhone come possibilità di trattamento aggiuntivo al protocollo E/RP. I risultati sembrano promettenti.

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Van den Hout e Toffolo indagano il noto fenomeno dell’incertezza in soggetti sani con bassa e alta propensione al DOC e notano che, esponendo i soggetti a stimoli ambigui, non sembrano emergere differenze di errori di riconoscimento tra i gruppi. Tuttavia, i soggetti con propensione al DOC, mostrano maggiori tempi di fissazioni in risposta ad una “particolarità di uno stimolo” e questo sembra poter essere un fattore di rischio per sviluppare un DOC.

Il lavoro di Doron e Szepsenwol approfondisce una riflessione sui temi ossessivo-compulsivi legati alle relazioni sentimentali ed amorose. Le conclusioni che emergono sono che i dubbi ossessivi e le neutralizzazioni mentali relative alle relazioni possono promuovere altri dubbi e comportamenti di neutralizzazione e viceversa. Questo può essere una spirale di rimuginio e forte stress, se non approda ad un psicoterapia specialistica, importante come intervento preventivo anche nella dissoluzione delle relazioni intraprese dal soggetto.

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A questo lavoro si accosta quello del gruppo di O’Connor, Goulet e Koszegi, i quali approfondiscono come la sopravvalutazione delle possibilità e la scarsa fiducia nei propri sensi, generi il “dubbio” in soggetti con DOC.

Kalantroff, Henik e Anholt descrivono come i soggetti DOC presentino deficit di “task control” e come questo possa avere implicazioni sui processi cognitivi presenti in questa tipologia di pazienti.

Pozza, Coradeschi e Dèttore affrontano il tema relativo all’influenza di come i beliefs disfunzionali moderino l’influenza negativa della comorbilità di depressione maggiore, all’interno di un gruppo di trattamento comportamentale per pazienti DOC. Dai risultati emerge, come le variabili dell’intolleranza dell’incertezza e la sovrastima del pericolo, siano fattori di mantenimento del disturbo, tuttavia, tali fattori cognitivi non sembrano moderare l’influenza negativa della comorblità con la depressione, per quanto attiene agli effetti del trattamento.

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Il lavoro di Roncero, Belloch, Perpina, Fornés e Garcia-Solano analizza il rapporto tra pensieri intrusivi nell’anoressia nervosa e le ossessioni del DOC, evidenziando come entrambi presentino similarità relativamente alla frequenza di “intrusioni mentali”.  Pertanto, i soggetti affetti da DOC presenterebbero punteggi più alti relativamente alle modalità di valutazione, eleborazione e nelle strategie di regolazione e controllo.

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Carraresi, Bulli, Melli e Stopani indagano la relazione tra la propensione al disgusto, il senso di colpa e il fenomeno della “mental contamination”. Dai risultati sembrerebbe emergere che il costrutto di “metal contamination” giocasse un ruolo di mediatore tra gli aspetti di propensione al disgusto, la colpa ed i sintomi o-c (il senso di sentirsi contaminati ed i rituali di lavaggio), pur in assenza di un contatto con gli stimoli attivanti.

La presentazione di Linkovski, Kalanthroff, Anholt e Henik approfondisce un tema presente in letteratura quale quello del rapporto tra processi di memoria e i comportamenti di controllo concludendo così che i controlli ripetuti, tipici di alcuni DOC, causino disturbi della memoria.

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Infine, il gruppo composto da Hansen, Kvale, Havnen, Haug, Prescott e Riise presenta un lavoro in cui, diversamente dai tipici lavori nei quali erano stati riscontrati scarsi cambiamenti utilizzando l’E/RP in un settimo di gruppo, si conclude che un intervento intensivo di terapia di gruppo, sembra essere una forma promettente di terapia, come possibilità per i pazienti di offrire e ricevere vicendevolmente informazioni e supporto, con un risparmio considerevole sui costi economici.

Nel complesso, l’evento è stato ricchissimo di contributi e di spunti provenienti da autori diversi che, tuttavia, hanno condiviso e condividono ogni giorno la sfida di una più approfondita comprensione di questo disturbo e lo sforzo di sperimentare e promuovere nel mondo linee di ricerca e di intervento terapeutico inspirate all’approccio cognitivo-comportamentale.

LEGGI:

OSSESSIONI – DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – OCD – PSICOTERAPIA COGNITIVA –  NEUROPSICOLOGIA – ANSIA – CONGRESSI

 

 

BIBLIOGRAFIA (scarica il libro degli Abstract in PDF)

LETTURE CONSIGLIATE:

 

Gioco d’Azzardo in Italia: tra contributo al PIL & Epidemia Sociale

di Andrea Ferrari, psicologo tirocinante post-lauream, Modena

 

Gioco d’Azzardo in Italia: tra contributo al PIL & Epidemia Sociale. - Immagine: © kraevski - Fotolia.comGioco d’Azzardo in Italia – Identikit del giocatore d’azzardo patologico: maschio, vive nel centro-sud, diplomato, utilizzatore di alcol e di tabacco.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO 

Il gioco d’azzardo, come fenomeno economico, ha conosciuto una crescita significativa a livello mondiale. Nel nostro Paese, questa crescita è stata in particolar modo marcata: secondo le stime ufficiali, si ritiene che l’industria del gioco contribuisca per il 4% al Prodotto Interno Lordo (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, 2011). Soltanto riferendosi al biennio 2008-2010, si è rilevato un incremento del 30% nei consumi.

Nonostante i problemi di dipendenza da gioco d’azzardo siano conosciuti e trattati da decenni (nel 1980 la prima inclusione nel DSM-III; APA, 1980), nel nostro Paese solo negli ultimi anni sono saliti alla ribalta delle cronache e si è assistito ad un frettoloso, e tuttora incompleto, adeguamento da parte dei Servizi per le Dipendenze (SerD).

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Tutt’oggi, non sono state intraprese ricerche epidemiologiche su larga scala. Questa lacuna è stata in parte colmata dall’articolo di Bastiani e colleghi, (2013), che hanno rielaborato dati ottenuti dalla ricerca IPSAD-Italia 2007-08 (Italian Population Survey on Alcohol and Other Drugs) curata dal CNR. La ricerca consisteva in una serie di questionari (in forma anonima) inviati per posta ai soggetti appartenenti al campione, allo scopo di ottenere informazioni relative a dati socio-demografici, all‘utilizzo di droghe legali o illegali, e infine sui comportamenti di gioco d’azzardo.

Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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In base ai risultati proviamo a delineare un identikit del giocatore d’azzardo patologico: è prevalentemente maschio (86.4%), vive nelle regioni centro-meridionali, ha un diploma di scuola media superiore, spesso fa abbondante uso di alcol (56.4% a rischio di alcolismo) e di tabacco (34.6% forti fumatori).

I ricercatori hanno stimato una prevalenza di problematiche da gioco d’azzardo nel 2.3% della popolazione giovane (15-24 anni) e del 2.2% della popolazione adulta (25-64 anni). Se consideriamo anche coloro che presentano problemi lievi (6.9% nei giovani vs 5.8% negli adulti) concludiamo che quasi un italiano su 10 ha qualche problema con il gioco.

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Nazione % Gioco problematico (adulti) % Gioco Patologico (adulti)
Canada (Huang & Boyer, 2007)

2.65%

1.92%

Germania (Sassen et al., 2011)

1.1%

0.3%

Italia (Bastiani et al., 2013)

5.8%

2.2%

Norvegia (Lund & Nordlund, 2003)

1.4%

 
Svizzera (Brodbeck, Duerrenberger & Znoj, 2009)

0.5%

0.2%

UK (Gambling Commission, 2010)

1.8%

0.7%

USA (Kessler et al., 2008)

2.3%

0.6%

Nonostante alcuni limiti dello studio, tra cui il basso tasso di risposta dei partecipanti e la mancanza di dati storici, in Italia le problematiche di gioco d’azzardo sembrano essere superiori rispetto ad altri paesi occidentali (vedi Tabella). Pur non potendo formulare una connessione causale, gli Autori puntano il dito sul sensibile sviluppo dell’industria del gioco, conseguentemente ad un decennio di cambiamenti nelle policy legislative: si è passati da un approccio strettamente contenitivo ad un approccio iper-liberalizzatorio.

 In particolare, in seguito al d.l. 39/2009 (il cosiddetto Decreto Abruzzo) si è allargata ulteriormente l’offerta di giochi, giustificandola come misura di solidarietà per le famiglie terremotate. Questo, secondo gli Autori, potrebbe avere avuto l’effetto di rinforzare l’idea che il gioco d’azzardo presenta aspetti di utilità sociale, favorendo sempre più lo sviluppo di una “cultura” del gioco d’azzardo.

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È risaputo che, tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl’italiani nell’arte d’inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi (Fruttero & Lucentini, 1985).

Ma alla luce di questi dati, è necessario cominciare a mettere in discussione le policy sul gioco, nella speranza che non si arrivi ad una vera propria epidemia di gioco d’azzardo.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – CRONACA & ATTUALITA’ – PSICOLOGIA SOCIALE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Help me get down! La Rockstar e la paura di volare

 

Paura di volare: Brandon Flowers, frontman dei The Killers, in “Why Do I Keep Counting?” descrive i pensieri che lo travolgono a bordo di un aeroplano.

 

Help me get down! La Rockstar e la paura di volare . Immagine: Costanza Prinetti 2013

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Per il cantante di una band famosa a livello planetario, che vende dischi e compie tour in tutto il globo, avere una spiccata fobia per il volo è senza dubbio una condizione non troppo favorevole.

Lo sa bene Brandon Flowers, frontman della band americana The Killers, che nella canzone “Why Do I Keep Counting?” descrive, in una sorta di stream of consciousness, i pensieri che lo travolgono nel momento in cui si trova a bordo di un aeroplano e che sfociano nell’incalzante ritornello/preghiera (“Help me get down, I can make it, help me get down!”).

In un’intervista leggiamo che la paura di volare di  Flowers, sembra avere origine da due episodi che l’hanno traumatizzato durante viaggi aerei, uno in cui assistette alla morte di una passeggera e l’altro in cui si trovò ad attraversare un tornado.

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L’origine di questa fobia specifica può infatti essere “innescata” da differenti elementi: la percezione dell’aereo come un luogo stretto e angusto e senza vie di fuga, le sollecitazioni e i rumori che caratterizzano le fasi di decollo e di atterraggio, percepiti come sinistri e preoccupanti, (“…so many unusual sounds, I got to get my feet on the ground!”), eventuali turbolenze o altre situazioni traumatiche e spiacevoli avvenute durante il volo, oppure, in determinati casi, può essere sufficiente aver letto o ascoltato racconti e aneddoti negativi riguardanti il viaggiare in aereo (anche senza averci mai messo piede) che costituiscono terreno fertile e alimentano la costruzione di fantasie catastrofiche.

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Non sempre, tuttavia, l’insorgenza della paura di volare è legata a “qualcosa di brutto” accaduto durante il volo, alcuni passeggeri raccontano di essere stati colti da crisi di ansia, nonostante il volo procedesse con la massima tranquillità.

La paura di volare (detta anche aerofobia, aviofobia, o in inglese fear of flying) può colpire indistintamente persone di qualsiasi età, area di provenienza geografica, classe sociale, livello di istruzione o conto in banca.

Essa rappresenta una fobia relativamente nuova e in progressivo aumento, anche a seguito del successo delle compagnie low cost che hanno reso maggiormente fruibile la possibilità di spostarsi con l’aereo.

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Si stima che circa la metà dei passeggeri europei e italiani vivano il volo come un’esperienza negativa.

Le manifestazioni  e i livelli di ansia sono molteplici e diversi da passeggero a passeggero e possono andare da apprensione e stato di continua allerta durante il volo, a forte senso di sconforto e angoscia, che caratterizzano anche le ore o i giorni che precedono il viaggio (ansia anticipatoria), fino a vero e proprio terrore scatenato da pensieri e immagini funeste che riguardano il volo e che impediscono, di fatto, di salire a bordo dell’aereo.

Tornando alla nostra rockstar leggiamo come la sua fobia, si intrecci con la paura legata alla combinazione di numeri 621, (rappresenta la data del suo compleanno, il 21 giugno, in inglese 6/21), e che risale a quando, da ragazzino, una tavola Ouija (quelle utilizzate per “contattare” le anime dei defunti nelle sedute spiritiche) gli “predisse” che sarebbe morto il giorno del suo compleanno. In merito a ciò Flowers accenna a quanto fu complicato quando si ritrovò a dover compiere un volo transoceanico per giungere da Las Vegas al famoso festival di Glastonbury (UK) proprio nel giorno del suo compleanno!

In questo caso la fobia del volo può essere stata rafforzata dal cosiddetto “pensiero magico”, una sorta di deriva di tipo scaramantico/superstizioso, che stabilisce un collegamento virtuale tra elementi in realtà ben distinti tra loro (il proprio compleanno e il prendere l’aereo) e dal legame con un altro tipo di paura, che spesso soggiace a quella di volare, ovvero quella della morte e dell’impotenza di fronte all’ineluttibilità di quest’ultima (“And if all  our days are numbered, Then why do I keep counting?”).

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Tipicamente, infatti, nonostante l’aerofobia sia legata a una particolare situazione, può essere accompagnata da numerose altre paure sottostanti, tra cui quella per l’altezza, la claustrofobia, la fobia sociale, l’agorafobia, e la già citata fobia della morte.

 Considerati i diversi “trigger” che possono far scattare la fobia, possiamo quindi chiederci cosa realmente determini la paura. Di primo impatto saremmo tutti tentati di rispondere “Che l’aereo cada!”, in realtà solo una parte dei passeggeri riportano questo timore, un’altra parte di essi, tra cui Flowers, affermano che l’aspetto per loro più tremendo è il timore di perdere il controllo della situazione e di non riuscire a gestire le emozioni e le sensazioni che proveranno durante il volo, con la conseguente possibilità di sentirsi male (attacco di panico).

Appare perciò evidente che, come afferma Flowers, “The trouble is my head”, ovvero la fobia, più che avere a che fare con il proprio oggetto terrifico, riguarda la testa del soggetto, o meglio alcuni meccanismi di pensiero che le persone ansiose adottano per affrontare i problemi e che in realtà finiscono per ostacolarle ulteriormente.

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Alcune modalità di pensiero disfunzionali più frequentemente implicate nei disturbi fobici sono il mood congruity effect, ovvero la sensibilità e vulnerabilità al tema della minaccia, l’emotional reasoning, che può condurre a interpretare in chiave emotiva ansiogena anche segnali neutri e innocui, il pensiero catastrofico, che porta a creare previsioni e immagini mentali funeste e drammatiche (“I took one last good look around…”),  la necessità di un continuo e totale controllo, con conseguente aumento del livello di ansia e di apprensione non appena qualcosa sfugge al nostro monitoraggio, l’intolleranza all’incertezza nei confronti degli eventi, che si lega ai dubbi e al rimuginio riguardo alle potenziali difficoltà della vita (“If I only knew the answer, If I change my way of living, And if I pave my streets with good times, Will the mountain keep on giving?”) al proprio valore personale, alla fiducia in sé, al proprio senso di responsabilità e alla capacità di raggiungere obiettivi di vita particolarmente significativi (“Am I strong enough to be the one? Will I live to have some children?…”).

Abbiamo perciò capito che nella fobia del volo, così come nelle altre manifestazioni fobiche, può avvenire un vero e proprio spostamento del focus attentivo dal reale problema verso un oggetto specifico esterno a noi (in questo caso “volare”). Ciò rende cognitivamente ed emotivamente più “economico” e meno complesso fronteggiare i problemi che provocano ansia (ad esempio attraverso le condotte di evitamento), di quanto non sarebbe affrontare le emozioni che derivano da incertezze e fragilità che hanno direttamente a che fare con il nostro mondo interiore  e che ci possono mettere a rischio di un maggior carico di frustrazione e di una drastica diminuzione del senso di autoefficacia.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

 PAURA – MUSICA – CRONACA & ATTUALITA’ – CREDENZE – BELIEFS  

 

SITOGRAFIA: (grazie a Denise di www.thekillersitalia.com)

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness e Inflessibilità Psicologica: quali Tratti di Personalità?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il costrutto di mindfulness è risultato essere associato negativamente alla dimensione di Nevroticismo e positivamente a quella Coscienziosità, mentre l’inflessibilità psicologica presentava relazioni di polarità opposta con questi tratti.

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Un interessante studio pubblicato su Personality and Individual Differences (Latzman & Masuda, 2013) indaga la relazione tra mindfulness, inflessibilità psicologica e tratti di personalità.

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Con “mindfulness” si intende un processo di regolazione che àncora l’esperienza attentiva al momento presente.

L’inflessibilità psicologica si riferisce ad una tendenza a reazioni psicologiche rigide di fronte agli eventi che si concretizza perlopiù in comportamenti di evitamento che conducono ad un ridotto funzionamento nella vita quotidiana.

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Questi due costrutti, correlati ma distinti, influiscono sul modo in cui le persone reagiscono ai propri stati interni e all’ambiente esterno. Diversi studi, inoltre, hanno già evidenziato come mindfulness e inflessibilità siano associate, rispettivamente in senso negativo e positivo, a diverse forme di psicopatologia, quali ansia, depressione e distress psicologico generico.

Questo studio intendeva esaminare contemporaneamente entrambi gli aspetti di mindfulness e inflessibilità psicologica nel contesto delle dimensioni di personalità del Big Five, approfondendo così il background concettuale che connota questi costrutti tutto sommato recenti e aiutando a svelare processi comuni sottostanti la psicopatologia.

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Ad un gruppo di 429 partecipanti tra i 17 e i 57 anni sono state somministrate tre misure self-report: il Mindfulness Attention Awareness Scale (MAAS), l’Acceptance and Action Questionnaire (AAQ-II) e il Big Five Inventory (BFI). Quest’ultimo individua 5 dimensioni di personalità: Nevroticismo (tendenza a percepire elevati livelli di distress ed emotività negativa), Coscienziosità (abilità di controllo degli impulsi e attenzione al dettaglio), Estroversione (orientamento all’approccio energico), Apertura (apertura mentale, originalità) e Piacevolezza (tendenza prosociale verso gli altri).

Entrambi i costrutti di mindfulness e inflessibilità psicologica hanno presentato una correlazione simile, ma in direzione opposta, con le dimensioni di personalità valutate. In particolare, il costrutto di mindfulness è risultato essere associato negativamente alla dimensione di Nevroticismo e positivamente a quella Coscienziosità, mentre l’inflessibilità psicologica presentava relazioni di polarità opposta con questi tratti.

Inoltre, considerando tutte le dimensioni di personalità, il maggior contributo nel predire la mindfulness è fornito da alta Coscienziosità e basso Nevroticismo, mentre per l’inflessibilità si fa riferimento soprattutto al Nevroticismo. Quindi, l’inflessibilità psicologica sembra riflettere in qualche modo una generale tendenza a sperimentare distress ed emozioni negative unitamente ad una diminuita abilità di controllo degli impulsi.

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Al contrario, la mindfulness mostra una forte correlazione con una consapevolezza orientata al momento presente e connotata da bassi livelli di impulsività e da una minore tendenza all’emotività negativa. Concludendo, nonostante mindfulness e inflessibilità rappresentino due aspetti correlati, questo studio evidenzia come esse abbiano relazioni differenti con i diversi tratti di personalità.

Questi risultati sottolineano l’importanza di considerare i tratti di personalità nell’indagine delle associazioni tra mindfulness, inflessibilità e outcome di salute psicofisica. Studi futuri quindi dovrebbero approfondire il tipo di relazione che intercorre tra queste variabili e quale sia il contributo fornito di ciascuna di esse, separatamente e interattivamente, nel predire lo stato di benessere psicologico e fisico delle persone.

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MINDIFULNESS –  PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Tribolazioni di Roberto Lorenzini – Bibliografia

Tribolazioni di Roberto Lorenzini

 

 

 

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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #7

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 7

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6

 

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Queste differenze possono creare una sorta di antipatia di fondo tra psicologo e paziente che mina profondamente il buon esito del colloquio.

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 “Il guerriero della luce legge questi messaggi in tanti uomini e tante donne che conosce. Non si lascia mai ingannare dalle apparenze, e fa di tutto per rimanere in silenzio quando tentano di impressionarlo. Ma coglie l’occasione per correggere le proprie mancanze, giacché gli uomini sono sempre un ottimo specchio.

Un guerriero approfitta di qualsiasi opportunità per imparare.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.26]

 

Nell’analisi dei principi di base si è fatto cenno all’importanza di conoscere sé stessi e gli atri. Questo perché può capitare che il paziente sia una persona molto diversa dallo psicologo per cultura, stato socioeconomico, genere o appartenenza di gruppo. Davanti a queste situazioni il terapeuta deve essere in grado di non reificare il paziente, e cioè, di non attribuirgli caratteristiche tipiche del suo gruppo di appartenenza senza che siano state direttamente individuate, e deve cercare di accettarlo che vuol dire anche avere gli strumenti conoscitivi per farlo. Quindi il modo migliore per affrontare queste differenze è cercare di capirle mostrando, in tutta onestà, la propria ignoranza riguardo a determinate usanze o credenze di una cultura diversa dalla propria e cercando di apprenderle attraverso il paziente.

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Questo può anche enfatizzare la nostra disponibilità d’ascolto, ma se il paziente mostra fastidio a questi tipi di interventi conviene rimandare l’approfondimento di questi argomenti a colloqui successivi e intanto informarsi privatamente, anche attraverso qualche lettura, sui temi in questione.

A volte le differenze tra terapeuta e paziente si trovano su altri livelli, in alcuni casi facilmente individuabili (ad esempio in rigidi valori morali), e in altri meno. Queste differenze possono creare una sorta di antipatia di fondo tra psicologo e paziente che mina profondamente il buon esito del colloquio. In questi casi il primo compito del terapeuta è, ancora una volta, cercare di capire quali sono le fonti di questo sentimento di allontanamento e cercare di superarlo, magari anche attraverso la collaborazione e il consiglio di qualche collega.

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Se ciò non si realizza l’unica soluzione rimasta e quella di pensare all’invio del paziente ad un collega. In tal caso, il terapeuta deve comunque preoccuparsi che il paziente non risenta di quest’esperienza preparandolo per tempo, cercando di instaurare una certa fiducia che gli permetta di capire che tutto è fatto per il suo bene e, quindi, evitare sensazioni di rabbia, tradimento e impotenza innanzi al proprio disturbo.

 

LA TERAPIA DI COPPIA E FAMILIARE

Quando il paziente non è uno solo è necessario prendere certi accorgimenti.

Al momento della preparazione del colloquio è necessario avere a disposizione una stanza piuttosto grande, confortevole e sobria. Ci può essere un tavolo che aiuta nei primi colloqui perché è visto come un elemento di copertura e protettivo e, oltre a ciò, permette, in sessioni future, di essere tolto variando il setting. Devono essere disposte più sedie del necessario e prestare estrema attenzione a come si dispongono i membri del gruppo o della famiglia.

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Al momento delle presentazioni è necessario indugiare lo sguardo allo stesso modo su tutti i membri della famiglia e non mostrare alcun segno di preferenza. Bisogna presentare subito le regole di base vale a dire: 1) ognuno ha il diritto e avrà la possibilità di dire il proprio parere senza essere interrotto e 2) nessuno può parlare in vece di altri. 

Nel corso del colloquio familiare si assisterà facilmente a un processo di colpevolizzazione reciproca da parte dei presenti. Lo psicologo deve cercare di mostrare (anche attraverso travestimenti metaforici) come i loro problemi non emergano da un’unica persona, ma che ognuno di loro possiede una propria percentuale di responsabilità.

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Quest’idea può essere trasmessa ai soggetti sottolineando affermazioni che legano i comportamenti di una persona ad emozioni dell’altra e affermazioni che mettono in evidenza la relazione tra modelli di comunicazione tra i membri della famiglia e i problemi lamentati. Far comprendere la responsabilità reciproca è il primo passo, necessario per poter affrontare in comune i problemi.

A volte il percorso verso questa consapevolezza è arduo e passa attraverso molte discussioni (che solitamente si muovono su un sentiero estremamente astratto) che devono essere sedate dal terapeuta. Nei casi in cui una persona parli troppo lo psicologo deve placarla ricordando le regole di base, se parla poco bisogna cercare di invitarla a dire la propria per avere un quadro più completo della situazione, ma senza insistere. Bisogna anche saper prevedere e resistere ai tentativi di seduzione da parte dei membri della famiglia, nascondendo eventuali preferenze o simpatie. Quando si tengono colloqui privati con membri della famiglia è importante trasmettere un senso di sicurezza e riservatezza a chi sta di fronte e non rivelare nulla di ciò che viene detto.

La triangolazione all'interno della famiglia.
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“Tuttavia gli capita di incontrare uomini che lo incitano a intervenire in lotte che non gli appartengono, su campi di battaglia che non conosce, o che non gli interessano. Questi vogliono coinvolgere il guerriero della luce in sfide che sono importanti solo per loro. 

[…]

In quei momenti egli sorride, dimostrando il suo amore, ma non accetta la provocazione.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.120]

Quando al colloquio familiare ci sono degli assenti conviene chiederne il motivo agli altri membri della famiglia. Se lo ignorano si può telefonare all’assente, e se  rifiutano è meglio insistere. Nella telefonata bisogna cercare di comprendere i motivi dell’assenza e cogliere eventuali giustificazioni che lasciano presagire la presenza nelle sedute successive. Per incentivare queste scelte è bene chiarire che il suo contributo è fondamentale per il buon esisto della terapia, per garanzia di lealtà nei suoi confronti e perché il terapeuta è molto interessato alle cose che può dire. Se tutte queste strategie di persuasione falliscono il colloquio può essere comunque portato avanti con i rimanenti cercando di stimolare la loro immedesimazione nella prospettiva della persona assente.

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Il primo colloquio, e molti dei successivi, può coinvolgere diversi membri della famiglia, bambini compresi. In generale si tende a evitare di convocare bambini di età inferiore ai 5 anni a meno che non siano un punto centrale del problema. Dai 5 agli 11 anni i bambini vengono spesso convocati, almeno nella prima seduta, ma non vengono trattenuti per tutto il tempo. In tal caso è importante non dare l’idea che siano stati allontanati perché hanno fatto qualcosa di sbagliato. Bambini di età superiore agli 11 anni vengono normalmente convocati per tutta la durata della seduta.

In ogni caso i principi di base del colloquio con più persone (famiglie o gruppi) sono esattamente gli stessi della terapia individuale.

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 IN TERAPIA – FAMIGLIA – PSICOTERAPIA SISTEMICO – RELAZIONALE

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Intervista a Sue Johnson: Il Tango nella Terapia di Coppia

Genitori & Figli: Aiutare Troppo può essere Dannoso?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un comportamento eccessivamente coinvolto da parte dei genitori nei confronti del figlio (definito  “helicopter parenting”) può rivelarsi inaspettatamente controproducente per i figli in termini di soddisfazione personale.

È facile pensare che maggiore aiuto diamo agli altri, maggiore sarà anche il beneficio che essi ne trarranno. Gli studi sulle diverse modalità di accudimento genitoriale, però,  hanno messo in discussione questa ipotesi, evidenziando quali sono i “costi” di un atteggiamento parentale troppo coinvolto.

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A tal proposito,  due importanti studi hanno mostrato che un comportamento eccessivamente coinvolto da parte dei genitori nei confronti del figlio (definito  “helicopter parenting”) possa rivelarsi inaspettatamente controproducente per i figli in termini di soddisfazione personale.

Vademecum per i neo - papà. Immagine - © drubig-photo - Fotolia.com
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Nel primo, la sociologa Laura T. Hamilton (University of California) ci mostra che tanto più soldi i genitori spendono per il college dei propri figli, tanto peggiori saranno i loro risultati in termini di guadagno.

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Il secondo, invece, pubblicato da Holly H. Shiffrin  (University of Mary Washington) evidenzia che tanto più i genitori si impegnano nell’offrire aiuto per lo svolgimento dei compiti scolastici e nel direzionare la scelta del college, tanto minore risulta la  soddisfazione personale dei figli riguardo le loro vite.

Come spiegare questi risultati? La risposta sembra far riferimento al sentimento di responsabilità percepito dal ricevente: condotte parentali di questo tipo, incentrate a dare sostegno al figlio, potrebbero provocare una riduzione del senso di responsabilità delle proprie azioni, e, quindi, anche dei propri successi.

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 Una ricerca americana del 2011 ha rivelato come questo fenomeno risulti estendibile anche ad altri ambiti, relativi, ad esempio, al rapporto con il partner, con i colleghi o con gli amici. Lo studio in esame si è servito di un campione randomizzato di donne americane, attente alla salute e alla forma fisica, alle quali venne chiesto di valutare quanto il loro partner condividesse i loro obiettivi di benessere fisico. I risultati confermarono il trend  ipotizzato: le donne che consideravano il coniuge utile ai loro obiettivi di salute diventavano meno motivate nel raggiungere questi scopi e spendevano meno tempo nel perseguirli.

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Questi risultati evidenziano l’importanza di saper offrire aiuto quando necessario, e  di lasciare l’altro libero di esprimere il proprio bisogno di competenza. I genitori, allora, dovrebbero rispondere in modo flessibile alle richieste del figlio, dando supporto senza prevaricare i suoi sforzi di realizzazione. Insomma, aiutare l’altro, ma non troppo. E fortunatamente, questa competenza sembra essere scritta nelle capacità umane.

Uno studio, infatti, coordinato da Michael J. Parks, mostra come un passante sia in grado di sapere quando intervenire in una rissa, in modo da offrire aiuto nel momento in cui è maggiormente necessario. Un’altra  ricerca del 2007 ha cercato di valutare in  che modo variava la motivazione nel perseguire obiettivi personali al variare dell’atteggiamento del partner nei propri confronti.  Di fronte ad un comportamento ricettivo ma non controllante, il soggetto era più autonomo e capace a portare avanti la realizzazione dei propri progetti.

In conclusione,  il nostro aiuto, per essere efficace, dovrebbe essere calibrato con il bisogno di realizzazione dell’altro, offerto solo se necessario ed in grado di completare gli sforzi dell’altra persona, in modo da non essere percepito come controllante ed intrusivo. 

LEGGI:

ACCUDIMENTO – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbi di Personalità & Schizofrenia – Report del Seminario

 

Di Carmelo la Mela

Scuola Cognitiva di Firenze 

Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva

 

Sabato 11 maggio a Firenze c’era il sole.

 

Dal Seminario:

Disturbi di Personalità & Schizofrenia

 

 

Seminario 11 Maggio 2013, Firenze – Disturbi di Personalità & Schizofrenia

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

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C’era una bell’aria sabato scorso a Firenze, finalmente un bel sole che invitava a stare fuori, andare al mare o fare un bel giro in moto o un po’ di cicaleccio seduti ad un bar con gli amici. Circa 150 persone hanno preferito venire a sentir parlare di terapia cognitiva della schizofrenia e dei disturbi di personalità.

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Perversione? Parafilia? Non lo so, so che era una bella sensazione vedere una sala piena di giovani ed ancora più bello vedere che sono rimasti tutti fino alla fine della giornata. Certo, il menu della giornata ed i  cuochi erano di primo livello: Paul Lysaker, Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo, Roberto Lorenzini , Giovanni Ruggiero e Sandra Sassaroli che parlavano di “Nuove acquisizioni della terapia cognitiva per la schizofrenia e i disturbi di personalità” presentando i  rispettivi modelli, di Terapia Metacognitiva Interpersonale i primi, ed un nuovo modello proposto dal gruppo di Studi Cognitivi per la terapia dei pazienti difficili chiamato LIBET. Il sottoscritto ha coordinato i lavori e partecipato alla tavola rotonda sui disturbi di personalità.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
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Il presupposto di partenza era chiaro: la terapia cognitiva funziona, è supportata da solidi dati di efficacia forniti da ricerche controllate, la sua azione terapeutica viene studiata anche con ricerche di neuroimaging  (Goldapple, 2004) che ne chiariscono la specificità dei meccanismi d’azione.

E anche le conseguenze erano implicitamente chiare: per certi pazienti affetti da alcune patologie tipicamente ben descritte in letteratura, è deontologicamente corretto applicare il protocollo terapeutico di CBT standard così come descritto in molti testi, anche in italiano, e come viene insegnato nelle nostre scuole. La CBT che funziona è questa, stop, le contaminazioni teoriche più o meno affascinanti hanno un alto  prezzo in termini di affidabilità dei risultati.

Questa premessa ci è servita per mettere meglio a fuoco il tema del nostro convegno, cosa si fa coi pazienti difficili? Quei pazienti che vengono usualmente nei nostri ambulatori, con doppie diagnosi, con tratti o disturbi di personalità associati a sintomi di asse I, con modalità relazionali tali da mettere in difficoltà fin dall’inizio l’alleanza terapeutica.

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Un paziente che non sai mai come prendere, che non offre un punto di partenza oppure ne offre troppi, per cui la terapia diventa una serie di prime visite sempre con un problema nuovo. Le relazioni presentate hanno proposto 2 modelli di intervento con questi pazienti difficili, il primo, da una prospettiva metacognitiva, il secondo, presentato da Sassaroli, rappresenta una cornice teorica originale che integra gli aspetti tipici del cognitivismo standard per la comprensione del funzionamento attuale del disturbo, con elementi della storia evolutiva del paziente per una concettualizzazione che permette di comprendere i limiti e la vulnerabilità dell’assetto personologico, dando così senso allo scompenso sintomatico.

Un primo elemento da sottolineare è che le due prospettive  si muovono entrambe  in  grande coerenza teorica  con il modello CBT, si tratta realmente di modelli di intervento per  pazienti che la CBT standard droppa, quindi propongono strumenti terapeutici nuovi ma in sintonia con la “casa madre”. Tranquilli però, non si tratta né di nuove ondate (la quarta? la terza bis?) né di risacche autoreferenziali, ma di uno sforzo serio partendo dalla clinica e dai pazienti “veri”, di applicare il programma di ricerca tipico della CBT: come funziona la mente di questo paziente? Perché non smette di soffrire? Quali sono gli interventi terapeutici coerenti con il modello di funzionamento psicopatologico?

Lysaker, Dimaggio, Popolo hanno enfatizzato il deficit metacognitivo come disturbo di base nella schizofrenia e nei disturbi di personalità, presentando un modello di psicoterapia, derivato dal lavoro di ricerca da loro svolto negli ultimi anni in collaborazione con altri gruppi internazionali, che focalizza l’intervento su una costante operazione di monitoraggio e controllo dei contenuti mentali propri e dell’altro con la finalità di migliorare la gestione degli stati problematici e la regolazione emotiva.

Non siamo dalle parti di Wells e delle sue convinzioni disfunzionali sui pensieri automatici negativi, ma in un’area che studia un’abilità che sottende la capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali per poter fare delle ipotesi sulle motivazioni alla base del comportamento degli altri finalizzati al miglioramento della relazione interpersonale.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
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Insomma qualcosa che ha molto a che fare con il senso di sé, con l’immagine che abbiamo dell’altro e del modo con il quale costruiamo e regoliamo le relazioni. Iniziano ad accumularsi dati riguardo al substrato neurobiologico e ai circuiti neurali coinvolti nel funzionamento di queste funzioni psicologiche (Fleming, 2012) e questo dà al lavoro di Dimaggio e dei suoi colleghi una prospettiva di verifica e supporto neuroscientifico che attualmente rappresenta l’unica strada per proporre nuovi modelli psicologici di funzionamento mentale.

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L’altra strada è quella intrapresa da Sassaroli e dal suo gruppo, chiamiamola bottom up, dove l’esperienza clinica con pazienti che non rispondono alla terapia protocollata né alle varianti più o meno ortodosse, li ha portati a ripensare il percorso terapeutico: l’evidenza di difficoltà nella relazione terapeutica ed il fatto che spesso questi pazienti vengono da storie difficili, relazioni precoci complicate, caratterizzate da episodi dolorosi ripetuti nell’età di sviluppo, hanno portato Sassaroli all’ipotesi che un sistema cognitivo si costituisca a partire dalla sintesi di “temi dolorosi”, nuclei di significato centrali nel sistema cognitivo, che funzionano come principi organizzatori che, in modo non consapevole, fanno da volano alla costruzione di un progetto esistenziale più o meno funzionale che consente di dare una direzione e un senso alla propria esistenza, “piano di vita” lo definiscono gli Autori.

Un piano di vita  diventa patologico quando è caratterizzato da un insieme limitato di scopi, evitanti e protettivi, inflessibili e monodimensionali, che non permettono l’esplorazione di altri scopi e bisogni esistenziali, con il rischio di andare incontro ad uno scompenso  e  alla comparsa di una sintomatologia clinica. A questo punto il lavoro terapeutico permette al terapeuta di comprendere il sintomo all’interno di una cornice personologica, fatta di temi e piani di vita, e di proporre al paziente l’attuale fase clinica anche come l’esito di uno stile di vita che ha avuto la sua ragion d’essere, funzionale e adattiva nel passato, ma che è attualmente disadattivo e limitante.

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Da questo presupposto concettuale, condiviso col paziente, prende il via un intervento terapeutico finalizzato alla risoluzione della sintomatologia ma all’interno di un progetto di ristrutturazione del piano di vita attraverso l’uso di tecniche standard cognitive, comportamentali insieme a tecniche relazionali ed esperenziali, in sintonia con l’obiettivo terapeutico che vogliamo raggiungere in quel momento. 

E’ evidente da quanto detto, che esperienze relazionali precoci di tipo traumatico, pattern di attaccamento insicuro o ancor di più, una disorganizzazione dello stile di attaccamento, possono rappresentare elementi particolarmente significativi nella sintesi di temi di vita patologici.

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Ed è per un altro verso un dato ormai acquisito il rapporto tra qualità dello sviluppo di abilità metacognitive ed eventi relazionali traumatici, con una relazione diretta tra esperienze traumatiche e deficit metacognitivi.

L’ ipotesi che ho proposto alla riflessione di tutti è che proprio gli esiti deficitari sulle capacità metacognitive  dovuti ad una storia evolutiva caratterizzata da traumi cumulativi precoci fanno sì che in certi pazienti non sia identificabile un unico tema di vita doloroso, gerarchicamente sovraordinato, che diventi il principio organizzatore di sistema organizzato su uno o pochi piani semiadattivi e patologici.

Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
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A volte in alcuni pazienti gravi possiamo rintracciare più temi non organizzati gerarchicamente tra loro, che hanno portato a più piani di vita anch’essi non coerentemente organizzati tra loro, in modo tale da farci apparire la loro vita (cosi come a volte le  sedute con loro) confusa, caotica ascopica perché multiscopica  o forse meglio caleidoscopica, con fasi temporalmente circoscritte di funzionamento: un pezzo di famiglia, un figlio, qualche anno di lavoro, ma nel complesso disorganizzate.

Un quadro clinico di questo tipo trova nel nuovo DSM-5 una sua descrizione perfetta nella sezione dei disturbi di personalità, non più descritti in modo categoriale ma attraverso un sistema che dà la possibilità di misurare anche il funzionamento della personalità attraverso due domini, il dominio del sé e quello interpersonale. E’ il primo quello che ci interessa rispetto alla dimensione dell’autodeterminazione, definita come la capacità di perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che esistenziali, di utilizzare standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, di riflettere su sè stessi in maniera produttiva.

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Il convegno si è concluso con una tavola rotonda nella quale si è discusso ciò che unisce e ciò che differenzia i diversi modelli proposti, con la sensazione condivisa di una sintesi possibile e prossima.

Il Disturbo Borderline di Personalità - Una Cascata Emotiva - State of Mind
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind

E’ questo direi lo spirito che anima le scuole di Studi Cognitivi, scuole che vogliono insegnare la CBT standard, ma che continuano a studiare e fare ricerca originale per rispondere a quei pazienti “difficili”, per cui la CBT non funziona, mettendo a punto un modello di intervento coerente con i presupposti teorici, compatibile ed integrabile con altri dati provenienti dalla ricerca psicologica, e che vuole confrontarsi con i temi attuali della metacognizione, della gestione e regolazione della relazione terapeutica.

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

C’era un bel sole sabato scorso a Firenze, ma anche l’aria che si respirava al convegno in via fratelli Rosselli non era affatto male.

LEGGI:

CONGRESSI –  SCHIZOFRENIA – DISTURBI DI PERSONALITA’ – PSICOTERAPIA COGNITIVA – SCOPI ESISTENZIALI – TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

In Treatment Italiano: una Visione d’Insieme

 

In treatment Italiano: una Visione d’InsiemeÈ sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT – LEGGI L’INTRODUZIONE

Chi legge State of Mind sa che nelle ultime settimane ho recensito molte puntate della versione americana della serie “In treatment”, un telefilm israeliano con protagonista uno psicoterapeuta, i suoi pazienti e la sua supervisora.

Il primo aprile è andata in onda anche la versione italiana, con Sergio Castellitto nel ruolo del terapeuta. Anche noi di State of Mind abbiamo segnalato l’inizio della serie italiana, recensendo la prima puntata.

In Treatment - La versione Italiana
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana.

Avevamo intenzione di proseguire la recensione di altre puntate, ma la scelta dei produttori della serie israeliana, che è quella originale, che ogni versione esportata seguisse molto fedelmente la sceneggiatura israeliana originale renderebbe queste recensioni un’inutile doppione di ciò che abbiamo pubblicato finora sulla serie americana. Pertanto ci limitiamo a dare uno sguardo più ampio sull’intera serie. 

Ho visionato in questi giorni le prime cinque puntate di In Treatment, trovandole ben fatte e godibili. Se andiamo a leggere le dichiarazioni dell’autore e produttore di tutta la serie, Hagai Levi, la versione italiana sarebbe addirittura la migliore (vedi http://www.movieplayer.it/serietv/articoli/in-treatment-versione-made-in-italy-secondo-sergio-castellitto_10642/).

La storia con Giovanni Mari, il terapeuta italiano, non si discosta dalle puntate americane con Paul Weston (e da quelle israeliane, di cui ho visto qualche segmento con sottotitoli su youtube).

Qualche inevitabile adattamento riguarda ad esempio il paziente del secondo giorno: il pilota militare americano che aveva bombardato una scuola piena di bambini è diventato un poliziotto anti-mafia infiltrato costretto a effettuare un omicidio per conservare la sua copertura di mafioso.

In questo modo il grande tema del secondo paziente, ovvero la negazione del senso di colpa in base alla necessità di eseguire gli ordini, è conservato in maniera credibile anche nel contesto italiano.

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Così anche per la giovane paziente del terzo giorno, la ragazza che ha tentato una sorta di suicidio in una condizione di dissociazione allo scopo di punirsi in uno stato inconsapevole, è una promessa del balletto classico e non più, come nella serie americana, una ginnasta con speranze olimpiche.

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Le differenze tra le serie diventano piuttosto sfumature nella recitazione, esulando quindi dalla mia competenza psicologica. Giovanni Mari è un terapeuta nettamente meno cupo del tormentato Paul Weston. Ha un’espressività più solare che traspare anche nella neutralità del terapeuta di impostazione dinamica. Come anche nella serie israeliana e americana, man mano che le puntate avanzano questo terapeuta avrà problemi di controllo del setting e della sua emotività. Emotività che però si rivela irruenta e passionale e non malmostosa come quella di Weston.

Nel caso della supervisora del quinto giorno, le posizioni si rovesciano. In questo caso l’americana Gina Toll, interpretata da Dianne West, è un’interessante e inquietante mistura di capacità di accogliere e colpevolizzare. Più severa e distanziante l’italiana Anna, interpretata da Licia Maglietta, la supervisora di Castellitto/Mari.

Anche il poliziotto italiano Dario appare più tenebroso del pilota americano Alex, un bel caso questo di narcisismo overt (mentre Dario è un covert).

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E così via. La mia impressione è che la serie italiana sia ben curata. Sicuramente ha potuto usufruire dell’ottima sceneggiatura israeliana (vincitrice di svariati premi) e di qualche accorgimento di regia americana: Giovanni Mari ha ereditato lo studio ingombro di modellini di barche da Paul Weston, mentre il terapeuta israeliano Reuven Dagan possiede uno studio spartanissimo e spoglio.

È sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.

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IN TERAPIA – PSICOANALISI

 

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APPROFONDIMENTO: SCHEDA DI IN TREATMENT SU WIKIPEDIA

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