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Beneficenza: la stai facendo male?

Fattori emotivi e cognitivi influenzano il modo in cui facciamo beneficenza. È necessario correggere queste distorsioni o donare è una questione personale?

Di Valentina Davi

Pubblicato il 04 Mar. 2024

Aggiornato il 06 Mar. 2024 15:36

Come funziona la beneficenza?

Addestrare un cane per non vedenti costa circa 40.000 dollari. Con la stessa cifra potresti curare dalla cecità dovuta a tracoma, un’infezione batterica che colpisce l’occhio, fino a 2.000 persone che vivono nel Terzo Mondo. A chi doneresti i tuoi soldi? 

Fare beneficenza non è certo obbligatorio. Ma se decidiamo di donare, abbiamo il dovere morale di farlo in modo efficace? Oppure donare è una scelta personale e se non massimizziamo il nostro impatto poco importa?

La beneficenza e l’altruismo efficace

Se ritenete che massimizzare l’effetto di un gesto altruistico sia un imperativo categorico, siete sostenitori del cosiddetto altruismo efficace. Si tratta di un movimento sociale e filosofico nato verso la fine degli anni Duemila, con diverse organizzazioni sparse per il mondo, che ha riscosso grande successo, soprattutto tra imprenditori facoltosi e miliardari della Silicon Valley. 

Il movimento si propone di utilizzare la ragione e l’evidenza scientifica per stabilire quali cause siano prioritarie da sostenere per aiutare il prossimo nel modo più efficace possibile. 

L’altruismo efficace, che vede tra i suoi sostenitori filosofi come Peter Singer, Toby Ord e William MacAskill, affonda le sue radici nell’utilitarismo di Jeremy Bentham, una corrente filosofica che identifica il bene con l’utile: un’azione è buona se è utile, cioè se rende felice il maggior numero possibile di persone. 

Tuttavia l’idea che una donazione debba salvare o migliorare il numero più alto di vite possibile si scontra con la natura umana. Infatti le nostre scelte sono influenzate da emozioni, bias e distorsioni cognitive che ci rendono, dal punto di vista degli altruisti efficaci, dei pessimi donatori: facciamo sì beneficenza, ma (secondo loro) la facciamo male.

Fare una donazione: i fattori che influenzano le nostre scelte altruistiche

Spesso consideriamo una donazione l’espressione di preferenze personali e, si sa, de gustibus non disputandum est.

Di fronte a più enti di beneficenza tendiamo a scegliere quello con cui sentiamo di avere un legame emotivo o che per noi ha maggiore attrattiva, pur consapevoli che altre opzioni sono più efficaci.

La scelta spesso è guidata da fattori emotivi, come l’empatia, la compassione per le vittime o l’effetto warm glow, cioè la gioia e soddisfazione provate per aver fatto la propria parte, per aver provveduto personalmente a fare del bene.

Inoltre siamo più propensi a sostenere cause a cui ci sentiamo personalmente legati.

Spesso preferiamo enti di beneficenza che aiutano chi soffre delle stesse malattie o disgrazie nostre o dei nostri cari; così è più probabile che devolveremo soldi alla lotta contro il cancro anziché contro la malaria, nonostante gli enti che si occupano di quest’ultima siano più efficaci nel salvare vite umane; saperlo, comunque, difficilmente ci farà cambiare idea.

Allo stesso modo, preferiamo donare a un canile piuttosto che a un’associazione che aiuta animali da fattoria perché è più facile che ad accoglierci a casa ci sia un pastore tedesco che un maiale; eppure gli enti di beneficenza che aiutano gli animali da fattoria tendono a ridurre la sofferenza degli animali in modo più efficace (Animal Charity Evaluators). 

Ma come sarebbe a dire donare per salvare gli animali?! Perché, perché nessuno pensa ai bambiiiini?! La maggior parte delle persone preferisce infatti aiutare gli esseri umani; Ricky Gervais dona 1.9 milioni di sterline a enti di beneficenza per animali e la rete si indigna: “con tutti i bimbi che muoiono di fame!”. 

La tendenza a favorire beneficiari a noi prossimi non riguarda solo la distanza biologica tra chi dona e chi riceve (aiutare gli esseri umani anziché gli animali), ma anche la distanza temporale (aiutare le generazioni attuali anziché le future), spaziale o sociale (es. aiutare i bambini ucraini anziché i bambini siriani).

A rendere i nostri gesti altruistici particolarmente “inefficaci” contribuirebbe anche lo scope neglect, un bias per il quale quando prendiamo una decisione non teniamo conto adeguatamente dell’ampiezza o dell’estensione del problema. Più aumenta il numero di beneficiari, minore è il valore che assegniamo a ogni individuo aggiunto: aiutare 2.000, 20.000 o 200.000 vittime non fa alcuna differenza, tenderemo a donare lo stesso importo anziché aumentarlo in maniera proporzionale. Lo scope neglect raggiunge il suo apice se il beneficiario è chiaramente identificabile; ecco perché le raccolte fondi tipo Aiutiamo il piccolo Tommasino (nome di fantasia), destinate ai singoli, hanno un così grande successo.

Infine, la nostra compassione diminuisce all’aumentare del numero delle vittime; si tratta di un fenomeno di distacco dalle nostre emozioni, chiamato numbing psicofisico, che ci impedisce di provare coinvolgimento emotivo. D’altronde, “Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica”.

Beneficenza: utilitarismo o personalismo?

Da secoli la filosofia morale si interroga su come dobbiamo agire per fare del bene e quali principi debbano guidare una buona azione. All’interno di questo dibattito ha sempre avuto un ruolo di primo piano la diatriba tra utilitarismo e personalismo.

Contrariamente all’utilitarismo, che valuta l’etica in base alle conseguenze delle azioni e cerca di massimizzare il benessere complessivo, il personalismo non si focalizza esclusivamente sul conseguimento di un risultato ottimale, bensì sul rispetto dei diritti e della dignità umana, indipendentemente dalle conseguenze che potrebbero derivare da una particolare azione. 

Secondo l’altruismo efficace dovremmo seguire la ragione e donare non solo con il cuore, ma anche (e soprattutto) con la testa, per fare con il nostro gesto il maggior bene possibile. Per questo motivo ritiene necessario rimuovere gli ostacoli che ci impediscono di fare beneficenza in maniera razionale.

Dal punto di vista personalistico, invece, ogni individuo ha valore intrinseco e quindi,  per esempio, la vita e la dignità del non vedente in attesa del cane addestrato sono altrettanto importanti e meritevoli di rispetto di quella delle 2000 persone affette da tracoma; la questione non si riduce a un semplice confronto tra numeri di vite coinvolte. Proprio i bias che rendono le nostre scelte irrazionali, e che gli utilitaristi vorrebbero bypassare, permettono potenzialmente a chiunque abbia bisogno di aiuto di riceverlo: dal singolo mendicante sotto casa a chi soffre di una malattia rara.

Tuttavia le distorsioni cognitive ed emotive a cui siamo soggetti possono rappresentare un punto debole sia che si decida di sposare l’approccio utilitarista sia quello personalista. Infatti proprio sfruttando questi bias nascono e hanno grandissima diffusione (oggigiorno sempre di più grazie anche ai social) raccolte fondi sospette, personali, truffe e campagne di beneficenza poco trasparenti che fanno leva sulla nostra emotività, sensibilità e irrazionalità. Riconoscere i fattori che ci influenzano può aiutarci a effettuare scelte più consapevoli e a non rendere vani i nostri gesti altruistici, indipendentemente dal numero di persone che decidiamo di aiutare. 

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Valentina Davi
Valentina Davi

Coordinatrice di redazione di State of Mind

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