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Dispositivi Cellulare Hands-Free: Pericolosi per la Guida?

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Guidare utilizzando dispositivi cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

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Se parliamo al cellulare mentre guidiamo i nostri movimenti sono limitati e impediti e per questo motivo l’uso del cellulare mentre si guida è vietato dal codice della strada; un nuovo studio condotto alla University of Alberta rivela che anche l’uso di auricolari o di vivavoce, che ci permetterebbe di avere le mani libere per eseguire le manovre al volante, è ugualmente pericoloso.
Lo studio pilota ha dimostrato che guidare utilizzando un dispositivo cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida (ad esempio attraversare la linea centrale, eccesso di velocità e cambiare corsia senza segnalarlo) rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

I ricercatori hanno usato la spettroscopia a infrarossi – una tecnica ottica non invasiva che permette di esaminare in tempo reale i cambiamenti nell’attività cerebrale del lobo prefrontale sinistro – per studiare l’attività cerebrale di 26 partecipanti che hanno completato un corso di guida utilizzando il VS500M Virage, un simulatore di guida.
I partecipanti sono stati testati con il simulatore di guida in una condizione di controllo, cioè mentre guidavano senza parlare al cellulare. Sono stati poi testati nuovamente, mentre parlavano al telefono con il vivavoce in conversazioni della durata di due minuti; le conversazioni non toccavano argomenti emotivamente rilevanti.

I risultati indicano un significativo aumento dell’attività cerebrale mentre ha luogo una conversazione telefonica rispetto alla condizione di controllo, in cui questo non avviene. I risultati hanno anche indicato che il flusso di sangue al cervello aumenta significativamente nel corso della telefonata, così da poter soddisfare la richiesta di ossigeno dei neuroni in una condizione di “distrazione”.
I ricercatori fanno notare che si tratta di uno studio preliminare e sperano che la ricerca in questo senso possa aiutare a informare in merito alle implicazioni di sicurezza nell’utilizzo di dispositivi a mani libere durante la guida.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mayank Rehani & Yagesh Bhambhani, CEREBRAL OXYGENATION AND BEHAVIOURAL RESPONSES DURING SIMULATED DRIVING WITH AND WITHOUT HANDS-FREE TELECOMMUNICATION : A NEAR-INFRARED SPECTROSCOPY STUDY, University of Alberta. (DOWNLOAD)

 

Fabiana: cominciamo a pensare in modo serio

Francesca Barzini e Sandra Sassaroli

 

Fabiana Luzzi Si dà abbastanza attenzione nell’educazione di questi ragazzi alle emozioni? Al riconoscerle? A fare i conti con i limiti? Gli ostacoli? Gli abbandoni? Le paure? Il dolore che non si riesce a cancellare? Oppure si presenta loro, in questo nostro dolente benessere (che sa di malessere incombente e di precarietà) un mondo consolatorio in cui essi sono i più belli? I più bravi? I destinati a vincere? Viziati e adorati dalle famiglie in quanto maschi.

Poco sappiamo di cosa sia successo nella testa di un ragazzo che accoltella e brucia la ragazza (non chiamiamole più, per favore, fidanzatine) con la quale ha litigato. Qualcosa possiamo dire da psicoterapeuti.

Si può litigare in amore, ci si può insultare, si può essere disperati e molto molto arrabbiati. Poi quando queste emozioni tumultuose, forti e terribili diventano chiare, c’è un momento, un momento importante, in cui a questi stati d’animo si guarda con orrore ma con la consapevolezza che sono stati tormentosi ma transitori. Si piange, si telefona agli amici, ci si ubriaca, si scrive una poesia romantica, si va dal terapista, insomma ci si trova davanti ai grandi dolori della vita e si tenta di attraversarli.

Cosa succede a questi ragazzi, come mai invece di affrontare la sofferenza, arrivano a malmenare, aggredire, e a uccidere? Trasformano il dolore in rabbia cieca, in atti impulsivi e violenti che procureranno ferite, sofferenze, morte ma che rovinano anche le loro vite per sempre.

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale. - Immagine: © jedi-master - Fotolia.com
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Una rabbia che vediamo in molti femminicidi di cui in questi giorni sentiamo parlare. Nell’ambiente (o in parti della società) in cui questo giovane assassino è cresciuto sopravvive e persiste una oppressione antica delle donne. E un senso antiquato di superiorità dell’uomo.

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Vediamo come è difficile per questi uomini accettare queste nuove ragazze, ostinate, sicuramente più libere e più forti, che vogliono decidere la loro vita e sessualità in piena indipendenza. Il cambiamento sociale sembra molto squilibrato, gli uomini a difendere antichi privilegi. Le ragazze a spingere per un cambiamento che le renda più libere e indipendenti.

Ma in questo ragazzo si vede, come in molti assassini di cui i giornali ci raccontano, una profonda incompetenza a riconoscere e gestire le emozioni di dolore, di perdita, di separazione e di accettazione della libertà e indipendenza delle donne. Il ruolo delle donne infatti, la loro visione di se stesse, le loro ambizioni stanno cambiando in modo tumultuoso e comprendiamo che vi sia difficoltà ad adattarsi.

Ma oggi non voglio entrare solo nel merito della questione della violenza contro le donne ma anche di come vengono educati e cresciuti questi futuri uomini, in calabria, ma anche in grandi parti del nostro paese.

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E’ come se nella loro formazione questi uomini non abbiano mai imparato a fare i conti con le sconfitte, l’ineluttabilità delle separazioni e delle perdite. L’amore è visto come sogno romantico e non ne viene colto l’aspetto doloroso, di rischio, di vulnerabilità al contatto con l’altro.

Quando si trovano davanti a scelte improvvise, minacce di perdita, rifiuti sessuali, non sanno come affrontare ciò che accade. E minacciano, aggrediscono,uccidono.

Pena e strazio quindi per queste ragazze che si accorgono troppo tardi che quell’atteggiamento di forza e sicurezza di sé non era altro che prepotenza e copertura di una fragilità tremenda a vivere.

Questi ragazzi non hanno imparato a vivere e si trovano con le vite rovinate.

Ma mi chiedo: si dà abbastanza attenzione nell’educazione di questi ragazzi alle emozioni? Al riconoscerle? A fare i conti con i limiti? Gli ostacoli? Gli abbandoni? Le paure? Il dolore che non si riesce a cancellare? Oppure si presenta loro, in questo nostro dolente benessere (che sa di malessere incombente e di precarietà) un mondo consolatorio in cui essi sono i più belli? I più bravi? I destinati a vincere? Viziati e adorati dalle famiglie in quanto maschi.

I genitori si chiedono che educazione stanno dando ai loro figli maschi? Che complicità hanno con una visione dell’uomo antiquata e pericolosa in questa nostra società in rapido cambiamento? Predicano loro il rispetto e la parità con le donne o sono offuscati dall’amore per questi piccoli uomini in crescita?

La mia impressione è che questo sia un punto fondamentale e che nel nostro paese se ne parli troppo poco.

Da tempo tutti dicono che occorre che le ragazze imparino a non andare nel bosco per un ultimo chiarimento se vi sono pericoli o sensazioni di fragilità e rabbia dell’altro. Ma le famiglie e la scuola devono tenere il passo e insegnare ai maschi che ogni ricorso alla violenza e alla prevaricazione è roba antica e sbagliata per come è il mondo adesso. Occorre che gli uomini facciano un lavoro su se stessi, sulle proprie emozioni, sull’accettazione di ogni sconfitta.

I ragazzi devono cambiare e diventare compiutamente umani, capaci di vedere nei sentimenti i lati oscuri e imprevedibili che sempre possono presentarsi e a rispettare concretamente le ragazze che dicono di amare quando dicono di no, quando vogliono lasciarli, quando li sfidano.

L’argomento è attuale in Italia perché abbiamo ratificato la Convenzione di Istanbul dove la prevenzione nelle famiglie e nelle scuole e nei mass media è ritenuta elemento fondamentale della lotta al femminicidio e contro la violenza di genere.

SCARICA LA CONVENZIONE DI ISTANBUL (PDF)

 

Cito dal Corriere della sera:

Ma cosa prevede la convenzione? Contrastare ogni forma di violenza, fisica e psicologica sulle donne, dallo stupro allo stalking, dai matrimoni forzati alle mutilazioni genitali e impegno a tutti i livelli sulla prevenzione, eliminando al contempo ogni forma di discriminazione e promuovendo «la concreta parità tra i sessi, rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne». Si tratta di 81 articoli che sono stati ratificati ad oggi da quattro Stati: Albania, Montenegro, Turchia, Portogallo. L’Italia è il quinto Stato. Ma serve la ratifica di almeno 10 Stati perché la Convenzione diventi esecutiva.

Facciamo cultura e cambiamento anche come genitori, terapeuti, psicologi e insegnanti.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Family History and Anxiety #4

– READ PART 1 – PART 2 – PART3

– READ ENGLISH ARTICLES – 

 

 Family-History-and-Anxiety-4-. -Immagine: © altanaka - Fotolia.comAnxious parents tend to have anxious children and there is some evidence for the specificity of anxiety transmission.

READ ON ANXIETY DISORDERS

In continuation of the previous installment of this series, I will discuss three top-down studies investigating the transmission anxiety from parents to their children.

McClure, Brennan, Hammen and Le Brocque, (2001), using a community sample, assessed 816 15 year old children and their parents longitudinally. Parents were diagnosed using a structured clinical interview.  Children completed questionnaires about their parents’ behavior and their own mental state. The results indicated maternal lifetime anxiety disorders doubled the risk of anxiety in their offspring when compared to children of mothers without anxiety disorders.

Family History Anxiety #2. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com
Recommended: Family History Anxiety #2.

Children of mothers who had comorbid anxiety and depression had three times the risk of developing anxiety themselves compared to children of healthy mothers. Finally, the risk of developing anxiety was not significantly raised for children of depressed mothers, compared to children of anxious/depressed and anxious mothers.

Spence, Najman, Bor, O’Callaghan and Williams (2002) examined the association between anxiety and depression in 14 year old adolescents and early childhood experience of maternal anxiety and depression. Using a longitudinal design, 4,434 children were examined in infancy and again in adolescence using questionnaire methodology. Mothers were assessed using the Delusions Symptoms-State Inventory. The results showed that maternal anxiety and depression, during early childhood, had a significant influence on the development of high anxious-depressed symptoms at age 14.

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In a confusing study of five groups of children and their parents, Beiderman, Rosenbaum, Bolduc, Faraone and Hirshfeld (1991) examined patterns of associations between anxiety and depressive disorders among children of clinically referred parents. The study examined the children of four groups of parents: 1) panic disorder (PD) and agoraphobia (PDAG) without comorbid major depressive disorder (MDD) (n = 14); 2) comorbid PDAG plus MDD (PDAG + MDD) (n = 25); 3) MDD without comorbid PDAG (n = 12); 4) other psychiatric disorders (n = 23); and 5) normal comparisons (n = 47).

The results demonstrated that the children of those with PD and PDAG and MDD had similarly elevated rates of anxiety disorders and MDD. Interestingly, offspring of parents with MDD only had elevated rates of MDD and not anxiety disorders. This provides some evidence for the specificity of anxiety transmission.

So it appears that anxious parents tend to have anxious children and there is some evidence for the specificity of anxiety transmission. From here we will move on to investigate top-down studies that have investigated the transmission of social phobia from parents to their children.

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ATTACHMENT SERIES – ANXIETY DISORDERS

 

 

REFERENCES:

Chi muore Rockstar è caro agli Dei?

di Gaspare Palmieri, Sara Bocchicchio, Elena del Rio, Vania Galletti, Giorgia Righi

 

“La miglior mossa di marketing per una rockstar? Morire giovani!”

Chuck Klosterman

 

Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?. - Immagine: ©-Andrei-Tsalko-Fotolia.comIl mestiere di rockstar è notoriamente gravoso: lunghi periodi lontano da casa in alberghi a cinque stelle, snervanti interviste per le riviste patinate, crampi alle mani a forza di firmare autografi, fughe dalle groupies (o dai groupies, vedi Madonna o Lady-Gaga). Ma che alcune ricerche statistiche abbiano provato che sia addirittura un lavoro con una mortalità superiore alla popolazione normale, per intenderci come fare il soldato o il pilota collaudatore di aerei, sorprende non poco.

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Procediamo per ordine. Prima di tutto è stato finalmente sfatato, con un rigoroso studio retrospettivo, il mito del Club dei 27, che ha ospitato personaggi come Janis Joplin, Jimi Hendrix, Curt Kobain e per ultima Amy Winehouse, in base al quale ci sarebbe un picco di mortalità tra i musicisti popolari a quell’età (Wolkewitz et al., 2011). Secondo lo studio in realtà i ventisette anni non rappresentano un particolare momento di rischio, ma è stato individuato un range di maggiore vulnerabilità in generale tra i venti e i quarant’anni.

Un gruppo di ricercatori di Liverpool ha poi prodotto una serie di interessanti indagini sulla mortalità delle star del rock (Bellis et al. 2007; 2012). Il più recente analizza retrospettivamente le biografie dei 1489 rockers americani e europei, che hanno venduto il maggior numero di dischi tra il 1956 e il 2006 e che hanno mantenuto il successo per almeno cinque anni.

La mortalità delle star è risultata aumentare, rispetto a quella della popolazione normale, a partire dall’inizio della fama.

Amy Winehouse, un triste viaggio tra pub e Rehab
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Nello specifico i musicisti famosi americani hanno mostrato una mortalità più alta rispetto ai colleghi europei, probabilmente a causa di una maggior esposizione ai fattori di rischio (es. droghe), di una maggiore durata della carriera artistica (anche per via delle storiche reunion) e un più difficile accesso al sistema sanitario.

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Nel vecchio continente il tasso di mortalità torna ai livelli della popolazione normale dopo venticinque anni di fama, mentre i colleghi oltreoceano devono aspettare quindici anni in più. Dallo studio emerge inoltre come i musicisti solisti siano più vulnerabili rispetto a chi fa parte di una band, che potrebbe dunque rappresentare un fattore protettivo e di supporto per gli stress della vita da rockstar.

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L’aspetto più interessante e innovativo di queste indagini riguarda la ricerca, nella storia di vita dei rockers, di eventi infantili traumatici (Adverse Childhood Experiences-ACE) e di una loro possibile correlazione con una più alta mortalità. Gli ACE, già identificati come fattori di rischio per svariate patologie psichiatriche e mediche, includono abusi fisici, sessuali e verbali durante l’infanzia o la presenza di un membro della famiglia affetto da grave disturbo psichico, da una malattia cronica o da abuso di alcol o droghe.

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E’ stato provato che gli adulti che abbiano sperimentato quattro o più ACE, hanno un rischio sette volte maggiore di sviluppare una dipendenza da alcol e dodici volte maggiore di tentare il suicidio rispetto alla popolazione normale (Felitti et al., 1998). Gli ACE sembrano inoltre fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi di personalità nella prima età adulta, in particolare del cluster B (narcisistico, istrionico, borderline, antisociale), che sono stati identificati in misura maggiore nelle persone che cercano la fama.

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Lo studio inglese mostra tra le rockstar una correlazione tra presenza di ACE e mortalità prematura. Circa la metà dei musicisti deceduti a causa di abuso di sostanze o comportamenti a rischio aveva infatti vissuto almeno un evento traumatico infantile. Si potrebbe dunque ipotizzare che inseguire la via del successo nella musica sia una rischiosa ed allo stesso tempo attraente strategia di coping per fuggire ad un difficile passato di abusi, deprivazioni e maltrattamenti.

Chiaramente questi dati spaventano genitori ed educatori in quanto le star del rock e del pop, la cui notorietà può raggiungere dimensioni planetarie (Lady Gaga ha venti milioni di followers su Twitter), rappresentano modelli di riferimento per i giovani, con rischio di imitazione.

Per tranquillizzarsi un po’, può essere consigliabile leggere un recente studio di un ricercatore finlandese, che ha analizzato trentuno autobiografie di rockstar edite a partire dagli anni 90’ (Oksanen, 2012). L’analisi delle narrative ha mostrato come nei libri venga dedicato molto spazio al processo di guarigione dalle dipendenze da alcol e sostanze (la cosiddetta rehab). Come a dire che di questi tempi, a differenza del passato, sia più di moda raccontare i propri percorsi di risalita dagli inferi, piuttosto che fare l’apologia di comportamenti insalubri. Sex, rehab and rock and roll?

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TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE –

 DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD – DIPENDENZE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

 

Le abilità da Bambini Influenzano lo Staus socio-economico da Adulti?

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I partecipanti che avevano migliori abilità di lettura e prestazioni matematiche da bambini, nell’età adulta avevano un reddito più elevato, un migliore alloggio e migliori posti di lavoro.

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Psychological Science, il rendimento in matematica e l’abilità di lettura all’età di 7 anni possono correlare con lo status socioeconomico alcuni decenni più tardi, indipendentemente da intelligenza, dal tipo di educazione e dallo status socioeconomico nell’infanzia.

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Alcuni ricercatori dell’Università di Edimburgo hanno voluto indagare se avere buone prestazioni precoci in matematica e nella lettura potesse correlare con una migliore collocazione socio-economica nell’età adulta.

Nella ricerca sono stati  utilizzati i dati del National Child Development Study, un ampio studio rappresentativo a livello nazionale che ha seguito oltre 17.000 persone in Inghilterra, Scozia e Galles in un arco di circa 50 anni.

 

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I dati hanno rivelato che le abilità di lettura e le competenze matematiche nell’infazia contano davvero. I partecipanti che avevano migliori abilità di lettura e prestazioni matematiche da bambini, nell’età adulta avevano un reddito più elevato, un migliore alloggio e migliori posti di lavoro.

Questi risultati suggeriscono che alcune abilità nell’infanzia, indipendentemente dal livello di intelligenza e dal livello socio-economico familiare nell’infanzia, possono essere rilevanti per tutta la vita.

A questo punto, rimane aperta la questione di quali variabili entrano in gioco a moderare o a mediare tale relazione tra abilità di lettura , prestazioni matematiche e migliore status socio-economico.

LEGGI: 

 INTELLIGENZA – BAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

EMDR e Dissociazione – Intervista ad Annabel Gonzalez

EMDR e Dissociazione:

la Co-consapevolezza nel Dialogo Clinico.

Intervista ad Annabel Gonzalez

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EMDR e Dissociazione - Intervista ad Annabel Gonzalez. - Immagine: © benjamingrafico - Fotolia.com La Co-consapevolezza nel Dialogo Clinico: Questa costruzione è possibile grazie al dialogo costante tra terapeuta e Sé adulto del paziente, nel quale lentamente si inseriscono le altre parti più sofferenti per essere accolte e ascoltate.

Somiglia più ad una “terapia di gruppo”, ci dicono scherzando, in cui ogni decisione va presa in accordo con tutte le parti coinvolte o almeno a tutte comunicata! 

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L’intervento di Annabel Gonzalez e Dolores Mosquera, offre numerosi spunti di riflessione e arricchisce di possibilità nuove il protocollo EMDR più classicamente conosciuto.

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La cornice teorica è quella delle giornate che le hanno precedute: il modello della dissociazione strutturale di van der Hart, in particolare in pazienti con disturbo dissociativo dell’identità (DDI).

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Il cuore del protocollo descritto (Gonzalez e Mosquera, 2012) è il concetto di “self- care”, inteso come un’attitudine dell’individuo costituita da 3 elementi essenziali: 1- una tendenza generale a darsi un valore persona

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le, a considerarsi amabile, 2- l’assenza di comportamenti di “auto-boicottaggio” o autolesivi e 3 – capacità di intraprendere azioni specifiche che producano vantaggio,  crescita personale o che alimentino il valore personale.

Ispirate dal protocollo Loving Eyes (Knipe, 2008), le autrici descrivono la necessità di recuperare ed allenare le capacità di autocura attraverso il diretto coinvolgimento del Sé adulto del paziente nella “presa in carico” delle diverse parti della propria personalità. Pazienti che crescono in un ambiente abusante e minaccioso o di neglect verso i propri bisogni, non riusciranno infatti ad internalizzare modelli operativi  interni di cura di sé (memoria procedurale), faranno fatica cioè a riconoscere e prendersi cura dei propri bisogni, emozioni e sentimenti.

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Il trattamento descritto è molto complesso e caratterizzato da fasi che si susseguono con tempi lunghi, ma necessari a “ricucire lo strappo” provocato dalle sofferenze precoci:

1 Riconoscere le parti del sé dissociate,

2 Comunicare con loro, 

3 Sviluppare empatia verso ognuna di esse, 

4 Collaborare con loro su obiettivi specifici, 

5 Condividere l’interiorità e i bisogni di ognuna, 

6 Co-consapevolezza, riconoscere cioè che ognuna ha emozioni e pensieri autonomi,

7 Co-consapevolezza continuativa (integrazione tra le parti).

L’ambiziosa e affascinante idea generale è che si possano costruire lentamente connessioni via via più fitte tra le diverse parti della personalità dis-integrate, in modo da ristabilire un sufficiente e tollerabile grado di comunicazione tra loro.

Questa costruzione è possibile grazie al dialogo costante tra terapeuta e Sé adulto del paziente, nel quale lentamente si inseriscono le altre parti più sofferenti per essere accolte e ascoltate. Somiglia più ad una “terapia di gruppo”, ci dicono scherzando, in cui ogni decisione va presa in accordo con tutte le parti coinvolte o almeno a tutte comunicata! 

Segue una breve Intervista ad Annabel, che ringrazio per la gentilezza con cui si è resa disponibile al termine dell’ultima, lunga e densissima giornata di lavori.

Nelle prime giornate del convegno abbiamo sentito parlare di terapia sensomotoria e la sensazione immediata è che in alcuni casi sembrerebbe meno rischioso lavorare con la sensorymotor piuttosto che con EMDR. Cosa ne pensa?

Janina Fisher
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Quando si inizia la formazione in EMDR si parte da traumi semplici, mentre con pazienti gravi si parla di traumi complessi. Il punto a mio avviso importante non è solo quanto il paziente è stabilizzato o disregolato, ma piuttosto come adattare la procedura standard a situazioni traumatiche più gravi. In generale penso che mantenere il focus sul corpo sia un fattore di estrema stabilizzazione, se sai come utilizzarlo, poiché i pazienti con i loro sintomi stanno evitando di sentire e di provare determinate emozioni e sensazioni. Anche con la terapia sensomotoria le sensazioni suscitate possono essere molto intense e disturbanti e credo che, allo stesso modo che per l’EMDR, usare la procedura sensomotoria standard, per traumi semplici, possa essere ugualmente rischioso con pazienti dissociativi. 

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Il protocollo da voi descritto sembra utilizzare essenzialmente l’installazione di risorse, come metodo dominante, piuttosto che la procedura EMDR standard di desensibilizzazione da materiale traumatico. Quale caratteristiche generali deve avere la risorsa da installare?

Sì, ma non si tratta proprio di installazione, come nella procedura standard. Lo strumento è la stimolazione bilaterale in sé, come potente strumento di collegamento dei due emisferi e tra le informazioni di cui sono portatori. Non ci sono quindi indicazioni generali per decidere quale sia la risorsa migliore da installare e da “fissare” nella memoria procedurale del paziente, ma piuttosto il target della stimolazione va scelto in base ai nostri obiettivi terapeutici, via via diversi.  Se il nostro obiettivo è incrementare le capacità di self-care e ridurre la fobia verso le parti più emotive e dissociate, allora un buon target sarà, ad esempio, ogni volta che c’è un insight rispetto al suo funzionamento mentale, oppure ogni volta che il paziente ha un’idea costruttiva e funzionale su come accudire la sua parte traumatizzata, oppure ogni volta che sente semplicemente qualcosa in questa direzione (compassione, tenerezza, comprensione,..).

In generale l’obiettivo è rinforzare tutte le volte che la comunicazione del paziente muove verso l’esterno, piuttosto che verso l’interno.

Quali sono le 3 più importanti differenze tra la procedura standard di EMDR e quella da voi descritta per i pazienti dissociativi?

La procedura standard è pensata per lavorare sul trauma direttamente,  mentre il protocollo con i pazienti dissociativi è caratterizzato dalla lenta e progressiva costruzione dei presupposti per arrivare a lavorare sul trauma. Si tratta di un lavoro preparatorio di stabilizzazione, necessario per ridurre le difese rispetto al materiale traumatico. La seconda caratteristica distintiva è che si tratta di un metodo progressivo, basato su fasi successive, tutte necessarie per raggiungere l’integrazione. La terza caratteristica è che il nostro lavoro è centrato sullo sviluppo di strategie di self-care che rendano il paziente in grado di accettare e “aiutare” le parti di sé (EP) più sofferenti. Il nostro referente nel dialogo clinico è sempre il Sé Adulto, con cui collaboriamo attivamente per comprendere come prenderci cura delle altre parti. Infine la mappa di riferimento è quella della dissociazione strutturale, anche se non è propria del modello EMDR.

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Ci è sembrato un modello molto valido, compatibile con l’EMDR ed esplicativo del funzionamento dei pazienti dissociativi, quindi perché non integrarlo..

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LEGGI: 

Eye Movement Desensitization and Reprocessing – EMDR –  TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA – ABUSI E MALTRATTAMENTI – DISSOCIAZIONE – DISTURBO DISSOCIATIVO

BIBLIOGRAFIA:

  • Gonzalez, A & Mosquera, D (2012). EMDR and Disociación: The Progressive Approach. Ed. by Amazon. Spanish edition: EMDR y Disociación: El abordaje progresivo. Ed Pléyades. Madrid.
  • Knipe, J. (2008). Loving Eyes: Procedures for therapeutically reverse Dissociative Disorders while preserving emotionally safety. In Forgash & Copeley (Eds). Healing the Heart of Trauma and Dissociation with EMDR and Ego State Therapy. (DOWNLOAD)

 

Il Giovane Gambero – Recensione

Recensione:

IL GIOVANE GAMBERO

Di Gianni Rodari

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Il Giovane Gambero - Recensione

Un giovane gambero pensò: “Perché nella mia famiglia camminano tutti all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco“. Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.

E’ possibile utilizzare storie, favole, racconti per descrivere aspetti di una psicoterapia, temi centrali del percorso di vita di un individuo, passaggi cruciali che possono determinare un cambiamento nella condizione emotiva del paziente? Probabilmente sì, un esempio e’ rappresentato da “Il Giovane Gambero” di Gianni Rodari, favola semplice che indica ai bambini – solo ai bambini? – il valore dell’esplorazione, dell’autonomia, l’importanza di mantenere vivo un desiderio personale anche quando viene osteggiato da figure familiari controllanti e criticiste. Come si può narrare tutto ciò con le immagini di un bambino? La parola a Gianni Rodari.

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 Un giovane gambero pensò: “Perché nella mia famiglia camminano tutti all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco”. Cominciò a esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica: urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.
Stringimi Forte – Sette Passi Per Una Vita Piena d’Amore – Recensione
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Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse: “State a vedere“. E fece una magnifica corsetta in avanti. “Figlio mio“, scoppiò a piangere la madre, “ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene“. I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare. Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse: “Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua, il ruscello è grande: vattene e non tornare più indietro“.

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Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo. Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea. “Il mondo va a rovescio“, disse una rana, “guardate quel gambero e datemi torto, se potete“. “Non c’è più rispetto“, disse un’altra rana. “Ohibò ohibò” disse una terza.

Ma il gamberetto proseguì dritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto ad un sasso. “Buongiorno“, disse il giovane gambero. Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: “Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua piuttosto che rivolgermi la parola. Finché sei in tempo, dai retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio“.

Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: “Ho ragione io“. E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino. Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora viaggiando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: “Buon viaggio!“.

 

 

LEGGI:

 BAMBINI –  FAMIGLIA

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BIBLIOGRAFIA: 

Rodari, G. (2004), Il Giovane Gambero, Fabbri Editore

 

 

La CBT per la Prevenzione delle Psicosi

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Attraverso la CBT per la prevenzione delle psicosi, i giovani pazienti imparano una serie di strategie che possono utilizzare per ridurre il loro disagio ponendo un forte accento sulla gestione del sintomo in un’ottica di normalizzazione e de-stigmatizzazione.

 

 

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI - RECENSIONI
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Una meta-analisi pubblicata su Psychological Medicine supporta la terapia cognitivo-comportamentale come approccio in grado di ridurre in modo significativo la probabilità di sviluppare psicosi in giovani valutati ad alto rischio di esordio psicotico.

 

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Secondo la review dell’Università di Manchester  – che ha analizzato diversi studi per un totale di 800 soggetti- il rischio di sviluppare psicosi è più che dimezzato nei ragazzi ad alto rischio trattati con CBT (cognitive behavioural therapy) e valutati a 6, 12 e 18-24 mesi dopo l’inizio del trattamento.

 

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Attraverso la CBT per la prevenzione delle psicosi, i giovani pazienti imparano una serie di strategie che possono utilizzare per ridurre il loro disagio ponendo un forte accento sulla gestione del sintomo in un’ottica di normalizzazione e de-stigmatizzazione. La ricerca va a confermare una serie di lavori già supportanti la CBT per la prevenzione degli esordi psicotici in pazienti giovani.

L’Università di Manchester lavora a stretto contatto con Greater Manchester West Mental Health NHS Foundation Trust, che ha al suo interno una clinica specializzata nella prevenzione delle psicosi nel Regno Unito.

La clinica permette ai giovani a rischio di psicosi valutazioni iniziali periodiche, l’accesso a CBT e la gestione integrata dei casi secondo il modello del case-management.

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PSICOSI –  PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom (2006) – Recensione

 

RECENSIONE DEL LIBRO:

Le lacrime di Nietzche

(2006)

di Irvin Yalom 

Neri Pozza Ed. 

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Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom - Recensione
Le lacrime di Nietzche, Irvin Yalom (2006).

La storia racconta del rapporto, puramente ipotetico e di fantasia, tra Joseph Breuer e Frederick Nietzche. Breuer curerà le emicranie del filosofo e l’altro ascolterà le ansie e le preoccupazioni del medico, inquadrandole con suggerimenti filosofici o pedagogici, una sorta di consulenza filosofica.

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L’autore, Irvin Yalom, è uno psichiatra-scrittore statunitense noto per aver sviluppato un modello di psicoterapia di gruppo nell’ambito dell’analisi esistenziale, nonchè una visione originale e creativa della relazione tra psicoterapeuta e paziente.

La storia racconta del rapporto, puramente ipotetico e di fantasia, tra Joseph Breuer e Frederick Nietzche.

Siamo nel 1882 Breuer, geniale medico viennese, a quarant’anni è all’apice della sua carriera e notorietà, famoso per le dettagliate anamnesi cliniche ed altrettanto accurate diagnosi e medico di fiducia di alcuni noti personaggi dell’epoca.

Viene avvicinato, durante una vacanza, da una giovanissima e molto affascinante Lou Salome, con la richiesta di occuparsi di un caro amico, Frederick Nietzche, promettente filosofo tedesco non ancora famoso, prostrato da sintomi di vario genere tra cui febbri, emicranie, nausea, insonnia e problemi di vista, che compromettono pesantemente il suo benessere.

E’ stato visitato, senza alcun risultato, da molti dei più illustri medici dell’epoca.

Le Sorgenti del Male di _Zygmunt Bauman - Recensione
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Breuer è titubante, ancor più quando la donna afferma che Nietzche è afflitto da “profonda disperazione” e, oltretutto, molto restio a curarsi a causa di un carattere chiuso e diffidente.

Per la disperazione non vi è medicina” afferma Breuer con convinzione ma poi, la curiosità del clinico prende il sopravvento e, infine, accetta di visitare questo paziente così difficile.

Il medico ha già esperienza della “cura attraverso le parole” avendo avuto in trattamento per diverso tempo Bertha Pappenheim, celebre paziente con diagnosi di isteria che sarà successivamente trattata anche da Sigmund Freud. Questa cura consiste nell’aiutare il paziente a ricordare, con l’ipnosi, il trauma psichico dimenticato, allo scopo di risolvere il sintomo.

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Così i due si incontrano e, lentamente, prende forma la loro relazione: Breuer intuisce che Nietzche non si lascerebbe mai coinvolgere da una cura percepita come sottomissione o diminuzione della sua potenza, convinto com’è che i rapporti interpersonali siano governati dall’agonismo e dalla competizione e che, desiderio profondo e inconfessato di ognuno, sia quello di dominare e accrescere la propria forza.

Breuer si accorge di trovarsi in una situazione paradossale: vuole conquistare la fiducia del paziente ma, proprio se agisce in maniera comprensiva o curativa nei suoi confronti, questi lo accuserà di volergli imporre la sua volontà. 

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Consapevole della profonda paura di Nietzche di essere schiacciato nell’angolo della sottomissione e del profondo senso di solitudine che una tale idea delle relazioni umane comporti, Breuer ha un’idea a dir poco rivoluzionaria e propone al paziente un rapporto paritario: lui curerà le emicranie del filosofo e l’altro ascolterà le ansie e le preoccupazioni del medico, inquadrandole con suggerimenti filosofici o pedagogici, una sorta di consulenza filosofica.

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Lo scopo del medico è persuadere Nietzche ad impegnarsi in una cura basata sul parlare, spingerlo ad uscire fuori dalla sua solitudine, a fidarsi di qualcuno tanto da condividere la propria disperazione.

Per arrivare a questo Breuer comprende che l’altro deve rassicurarsi sulla relazione tra loro due e che questo potrà accadere nella misura in cui il filosofo penserà che il loro rapporto è reciproco tanto nel dare quanto nel ricevere. Il medico vestirà i panni del paziente, confesserà le proprie ansie e si porrà come modello di franca apertura di sè per far sperimentare all’altro che “non succede alcun orrore“.

(…) devo convincerlo che mi sta aiutando e intanto invertire in maniera impercettibile i ruoli fino a far ridiventare lui il paziente e tornare ad essere io il medico” (pg. 222).

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Così, in un dialogo coinvolgente e serrato, dove i ruoli continuamente si invertono e si confondono, a poco a poco si costruisce un’intimità tra i due che andrà oltre le aspettative iniziali. Le pagine scorrono, riservate alle riflessioni di Breuer sul paziente Nietzche e, simmetricamente, alle annotazioni del filosofo su quella strana figura di medico.

Breuer si accorge che, quella che all’inizio era solo una strategia terapeutica, diventa per lui una vera necessità di confidarsi con qualcuno e che lui, uomo virtuoso ed esemplare, è tuttavia oppresso dalle convenzioni della vita borghese cui appartiene e profondamente turbato da alcuni suoi affetti.

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Nietzche, da parte sua,  nel tentativo di trovare soluzioni e comprensione ai problemi del suo medico, finalmente riuscirà a comunicare a qualcuno il suo profondo dolore e, forse, a sentire un minimo di fiducia per un altro essere umano.

Scrittura ricca di spunti e non convenzionale, che spinge alla riflessione sulla specificità della relazione terapeutica e su quanto, nel percorso di cura, essa sia ingrediente essenziale per permettere un’apertura di sè finalizzata alla comprensione.

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Si rimane colpiti in più punti: l’accuratezza clinica della diagnosi, l’attenzione quasi amorevole al paziente e al suo bisogno di stare meglio, anche quando non è urlato ma a mala pena sussurrato, la disponibilità a mettersi in gioco in prima persona e a verificare ipotesi di trattamento, l’entusiasmo ed il coraggio di questi primi “medici dell’anima” che avevano intuizioni cliniche e la necessaria curiosità di comprendere il rapporto tra chi cura e chi viene curato.

Dello stesso autore e altrettanto interessanti, La cura Schopenauer e Il problema Spinoza, i tre libri attraversati tutti da una riflessione acuta e personalissima della relazione terapeutica.

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 ALLEANZA TERAPEUTICA –  LETTURATURA – PSICOLOGIA & FILOSOFIA –  IN TERAPIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Stile Cognitivo Depressogeno: Aiutare le Madri per Proteggere i Figli

 

Di Dario Catania

 

Stile Cognitivo Depressogeno: aiutare le madri per proteggere i figli. -Immagine: © Konstantin Yuganov - Fotolia.com

Lo stile cognitivo depressogeno è un marker della depressione per cui l’associazione tra stile cognitivo delle madri e dei figli, riflette l’associazione tra depressione materna e depressione della prole.

Inoltre, lo stile cognitivo depressogeno materno è stato associato con il medesimo stile cognitivo nella prole, indipendentemente dalla presenza di depressione materna.

La depressione è una delle patologie psichiatriche più frequenti e una delle principali cause di disabilità al mondo. Nella XX edizione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, organizzata il 10 ottobre dello scorso anno dalla World Federation for Mental Health, la Depressione è stata definita “una crisi globale”.

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I Disturbi Depressivi colpiscono infatti più di 350 milioni di persone, di tutte le età e in ogni comunità, rappresentando uno dei principali responsabili del carico globale di malattia; nonostante esistano trattamenti efficaci per questi disturbi, in alcuni paesi meno del 10% delle persone affette riceve cure adeguate. Nei Paesi sviluppati l’attuale crisi economica ha generato un aumento della disoccupazione, dei debiti, del senso di insicurezza; ciò ha provocato un aumento di incidenza di questi disturbi.

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La Depressione è oggi considerata  una patologia multifattoriale caratterizzata da una vulnerabilità che limita significativamente le capacità di padroneggiare stati problematici, spesso associati ad esperienze di vita avverse o stressanti.

Evitare il verificarsi di eventi avversi e situazioni stressanti che possono funzionare da eventi scatenanti è di fatto impossibile ed è per questo che la prevenzione primaria dei disturbi depressivi deve orientarsi in altra direzione; una  potrebbe essere  l’intervento sui processi cognitivi di attribuzione di significati ed interpretazioni negative ad eventi avversi e situazioni stressanti che possono presentarsi nella vita di ciascuno.

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Come è noto da tempo, la teoria cognitiva di Beck sulla depressione suggerisce che alla base dei disturbi depressivi vi sia la presenza di un sistema di credenze negative riferite a se stessi, al mondo e al futuro.

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Ulteriori osservazioni hanno evidenziato l’importanza di alcuni bias cognitivi come ad esempio un’attenzione selettiva per gli stimoli negativi, riscontrata spesso in soggetti con vulnerabilità ai disturbi dell’umore o depressi. Altri studi si sono soffermati sulle modalità con cui gli individui attribuiscono un significato agli eventi, tentando di definire un possibile stile attribuzionale nei pazienti con vulnerabilità alla depressione o con diagnosi conclamata del disturbo.

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I risultati concordano sul fatto che lo stile esplicativo degli eventi negativi utilizzato dai pazienti depressi è di tipo interno-stabile-globale, ossia caratterizzato dalla combinazione di alcune dimensioni in quelle che sono le tipiche credenze dei pazienti e riportate nelle seguenti proposizioni:

– “la causa dell’evento negativo dipende da me e non dagli altri o dall’ambiente” (interno);

– “anche gli altri eventi negativi che mi sono già capitati o i possibili eventi negativi futuri, dipendevano o dipenderanno certamente da me” (stabile);

– “questo mio modo di essere e di affrontare gli eventi, influenza tutti i principali aspetti della mia vita” (globale)

Questo stile attribuzionale disfunzionale è stato definito da diversi autori come stile cognitivo depressogeno. Diverse ricerche hanno dimostrato che soggetti con vulnerabilità alla depressione presentano uno stile cognitivo depressogeno preesistente, ossia uno stile attribuzionale interno-stabile-globale, che favorisce l’insorgenza della depressione e contribuisce al mantenimento dei sintomi. Lo stile cognitivo depressogeno, per tali ragioni, rappresenta uno dei principali obiettivi terapeutici della psicoterapia cognitivo-comportamentale della depressione.

Uno stile cognitivo depressogeno può essere determinato sia da fattori genetici e sia da fattori ambientali; le correlazioni tra questo stile attribuzionale disfunzionale e un particolare pattern genetico sono esigue, per cui si ritiene che sia soprattutto l’ambiente a poter influenzare lo strutturarsi di questo stile esplicativo.

In particolare uno stile cognitivo negativo o depressogeno può svilupparsi attraverso le spiegazioni di eventi fornite dai caregiver, particolarmente dalle madri. Diversi studi hanno suggerito che il feedback negativo e critico materno è associato alla comparsa di uno stile cognitivo depressogeno nella prole. Lo stile cognitivo materno potrebbe fornire un modello per il bambino da imitare: l’osservazione delle inferenze che le proprie madri fanno su se stesse e sugli eventi di vita, diventano per i bambini gli elementi su cui costruire il proprio stile attribuzionale.

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Esistono alcune obiezioni teoriche a quanto appena detto, poiché è possibile che una madre non esprima sempre in modo sufficientemente chiaro nei suoi comportamenti le credenze negative su di sé, anzi talvolta può tentare, con alcuni atteggiamenti, di dissimularle. In secondo luogo è possibile che il bambino utilizzi delle attribuzioni della madre per giungere a conclusioni diametralmente opposte; ad esempio se la madre fa una attribuzione esterna alle sue disgrazie, incolpando il figlio, il bambino può imparare sia ad essere critico con se stesso (attribuzione interna), sia ad esserlo con la madre (attribuzione esterna).

Bisogna inoltre riflettere sulla magnitudo dei dati: un’associazione statistica tra due fenomeni, in questo caso lo stile cognitivo depressogeno delle madri e quello dei rispettivi figli, permette di affermare che le 2 variabili possono, con una certa regolarità, corrispondere, anche se ciò non vale sempre. Esistono situazioni in cui lo stile cognitivo delle madri non influenza i bambini, probabilmente per l’intervento di fattori genetici, ambientali o di personalità non ancora sufficientemente studiati. A questo proposito e a sostegno di quanto detto, esistono studi che non sono riusciti a trovare alcuna correlazione.

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L’incongruenza di questi risultati è probabilmente dovuta al fatto che tali ricerche erano tutte di tipo cross-sectional, ossia in grado di fotografare la situazione attuale senza effettuare analisi longitudinali nel tempo, oppure effettuati su campioni numericamente molto esigui e limitati all’infanzia e alla prima adolescenza.

Infine non è chiaro se l’associazione tra stile cognitivo materno e della prole è indipendente dalla depressione materna, ossia se una madre senza depressione con uno stile cognitivo depressogeno può influenzare la comparsa dello stesso stile cognitivo nei figli.

Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e colleghi- Congresso Terapia Metacognitiva per la depressione. Conduce il Dott. Costas Papageorgiou. - Immagine: © 2012 Alessandro Boldrini
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Nello studio condotto da Rebecca Pearson e collaboratori, pubblicato sullo scorso numero di Aprile dell’American Journal of Psychiatry, si è cercato di chiarire l’associazione tra stile cognitivo materno, misurato durante la gravidanza, e stile cognitivo della rispettiva prole, misurato 18 anni più tardi. La ricerca ha coinvolto una popolazione di oltre 4000 famiglie, già reclutate in uno studio longitudinale effettuato nel Regno Unito (ALSPACK), agli inizi degli anni 90.

Lo stile cognitivo della prole è stato valutato con la versione ridotta della CSQ (Cognitive Style Questionnaire) somministrato al diciottesimo anno di vita. Il CSQ nella versione ridotta presenta 8 ipotetiche situazioni di vita; ai partecipanti viene richiesto di immaginarsi in quella situazione e di pensare alle reazioni legate agli eventi e di attribuire un punteggio legato alle dimensioni precedentemente illustrate (punteggi più elevati correlano con uno stile cognitivo negativo). Lo stile cognitivo materno durante la gravidanza è stato valutato in diciottesima settimana di gestazione utilizzando alcuni item della Dysfunctional Attitudes Scale. Per valutare la presenza di un disturbo depressivo nelle madri e nei figli di 18 anni sono stati utilizzati rispettivamente la Edinburgh Postnatal Depression Scale, per le madri, e la Clinical Interview Schedule–Revised, per i figli.

L’analisi dei numerosi dati ottenuti ha mostrato che un aumento di una deviazione standard nel punteggio relativo allo stile cognitivo depressogeno materno durante la gravidanza era significativamente associato ad un incremento medio di 0,1 deviazioni standard nel punteggio relativo allo stile cognitivo depressogeno della prole, all’età di 18 anni; ciò dimostra un’associazione positiva tra stili cognitivi depressogeni delle madri e quelli dei rispettivi figli.

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Il risultato è rimasto invariato anche dopo aver corretto i dati rispetto alla presenza di depressione nelle madri e nei figli; l’associazione tra stile cognitivo delle madri e della rispettiva prole spiega il 21% dei casi in cui si riscontra un’associazione positiva tra depressione materna e depressione dei figli.

In altre parole lo stile cognitivo depressogeno è un marker della depressione per cui l’associazione tra stile cognitivo delle madri e dei figli, riflette l’associazione tra depressione materna e depressione della prole. Inoltre, lo stile cognitivo depressogeno materno è stato associato con il medesimo stile cognitivo nella prole, indipendentemente dalla presenza di depressione materna. Quest’ultimo risultato permette di ipotizzare che un intervento effettuato sullo stile cognitivo negativo di madri non depresse può rappresentare un potenziale obiettivo per la prevenzione di una possibile futura depressione dei figli in età adulta. 

Gli autori dell’articolo suggeriscono due possibili strategie che potrebbero impedire la trasmissione di stili cognitivi disfunzionali. Una prima, potrebbe essere quella di modificare lo stile cognitivo depressogeno delle madri con interventi di tipo psicoterapeutico; la terapia cognitiva è stata progettata per modificare gli stili cognitivi, e l’evidenza suggerisce che ha una duratura influenza positiva sullo stile cognitivo.

Altri interventi potrebbero essere indirizzati a prevenire la possibile trasmissione dello stile cognitivo negativo tra madre e figlio, modificando il tipo d’interazione tra i due. Per esempio interventi di video feedback possono aiutare a modulare comportamenti e atteggiamenti che esprimono tale stile cognitivo disfunzionale: una madre che si sente sempre criticata può percepire che — e agire come se — suo figlio fosse critico verso di lei; d’altro canto i bambini a cui vengono attribuiti pensieri negativi e critici possono arrivare a credere di essere persone negative o sbagliate. In questi casi, gli interventi potrebbero essere indirizzati verso il miglioramento della consapevolezza della madre dei processi mentali del bambino. Ad esempio, focalizzando l’attenzione di una madre dal monitoraggio dei propri stati mentali al monitoraggio degli stati mentali del bambino, si può favorire una sintonia e una interazione più appropriata alle esigenze del bambino. 

Leonard Cohen: Guarire dalla Depressione Cronica. - Immagine: © Italpress.
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Uno dei punti di forza dello studio è sicuramente la numerosità del campione e il follow-up a 18 anni eseguito sui figli; uno dei limiti, sicuramente il fatto che lo stile cognitivo nelle madri e nei figli è stato effettuato utilizzando strumenti diversi anche se sufficientemente validati. Lo studio certamente non risponde ad alcune domande che rimangono ancora aperte: lo stile cognitivo materno si mantiene stabile per tutta la vita del bambino? C’è un periodo nello sviluppo del bambino in cui il rischio di una trasmissione dello stile cognitivo negativo è più probabile? Una correlazione tra 2 variabili non è in grado di stabilire un rapporto di causa-effetto tra loro, pur dimostrando la tendenza del variare di una in funzione dell’altra; come già detto, questo significa che tra lo stile cognitivo negativo di madri e figli esiste un qualche legame diretto o indiretto, anche se non si può affermare che il primo determini il secondo. Perché alcuni bambini non vengono influenzati dallo stile attribuzionale delle loro madri? Quali sono i fattori di protezione che impediscono alla prole di apprendere questi stili cognitivi?

Lo studio della Pearson, come già detto, non risolve tutti i quesiti lasciando ampio spazio ad ulteriori interessanti ricerche, tuttavia i risultati suggeriscono un possibile percorso preventivo dei Disturbi dell’Umore, la cui efficacia, anche se ancora non dimostrata, sembra davvero promettente.

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 DEPRESSIONE – PSICOTERAPIA COGNITIVA –  DISTURBI DELL’UMORE – BAMBINI – BIAS – EURISTICHE – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Memoria e Percezione degli Eventi: Correlazioni?

FLASH NEWS

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Gli adulti più anziani possono avere difficoltà nel ricordare gli eventi di tutti i giorni perché  sarebbe disfunzionale il processo di segmentazione dell’esperienza continua in eventi discreti.

Alcuni problemi di memoria comunemente riscontrati possono derivare da una incapacità di segmentare la vita quotidiana in esperienze discrete, secondo un nuovo studio pubblicato su Psychological Science.

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Lo studio suggerisce che i problemi di elaborazione degli eventi quotidiani possono essere il risultato di un’atrofia senile di una porzione del cervello chiamata lobo temporale mediale (MTL).

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I ricercatori hanno ipotizzato che gli adulti più anziani possono avere difficoltà nel ricordare gli eventi di tutti i giorni perché  sarebbe disfunzionale il processo di segmentazione dell’esperienza continua in eventi discreti.

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Nello studio, ai soggetti sono stati presentati brevi filmati di persone impegnate in attività quotidiane, come ad esempio una donna che fa la prima colazione o un uomo che costruisce una nave con i Lego. E’ stato quindi richiesto di dividere il filmato in singoli blocchi, premendo un pulsante ogni volta che ritenevano stesse terminando un’attività e iniziandone un’altra.

In seguito, è stato chiesto loro di ricordare ciò che era accaduto nei filmati e ed è stata effettuata una risonanza magnetica strutturale (MRI) sul cervello dei soggetti coinvolti.

Secondo lo studio i soggetti con minori prestazioni mnestiche presentavano atrofia del Lobo temporale mediale e prestazioni deficitarie nella segmentazione discreta degli eventi quotidiani.

Ricerche future potrebbero ulteriormente approfondire questo interessante legame tra la percezione degli eventi e la memoria.

LEGGI: 

MEMORIA – TERZA ETA’ – NEUROPSICOLOGIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

DSM 5 in Italiano per Raffaello Cortina Editore.

Raffaello Cortina

Nuovo Editore del DSM in Italia

 DSM 5 Cover

Raffaello Cortina Editore ha acquisito i diritti per la traduzione italiana del DSM-5, nuova edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, appena pubblicato negli Stati Uniti.

L’uscita è prevista nei primi mesi del 2014.

Questa nuova edizione del DSM-5, usata da clinici e ricercatori per diagnosticare e classificare i disturbi mentali, è il prodotto di più di 10 anni di sforzi da parte di esperti internazionali specializzati nel campo della salute mentale. Questo manuale, che crea un linguaggio comune per i clinici coinvolti nella diagnosi dei disturbi mentali, include concisi e specifici criteri che vogliono facilitare un’oggettiva valutazione dei sintomi in una varietà di setting clinici.

Successivamente verranno tradotte le pubblicazioni correlate:

Desk Reference to the Diagnostic Criteria from DSM-5
The Pocket Guide to the DSM-5 Diagnostic Exam
DSM-5 Guidebook
DSM-5 Self-Exam Questions
DSM-5 Clinical Cases
DSM-5 Handbook of Differential Diagnosis
Study Guide to DSM-5

 

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DSM-5 DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS

PRENOTA ADESSO COL 20% DI SCONTO SU LIBRERIA CORTINA

A INIZIO 2014 ANCHE IN ITALIANO PER RAFFAELLO CORTINA EDITORE

Colloquio Psicologico: La Conclusione del Colloquio#8

Colloquio Psicologico:

La Conclusione del Colloquio – Parte 8

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6 – PARTE 7

Colloquio Psicologico: la Consclusione del Colloquio#8 . - Immagine: © WavebreakmediaMicro - Fotolia.comUna parte di fondamentale importanza del colloquio psicologico è la sua conclusione riguardo alla quale il terapeuta deve prendere appropriati provvedimenti. È importante che lo psicologo tenga sotto controllo lo scorrere del tempo, senza però apparire distratto, e inizi ad avviare le procedure di conclusione qualche minuto prima della fine effettiva della sessione.

 

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In questi minuti deve ricapitolare ciò che è stato detto nel corso del colloquio, la definizione del problema e degli obiettivi raggiunti tramite la negoziazione, riprendere e riassumere il problema di cui si stava parlando, dare eventuali compiti a casa ed accertarsi che siano stati capiti con chiarezza, chiarire quali sono i punti che devono essere ancora affrontati e fissare l’incontro successivo.

 

In treatment Italiano: una Visione d’Insieme
Articolo Consigliato: In treatment Italiano: una Visione d’Insieme

Al termine del primo colloquio non si deve sperare di aver risolto tutto, è già un ottimo obiettivo raggiunto che il cliente abbia maggior confidenza con sé stesso e abbia accettato l’idea di avere parte della responsabilità del proprio problema.

Spesso i clienti tendono a prolungare il colloquio oltre il tempo prestabilito presentando nuove informazioni, di solito le più sconvolgenti, verso o oltre la fine del tempo. Il counselor deve impedire queste situazioni portando alla conclusione il colloquio senza concedere ulteriore tempo e rinviare tutte queste discussioni alle sessioni successive.

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 Quando il cliente è un gruppo o una famiglia le sedute sono più lunghe ed è necessario prendersi più tempo per la conclusione.

Il counselor lascia la parola a ciascuno dei clienti perché possa esporre le proprie riflessioni finali e dopo di ché riassume i punti ancora irrisolti e quelli in cui si è trovata una base d’accordo su cui lavorare.

In questi casi è fondamentale attenersi alle regole e non soffermarsi con nessuno dei membri della famiglia.

 

LEGGI: 

COLLOQUIO PSICOLOGICO –  IN TERAPIA 

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Disturbo da Attacchi di Panico: Il ruolo della Terapia di Mantenimento

 

 

 

Disturbo da Attacchi di Panico- Il ruolo della Terapia di Mantenimento. -Immagine: © NinaMalyna - Fotolia.comUna terapia di Mantenimento (M-CBT) applicata in seguito alla CBT in fase acuta per il Disturbo di Panico con Agorafobia (DP/A), permette di mantenere i risultati ottenuti con la CBT fino a 21 mesi dalla fine del trattamento, previene le ricadute e riduce la compromissione del funzionamento sociale e lavorativo in pazienti che avevano precedentemente risposto alla CBT in fase acuta.

Il disturbo da Attacchi di Panico è molto diffuso tra la popolazione generale e comporta un alto grado di severità clinica, un alto rischio di cronicizzazione e di disabilità, elevati costi sociosanitari e una globale riduzione della qualità della vita di chi ne è affetto.

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Nel Disturbo da Attacchi di Panico è ampiamente dimostrata l’efficacia sperimentale della terapia Cognitivo-Comportamentale (Telch et al., 1993; Roth & Fonagy, 1996; Bakker et al., 1998; Craske, 1997; Murphy et al. 1998; Goldberg, 1998; Arnz, 2002; Ost et al., 2004) dove le tecniche di esposizione agli stimoli somatici temuti (ad esempio tachicardia o difficoltà a respirare) o alle situazioni evitate (ad esempio prendere la metro o il treno) vengono aggiunte a quelle della terapia cognitiva standard (psicoeducazione sul disturbo, ristrutturazione cognitiva delle interpretazioni catastrofiche come ad esempio “potrei morire o impazzire”, rilassamento muscolare progressivo e tecniche di respirazione).

Psicoterapia: Disputing panico prima parte. - Immagine: © ArTo - Fotolia.com
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Tali trattamenti sono efficaci anche se effettuati in setting di gruppo (Telch et al., 1993; Evans et al.,1991; Galassi et al., 2007; Cosentino et al., 2008) e su pazienti resistenti ai trattamenti farmacologici (Held at al., 2003), tanto da essere considerati dalle principali linee guida internazionali fra i trattamenti elettivi di prima scelta per il Disturbo di Panico (APA,1998; OMS, 2000).

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Tuttavia al momento non risulta ben chiaro come, perché e in quali casi gli esiti della Terapia Cognitivo-Comportamentale sono mantenuti a lungo termine. Anche se tali risultati hanno messo in evidenza che il trattamento CBT è risultato efficace anche in presenza di comorbidità con un altro disturbo, tale risultato può non essere è mantenuto a lungo termine. Al momento ci sono pochi studi che si sono concentrati sull’analisi delle variabili coinvolte nelle ricadute nel Disturbo di Panico che tra l’altro presentano dei risultati tra loro contrastanti (per approfondimenti: Heldt et al, 2003; Dow et al., 2007; Brown et al. 1995). Come è possibile allora far si che gli esiti della terapia siano mantenuti oltre 12 mesi dalla fine del trattamento?

Un recente studio fornisce una risposta. White et al. (2013) hanno messo in evidenza che una terapia di Mantenimento (M-CBT) applicata in seguito alla CBT in fase acuta per il Disturbo di Panico con Agorafobia (DP/A), permette di mantenere i risultati ottenuti con la CBT fino a 21 mesi dalla fine del trattamento, previene le ricadute e riduce la compromissione del funzionamento sociale e lavorativo in pazienti che avevano precedentemente risposto alla CBT in fase acuta.

 Nello studio sono stati esaminati 256 pazienti che per tutta la durata dello studio non hanno assunto terapia farmacologica  o effettuato psicoterapie concomitanti.

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Di questi sono stati poi selezionati 157 pazienti, che hanno risposto alla CBT in fase acuta e che erano disponibili per la ricerca. I pazienti sono poi stati successivamente assegnati ad una delle due condizioni dello studio: M-CBT o solo condizione di valutazione (gruppo di controllo).

La terapia di mantenimento (M-CBT) è consistita in 9 sessioni individuali di terapia a cadenza mensile della durata di 45-60 minuti, durante i quali i terapeuti addestrati al protocollo M-CBT  (Spiegel & Baker, 1999)  hanno incoraggiato i pazienti a continuare ad applicare le tecniche di gestione dei sintomi appresi durante la CBT in fase acuta, hanno loro insegnato strategie per la prevenzione delle ricadute e migliorato le loro capacità di gestione dello stress. Per i pazienti che avevano sintomi residui sia somatici che di evitamento agorafobico i terapeuti hanno in aggiunta continuato il lavoro di ristrutturazione cognitiva e di esposizione enterocettiva e/o in vivo.

Help me get down! La Rockstar e la paura di volare . Immagine: Costanza Prinetti 2013
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Questi dati sono importanti per le implicazioni cliniche e di ricerca, nonché per l’efficacia a lungo termine della CBT per il DP/A poiché i risultati hanno messo in evidenza che il gruppo trattato con M-CBT aveva minori tassi di ricaduta rispetto a quello di controllo.

Tuttavia sono necessarie ulteriori ricerche per isolare la presenza di eventuali altri fattori che possono aver contribuito in maniera non specifica al mantenimento dei risultati raggiunti; inoltre sarebbe opportuno valutare longitudinalmente la durata della M-CBT oltre i 21 mesi dalla fine del trattamento.

Nel frattempo è dunque possibile affermare che una terapia cognitivo-comportamentale unita ad una terapia di mantenimento sia al momento la terapia d’elezione per la cura del Disturbo di Panico con Agorafobia.

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PANICO – PSICOTERAPIA COGNITIVA – EVITAMENTO – ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Cosa Determina la Differenza tra Prestazioni Buone e Ottimali?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo gli studiosi, l’esercizio renderebbe conto soltanto di un terzo delle differenze prestazionali nella musica e negli scacchi. E dunque cosa fa il resto della differenza? Sulla base della letteratura I ricercatori fanno riferimento all’intelligenza, all’età di inizio dell’attività e alla funzionalità della memoria di lavoro in quanto fattori in grado di discriminare tra prestazioni buone e ottime. 

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Una nuova ricerca della Michigan State University ha scoperto che anche una gran quantità di pratica ed esercizio non basta a spiegare perchè le persone raggiungono diversi livelli di expertise e prestazioni ottimali. 

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Anche da osservazioni comuni è noto che alcune persone raggiungono ottimi livelli di performance senza grandi sforzi in termini di esercizio, mentre altri falliscono nonostante molta pratica.

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I ricercatori hanno analizzato 14 studi effettuati su giocatori di scacchi e musicisti, con l’obiettivo di capire quanto la pratica e l’esercizio effettivamente potesse fare la differenza in termini di performance.

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Secondo gli studiosi, l’esercizio renderebbe conto soltanto di un terzo delle differenze prestazionali nella musica e negli scacchi. E dunque cosa fa il resto della differenza?

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Sulla base della letteratura I ricercatori fanno riferimento all’intelligenza, all’età di inizio dell’attività e alla funzionalità della memoria di lavoro in quanto fattori in grado di discriminare tra prestazioni buone e ottime. 

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 MEMORIA DI LAVORO –  INTELLIGENZA 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Learning by Looking. The Case for Visual-Perceptual Repetition Priming

 

Annalisa Banzi (1), Raffaella Folgieri (2)

(1) Institute of Communication and Behaviour “Giampaolo Fabris” IULM University, via Carlo Bo, 8, 20143 Milan – Italy

(2) Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche Università degli Studi di Milano, via Conservatorio, 7, 20123 Milan – Italy

 

 

Abstract.

Sometimes scholars complain that students and lay public are not able to watch an artistic exhibit displayed in a museum of fine arts. Watching is a learned skill that is neither innate nor spontaneous. Onlookers would benefit from a method that may enhance their visual skills. The goal of this paper is to assess whether a model based on visual-perceptual priming, a kind of implicit memory, may improve the methodology of looking. In this work we also present some preliminary results of a new promising approach consisting in analysing subjects’ brain signals collected by an EEG-based device during the verification phase of the performed experiment.

 

Keywords.

Education, Implicit Memory, Learning, Museum Visitor, Museum of Fine Arts, Museum Studies, Priming, Lay Public, EEG, Brain Computer Interface, BCI device.

We all look at the same things, yet see different things.

Claude Monet

 

Learning-by-Looking.-The-Case-for-Visual-Perceptual-Repetition-Priming. -Immagine: © Banana Republic - Fotolia.com The structure of the forthcoming paper is divided into three main parts. The first part provides an introduction to visual skills and visual literacy in order to select the major features required. A few methodologies used in the museum environment to improve observational skills are outlined. The second part investigates what is priming and why priming may be useful in the museum environment. Finally, we discuss how visual-perceptual priming may enhance the museum experience. The purpose of this paper is to focus on visual-perceptual priming as a means to promote visual skills development.

 

1. Visual Literacy and Visual Skills 

Visual Literacy, as first devised by John Debes (one of the most important figures in the history of the International Visual Literacy Association), refers to:

 

A group of vision-competencies a human being can develop by seeing and at the same time having and integrating other sensory experiences. The development of these competencies is fundamental to normal human learning. When developed, they enable a visually literate person to discriminate and interpret the visible actions, objects, symbols, natural or man-made, that he encounters in his environment. Through the creative use of these competencies, he is able to communicate with others. Through the appreciative use of these competencies, he is able to comprehend and enjoy the masterworks of visual communication. (Debes, 1969)

Sinatra (1986) states that Visual Literacy is “the active reconstruction of past visual experience with incoming visual messages to obtain meaning” (p. 5). He stresses the learner role in creating recognition.

Visual Literacy, according to Wileman (1993), is “the ability to read, interpret, and understand information presented in pictorial or graphic images” (p. 114). Visual Thinking is “the ability to turn information of all types into pictures, graphics, or forms that help communicate the information” (p. 114). Visual Literacy is “the learned ability to interpret visual messages accurately and to create such messages” (Heinich et Al., 1999, p. 64).

Kleinman and Dwyer (1999) analyse specific visual skills effects to facilitate learning. For instance, the use of colour graphics in instructional modules, as opposed to black and white graphics, improve learning.

Visual skills are not to be confused with vision, colour vision, disease, and various anomalies. Visual perceptual motor skills and ocular motor skills are the main visual skills categories. These skills are developed after birth. Visual perceptual motor skills process visual information and affect eye/body movements. They encompass abilities such as visual memory, visual-spatial (e.g., mapping locations), visual analysis (e.g., discriminating), visual-motor coordination, visual-auditory integration (e.g., matching sound and image), and visualization. Ocular motor skills involve eye movements control and focus control.

Rueschoff and Swart (1969) single out the major visual skills that children should develop by means of educational program:

 

  • the ability to see the individual art elements and application of principle;
  • the ability to see the art elements and principles, as applied, within the context of the image or environment;
  • the ability to assign meaning to the elements and principles within the context of the thing seen;
  • the ability to see conflicts between and among the elements and principles, and to understand the inherent meaning;
  • the ability to separate subject matter from content.

 

Lay public should develop or foster these visual skills. Rountree, Wong and Hannah (2002) are correct when they explain that learning to look  involves developing the skill of Visual Literacy. Namely, the modality of looking at objects and understanding the effect of what we see. Beholders should learn to set aside personal and cultural preconceptions and to share the meaning of visual forms “at some level of universality” (DeLong, 1987, p. 3).

 

1. 1.1    Learning to Look. Gathering Meanings through Observation

Michael Baxandall in the introduction of Patterns of intention: on the historical explanation of picture (Baxandall, 1986) explains how we look at an artwork:

When scanning a picture we get a first general sense of a whole very quickly, but this is imprecise; and since vision is clearest and sharpest on the foveal axis of vision, we move the eye over the picture, scanning it with a succession of rapid fixation. The gait of the eye, in fact changes in the course of inspecting the object. At first, while we are getting our bearing, it moves not only more quickly, but more widely; presently it settles down to movements at a rate of something like four or five a second and shifts of something like three to five degrees – this offering the overlap of effective vision that enables coherence of registration.

A work of art is composed by visual clues employed to express its meaning. How can we achieve this meaning? How does the artist set the scene or sketch out his characters in order to “create” this meaning?

Gunther Von Hagens’ Body World. Alcune Riflessioni - Immagine: © Gunther Von Hagens’ Body World
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Some strategies for helping people to develop Visual Literacy in looking at subject matter (objects and incidents represented) and expressive content (combined effect of subject matter and visual form) of different forms of visual art are here considered.

Taylor (1981) investigates how to approach drawings, paintings, graphic arts, sculptures, and architecture. He begins the artwork analysis describing what is represented through different visual forms. He picks over composition as a dominant contributor to the expressive content of a painting.

He discriminates lines (e.g., vertical, horizontal, and diagonal), shapes, colours (hue, saturation, and value), symmetry, objects arrangement, proportion, and space. He stresses that the choice of material and technique is paired with the artwork character. In order to improve the understanding of an artwork, Taylor compares different artworks representing the same subject but using different expressive contents.

Museum educators often adopt the inquiry-method in order to explore an exhibit with the lay public.

GRAM (Grand Rapids Art Museum) staff has provided a methodology based on a inquiry-based tour of the museum (2011). They stress the importance of encouraging the development of viewers oral and written communication skills in relation to Visual Arts. GRAM docents are trained to exploit specific questioning techniques in the course of the tour. Such questionnaires aims at encouraging students response. After a periods of time spent observing an exhibit, students are asked to answer some questions, suggested by teachers, such as: What is going on in this picture? What is the mood of this image? How do you feel about having to spend time with this artwork? Has your first impression changed now that you have spent time with it? All these questions are followed by another question: What do you see that makes you say that? This question, as stated by GRAM practitioners, helps people beginning to look at an image separate from their own past life experiences and to find evidence for their response within the artwork itself.

The inquiry-based method is used to analyse the formal elements (shape/composition, line, colour, pattern/texture, light, subject/function, and interpretation) as well. The interpretation level, for example, is examined through questions like: Why do you think the artist created this work? Do you feel certain emotions associated with each artwork? What effect do you think the artist’s time period had on his work?

Knowing about the artist’s education, partnerships and ideas about art, GRAM staff uphold, may help the viewer to see a work from a new perspective and to catch novel meanings. The artist weltanschauung is a key part of the artwork meaning.

Another guideline, developed by the National Park Service (http://www.nps.gov/museum/), specifically designed for students, is based on four basic steps. The Close observation of the visual elements – first part of this method – begins with broad open-ended questions (e.g., What do you see?). subsequently people focus on details (e.g., How would you describe the clothing?), sometimes it is possible to identify artistic processes and materials. Preliminary analysis is composed by simple analytic questions that will deepen viewer understanding of a work of art. Each question is followed by another question: How can you tell? This question chain pushes students to seek answers in the work of art rather than veering off into speculation. Research is the third step required to comprehend artworks (additional information on the historical, political, economical, and social artist’s environment). Lastly, interpretation involves assembling observation details, analyses, and information gathered about an art object in order to understand the exhibit meaning. The analyses is completed by comparing exhibits. A sample query is: How are these sculpture similar or dissimilar?

The guidelines aim at enhancing visual literacy, sharpening viewer observation, and learning to express what the viewer sees.

 – READ ON ART  –

Angela Lawler and Susan Wood (2011) select five steps that allow learning to look at art. Students first observe artworks in silence. Eventually, they take time to describe the artwork objectively. The third step analyzes contents, such as colour (e.g., What colours are important in this work? How would this work change if different colours were used? What associations/symbolic meanings might the colours in this work have?), balance (e.g., Is this image symmetrical, asymmetrical? Does the image lie within the frame, or appear to go beyond the edges?), space (e.g., How is our eye drawn through/across this work of art? Are there vanishing points? If so, do these imaginary lines draw our attention to a particular place in the work?), line (e.g., Are the lines the same throughout the work? Identify types of lines and where they are found in the work), value (e.g., Are there parts in this work emphasized by light? If so, can we identify that source?), technique (e.g., Can you see the brushstrokes? Are they thick? Smooth or heavy? Are the brushstrokes the same thickness throughout the work? Do the brushstrokes flow in the same direction throughout the work? Did the artist use slow, meticulous strokes, or paint them on quickly?). The forth step tries to interpret the works of art exploiting what students know and have seen. Finally, students make a critical judgment of the artwork. Judging art requires fair and logical consideration. Angela Lawler and Susan Wood recommend to take time, because reading art is a slow, thoughtful, and exciting process of discovery.

As we have seen, comparing and asking questions are the main methods used to analyze exhibits. In our opinion, an inquiry-style personal response approach to communicate artwork meaning can be useful in an adult (lay public) museum tour as well.

Shall we use other methodologies of looking in order to achieve the same goal? We would like to tackle this topic from a different point of view. The next section introduces the psychological phenomenon called priming that can be used to foster visual skills.

2. What is Priming?

The exposure to a visual-perceptual, semantic, or conceptual stimulus influences response to a later stimulus. Consider this case. A person reads a list of words including the word apple. Subsequently the person is asked to complete a word starting with ap. The probability that he/she will answer apple is increased because the word was previously primed. Therefore, if a stimulus is primed, later experiences of this stimulus will be processed more quickly and precisely by the brain.

Priming is a kind of implicit memory (a sort of tacit memory that is not consciously retrieved or observed). While performance of episodic memory based on explicit tasks initially improves with age and declines in advancing age, priming remains relatively stable from age 3 to 80. As stated by Wiggs and Martin (1998), perceptual priming is impervious to long retention intervals, stimulus attribute alterations (e.g., size) attentional manipulations (e.g., dividing attention), and developmental changes, all of which affect episodic memory.

It is useful to outline a taxonomy of different kinds of priming. Researchers have made a distinction between conceptual priming and perceptual priming. Tasks that involve analysis of stimulus meaning engage conceptual processes. Tasks that entail analysis of perceptual form trigger perceptual processes.

Repetition priming facilitates performance based on prior encounter with the same stimulus. Although the majority of research on perceptual repetition priming has been in the visual domain, repetition priming has also been examined in auditory domain.

Visual perceptual priming is defined by enhanced processing of previously seen visual material, relative to novel visual material. The response in terms of speed and accuracy is improved.

Semantic priming refers to an improvement in speed or accuracy to respond to a stimulus when it is preceded by a semantically related stimulus (e.g., table-chair) as McNamara (2005) states. Pure semantically related stimuli either share semantic features or belong to a common category. In associative priming, the target is associated with the prime but not necessarily related by means of semantic features. Dog is an associative prime for cat, since the words are closely associated and appear frequently together.

In affective priming, responses to a target stimulus (e.g., happiness) are faster when the stimulus is preceded by a prime stimulus with the same affective value (e.g., sun) than when the prime stimulus has a different value (e.g., war).

Positive and negative priming refer to cases in which priming affects the speed of processing. Negative priming, discovered by Dalrymple-Alford and Budayr (1966) in the contest of the Stroop effect, is an side-effect: it lowers the speed to slower than unprimed levels processing a stimulus that was previously presented but was not attended. A positive prime speeds up processing.

Subliminal priming has been extensively investigated by Marcel (1983 a, b). He reported a series of experiments from which he obtained robust priming effects in the absence of perception of the prime. He concluded that priming proceeds automatically and associatively without any necessity for awareness.

In structural priming speakers tend to repeat the structure of a sentence heard or spoken previously – even when the sentences differ in lexical and message-level content. The phenomenon has been study extensively by Boch and her colleagues (Bock and Griffin, 2000).

Finally, it must be considered that priming may be effected in other modalities (e.g., auditory, haptic).

 

2.1   Visual-Perceptual Priming

Wiggs and Martin (1998) review the literature as to the main visual-perceptual priming experiments. They stress that perceptual priming is sensitive to changes in physical appearance only in some instances. In general, stimulus attribute alterations – such as colour, pattern, luminance, contrast, location, left-right reflection, and size – do not influence priming. At the same time, perceptual priming can be attenuated when stimuli are changed so as to affect the ability to identify stimulus form. Specifically, it is not affected by relatively small changes in orientation (i.e., rotations in depth up to 67°) but is eliminated by large changes in orientation (i.e., rotations in depth > 80°). Furthermore, the phenomenon is diminished with changes in an object’s exemplar (e.g., a different picture of the same-named object), and with changes in a word’s typography from study to test. These results suggest that physical attributes essential to the representation of object form –such as line elements of drawings, or written word form (e.g., print typography of letters) – do influence perceptual priming.

Finally, “the degree of attention devoted to encoding typically does not affect the magnitude of priming. Thus, when attention is divided during encoding, priming is no different than when attention is focus” (Wiggs and Martin, 1998, p. 228).

3.  How to Improve the Methodology with Visual-Perceptual Repetition Priming

The purpose of the present research is to develop a priming-based model that takes into account the most relevant experimental and physiological findings and applies them to the museum environment.

Students and lay public are often unskilled visual onlookers. They do not know that an image or an artistic object may be read just as a book. They lack a proper education. To help them an education well-founded in visual language and communication is needed (Nuel, 1984). There are various ways to achieve such a goal. In this paper we focused on psychologically based techniques – priming is the most promising one.

The ability to analyze the artwork formal qualities, as we mentioned previously, is intrinsic to complete understanding of the art-making process. Therefore people need to develop or improve visual skills. Besides, museum visitors should learn a methodology, based on the knowledge of the main features contained in an artwork, to approach and comprehend an artistic object. In order to achieve these aims we have chosen to analyze and apply priming to museum environment. This phenomenon, as we described earlier, possesses some interesting characteristics: perceptual priming effects are long-lasting in normal adults and amnesic patients, priming remains relatively stable from age 3 to 80, the degree of attention devoted to encoding typically does not affect the magnitude of priming, and finally this phenomenon seems to be independent of cultural background.

Our aim is to trigger visitors visual skills showing visual stimuli related to artworks (colours, lines, shapes, and so forth).  Here is a streamlined example of a tentative priming-oriented method so as to develop artwork-related visual skills.

In the experiment we also adopted an innovative approach consisting in supporting results also with subjects’ EEG data acquired during the final test in which participants were asked to answer some questions about the experience. EEG has been chosen for its temporal resolution, because we aim to measure if and when, answering to the questions, participants present variation in EEG signals, due to stimuli recognition, frustration and change in attention levels.

3.1  Setups

The aim is to implement either technological devices and educational resources (wall and caption texts, booklet) based on priming process. Each artworks expressive content, described previously by art historians and museum practitioners, would be proposed as visual stimulus for a short period of time to the lay public, before the encounter with the real work of art. The comparison of visual stimuli possessed by different masterpieces that depict the same subject matter, as underlined by Taylor, would help understanding better the work of arts expressive contents.

The experimental setup takes advantage of visual-perceptual repetition priming. It is based on a museum tour (Pinacoteca Ambrosiana – Milan, Italy) where participants singularly watch prime stimuli on a screen under the supervision of researchers. On the whole, the experiment require three statistically sampled groups of subjects:  prime stimuli group, neutral stimuli group, and control group. Ten stimuli are showed within a controlled period of time. Subsequently the participants visit the museum without any restrictions. At the end of their tour, the participants are asked to answer some questions about the masterpieces chosen for the experiment in order to check if the prime stimuli (e.g., colour) helped them remembering the artworks main features (target). A control group of the same number of people tour the museum without any previous visual stimuli and another group is exposed to neutral stimuli. When taking the final test, all the groups of subjects have been submitted also to their EEG signal measure (Niedermeyer and Silva, 2004). To avoid influence in anxiety of participants, we chose to use a Brain Computer Interface (BCI) devices (Allison et Al., 2007)  to collect EEG signals. BCI devices are a simplification of the medical EEG equipment and currently several kind of low-cost, non-invasive BCI could be chosen for our research objective. We collected EEG data using a Neurosky MindwaveTM BCI device, used in several commercial and research applications, consisting of a headset with an arm equipped with a single dry sensor acquiring brain signals from the forehead of the user at a sample rate of 512 Hz, transmitted via bluetooth to a host computer. Compared to other BCIs, such as, for example, Emotiv EpocTM, the Mindwave BCI results more comfortable for users, both for the easiness of positioning the device on the scalp, and because it uses a dry sensor instead of wet ones. Moreover brain functions interesting our work, are related to the premotor frontal cortex area, that is the area on which the MindwaveTM sensor is positioned. In fact, the signals from the frontal lobes are linked to higher states of consciousness. Another advantage, convincing us about using MindwaveTM, consists in the wireless communication between the BCI device and the computer during the collection of data, making comfortable wearing the BCI during the experiments.

BCIs collect several cerebral rhythms grouped by frequency. For our purpose, we concentrate on alpha, beta, theta and gamma band. In fact, activity in the alpha band (7 Hz – 14 Hz) is usually related to relaxed awareness, meditation, contemplation, etc. Beta band (14 Hz – 30 Hz) is associated to active thinking, active attention, focus on the outside world or solving concrete problems. Theta band (4 Hz – 7 Hz) is related to emotional stress (frustration & disappointment). Finally, activity in gamma band (30 Hz – 80 Hz) is considered to be related to cognitive processes involving different populations of neurons, and to the processing of multi-sensorial signals.

As to the kind of stimuli, ten prime stimuli are selected. In general the prime stimuli are related to the artistic features of the artworks located in the gallery (e.g., colour, technique, style, iconography, shapes, brushstroke, and line specific of) while the neutral ones are unrelated to the artistic features of the works of art selected. In this experiment, portions of colours, have been select from five artworks positioned in Pinacoteca Ambrosiana. In order to select the colours we followed some criteria: the colour extent, the colour saturation and value, and the repetition of the hue in the Pinacoteca collection.

Procedure. At the onset, participants read the instructions they will then paraphrase back to the experimenter. After a practice trial, participants are asked whether they have any doubts as to what they have to do. The prime group watches a session of 5 prime stimuli (colours: red, green, blue, brown, and white) related to 5 paintings features, alternated with neutral prime stimuli (objects in black and white not depicted in paintings: luggage, phone, baby’s bottle, vacuum cleaner, and headband) for a short period of time (1 minute circa). The neutral stimuli group watches a trail composed by 10 stimuli unrelated to paintings (objects pictures in black and white such as sunglasses) for a short period of time (1 minute circa). A control group visits the museum without any previous visual stimulus.

The prime stimuli alert the visitor’s brain and help remembering better the colours represented in the paintings.

After the museum exhibition tour, participants complete a questionnaire about the five selected features of the corresponding artworks and wear Mindwave in order to collect EEG signals.

3.2 Results

Developing and training visual skills using priming is the goal of the present research. As previously mentioned, priming has interesting features, such as long-lasting effects, stability despite age, imperviousness to attention degree, and independence of cultural background, that can be exploited in museum environment. Future detailed experiments will better test how much such elementary psychological process may help museum practitioners to improve visitors’ visual skills.

Concerning data collected by EEG signals, to analyze the presence of differences in the brain activity during the final questions session, among the three groups, we calculated, using MATLABTM, the average Power Spectral Distribution (PSD)(Priestley, 1991) in the alpha, beta, theta and gamma wave bands (Niedermeyer and Silva, 2004; Bear, Connors and Paradiso, 2007) for all the users. PSD, in fact, describes how the power of a signal is distributed with frequency, and therefore the average values in each band can give useful information on the overall behaviour of the brain activity eventually induced by the visual stimuli. For our experiments, we calculated PSD using the Welch’s method(Welch, 1967) with Hamming window function(overlap 50%, segment length 64) (Oppenheim and Schafer, 1989) and to compensate the different data ranges for each user, due to personal variability, we have computed for each user data the ratio between the average power in each band and the average power in the frequencies interval between 0 Hz and 80 Hz.17 Finally, we have computed an average of these ratios in each band. From an analysis of these plot, it appears that in subjects who received the visual stimuli there is an increase in the attention level (Beta and Gamma bands, related to active thinking and attention). On the contrary, Theta brainwaves decrease, showing that participants did not feel frustration or disappointment.

Participants who did not receive any visual stimuli show results similar to those subjects who received a neutral one. In these cases, Beta and Gamma bands decrease, compared to the first group, while we registered an increasing of Theta band.

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We also calculated the average band power in beta, Gamma, Theta and Alpha bands for the three groups of participants.

For subjects who received the visual stimuli, Gamma and Beta bands revealed an average band power significantly greater than participants who did not receive a stimulus and to whom received a neutral one. On the contrary, Alpha band, related to meditation and contemplation, and Theta band, corresponding to frustration, decrease for the first group, compared to the other two.

Of course, the application of EEG signal analysis to this kind of experiment is a challenge and we are aware that the presented experimental setups are not based on a specific task. This can affect the analysis of activity in the analyzed bands, often considered and studied in well-defined task-based experiments. We are currently considering other experimental setups, based also on ERPs, in order to investigate the actual appropriateness of the beta/alpha ratio as an index of attention in EEG based experiments on visual prime. 

4. Conclusions and future works

Developing and training visual skills using priming is the goal of the present research. As previously mentioned, priming has interesting features, such as long-lasting effects, stability despite age, imperviousness to attention degree, and independence of cultural background, that can be exploited in museum environment. In this paper we presented encouraging results obtained submitting individuals to a museum tour where participants singularly watch prime stimuli on a screen under a researcher’s supervision.

While participants were answering to the final questions, we also registered their EEG signals using a non-invasive BCI device. The presented preliminary results shows that, compared to subjects who did not received specific stimuli, in participants who received the visual stimuli, we registered an increasing of the attention level corresponding to questions related to the engagement of memory due to the visual stimuli. Also beta and gamma bands, related to active thinking and attention, presented a regular track on the same questions. Theta brainwaves did not show frustration symptoms and, correspondently,  alpha values, also related to meditation and contemplation,  confirmed the relaxed attention state of subjects.

On one hand this new approach promises future improvement in exploring priming mechanisms, while, on the other hand, results represent just a preliminary step in improve EEG use for our research aims. Future works will have mainly the objective to individuate measures more significant for our aims. We also will have to perform more experiments to validate this innovative approach, representing, at the same time, a great opportunity and a challenge.

Future experiments will test how much such elementary psychological process may help museum practitioners to improve visitors’ visual skills.

 

Acknowledgments 

We thank Riccardo Manzotti who helped us during this work. We also thank Daniele Marini and Davide Gadia for their suggestion on signal processing and analysis methods.

 

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REFERENCES:

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  • Wiggs, C. L., Martin, A. (1998). Properties and Mechanisms of Perceptual Priming. Current Opinion in Neurobiology, 8(2), pp. 227-233.
  • Wileman, R. E.  1993. Visual communicating. Educational Technology Publications.  N.J: Englewood Cliffs.

 

Storie di Terapie #26 – Paul

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #26

 PAUL

 

I pazienti per i quali si prova maggiore simpatia non sempre sono quelli che vengono curati meglio. Credo che ciò dipenda da due fattori, da un lato si vuole evitare di procurargli possibili sofferenze e dunque non si affrontano passaggi che potrebbero essere dolorosi, dall’altro la simpatia si fonda spesso su un comune sentire, sul fatto di vedere le cose del mondo e la vita in modo simile.

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Ora, però, poiché è proprio quel modo di vedere le cose che causa al paziente sofferenza, siamo nei guai: se il  terapeuta adotta la stessa prospettiva per guardare la realtà, non gli sarà facile aiutare il paziente ad assumere una distanza critica. Lo slancio nell’impegno e il furore terapeutico che si prova in questi casi non basta a compensare questi due bias di fondo.

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La prova di questa mia curiosa simpatia nei confronti di Paul è dimostrata da vari fatti. Durante la prima parte della terapia, che fu interrotta improvvisamente per una mia malattia, si era arrivati ad un debito di Paul nei miei confronti di oltre sessanta sedute, da saldare quando avrebbe trovato un lavoro stabile.

Considerato che le sedute, proprio per motivi economici, erano state piuttosto rare si trattava, all’incirca, di un periodo di due anni in cui ho visto Paul senza pagamento. Nonostante questo non provavo emozioni negative nei suoi confronti e, quando mi ha ricercato, sono stato ben contento di continuare a vederlo. Mi ricordavo solo vagamente del debito e fui molto positivamente colpito dal fatto che fu lui a ricordarmelo, senza tuttavia saldarlo, permanendo la situazione di disoccupazione.

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Quarant’anni, decisamente ben piantato, occhi e capelli nero corvini, l’aspetto forte di un guerrigliero sudamericano del primo novecento, uguale lo slancio ideale, raffinato e quasi snob nell’eloquio, esibiva un’ eleganza naturale che lo assimilava alla grande casata degli industriali dell’auto, come lui torinesi.

Torino era la sua città d’origine dove, in un collegio di gesuiti, aveva messo le basi della propria formazione.

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La madre insegnante al liceo e pianista di conservatorio, il padre prestigioso professore universitario di filosofia teoretica in alcune università cattoliche. Sul fatto che Paul avrebbe avuto una formazione umanistica classica non vi era alcun dubbio e nemmeno sulla scelta della facoltà universitaria, che sarebbe stata filosofia. Il margine di scelta che restava a lui riguardava il settore filosofico in cui specializzarsi per raggiungere, possibilmente giovanissimo, la cattedra di professore ordinario.

Probabilmente, se non avesse avuto talento, avrebbe precocemente deluso le enormi aspettative dei genitori e si sarebbe organizzato un’ esistenza propria. Invece era bravo e dalle elementari conquistò il posto di primo della classe che non avrebbe più abbandonato. Le aspettative degli altri lo spingevano ad essere bravo e la sua bravura rafforzava le aspettative altrui. Guardandolo mi veniva in mente il verso di Faber dedicato al suonatore Jones che recita: “ e poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare”.

Quando lo incontrai per la prima volta a Paul piaceva molto lasciarsi ascoltare. Aveva preso in parte le distanze dal modello familiare e, in parte, vi aveva aderito perfettamente. Era un brillante ricercatore volontario all’università, si occupava di filosofia morale, ma da una prospettiva rigorosamente atea e aspramente anticlericale. Era dichiaratamente di sinistra con tutte le conseguenze estetico- comportamentali del caso. Fumava la pipa, vestiva malissimo, beveva troppo e girava con una vecchia moto. Il problema che lo portava in terapia era la sua totale incapacità a opporre anche il più piccolo rifiuto alle richieste degli altri.

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Nel suo incondizionato accondiscendere si era talmente specializzato che le persone che gli erano più vicine non dovevano neppure formulare delle richieste perché lui le preveniva sistematicamente.  Nel suo modo di porsi era implicito un sottotitolo del tipo “servitevi di me” che si trova sui cestini della spazzatura della capitale.

Anche la considerazione di se stesso non si discostava molto da quella dei suddetti cestini e mi accorsi che, questo modo di esistere, si riproponeva anche nella relazione terapeutica: nonostante lo invitassi a sperimentare qualche piccolo rifiuto alle richieste altrui, quando avevo bisogno di fare uno spostamento per miei problemi di agenda il primo che chiamavo era lui. Paul naturalmente acconsentiva ed io lo rinforzavo con mille ringraziamenti per la sua encomiabile disponibilità. A fatti smentivo quello che ci dicevamo a parole. Ci ridemmo sopra e mi ripromisi intimamente di disciplinarmi di più.

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Se il comportamento mite e arrendevole era sempre presente, raggiungeva dei vertici di purezza assoluta con Anna, la madre, e Olga, la fidanzata. Nei loro confronti appariva perfino grottesco.

Era autista e fattorino di Anna che aveva rinunciato alla patente dopo il trasferimento da Torino a Roma. Il padre, spesso all’estero per lavoro, aveva comprato una Smart a Paul con lo specifico mandato di accompagnare la madre a scuola, a fare la spesa e alle lezioni private di pianoforte. Paul trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi nei supermercati sottobraccio alla madre o ad aspettarla in auto di fronte al portone dove lei saliva ad impartire lezioni di piano.

 Qualsiasi piccolo sussurrato accenno di malcontento di Paul veniva stroncato dalla madre con una frase capace di gettarlo nello sconforto assoluto e che, in varie varianti, suonava pressappoco così: “ non sei più il mio Paul di un tempo, non ti riconosco più”. Sentire questa frase e gettarsi alla scoperta del significato che per lui aveva, tale da giustificare panico e sconforto, fu per me un tutt’uno.

Deludere la persona amata poteva comportare l’interruzione del legame per sua colpa e l’idea che sarebbe stato responsabile della sofferenza inconsolabile della madre e, forse, della sua morte. Era la colpa l’esperienza che Paul riteneva intollerabile, non la solitudine. Tuttavia lo sgomento maggiore consisteva nel senso di perdita dell’identità. Se non era più il Paul che sua madre conosceva, allora chi era? Non aveva nessun altra identità e si sentiva perduto. Aveva l’impressione fisica di scomparire. La posta in palio era ben più importante del legame e riguardava la propria soggettività, l’esistenza stessa. Con Olga c’era, invece, in primo piano il legame. Lei rappresentava l’intero universo dei suoi legami significativi.

Il trasferimento a Roma quando aveva sedici anni lo aveva privato di tutte le amicizie dell’infanzia e lo aveva reso il  “torinese di buona famiglia con la puzza sotto al naso” in mezzo ai gruppi adolescenziali della capitale. Paul aveva reagito concentrandosi ancora di più nello studio, nel quale aveva successo. Ciò lo rendeva ancora più antipatico agli altri e incrementava l’isolamento, dapprima subìto e infine cercato. Appena sbarcato all’Università conobbe Olga e l’avvinghio reciproco fu immediato. Lei fuori sede, di nobile famiglia pugliese, aveva alle spalle una storia di violenze e abusi familiari che la spingeva verso la manifesta mitezza di Paul. Lui era attratto dalla capacità di lei di pretendere da tutti un risarcimento per le sue traversie.  I due vivevano in tale simbiosi che i pochi amici rimasti li chiamavano Polga.

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Per rappresentare le regole fondamentali della relazione basta un aneddoto. Olga sin dai primi contatti sessuali, aveva squalificato Paul confrontandolo con il suo partner precedente, descritto come una inesauribile macchina per il sesso. Considerando Paul inadeguato a penetrarla, pretendeva di essere masturbata e leccata fino ad ottenere almeno un paio di orgasmi. Poi Paul era libero di andare in bagno a masturbarsi, ma non doveva tornare a dormire nel letto comune perché il suo russare la disturbava. Non avendo avuto mai altre partner, Paul si era convinto della sua inadeguatezza ed era persino riconoscente con Olga che perlomeno gli concedeva quelle pratiche. La situazione si trascinava più o meno così da quando si era iscritto all’Università, ma tutto precipitò quando Paul realizzò il suo sogno di andare a vivere da solo.

La presenza dell’altro costituiva un faticosissimo costante lavoro di lettura dei bisogni altrui  ed un gran darsi da fare per assecondarli. Questo lavorio cessava soltanto quando si trovava da solo. Ciò non era del tutto vero ma quasi, infatti anche nei momenti di solitudine anticipava gli eventi futuri e immaginava cosa avrebbe fatto per soddisfare gli altri. Dalla vita da solo si aspettava comunque un grande sollievo.

I genitori decisero di acquistargli un piccolo ma confortevole appartamento, senza coinvolgerlo nella scelta e senza intestarglielo perché “non si sa mai le sciocchezze che può fare un giovane” e dunque è bene proteggerlo da se stesso. Aveva casa ma non era effettivamente sua. Mamma Anna lo arredò minuziosamente  utilizzando i mobili di Torino che non entravano nella casa di Roma, più piccola. Naturalmente Paul non fece altro che ringraziare i genitori per la sollecitudine dimostrata, aveva immaginato un’altra cosa ma non osò dirlo.

Non aveva neppure terminato di traslocare tutte le sue cose che Olga, sconvolta dall’ennesima litigata con il padre, si presentò con una grande valigia comunicandogli che d’ora in poi avrebbe vissuto con lui cosa che, ovviamente, non poteva che colmarlo di gioia, essendo la sua donna. Non erano passate due settimane dal possesso delle chiavi di casa che Paul dovette accomodarsi nel divano dell’ingresso, separato da due porte dalla camera da letto, a protezione del delicato sonno di Olga.

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Fu in questo periodo che ebbe inizio l’epico scontro tra Anna e Olga per il possesso di Paul. Tutti i più triti luoghi comuni della rivalità tra suocera e nuora vennero messi in scena negli allestimenti più roboanti, quasi quotidianamente. A differenza di Paul, le due contendenti non erano affatto anassertive e la vivacità degli scontri comportò nei soli primi tre mesi l’intervento delle forze dell’ordine allertate dai vicini per ben due volte. La situazione sarebbe stata pesante per chiunque ma per il povero Paul, messo nel ruolo di novello Paride, era assolutamente intollerabile. Aveva di fronte le due persone da cui era più dipendente per il mantenimento della propria identità e loro gli chiedevano continuamente di sconfessare una delle due.

Il sogno della vita da solo stava naufragando, le richieste degli altri non erano state fermate dalla porta blindata e dalla serratura europea e invadevano ogni metro quadrato della casa e ogni istante della sua giornata. A questo punto comparvero i sintomi: drastico peggioramento nell’impegno universitario, fino alla rinuncia ad un concorso per ricercatore strutturato in cui aveva qualche possibilità, violente crisi di rabbia con atteggiamenti pantoclastici verso i mobili della casa, risvegli notturni durante i quali  si chiudeva in cucina da solo, mangiava e beveva a dismisura fino a sentirsi male.

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Una notte  in cui aveva esagerato più del solito gli capitò di vomitare; da quel momento, vomitare dopo le abbuffate notturne  divenne un comportamento abituale del quale si vergognava moltissimo, sentendolo appartenere più ad un’adolescente segaligna e anoressica che al personaggio intellettuale, pacato e saggio che si era costruito.

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 Le due fiere avversarie nel frattempo avevano interrotto i rapporti diplomatici e comunicavano esclusivamente tramite Paul ambasciatore, non senza pene, delle reciproche dichiarazioni di guerra. A lui si limitavano a chiedere di interrompere definitivamente i rapporti con l’altra e di considerarla morta per sempre.

Da parte mia, non comprendendo evidentemente la profondità dell’angoscia di Paul ,veniva il suggerimento di accontentarle, sì, ma entrambe. Mi sentivo come Massimo Troisi nel film  “Ricomincio da tre” quando sussurra all’orecchio di Robertino, bravo figlio di famiglia al servizio della madre, la frase “scappa”. Ma sarebbe come suggerire ad un tetraplegico la cui casa sta bruciando di alzarsi e fuggire. Non poteva farcela, ero io a doverlo portare fuori e c’era fin troppa gente a dargli  buoni consigli, ciò non faceva che aumentare il suo senso di inadeguatezza e di conseguenza la dipendenza dall’altro. Non va dimenticato che in fatto di logica e razionalità Paul non era secondo a nessuno.

Quando rividi Paul, dopo la fase acuta della mia malattia, la situazione era sostanzialmente immutata, semmai più cronicizzata, al di là di ogni consapevolezza. Paul e Olga vivevano insieme. Durante tutto il giorno lui era l’autista di lei, che aveva smesso di guidare e il suo servitore per ogni capriccio. Olga e Anna non si parlavano da tre anni e lui, ogni martedì sera, andava a cena dai suoi dove recitava la parte del bravo figliolo e tra loro rispolveravano il dialetto torinese per sciacquarsi la bocca dalla melma romana. Il concorso universitario non c’era ancora stato e si barcamenava con saltuari lavoretti.

Tutto quello che faceva sapeva farlo con grande competenza e discreto successo e, in linea teorica, rappresentava anche ciò che davvero voleva fare, ma solo da un punto di vista strettamente teorico; suonava solo perché lo sapeva fare e gli piaceva farsi ascoltare e non è facile, a quarant’anni, buttare il flauto alle ortiche e ricominciare un’altra vita soprattutto perché, dopo un’esistenza intera di induzione esterna dei desideri, non si sa davvero più quali siano i propri e se ci siano.

Paul viveva “il dramma del camerino svaligiato”: chiamo così il vissuto dell’attore impegnato nei panni di un personaggio a lui poco gradito, ma che ormai conosce molto bene e sa recitare con grande successo, al quale comunicano che il suo camerino è stato svaligiato e tutte le sue cose rubate. Il dilemma sta nel rimanere in un ruolo non suo che tuttavia ben conosce o spogliarsi di tale ruolo per rimanere senza niente.

Ad un certo punto dell’esistenza occorre anche valutare realisticamente ciò che si può davvero cambiare ed  accontentarsi, eventualmente, di trovare il miglior adattamento possibile ad una situazione non completamente modificabile. Forse a Paul sarebbe piaciuta una vita da motociclista on the road, ma questo ormai doveva rimandarlo alla prossima occasione. E poi, come stabilire cosa avrebbe voluto un ipotetico Paul privo di condizionamenti: è una condizione che non è data a  nessuno ed è sciocco chiederselo.

I meccanismi che lo facevano soffrire nel presente e che potevano essere ragionevolmente limati erano due: l’impossibilità percepita da lui di opporre un rifiuto alle aspettative altrui, da cui poi si sentiva imprigionato e che gli procurava una rabbia incontenibile, e la colpa con conseguenti comportamenti riparatori.

Tale impossibilità era connessa ad un’ immagine di sé dipendente dall’altro e viceversa: in particolare con Olga, si trattava di modificare la percezione che aveva di lei come fragile e assolutamente bisognosa di aiuto nelle normali attività quotidiane. Era completamente assorbito dall’assistenza di Olga, con il risultato di renderla effettivamente un’invalida insoddisfatta di sé e di provare rabbia verso lei per le limitazioni alla sua autonomia. Alla rabbia seguiva la colpa e una maggiore dedizione compensativa.

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Fu grazie al pensiero che accondiscendere sempre alle richieste di Olga faceva direttamente del male a lei e danneggiava la vita di coppia, accumulando reciproci rancori, che Paul iniziò a dire i primi timidi no. Fortunatamente questi furono rinforzati da Olga che gli disse di sentirsi finalmente al fianco di un uomo forte. Da un punto di vista comportamentale concordarono delle aeree della vita familiare completamente a gestione di Olga e, inoltre, che Paul sarebbe stato per proprio conto un certo numero di ore ogni giorno fuori casa a lavorare o a divertirsi senza preoccuparsi di organizzare la vita di lei.

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Paul si comprò un cane che aveva desiderato fin da piccolo e riversò su di lui la smania di accudimento; con il cane stava bene perché non si sentiva continuamente sotto esame. Le abbuffate e le sbronze notturne furono sostituite da un pranzo settimanale in un ristorante accuratamente scelto in cui invitare un amico. La sua cura nello scegliere le pietanze e i vini, insieme alla abitudine che aveva di annotarsi su un notes le idee che gli venivano, crearono una voce per lui vantaggiosa: tra i ristoratori del centro si iniziò a credere che fosse un valutatore della guida Michelin o del Gambero Rosso.

A volte invece degli amici invitava il padre, scoprendo entrambi il piacere di stare insieme senza la mediazione di Anna. Ciò pose fine alle cene rituali a casa dei genitori e incredibilmente Olga non lo sventolò come una sua vittoria nella guerra contro la suocera. Deduco che anche nei miei confronti Paul avesse imparato a mantenere degli spazi riservati per sé, vivendo gli altri come meno soffocanti: infatti, tre mesi dopo il primo pranzo al ristorante, Paul mi annunciò che avevano sospeso le pratiche avviate per l’adozione perché Olga era incinta. Io invece ero rimasto alle seghe solitarie in bagno. Qualcosa non tornava, ma andava bene così! Le nuove spese che l’arrivo di un figlio comportavano suggerirono l’interruzione della terapia. Resto in attesa che lui, o l’erede, saldino il debito della prima terapia.

 

 

STORIE DI TERAPIE

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DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA‘ – COLLOQUIO PSICOLOGICO – IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA – FAMIGLIA – SCELTA DEL PARTNER – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI – TERAPIA DI COPPIA

 

 

Mindfulness e Memoria di Lavoro

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca la memoria di lavoro può funzionare meglio a seguito di un training di mindfulness. Lo studio pubblicato su Psychological Science ha dimostrato che due sole settimane di protocollo mindfulness-based stress reduction (MBSR)  avrebbero un effetto benefico sulla funzionalità della working memory con la mediazione di una riduzione del mind-wandering.

 

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Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: una Riflessione Critica #2. - Immagine: © silvae - Fotolia.com
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Per capire se un training di mindfulness potesse migliorare le performance di memoria di lavoro 48 studenti universitari sono stati assegnati in modo randomizzato a un corso di practica mindfulness oppure a un corso di nutrizione.

 

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Dai risultati è emerso che il gruppo sottoposto alla pratica di mindfulness ha presentanto un miglioramento significativo – rispetto al gruppo di controllo- sia nei test di comprensione del testo che di working memory, con una minore quota di mind-wandering durante la prestazione.

 

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 Sembrerebbe dunque che la mindfulness sia in grado di ridurre il fenomeni di mind- wandering e conseguentemente le capacità della memoria di lavoro e di comprensione di un testo scritto.

 

 

 

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MINDFULNESS – WORKING MEMORY – MEMORIA DI LAVORO– STRESS

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

• Michael D. Mrazek, Michael S. Franklin, Dawa Tarchin Phillips, Benjamin Baird, and Jonathan W. Schooler Mindfulness Training Improves Working Memory Capacity and GRE Performance While Reducing Mind Wandering Psychological Science May 2013 24: 776-781, first published on March 28, 2013 doi:10.1177/0956797612459659

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