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Le Basi Biologiche delle Malattie Neuropsichiatriche

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Malattie Neuropsichiatriche – Studiare le reti di connessioni nel cervello delle persone affette da schizofrenia, malattia bipolare o depressione ha permesso a un team di ricercatori della Western University, di ottenere una migliore comprensione delle basi biologiche di queste malattie importanti.

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I ricercatori hanno dimostrato che diverse reti neurali sono interrotte in diverse patologie psichiatriche. Questi risultati sono stati presentati al 2013 Canadian Neuroscience Meeting.
In precedenza, i ricercatori avevano tentato di utilizzare approcci genetici per cercare di spiegare le basi biologiche delle malattie neuropsichiatriche, ma la genetica può spiegare solo una piccola percentuale di casi.

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Oggi i ricercatori hanno iniziato a utilizzare nuove tecniche di imaging per studiare le connessioni nel cervello dei pazienti, e questo approccio sta rivelando importanti differenze tra i pazienti affetti da schizofrenia, disturbo bipolare e depressione, e le persone non colpite da questi disturbi.

Schizofrenia e disturbo bipolare sono malattie tipicamente umane.

Anche se esistono alcuni modelli animali di queste malattie, gli animali non sperimentano queste malattie come facciamo noi, dal momento che mancano loro le nostre capacità linguistiche e la capacità di rappresentare i sentimenti e le idee, propri e altrui, nel tempo. Queste capacità specificamente umane sono codificate in reti neurali specificamente umane.

 

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La sfida del nostro tempo è quello di trovare i percorsi comuni finali di questi disturbi” ha detto Williamson, ricercatore a capo dello studio.

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BIBLIOGRAFIA:

 

La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa. SPR URBINO 2013

SPR – Italy Area Group

SOCIETY FOR PSYCHOTHERAPY RESEARCH

La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa.

SPR Urbino 2013 - Reportage Università, Scuole di formazione, Servizi pubblici.

URBINO, 10 – 11 MAGGIO 2013

Uno degli aspetti più interessanti di questo convegno è stata proprio la commistione di diversi linguaggi, diverse estrazioni e diverse prospettive, in un’ottica di integrazione e contaminazione fertile piuttosto che di contrapposizione e sfida.

Il 10 e 11 maggio si è svolto a Urbino il congresso organizzato dalla sezione Italiana della Society for Psychotherapy and Research (SPR) dal titolo “La ricerca in psicoterapia: dove si impara, dove si fa. Università, Scuole di formazione, Servizi pubblici”.

Il programma si è strutturato tra main lectures, workshops e simposi di importanti esponenti della scena psicologica italiana e comunicazioni e poster in cui ricercatori di diversi orientamenti e ambiti hanno presentato i propri lavori di ricerca al pubblico.

Il clima è stato caratterizzato da una forte propensione al confronto, sia da parte dei mentori che da parte dei giovani, con un’attenzione genuina e proficua ai lavori degli altri.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo: “Lo Stato dell’Arte” – Assisi 09-12 Maggio 2013
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Dopo una carrellata iniziale in cui ci si è soffermati sullo stato dell’arte rispetto alla ricerca nelle sue diverse accezioni (qualitativa e quantitativa) e nei diversi contesti (servizi pubblici o enti privati), i relatori si sono concentrati su alcuni interessanti approcci e chiavi di lettura della psicopatologia, ancora una volta proposti come possibili punti di accesso al dolore e al disagio del paziente, ma passibili di modifiche e con un atteggiamento di estrema apertura nei confronti di osservazioni e possibili critiche.

In questo senso, la Dr.ssa Sassaroli ha presentato il LIBET, come nuova concettualizzazione della sofferenza in termini di temi di vita dolenti e piani di vita sviluppati con lo scopo di fare fronte a questo dolore. La platea ha accolto con interesse e curiosità la concettualizzazione proposta, integrandola con osservazioni e ponendo confronti tra questa e gli altri approcci recenti.

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In seguito, il Dr. Popolo prima e il Dr. Bruno poi hanno proposto due interessanti lavori di ricerca rispettivamente sulle psicosi e sui disturbi alimentari entrambi in ambito ospedaliero, ancora una volta presentati relativamente alla metodologia e ai risultati preliminari e accolti con interesse da parte degli uditori.

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Infine, a chiusura del primo Simposio, il Dr. Cafforio si è occupato della Diagnosi psicologica in ambito pubblico.

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In seguito, un intero pomeriggio è stato dedicato alla presentazione di due serie di comunicazioni libere in parallelo, da parte di ricercatori con diverse estrazioni sia in termini di contesto (pubblico, accademico, privato) che di approccio di riferimento (cognitivo, psicodinamico, etc.).

Mentre alcune relazioni hanno presentato lavori di ricerca terminati e di cui è stato possibile condividere risultati e implicazioni cliniche, altre hanno proposto ricerche in itinere, di cui sono stati visionati solo i risultati preliminari. Altre ricerche ancora hanno presentato solo il planning di quella che sarà la raccolta dati, insieme al background da cui sono state mosse le ipotesi di ricerca.

Uno degli aspetti più interessanti di questo convegno è stata proprio la commistione di diversi linguaggi, diverse estrazioni e diverse prospettive, in un’ottica di integrazione e contaminazione fertile piuttosto che di contrapposizione e sfida.

In questo modo, per esempio, anche le ricerche in una fase più acerba hanno potuto beneficiare delle osservazioni della platea, magari da parte di esponenti di altre correnti di pensiero, in un approccio migliorativo in cui davvero le diverse competenze maturate da persone che differiscono per orientamento, età, anni di esperienza, ambiti di operatività, hanno potuto migliorare la parzialità che una visione unilaterale per forza implica, aggiungendo sfaccettature che più facilmente possono portare a una visione bifocale e laterale del medesimo fenomeno.

Nuove Frontiere nella cura del trauma
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Se davvero fare ricerca oggi in Italia è complicato, per carenza di fondi stanziati ad hoc, di strumenti e di conseguenza di persone formate per farla, è certo che un atteggiamento di sfida e competizione nel tentativo di dimostrare quanto la ricerca quantitativa sia più o meno scientifica, più o meno artificiosa e naturalistica di quella qualitativa, di dimostrare come l’approccio cognitivo si presti più di quello psicodinamico oppure di come le università siano più rigorose delle grandi organizzazione come sono per antonomasia le AUSL, sia sterile e a grande rischio di separazione anziché unificazione.

Davanti a un contesto scientifico in cui sempre di più chi propone nuovi approcci anziché cercare un dialogo con quello che già esiste o con quello che con loro sta emergendo, fonda nuove società e propone nuovi convegni mono-approccio e mono-tema, penso che l’umiltà e il coraggio di confrontarsi con chi parla tutt’altra lingua possa invece essere un quid in più per migliorare la ricerca, perché chi osserva le cose da un punto di vista differente dal proprio può portare a un insight, uno sguardo che il nostro occhio educato in un certo modo può fare davvero fatica a cogliere.

In qualche modo, quindi, la possibilità di discutere della propria ricerca o del proprio abito in un clima che sia davvero migliorativo e valorizzante può essere quello che aiuta la ricerca e che sprona verso nuove concettualizzazioni in un clima in cui fare della ricerca un’attività strutturata è già così tanto difficile per motivazioni logistiche e economiche.

ARTICOLI SU: RICERCA

 

RISORSE: 

 

Il diario di Bridget Jones – Cinema & Psicoterapia #5

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #05

Il diario di Bridget Jones (2001)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

IL DIARIO DI BRIDGET JONES. LOCANDINA
IL DIARIO DI BRIDGET JONES.(2001) LOCANDINA

Il diario di Bridget Jones: Il rapporto compulsivo della protagonista con il cibo e l’alcool nasce dall’insoddisfazione per una vita in cui le relazioni affettive sono assenti.

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Info:

Il diario di Bridget Jones (Bridget Jones’s Diary). Diretto dalla regista Sharon Maguire, con Renée Zellweger, Colin Firth, Hugh Grant, Gemma Jones, Jim Broadbent. Basato sul romanzo omonimo di Helen Fielding. Commedia. USA 2001.

Trama 

Il film narra le vicende di Bridget Jones, trentenne single che vive e lavora a Londra. Ossessionata dal proprio peso, dal proprio corpo e dalle abitudini malsane in relazione all’alimentazione ha il timore di rimanere zitella. La madre le propone possibili fidanzati, ma lei si muove goffamente nella propria vita sentimentale.

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Motivi di interesse 

Il rapporto compulsivo della protagonista con il cibo e l’alcool nasce dall’insoddisfazione per una vita in cui le relazioni affettive sono assenti.

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L’insicurezza fa crescere il timore che la solitudine sarà l’eterna compagna dei giorni di Bridget, alimentando il senso di vuoto e le abbuffate. L’intrusività della madre alimenta un senso di inadeguatezza e inefficacia sollecitando la protagonista ad immaginare per sè un futuro negativo.

Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett (2002). Locandina
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Insoddisfatta e instabile incrementa nel tempo una autovalutazione negativa, finché “All’improvviso ho realizzato che se non cambiava qualcosa in fretta avrei vissuto una vita in cui il rapporto più importante sarebbe stato quello con una bottiglia di vino, e alla fine sarei morta grassa e sola, e mi avrebbero ritrovata dopo tre settimane divorata dai cani alsaziani. O sarei diventata come Glenn Close in Attrazione fatale…”.

Così Bridget, supportata da un’amica e confidente femminista, inizia un percorso di cambiamento che la porterà a prendere consapevolezza delle sue qualità e risorse e a distanziarsi criticamente da schemi relazionali e credenze che avevano segnato le sue disavventure da single coatta e frustrata. 

Il film tratta i temi che caratterizzano i disturbi dell’alimentazione per certi versi in modo superficiale ed in maniera eccessivamente incline alla banalizzazione.

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La narrazione semplice e chiara, offre d’altra parte un ottimo canovaccio per confrontarsi con i pazienti sul bisogno di controllo, sul perfezionismo, sull’autostima, sull’importanza dell’immagine corporea e dell’apparire, costrutti implicati nei disturbi alimentari.

Indicazioni per l’utilizzo 

Oltre a fornire spunti interessanti per acquisire maggiore consapevolezza dei temi problematici, consente al paziente di confrontarsi con modalità di cambiamento efficaci che offrono speranza per il superamento del disagio avvertito.

Non va trascurato inoltre l’effetto normalizzante che può suscitare la rappresentazione di contenuti propri del paziente che vengono elaborati peraltro positivamente dalla protagonista del film. 

Il film stimola l’autoriflessività e la motivazione al cambiamento.

Trailer

LEGGI:

 AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI –  DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE –  ALCOOL – ALIMENTAZIONE – RECENSIONI – CINEMA 

 

Bibliografia:

 

Embodied Cognition – Thinking with Things

Dr. Andrea Ballatore 

School of Computer Science and Informatics, University College Dublin

 

– READ ENGLISH ARTICLES – 

 

Thinking with Things. -Immagine:  © olly - Fotolia.com-“We shape our tools and thereafter our tools shape us” – Not only our thoughts, concepts, and cognitive processes are firmly shaped and rooted in our biological constitution, but also “lifeless material things” merge with our inner self.

EMBODIED COGNITIONENCLOTHED COGNITION 

In his recent article “Embodied Cognition and the Magical Future of Interaction Design”, Canadian cognitive scientist David Kirsch provides an accessible survey of state-of-the-art research on human cognition in relation to tools. As linguist George Lakoff and philosopher Mark Johnson have argued, this major scientific paradigm aims at overcoming the idea of rationality that has permeated our culture since the Enlightenment. Starting from McLuhan’s famous statement “we shape our tools and thereafter our tools shape us”, Kirsch outlines the key tenets of embodied cognition and its broad implications. According to the paradigm, not only our thoughts, concepts, and cognitive processes are firmly shaped and rooted in our biological constitution, but also “lifeless material things” merge with our inner self.

Learning-by-Looking.-The-Case-for-Visual-Perceptual-Repetition-Priming. -Immagine: © Banana Republic - Fotolia.com
Recommended: Learning by Looking. The-Case for Visual Perceptual Repetition Priming

 READ ON SCIENCE COGNITION

Embodied cognition claims that thought is not confined to the brain, but extends and relies on our body parts and external objects, enabling us literally to “think with things”. When we interact with a tool, we rapidly absorb it into our cognitive apparatus, and we enter a new “enactive landscape” with novel affordances that we could not imagine without the tool. As psychologist Abraham Maslow famously put it, “if the only tool you have is a hammer, to treat everything as if it were a nail.” Tools impact on our motor system, on our synaesthetic perception, and our conceptualisation of reality, redrawing the boundaries of our world. For the chef, a kitchen can constitute many “cooking landscapes,” depending on their cooking style, the course being prepared, and the specific tool in their hand.

The interface between the human and the tool is difficult to identify. As anthropologist Gregory Bateson pointed out, a blind man with a stick illustrates the problem. “Where does the blind man’s self begin? At the tip of the stick? At the handle of the stick? Or at some point halfway up the stick?” From a cybernetic perspective, these intuitive boundaries are wrong, as both entities become part of an information system made up of the man and his tool.

Kirsch makes his case compelling by illustrating several instances of thinking directly with the body. To learn a complex dance sequence, professional dancers make a physical model of it by dancing through it. Such models are imprecise and distorted in particular ways to explore specific aspects of the object being studied. Similarly, violinists may rehearse a passage by working on their bowing while lowering precision on their left fingers. In this sense, the body becomes a central support of the learning process.

READ ON CYBERPSYCHOLOGY

These lines of cognitive research bear high relevance for interaction design and human-computer interaction. How far can we “rewire” ourselves into tools? What are the limits of this neuro-adaptation? Why do certain interfaces feel “natural” and disappear from our perception, and others do not? Even tentative answers, of course, will require a lot of work. Although Kirsch alludes to a “magical future” of interaction design, he fails to clarify how these insights can feed back into actual interfaces of information systems, and offers vague and cautious predictions. For anybody interested in philosophy, psychology, and human-computer interaction, the findings surveyed by Kirsh offer much food for multi-disciplinary, embodied thoughts.

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EMBODIED COGNITION – ENCLOTHED COGNITION 

 

REFERENCES:

 

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Il Conformismo Sociale ci protegge dalle Emozioni Negative?

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E se poi perdo? Il cervello risponde: sempre meglio conformarsi!

Essere indipendenti rappresenta un evento emotivamente avverso per il nostro cervello, invece il conformismo funziona di per sé come un rinforzo che spinge ad evitare le emozioni negative derivate dall’esporsi individualmente ad un potenziale fallimento.

Da sempre gli esseri umani sono suscettibili all’influenza sociale, tanto che tendono a conformarsi ai giudizi del gruppo anche quando sono in disaccordo. Questo fenomeno, definito “conformismo sociale”, può avere scopo informativo o normativo.

Il Pregiudizio Sociale Nasce con Noi. - Immagine: © oksun70 - Fotolia.com
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Nel primo caso, il soggetto si basa sugli altri per attingere informazioni su ciò che è corretto fare in un contesto sconosciuto. Nel secondo caso, la persona modifica, consciamente o inconsciamente, il proprio comportamento sotto la spinta della pressione sociale per ottenere accettazione e approvazione.

Uno studio di Berns e colleghi (2005) sulla rotazione mentale suggerisce che un disaccordo tra la propria preferenza e quella degli altri motiva la persona a cambiare la propria opinione per raggiungere il consenso e diminuire il conflitto.

Tra le aree corticali coinvolte nella scelta era stata registrata una maggiore attivazione di amigdala e caudato, evidenziando il ruolo dei processi emotivi e percettivi. Alcuni studi dimostrano inoltre il coinvolgimento della corteccia cingolata anteriore (ACC), regione cerebrale legata all’elaborazione della ricompensa, alla ricerca dell’errore e al monitoraggio del conflitto.

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A questo proposito, un recente studio (Kim, Liss, Rao, Singer & Compton, 2012) dimostra che le informazioni indicanti una deviazione dalla norma del gruppo elicitano un feedback negatività-correlato (FRN), ossia un potenziale corticale relativo a oggettive perdite ed errori nella performance. Ciò significa che il nostro cervello tratta la deviazione dalla norma sociale come un vero e proprio errore. Un recentissimo studio sui potenziali evento-correlati (Yu & Sun, 2013) ha utilizzato un compito di gambling in cui i partecipanti dovevano scegliere la parte sinistra o destra di uno schermo, ricevendo solo successivamente un feedback sulle risposte date da altri due giocatori (riducendo così la pressione del conformismo normativo).

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Inoltre, indipendentemente dalla conformità delle risposte, i soggetti potevano vincere oppure no un corrispettivo monetario. Durante la fase di risposta, le scelte non conformi al gruppo attivavano una maggiore risposta dei potenziali FRN, suggerendo che essere indipendenti rappresenti un evento emotivamente avverso per il nostro cervello e che il conformismo funzioni di per sé come un rinforzo che spinge ad evitare le emozioni negative derivate dall’esporsi individualmente ad un potenziale fallimento.

Nella fase relativa alla vincita/perdita monetaria, la scelta conforme era associata ad una minore sensazione emotiva negativa connessa alla mancata vincita (misurata con FRN) e ad una maggior soddisfazione soggettiva (misurata attraverso self-report). Quindi seguire la folla, seppur involontariamente, può ridurre l’esperienza emotiva negativa, anche quando la decisione del gruppo si dimostra sbagliata, evidenziando come i processi di affiliazione abbiano anche un ruolo protettivo rispetto all’esperienza emotiva avversa.

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Questi studi sottolineano come il fenomeno del conformismo sia guidato non solo da motivi informativi o di pressione sociale, ma anche da processi emotivo-motivazionali. Questi ultimi giocano un ruolo importante nell’incentivare i comportamenti di aggregazione sociale attraverso meccanismi di anticipazione di un minor impatto emotivo in caso di fallimento e, in ogni caso, di previsione di un maggior rischio emotivo quando si sceglie liberamente. In altre parole, sarebbe sempre meglio conformarsi perché, in caso di fallimento, l’eventuale perdita “costa” comunque meno…in termini emotivi, si intende!

LEGGI:

PSICOLOGIA SOCIALE – NEUROPSICOLOGIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

No – I giorni dell’arcobaleno (2013) di Pablo Larrain – Recensione

 

Recensione

No – I giorni dell’arcobaleno

di Pablo Larrain (2013)

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No-i-giorni-dell-arcobaleno - recensione
No – I giorni dell’Arcobaleno (2013). Locandina

“No – I giorni dell’arcobaleno” ripercorre i 27 giorni di campagna elettorale del referendum che il dittatore cileno Augusto Pinochet indisse nel 1988 per ricevere il consenso a prolungare di 8 anni la permanenza al potere.

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Dopo quindici anni di regime autoritario, e spinto dalle crescenti pressioni internazionali – non ultima quella degli Stati Uniti che nel 1973 avevano appoggiato il golpe contro Allende ma dovevano ora confrontarsi con l’immagine sempre più compromessa del Generale – Pinochet credette che attraverso un referendum sulla sua persona sarebbe stato possibile legittimare il controllo assoluto del Paese.

La consultazione popolare si preannunciava fortemente condizionata dalla dittatura, che stabilì due spazi televisivi di quindici minuti ciascuno per il fronte del Sì e per il No; la campagna degli oppositori fu relegata in tarda notte per fare in modo che la maggior parte dei cittadini non potesse seguirla, mentre il voto favorevole a Pinochet si avvaleva non tanto del contesto televisivo ufficialmente concesso quanto di un sistema di informazione che da molti anni non concedeva spazio alcuno alle voci dissidenti.

Come superare la paura che imprigionava il popolo, il dolore dei soprusi subiti che si era progressivamente silenziato trasformandosi in un’avvilita impotenza?

Il Grande Capo - Locandina
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Come combattere il pensiero dominante avendo a disposizione quindici minuti notturni per soli 27 giorni? Le opposizioni democratiche dapprima idearono una campagna che ricordasse i giorni del golpe, le torture, il dramma dei desaparecidos, la violenza con cui era stata soppressa ogni forma di Stato libero, ma un noto pubblicitario contattato perché fornisse la propria opinione cambiò radicalmente prospettiva.

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“Il dolore fa paura” era la sua convinzione, e in questo modo nacque la linea politica che avrebbe portato al trionfo del 5 Ottobre; l’allegria, solo l’allegria di un nuovo Cile avrebbe potuto risvegliare le coscienze paralizzate, solo l’immagine di un Paese in cui la libertà non fosse una condizione neutra bensì un valore che spalancava innumerevoli scenari di vita alternativi avrebbe reso possibile il miracolo.

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Come simbolo fu scelto l’arcobaleno, ciò che più rappresentava donne e uomini diversi accomunati dal bisogno di immaginare un mondo finalmente colorato.

Il fronte del No si spaccò; passare sotto silenzio le tragedie del passato appariva inaccettabile, costruire spot televisivi che dominati da logiche di marketing mostravano persone felici impegnate a consumare un prodotto, la democrazia, cantando e ballando, sorridendo come nulla fosse accaduto nei quindici anni precedenti, sembrava offendere la memoria delle vittime, la dignità di un popolo violentato da una dittatura feroce.

L’artefice di questa svolta fu accusato di porre il futuro democratico del Cile sullo stesso piano di un qualunque progetto commerciale e di essere asservito alla propria ambizione di gloria; col passare dei giorni tuttavia i contenuti della campagna divennero più chiari e condivisi, iniziò a diffondersi la percezione che la gente comune, le persone del popolo apparentemente così difficili da raggiungere fossero in realtà a portata di messaggio.

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Avvicinandosi al referendum il regime cominciò a temere per il risultato finale, si accorse che la propria campagna elettorale aveva l’aspetto stanco e vecchio di una celebrazione sempre uguale a se stessa e fece ricorso a strategie conosciute, l’intimidazione degli oppositori, le cariche dei militari alle manifestazioni, la delegittimazione dell’avversario attraverso bugie, censure, manipolazioni. Ciò che poi avvenne è storia: il 5 Ottobre 1988 il Cile superò Pinochet. Unica arma, un arcobaleno.

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CINEMA  – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA 

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APPROFONDIMENTI:

Il Rilassamento modifica L’espressione Genica

 

 

Il Rilassamento modifica L'espressione Genica. - Immagine: © Maridav - Fotolia.com

L’elicitazione di una Risposta di Rilassamento, soprattutto in coloro che utilizzano da molti anni pratiche di rilassamento, riduce lo stress e promuove il benessere attraverso un migliore utilizzo e produzione di energia da parte delle cellule dei nostri tessuti.

La Risposta di Rilassamento (RR) è uno stato fisiologico e psicologico opposto alla risposta da stress. Risultati ottenuti da ricerche condotte con rigorosi criteri scientifici dimostrano che la capacità di tutti quegli interventi di rilassamento “mind-body” per ridurre lo stress cronico e migliorare il benessere, avvengono attraverso l’induzione di una RR.

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Diversi studi hanno riportato che l’elicitazione di una RR rappresenta un intervento terapeutico efficace per ridurre gli effetti clinici avversi legati ad alcuni disturbi stress-correlati, come ad esempio ipertensione, ansia, insonnia, diabete e artrite reumatoide.

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La RR si manifesta quando un individuo si concentra su una parola, un suono, una frase, una preghiera, un movimento, ignorando i pensieri di tutti i giorni. Questi 2 passaggi, ossia la concentrazione su una particolare azione e lo spostamento dell’attenzione da quelli che sono i pensieri coscienti, determina una interruzione nel flusso di coscienza. 

Esistono pratiche di rilassamento mente-corpo millenarie in grado di indurre una RR (la meditazione trascendente, lo Yoga, il Tai Chi, il Qi Gong e alcune preghiere rituali) e pratiche  più recenti e altrettanto efficaci come il rilassamento muscolare progressivo, il Biofeedback e la Mindfulness.

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Ogni volta che una di queste pratiche elicita una RR si verificano cambiamenti biochimici caratterizzati da: riduzione del consumo di ossigeno e dell’eliminazione di anidride carbonica, riduzione della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca e respiratoria,  ridotta sensibilità alla noradrenalina. La RR è anche in grado di modificare l’attività cerebrale sia livello corticale che sottocorticale.

In uno studio del 2008, condotto da Dusek e collaboratori, è stata fornita la prima evidenza che l’induzione di una RR in soggetti sani a riposo che praticano tecniche di rilassamento mente-corpo produce una modificazione dell’espressione genica.

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In un recente lavoro pubblicato sulla rivista ”Plos ONE” e condotto da un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital e Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Medical School diretti da Herbert Benson e Towia Libermann, sono stati studiati i geni la cui espressione è modulata da diverse pratiche di rilassamento, come lo yoga, la preghiera rituale, la meditazione o il biofeedback.

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La ricerca ha coinvolto un gruppo di 26 volontari sani, senza alcuna precedente esperienza o pratica di tecniche di rilassamento (novizi), e un secondo gruppo di 26 volontari sani, con lunga esperienza, da 4 a 20 anni di pratica continua, di attività in grado di elicitare una risposta di rilassamento (praticanti esperti). Nel corso della ricerca il gruppo dei novizi è stato sottoposto ad un addestramento individuale di 8 settimane alla pratica di alcune tecniche di rilassamento. Per tutti i soggetti dei 2 gruppi reclutati è stata effettuata una valutazione delle eventuali possibili modificazioni nell’espressione di circa 22.000 geni candidati, prima della sessione di pratica e dopo un breve intervallo di tempo dalla fine della sessione. I risultati ottenuti sono stati confrontati tra il gruppo di praticanti esperti e il gruppo dei novizi, prima e dopo l’addestramento di 8 settimane.

Bhasin e colleghi hanno così evidenziato che sia il gruppo dei praticanti esperti, sia il gruppo dei novizi addestrati, hanno variazioni nell’espressione genica, statisticamente più significative nei primi.

La Risposta di Rilassamento aumenta l’espressione di alcuni geni correlati al metabolismo energetico, alle funzioni mitocondriali, alla secrezione di insulina; la stessa Risposta di Rilassamento è anche in grado di ridurre l’espressione di geni correlati alle risposte infiammatoria e da stress.

Pillole di…… Meditazione. - Immagine: © rudall30 - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Pillole di…… Meditazione.

Queste modificazioni nell’espressione genica sono orientate ad aumentare la produzione di energia al livello dei mitocondri, permettendo alle cellule di rispondere adeguatamente all’aumentato fabbisogno di energie, presente in ogni condizione di stress. Le stesse modificazioni riducono la produzione di radicali liberi, potenzialmente dannosi per le cellule, e i fenomeni di morte cellulare programmata (apoptosi) o di autofagocitosi.

In conclusione, i risultati davvero interessanti di questo studio indicano per la prima volta che l’elicitazione di una Risposta di Rilassamento, soprattutto in coloro che utilizzano da molti anni pratiche di rilassamento, riduce lo stress e promuove il benessere attraverso un migliore utilizzo e produzione di energia da parte delle cellule dei nostri tessuti.

Queste modificazioni, conseguenti alla modificata attività di alcuni geni, sembrerebbero indipendenti dalle tecniche di rilassamento praticate (yoga, meditazione, preghiera, etc.).

LEGGI:

STRESS – GENETICA & PSICHE – MEDITAZIONE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Allenarsi alla Compassione? E’ possibile

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La compassione sembra essere qualcosa che può essere migliorato con l’allenamento e la pratica. Gli adulti possono essere addestrati alla compassione.

Fino ad oggi poco si sa, in termini scientifici, circa il potenziale umano di coltivare la compassione – lo stato emotivo per cui siamo spinti a prenderci cura altruisticamente di chi soffre o è in una condizione svantaggiata.

Un nuovo studio condotto dai ricercatori del Waisman Center della University of Wisconsin-Madison mostra che gli adulti possono essere addestrati alla compassione.
Nello studio, i ricercatori hanno addestrato un gruppo di giovani adulti alla meditazione compassionevole, un’antica tecnica buddhista per accrescere il senso di accudimento per le persone che soffrono.

La compassione da cosa è determinata?. - Immagine: © DAN - Fotolia.com
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Durante la meditazione hanno immaginato un momento in cui qualcuno ha sofferto e poi meditato desiderando che la sua sofferenza venisse alleviata. Hanno ripetuto frasi per aiutarsi a concentrarsi sulla compassione come “Che tu possa essere libero dalla sofferenza. Che tu possa avere la gioia e la semplicità“.

Inizialmente la meditazione si focalizzava su una persona cara (un amico o un familiare) per la quale fosse più semplice provare compassione. Poi, praticavano la compassione per se stessi e infine per un estraneo. in ultimo, veniva loro chiesto di praticare la meditazione compassionevole per qualcuno che consideravano una “persona difficile” con la quale avevano una relazione conflittuale.

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È una specie di allenamento con i pesi“, dice Weng, “Usando questo approccio sistematico, abbiamo scoperto che le persone possono effettivamente costruire la loro muscolatura compassionevole e rispondere alle sofferenze altrui, con la cura e il desiderio di aiutare.”
la formazione alla compassione è stata confrontata con un gruppo di controllo che ha imparato la rivalutazione cognitiva, una tecnica in cui le persone imparano a riformulare i loro pensieri per sentirsi meglio.

Entrambi i gruppi hanno ascoltato le istruzioni audio per 30 minuti al giorno per due settimane. se l’addestramento aveva funzionato i partecipanti all’esperimento avrebbero dovuto mostrare maggiore altruismo nei confronti di persone sconosciute.
La ricerca ha testato questo chiedendo ai partecipanti di giocare un gioco in cui hanno avuto la possibilità di spendere il proprio denaro per aiutare qualcuno che ne aveva bisogno.

Ciascuno ha giocato on-line con due giocatori anonimi, il “Dittatore” e la “vittima”. Il dittatore condivide con la vittima una quantità di denaro ingiusta; i partecipanti dovevano poi decidere quanto spendere del proprio denaro per pareggiare la divisione ingiusta e ridistribuire i fondi dal dittatore alla vittima.
Abbiamo scoperto che le persone addestrate alla compassione erano più propense a spendere il proprio denaro altruisticamente per aiutare qualcuno che è stato trattato ingiustamente rispetto a quelli che erano stati addestrati alla rivalutazione cognitiva“, ha detto Weng.

Per verificare se le risposte altruistiche si riflettevano in cambiamenti a livello cerebrale i ricercatori hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), prima e dopo l’allenamento alla compassione. Durante la risonanza, i partecipanti hanno visualizzato immagini in cui era rappresentata la sofferenze umana, e hanno utilizzato le abilità di compassione apprese. Il gruppo di controllo è stato esposto alle stesse immagini, verso le quali ha utilizzato la rivalutazione cognitiva.
I risultati hanno mostrato che le persone più altruiste, dopo la formazione alla compassione, sono state quelle che hanno mostrato il maggior numero di cambiamenti a livello cerebrale durante la visualizzazione della sofferenza umana. L’attività nella corteccia parietale inferiore, una regione coinvolta nell’ empatia, è risultata aumentata.

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La formazione alla compassione ha generato anche una maggiore attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nelll’attività di comunicazione con il nucleo accumbens, le regioni cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni e nelle emozioni positive.

La compassione dunque sembra essere qualcosa che può essere migliorato con l’allenamento e la pratica. “Ci sono molte possibili applicazioni di questo tipo di formazione”, spiega Davidson. “Nelle scuole la formazione alla compassione e alla gentilezza può aiutare i bambini a imparare a essere in sintonia con le proprie emozioni e con quelle degli altri, diminuendo il bullismo; o aiutare le persone che hanno problemi come l’ansia sociale e il comportamento antisociale.”

LEGGI:

NEUROPSICOLOGIA – MEDITAZIONE – EMPATIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Scuole di Psicoterapia: la Selezione degli Allievi

 

 

Scuole di Psicoterapia: la Selezione degli allievi. - Immagine:© Kurhan - Fotolia.com Quando ho la fortuna di avere davanti a me una ragazza o un ragazzo che si apre con onestà e curiosità, posso anche io godermi una discussione animata, aprirmi, raccontare meglio e in modo creativo il percorso personale e sociale che mi ha portato lì, a stare seduta davanti a lei o lui, a raccontarle questo progetto. Se una persona mi piace, lotto perché si iscriva. Ci tengo, glielo faccio capire. 

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Nella nostra scuola di terapia sono spesso io a occuparmi di selezionare gli allievi. Selezione? Non diciamoci baggianate. Si chiama selezione, e tuttavia con molti di essi parlo anche di motivazione. Gli aspetti di selezione sono presenti ovviamente; capita di incontrare ragazzi e ragazze molto sofferenti, o francamente bizzarri.

Più spesso però gli psicologi che vengono a trovarci vogliono capire, capire che tipo di scuola hanno davanti, se è conveniente iscriversi, se è il posto giusto per la loro personalità o i loro gusti.

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E noi vogliamo motivarli a iscriversi, vogliamo -se posso dirlo- “vendere” il progetto didattico in cui crediamo e per il quale così tanto ci siamo spesi.

Recentemente un ragazzo mi dice: “a me piace girare per scuole diverse, per sentire che aria tira”. Certo per chi è dall’altra parte del tavolo tutto questo rappresenta una grande fatica. E spesso una frustrazione.

I ragazzi arrivano ansiosi, spesso timorosi del giudizio, chiusi come ricci, o timorosi di essere esclusi o malgiudicati. Si portano dietro i loro problemi, le difficoltà economiche, le paure di non riuscire, i timori di essere giudicati.  A volte la preoccupazione del giudizio impedisce loro di aprirsi e farsi conoscere. 

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È naturale allora ragionare insieme su alcuni aspetti di questi incontri che potrebbero renderli più soddisfacenti per chi chiede di iscriversi e per chi incontra per la prima volta un giovane che non conosce.

Per le scuole di terapia: 

Fate una presentazione della vostra scuola che sia chiara, esplicitate con onestà i punti di forza e i punti di debolezza della vostra proposta didattica e le aree di sviluppo futuro più interessanti. Non siate trionfalistici o manipolativi, ma nemmeno troppo dediti all’understatement.

Ragionate anche su alcune caratteristiche della scuola che la rendono più adatta a determinati tipi di studenti e meno adatta ad altri tipi di studenti.

Non usate eccessivamente la seduzione: rischiate di attrarre i più suggestionabili, i più fragili fra gli studenti.

Per gli studenti:

Siate aperti e dite con chiarezza e senza timori le vostre esigenze. Spiegate le difficoltà che avete, le perplessità sulla scelta, il desiderio di capire meglio il tipo di approccio clinico e il tipo di scuola in cui siete arrivati a fare il colloquio; dichiarate senza timori le vostre preoccupazioni, i vostri percorsi personali e esistenziali che vi hanno portato a essere seduti davanti a quella persona.  

Fate anche domande personali, per esempio: “che cosa le piace del suo approccio,  cosa le piace di meno?”; oppure: “Se dovesse dire un punto di forza della sua scuola, quale sarebbe?”

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Siate propositivi, non siate impauriti di fare domande anche dure ed esplicite. Quando ho la fortuna di avere davanti a me una ragazza o un ragazzo che si apre con onestà e curiosità, posso anche io godermi una discussione anche animata, aprirmi, raccontare meglio e in modo creativo il percorso personale e sociale che mi ha portato lì, a stare seduta davanti a lei o lui, a raccontarle questo progetto. Se una persona mi piace, lotto perché si iscriva. Ci tengo, glielo faccio capire. 

Andate alle presentazioni ufficiali della scuola e cercate di comprendere lo stile didattico, lo spirito che si respira, le relazioni tra gli organizzatori e chi si presenta a voi.

Esame di Stato- Professione Psicologo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Chiedete se c’è una open school, uno spazio in cui si ospitano persone non iscritte alla scuola per gettare uno sguardo sulla didattica, sul clima del gruppo, sul tipo d’insegnamento e su come esso è fornito.

È chiaro che chi si occupa di una scuola di terapia ha interesse ad avere allievi per sopravvivere e svilupparsi. Ed è altrettanto chiaro che per fare questo è necessario che l’incontro tra quel determinato tipo di scuola e quel tipo di allievo funzioni, sia di soddisfazione per tutti.

Guardando gli allievi delle nostre scuole mi commuove sempre quando vedo ragazzi e ragazze che si muovono all’interno del percorso didattico con consapevolezza soddisfazione e allegria, e mi spiace sempre molto quando invece questo incontro non è felice e utile come speravo.

Non tutto si può prevedere prima, ma molto possiamo fare per aumentare l’onestà delle proposte didattiche e l’armonia degli incontri tra scuole e allievi.

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PSICOLOGIA & FORMAZIONE – 

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Il Concetto di Saggezza in Psicologia

 

 

Il concetto di Saggezza in Psicologia. -Immagine: © Lonely - Fotolia.comLa saggezza è stata oggetto di studi, riflessioni e ricerche. L’accordo comune sembra essere quello di intendere la saggezza come “fine ultimo”, meta ideale della vita di ogni essere umano e sua massima espressione.

La saggezza ha da sempre interessato studiosi di varie discipline. Dalla filosofia allantropologia, dall’arte alla letteratura. Anche le discipline psicologiche, in particolare quelle appartenenti ad alcuni orientamenti teorici, hanno indagato la saggezza in termini sia culturali e collettivi sia legati alle caratteristiche individuali dell’individuo.

Pensando ad una brevissima rassegna sulla saggezza non possiamo non ricordare Pizia, che ha definito Socrate “il più saggio”, poiché “sa di non sapere”. Cicerone nel De Senectude studia la saggezza, sostenendone il suo legame con la vecchiaia, tale da fargli sostenere la necessità di riflettere su quattro particolari aspetti della vecchiaia, condizione per il raggiungimento della saggezza: conoscerla, prepararsi a essa, ritardarla e viverla bene (Ripamonti, Clerici, 2008, p. 36).

Nel suo dialogo Carmide, Platone afferma che la saggezza corrisponde alla temperanza (sophrosyne). Anche Aristotele intende la saggezza come una componente delle virtù dianoetiche, cioè relative alla ragione stessa, insieme all’arte, alla scienza e all’intelletto. Secondo il filosofo greco, il saggio sa cosa è bene per l’uomo e lo mette in pratica. Nell’Etica Nicomachea, distingue varie forme di saggezza, tra cui la politike, la phronesis, che si interessa della vita del singolo e l’oikonomia, l’amministrazione della casa. Ciò che permette il raggiungimento della saggezza conduce al benessere, tanto da fargli ritenere che la saggezza sia una delle più alte forme di felicità.

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In tempi relativamente più recenti, Montaigne afferma che il raggiungimento della saggezza si ottenga solamente tramite la conoscenza di se stessi. Forse per la prima volta, la conoscenza di sé, intesa come percorso di scoperta e di indagine delle proprie caratteristiche individuali e del proprio funzionamento, viene intesa come percorso possibile per il raggiungimento della saggezza per così dire “personale”.

La saggezza è stata oggetto di studi, riflessioni e ricerche. L’accordo comune sembra essere quello di intendere la saggezza come “fine ultimo”, meta ideale della vita di ogni essere umano e sua massima espressione. Intendere la saggezza come massima espressione delle potenzialità umane sottende il naturale tentativo che l’essere umano compie per giungere a uno status in cui le potenzialità evolutive raggiungano il massimo livello e donino la vita dell’uomo di completezza e di profondo senso.

L’esperienza e l’eta avanzata non sono sempre state intese come conditio sine qua non per il funzionamento “d’eccellenza” che sembra connotare la saggezza. Passando in rassegna gli studi di Freud, ad esempio, si nota come egli, per primo in ambito psicologico, abbia fornito una visione negativa della vecchiaia, slegandola dalla sua relazione con la saggezza.

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Alcuni autori (Spagnoli, 1995) ricordano come per Freud l’invecchiamento sia perdita, sradicamento e involuzione. La lettura delle opere freudiane propone “in modo tragico l’immagine più opaca della vecchiaia e costituisce un crudo esame di realtà che ci tiene coi piedi su questa terra, aiutandoci a capire le vicende di chi invecchia nel dolore” (ibidem, p. 62).

Lo stesso Freud, nel suo trattato del 1903, indica come l’età avanzata sia un fattore di rischio per la riuscita del trattamento analitico, data l’elevata quantità di tempo necessario e la rigidità dei processi psichici tipica di questa fase della vita. Ciò che mantiene la possibilità di un trattamento con persone anziane è solo la finalità mnestica, cioè aiutare il paziente a ricordare la propria storia. La visione di Freud evidenzia gli aspetti della vecchiaia legati al deterioramento e alla perdita. Fortunatamente, gli ultimi sviluppi sugli interventi con gli anziani (come è già stato scritto qui su State of Mind) hanno messo alla luce la molteplicità delle possibilità di intervento oggi disponibili.

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Altri autori, invece, hanno ridefinito la vecchiaia, riportandola, da un lato, alla visione positiva, trasformativa e creativa indicata dal suo legame con la saggezza e, dall’altro, non negandone gli aspetti legati alla perdita e al deterioramento fisico e psichico indicati da Freud. In particolare, Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, si è interessato allo studio della saggezza, dedicandole un ruolo privilegiato all’interno del processo di individuazione, meta ideale di ogni essere umano e processo trasformativo di costruzione della propria peculiarità individuale.

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All’interno del panorama di teorie che si ispirano, più o meno esplicitamente, alla psicologia analitica, si riconosce un capovolgimento della visione negativa della vecchiaia formulata da Freud. Spagnoli, in un altro articolo recente, indica come Jung concepisca la vecchiaia: “Mentre il senso del mattino della vita consiste nel mettere radici nel mondo, trovare il proprio posto nella società, lavorare ed amare, il senso del pomeriggio della vita consiste nel mettere radici nell’anima per accedere a un tipo di saggezza che supera l’Io e la sua prospettiva sul mondo. Durante la prima metà della vita il fine è la natura, durante la seconda metà della vita è la cultura, ovvero l’allargamento della soggettività, la differenziazione e l’integrazione delle parti della propria personalità fino ad allora rimaste inconsce” (Spagnoli, 2002, p. 81).

Anche all’interno della letteratura cognitivista sono presenti studi volti ad indagare la saggezza, nelle sue forme più pragmatiche e concrete. In questo caso l’accento è posto sugli aspetti della saggezza che si esplicano nella soluzione dei problemi e nell’affrontare gli eventi della realtà concreta di ogni giorno.

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Baltes e Staudinger, due tra i massimi esponenti degli studi sulla saggezza in ambito cognitivista, definiscono la saggezza come strategia meta-euristica che guida le conoscenze che l’individuo possiede degli aspetti pragmatici della vita e delle modalità che portano l’essere umano all’eccellenza (Baltes & Staudinger, 2000).

Da questa definizione si può cogliere la presenza, come peraltro negli studi junghiani, della dimensione dell’alto funzionamento, di un insieme di capacità che portano l’individuo alla massima espressione delle proprie potenzialità. Nello specifico, nella teoria analitica junghiana le potenzialità si articolano seguendo tematiche ed elementi tipici della psicologia dinamica, come l’integrazione tra coscienza e inconscio, la costruzione di una individualità autentica e specifica per ogni essere umano e l’accettazione della molteplicità degli aspetti legati al Sé.

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In ambito cognitivista, invece, il focus viene spostato sugli aspetti del funzionamento, sulla gestione dei problemi e sulla loro risoluzione tramite strategie cognitive adattive ed “economiche”.

Utilizzando la terminologia greca utilizzata per definire la saggezza, si può sostenere che la psicologia analitica junghiana si concentri sulla Sophia, la Conoscenza, la sapienza propriamente detta, costrutto dinamico e articolato; le teorie cognitiviste si focalizzano sulla conoscenza concreta, il “sapere” inteso in termini di competenze, strategie da mettere in atto nella vita di tutti i giorni.

Per quest’ultimo aspetto è possibile utilizzare il termine phronesis, cioè il sapere e la sua realizzazione nella quotidianità, indicati anche con il termine practical wisdom.

Alla luce di quanto detto finora, sembra che la psicologia, aiutata dalla filosofia, si sia concentrata su che cosa sia la saggezza, raggiungendo risultati parziali, caratteristici dei singoli campi di interesse e degli orientamenti teorici correlati. 

Comprendere a pieno cosa significhi saggezza potrebbe contribuire a comprenderne non sola la natura, le caratteristiche e funzioni ma permetterebbe anche di disporre di “valore” (per usare un termine ACT…) da perseguire.

LEGGI: 

PSICOLOGIA & FILOSOFIA – SCIENZE COGNITIVE – PSICOANALISI – TERZA ETA’ – SIGMUND FREUD

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino – Recensione

 Recensione del film: 

La Grande Bellezza

(2013) di Paolo Sorrentino

 


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LA GRANDE BELLEZZA DI PAOLO SORRENTINO - RECENSIONE
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina

La “non volontà” sembra essere collegata ad una apparente pigrizia di fondo che sembra essere il file rouge che collega le storie.

Tuttavia, dietro questa apparente inerzia, si nasconde un senso di vuoto, solitudine e disillusione che, nelle varie storie, non tarda a essere evinto.

 

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. Recensione

Una Roma moderna e non scevra delle mode e le abitudini attuali fa da palcoscenico all’ultimo film di Paolo Sorrentino, “La Grande bellezza”. Il regista, noto per altri capolovori (ex:Il divo) non lontano dall’attualità nella quale il nostro paese vive, mediante una serie di storie intrecciate e dense di matrici simboliche veicolanti messaggi e idee speculari al tempo vivente, nel film fornisce una fotografia di una città ormai albergata da “tanto rumore” e che,

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina
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difficilmente, dietro la coltre riesce a cogliere ciò che un tempo era patrimonio dell’umanità, come l’emozione, il pensiero, il rispetto.

 

Protagonista è un eccezionale Tony Servillo, alias Gep Gambardella,  affermato giornalista e in passato scrittore di un romanzo (L’apparato Umano) apprezzato dai vari amici ma unico del suo genere in quanto privo di seguito.

 

Costante nel film è l’interrogativo, posto direttamente dallo stesso Gep e ripreso dai suoi amici circa la motivazione del suo non più scrivere. La “non volontà” sembra essere collegata ad una apparente pigrizia di fondo (nel film è possibile cogliere la passione della mondanità per Gep e i suoi amici) che sembra essere il file rouge che collega le storie.

 

 

Tuttavia, dietro questa apparente inerzia, si nasconde un senso di vuoto, solitudine e disillusione che, nelle varie storie, non tarda a essere evinto.

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Ognuno, Gep con la sua solitudine e la sua continua ricerca della “grande bellezza” della vita, Romano con il suo pseudotentativo di divenire attore, Ramona con il suo corpo visto come veicolo di piacere e, nello stesso tempo, di sofferenza, al di là del rumore circolante, vivono “l’horror vacui del tempo presente” facendo appello a ciò che sembrano essere i miti del tempo (inerzia, esibizione del corpo, etc.) al fine di “sentirsi vivi e ingannare la morte”.

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In una versione del reale dove “tutto è un trucco” determinante risulta  la frase utilizzata dalla “Santa” verso l’epilogo del film (“Sai perchè io mangio solo radici, perchè le radici sono importanti”) che funge da ponte con un passato apparentemente dimenticato (Roma caput mundi) ma che non tarda a ritornare come potente significante di un tempo trascorso ma di cui si è debitori.

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. Recensione

 

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LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – CINEMA –  PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

Coenzima Q10 e i benefici nell’Insufficienza Cardiaca Grave

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il Coenzima Q10 ridurrebbe tutte le cause di mortalità del 50%.  E’ il primo farmaco a migliorare la mortalità per insufficienza cardiaca in oltre un decennio e dovrebbe essere aggiunto al trattamento standard.

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Secondo i risultati di uno studio randomizzato in doppio cieco, presentato al congresso Heart Failure 2013 (la principale riunione annuale della Società Europea di Cardiologia), il Coenzima Q10 ridurrebbe tutte le cause di mortalità del 50%. Secondo il professor Svend Aage Mortensen è il primo farmaco a migliorare la mortalità per insufficienza cardiaca in oltre un decennio e dovrebbe essere aggiunto al trattamento standard.

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Il Coenzima Q10 (CoQ10) si trova naturalmente nel corpo ed è essenziale per la sopravvivenza; funziona come un vettore di elettroni nei mitocondri, la centrale elettrica delle cellule, per la produzione di energia ed è anche un potente antiossidante.

È l’unico antiossidante che gli esseri umani sintetizzano nel corpo.
Livelli di CoQ10 sono diminuiti nel muscolo cardiaco di pazienti con insufficienza cardiaca. Le statine sono usate per trattare molti pazienti con insufficienza cardiaca perché bloccano la sintesi del colesterolo, ma questi farmaci bloccano anche la sintesi di CoQ10.
Studi controllati in doppio cieco hanno dimostrato che il CoQ10 migliora i sintomi, la capacità funzionale e la qualità di vita nei pazienti con insufficienza cardiaca, senza effetti collaterali.
Lo studio Q-SYMBIO ha seguito per due anni 420 pazienti con grave insufficienza cardiaca trattati con CoQ10 o placebo. I centri partecipanti erano in Danimarca, Svezia, Austria, Slovacchia, Polonia, Ungheria, India, Malesia e Australia.
Le probabilità di verificarsi di un primo evento cardiovascolare maggiore (MACE) – che comprendeva l’ospedalizzazione non pianificata a causa del peggioramento dell’insufficienza cardiaca, morte cardiovascolare, trapianto cardiaco urgente e supporto circolatorio meccanico – erano dimezzate nei pazienti che avevano assunto il CoQ10. Risultava anche dimezzato il rischio di morte per tutte le cause, nei pazienti nel gruppo di CoQ10 rispetto a quelli nel gruppo placebo.

I pazienti trattati CoQ10 avevano mortalità cardiovascolare significativamente più bassa e più basso numero di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca. Inoltre si verificavano meno eventi avversi nel gruppo CoQ10 rispetto al gruppo placebo.
Il CoQ10 è presente negli alimenti, tra cui carne rossa, piante e pesci, ma i livelli non sono sufficienti per avere un impatto sull’insufficienza cardiaca.

Il CoQ10 è anche venduto come integratore alimentare, ma secondo il professor Mortensen “Gli integratori alimentari possono influenzare l’effetto di altri farmaci tra cui gli anticoagulanti ed i pazienti dovrebbero chiedere consiglio al proprio medico prima di decidere di assumerli.”
Anche i pazienti con cardiopatia ischemica che usano le statine potrebbero beneficiare del CoQ10. “Non abbiamo prove controllate che dimostrano che la terapia con statine più CoQ10 riduca il rischio di mortalità rispetto a quella con sole statine, ma le statine riducono il CoQ10, e questo impedisce l’ossidazione delle LDL in modo efficace, quindi penso che i pazienti ischemici dovrebbero integrare la terapia con statine con il CoQ10.”

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BIBLIOGRAFIA:

Psicologo Penitenziario: Aspetti Etici e Conflitti Deontologici

 

di Monica Salvi, Psicologa

 

Psicologo Penitenziario- Aspetti Etici e Conflitti Deontologici. - Immagine: © jtanki - Fotolia.comLa riforma dell’Ordinamento Penitenziario, risalente al 1975, ha avviato lo sviluppo della Psicologia in ambito penitenziario e, parallelamente, è sorta la necessità di una riflessione circa i principi etici e deontologici, enunciati nel Codice Deontologico, che guidano il lavoro dello psicologo in ambito penitenziario.

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Le questioni etiche che interessano il lavoro dello psicologo penitenziario presentano alcuni elementi di criticità, che possono talvolta indurre in pratiche cliniche non sempre adeguate o in situazioni contraddittorie di difficile risoluzione.

Il carcere, il contesto nel quale lo psicologo penitenziario è chiamato a operare, presenta la particolarità di essere un’istituzione totale che di per sé genera situazioni di disagio e di disadattamento, può slatentizzare problematiche psicologiche e indurre vere e proprie “sindromi da prisonizzazione” (Clemmer, 1941).
La perdita delle relazioni affettive e l’isolamento dalla società, il possesso di un numero limitato di beni e l’esclusione della possibilità di usufruire di certi servizi, il sentimento diffuso di precarietà e insicurezza personale, la perdita dell’autonomia individuale e la deresponsabilizzazione, condizionano in modo significativo il detenuto, dal punto di vista psicologico e comportamentale e rendono l’intervento di sostegno più complesso da realizzare.

L’Intervento dello Psicologo Penitenziario. - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Inoltre la fatiscenza degli spazi, le condizioni acustiche del contesto e la necessità di garantire la funzione di controllo da parte del personale di custodia sono elementi che spesso intralciano la creazione di un setting “esterno” ed “interno” che permetta l’intervento psicologico, mettendo lo psicologo penitenziario nella posizione paradossale di dover svolgere il suo mandato ma di non essere messo nelle condizioni di svolgerlo dall’istituzione stessa.

Per quanto riguarda il già delicato rapporto tra committente e fruitore dell’intervento, nel caso dello psicologo che opera in ambito penitenziario, tale non corrispondenza è pressoché una costante e costituisce il problema del “doppio mandato”.
Il committente in questo caso è l’Istituzione, che primariamente segue un mandato che riguarda l’ordine e la sicurezza e la cui richiesta sembra essere finalizzata prevalentemente al contenimento delle situazioni critiche, in primis l’elevato rischio suicidario, più che orientata ad un progetto riabilitativo del detenuto.

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Il fruitore dell’intervento spesso non avanza una richiesta di sostegno e di aiuto ma si rappresenta l’intervento e la relazione con lo psicologo come un tramite per poter, ad esempio, ottenere l’idoneità a fruire di benefici previsti dalla legge (misure alternative, permessi premio, ecc).
L’impossibilità inoltre di scegliere il professionista a cui rivolgersi incide sfavorevolmente sulla motivazione e sulla creazione dell’alleanza: il detenuto può manifestare rilevanti meccanismi di difesa che rendono difficile una relazione autentica, può tendere a simulare aspetti patologici, può mettere in atto strategie di manipolazione e strumentalizzazione per ottenere vantaggi.

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Tale “conflitto di interessi” costituisce un aspetto caratterizzante il contesto in cui opera lo psicologo penitenziario e necessita di una riflessione continua circa la propria prassi clinica, al fine di non generare ulteriore sofferenza in soggetti già sofferenti per la condizione di restrizione in cui si trovano.

 Per ciò che riguarda la riservatezza e il segreto professionale lo psicologo penitenziario è chiamato a valutare le diverse situazioni e a comunicare al detenuto come i confini della riservatezza possono variare. Lo psicologo penitenziario è tenuto al segreto professionale, soprattutto se le informazioni raccolte possono causare  un danno al detenuto se non adeguatamente protette, ma è altrettanto tenuto a chiarire al detenuto le limitazioni del segreto professionale, soprattutto in situazioni specifiche (ideazioni e/o agiti autolesionisti, ideazione anticonservativa, rischio di agiti violenti eterodiretti, ecc.).

Lo psicologo penitenziario sempre più spesso è chiamato a intervenire con detenuti di provenienza geografica e linguistica straniera e appartenenti a culture molto diverse. Per comprendere queste persone è necessario acquisire conoscenze specifiche relative ai differenti sistemi culturali, ai loro valori e alle loro modalità di attribuzione di significato agli eventi, nonché individuare i possibili pregiudizi all’interno della cultura locale del carcere.

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Infine lo psicologo penitenziario si confronta con una diversità di reati che possono scatenare reazioni emotive negative, giudizio e disapprovazione morale che, se non riconosciuti ed adeguatamente elaborati, possono avere un impatto negativo nell’intervento e nella relazione con il detenuto.

Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa. - Immagine: © carlosgardel - Fotolia.com
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Felice Tagliente (2002) propone alcune linee guida deontologiche che possono risultare utili per operare con maggiore serenità: comunicare nella fase iniziale del rapporto con il detenuto le finalità, le modalità delle prestazioni che si può offrirgli e i limiti della riservatezza, essere imparziale con i detenuti italiani e stranieri, astenersi dall’imporre al detenuto il proprio sistema di valori, dire la verità al detenuto e non illuderlo, comunicare notizie gravi con gradualità e con aderenza alla realtà per tutelare psicologicamente il detenuto, riconoscere i limiti della propria competenza, salvaguardare l’autonomia professionale, comunicare alle varie figure professionali solo le informazioni pertinenti al raggiungimento degli obiettivi trattamentali concordati.

Da queste brevi riflessioni emerge la complessità e spesso le contraddizioni del lavoro dello psicologo in ambito penitenziario, ambito in cui le diverse e delicate situazioni vanno opportunamente  indagate “caso per caso” mediante il confronto continuo con le varie figure professionali (medico, psichiatra, educatore, volontario, polizia penitenziaria, ecc) pur mantenendo la propria autonomia scientifica e professionale.

Operare in questo ambito, con un alto livello di responsabilità e con i vissuti tipici del contesto, richiede una formazione di base specifica, un aggiornamento continuo e la possibilità di usufruire di una supervisione costante per garantire nel tempo interventi adeguatamente efficaci.

 

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PSICOLOGIA PENITENZIARIA – SUICIDIO – ALLEANZA TERAPEUTICA – PSICOLOGIA CROSSCULTURALE

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Clemmer D. (1941) La comunità carceraria, in Santoro E., 2004, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli
  • Tagliente F. Alcuni criteri deontologici dello psicologo penitenziario in Calvi E. (2004) Lo psicologo al lavoro, Milano, Franco Angeli
  • Gruppo di Lavoro Consiglio Nazionale Ordine Psicologi e SIPP (Società Italiana Psicologia Penitenziaria),  (2005) Elementi Etici e Deontologici per lo Psicologo Penitenziario, Roma

Colloquio Psicologico: Conclusione della Monografia

Il Colloquio Psicologico:

CONCLUSIONE

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

“Un guerriero non cerca di essere coerente: apprende, piuttosto, a vivere con le sue contraddizioni.”

[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997,p.155]

Colloquio Psicologico- Conclusione. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.comIl Colloquio Psicologico:Dopo che si è instaurato un saldo rapporto di fiducia e si sono realizzate esperienze di insight, attraverso le quali il paziente ha scoperto nuove prospettive, si può avviare un processo di negoziazione.

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Questo è il guerriero della luce di Coelho. O meglio, questo è il modo attraverso il quale l’essere un guerriero della luce può realizzarsi all’interno di un rapporto terapeutico. E si realizza non solo nel comportamento del terapeuta, ma anche in quello del cliente. Lo psicologo è colui che ha maggior consapevolezza delle capacità di guerriero della luce che possiede, ed è consapevole dell’importanza delle sue parole. Il paziente è colui che vedrà emergere questa consapevolezza nel corso del rapporto terapeutico, se questo avrà successo.

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo: Cliente vs Terapeuta . Immagine: © africa - Fotolia.com
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Perché ciò avvenga lo psicologo deve prestare massima attenzione ad alcuni principi di base: deve essere perspicuo (cioè trasparente sui fatti), deve mostrare che ogni problema contiene la sua soluzione, deve mostrare e non imporre, deve agire sull’autostima piuttosto che sull’autoefficacia, deve intervenire su tutti i canali comunicativi (pensieri, emozioni, comportamenti) in quanto interdipendenti ma anche indipendenti tra loro, deve far condurre l’interazione al cliente e seguirne le priorità e le aspettative, deve preoccuparsi di conquistare la sua fiducia, deve informare anziché consigliare, deve accettare e non giudicare, deve prestare ascolto non solo alla comunicazione verbale del paziente, deve evitare ciò che è inutile perché potenzialmente dannoso, deve procedere a trazione anteriore, deve preoccuparsi di conoscere sé stesso e chi gli sta di fronte, deve continuamente coltivare la propria cultura psicologica e non. Queste sono le basi perché si possano raggiungere le tappe fondamentali del primo colloquio e di quelli successivi.

Nel corso del primo colloquio il terapeuta deve preoccuparsi soprattutto di riuscire a stabilire un rapporto di fiducia e di collaborazione con il paziente e ottenere un quadro di informazioni e dati sulla persona e sul problema che sia esaustivo.

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Raggiunti questi due obiettivi principali, il terapeuta avrà in mano gli strumenti necessari per dare risposte che possano stimolare un’esperienza di insight, attraverso la quale il cliente può rendersi conto della presenza di prospettive alternative alla propria, che il suo vincolo è, in realtà, un problema e che, quindi, possiede una soluzione. Per fare ciò è necessario essere forniti di una buona capacità intuitiva supportata da una proficua cultura ed esperienza personali. Queste, per essere efficaci, devono essere applicate in risposte di parafrasi, eco, riflessioni e giustificazioni.

Ciò permette al cliente di mantenere il controllo sulla comunicazione e, alle prospettive alternative, di emergere ai suoi occhi dal discorso, avvertite come proprie piuttosto che come imposte dall’esterno. Se ciò non fosse, il cliente si troverebbe a dover accettare una soluzione che non sente propria, che non capisce, non accetta o accetta senza esserne convinto. Ciò è dannoso per la sua motivazione, la forza di volontà messa in gioco nel processo per il cambiamento, e per tutta la terapia. Questo danno viene favorito se lo psicologo usa risposte banalizzanti, tecnicistiche, moralistiche o interpretative.

Il Colloquio Psicologico:Cosa Fare nel Primo Colloquio #1. Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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Dopo che si è instaurato un saldo rapporto di fiducia e si sono realizzate esperienze di insight, attraverso le quali il paziente ha scoperto nuove prospettive, si può avviare un processo di negoziazione.

Le parti in causa, terapeuta e paziente, ognuno con le proprie definizioni del caso, avvieranno negoziazioni per definire sia il problema che gli obiettivi della terapia, in un percorso in cui entrambi devono possedere il medesimo potere decisionale. Definiti problema e obiettivi sta al terapeuta, sempre attraverso la negoziazione con il cliente, selezionare gli strumenti e presentarli all’altro.

Al termine di queste contrattazioni, le decisioni prese vengono sancite da un contratto o da un precontratto di collaborazione. Dopo di ché non resta che attuare le scelte negoziate ed avviare il processo terapeutico.

Questo è ciò che il terapeuta deve seguire per realizzare le proprie capacità di guerriero della luce e, allo stesso tempo, per dare occasione al guerriero della luce del cliente di emergere, fuori dalla gabbia e dal vincolo in cui le contingenze e le esperienze vissute lo hanno rinchiuso.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Intelligenza – Il nuovo Test Visivo che predice il QI

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli individui che meglio riescono a sopprimere automaticamente uno sfondo in movimento hanno anche migliori prestazioni nelle misure standard di intelligenza.

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Un breve compito visivo può predire il QI. Secondo un nuovo studio gli individui che meglio riescono a sopprimere automaticamente uno sfondo in movimento hanno anche migliori prestazioni nelle misure standard di intelligenza.

Questo test rappresenta la prima valutazione puramente sensoriale ad essere fortemente correlata con il QI e può fornire uno strumento non-verbale, e culturalmente imparziale, ai ricercatori che studiano i processi neurali connessi con l’intelligenza.

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Nello studio, i soggetti guardavano brevi video clip di barre bianche e nere che si muovono attraverso uno schermo di computer. Il loro unico compito era individuare la direzione delle barre: a destra o a sinistra. Le barre sono state presentate in tre dimensioni, con quelle più piccole in un’area centrale della larghezza di un pollice, dove la percezione umana del movimento è ottimale. I partecipanti hanno anche svolto test di intelligenza standardizzati.
Come previsto, i soggetti con più alti punteggi QI sono stati più veloci a catturare il movimento delle barre più piccole.

I risultati confermano anche precedenti ricerche che dimostrano che gli individui con più alto quoziente intellettivo hanno capacità di discriminazione percettiva maggiori e riflessi più veloci.
Inoltre più alto era il QI, più lentamente veniva rilevato il movimento delle barre di dimensioni maggiori. I ricercatori avevano previsto questo risultato, ma non si aspettavano che le prestazioni dei soggetti con QI alto fossero così scarse: “l’incapacità contro-intuitiva di percepire grandi immagini in movimento è un marker percettivo per la capacità del cervello di sopprimere il movimento sullo sfondo – spiegano gli autori-. Nella maggior parte degli scenari, il movimento di fondo è meno importante di piccoli oggetti in movimento in primo piano. Pensate alla guida in auto, ad andare a piedi lungo un corridoio, o anche solo di muovere gli occhi in tutta la stanza. Lo sfondo è costantemente in movimento.”

Il rapporto tra QI e soppressione del movimento indica i processi cognitivi fondamentali che stanno alla base dell’intelligenza: “Il cervello è bombardato da una straordinaria quantità di informazioni sensoriali, e la sua efficienza è dipendente non solo da quanto velocemente le nostre reti neurali elaborano questi segnali, ma anche da quanto sono abili a sopprimere le informazioni meno significative.”
I ricercatori sottolineano inoltre che questo test visivo potrebbe sopprimere alcune delle limitazioni associate ai test di intelligenza standard, che sono stati criticati per i pregiudizi culturali. “Poiché il test è semplice e non verbale, potrà anche aiutare i ricercatori a comprendere meglio i processi neurali in soggetti con disabilità intellettiva e di sviluppo.”

LEGGI:

INTELLIGENZA – QI – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Incontro Ravvicinato del Terzo Tipo”: Cliente vs. Terapeuta

 

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo: Cliente vs Terapeuta . Immagine: © africa - Fotolia.comCosa succede quando il cliente e il terapeuta si incontrano? L’inizio di  un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi differenti; si attiva un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.

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Essere estranei descrive la situazione in cui due persone non si conoscono: non sanno nulla dei propri pensieri, delle intenzioni che hanno l’una rispetto all’altra, del modo in cui considerano il loro entrare in relazione e del modo in cui intendono contribuire al rapporto che si sta creando (Carli, Paniccia, 2003).

È necessario, quindi, che gli estranei imparino a conoscersi e a comunicare tra loro, elaborando un linguaggio comune. Proprio a causa del fatto che la condizione iniziale è di non conoscenza, bisogna affrontare e superare il rischio che entrambi gli interlocutori si facciano condizionare da stereotipi o pregiudizi privi di fondamento: dato che non c’è ancora stato uno scambio comunicativo fonte di informazioni reciproche, il contatto con l’estraneo è il contatto con l’ignoto.

Una buona premessa per accedere ad un processo conoscitivo si identifica con il prendere atto, da parte di entrambi gli interlocutori, della reciproca diversità, la quale rappresenta un “punto di partenza per riconoscere l’estraneità dell’altro” (Carli, Paniccia, 2003, 80); ciò perché il riconoscere che l’altro è un’entità distinta così come lo siamo noi permette di realizzare uno scambio tra il suo e il nostro mondo.

Se non siamo in grado di riconoscere l’alterità dell’altro, non possiamo entrarci in relazione: l’unico tipo di rapporto non basato sull’alterità e sullo scambio è quello che si attua con il possesso, ossia con l’illusione di “possedere l’altro”, inglobandolo come estensione di sé, senza riconoscerne lo status di essere distinto, con le proprie caratteristiche e la sua individualità.

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Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscere e a farsi conoscere, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione.

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In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà una relazione che funzionerà bene per un dato cliente in una certa situazione; grazie all’alleanza, ossia alla capacità, da parte dei due componenti della diade terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune concordato insieme, il percorso procede.

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Storie di Terapie#26. - Immagine: © -robodread-Fotolia.com
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Per quanto riguarda l’efficacia del percorso terapeutico, l’instaurarsi di una soddisfacente relazione tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è importante che esista un buon grado di sintonia iniziale, che, però, non degeneri in un eccesso di iper-identificazione: deve essere sempre chiaro che si tratta del confronto tra due identità distinte.

La visione del mondo del terapeuta si riallaccia alla storia della sua vita; se è vero che le persone che condividono un retroterra affine possono, in principio, trovare più facilmente un’intesa, è anche vero che, a lungo termine, ciò potrebbe ostacolare un reale cambiamento terapeutico, congelando il rapporto terapeutico in una dinamica di rispecchiamento.

Le storie personali del cliente e del terapeuta influenzano la loro capacità di creare una solida alleanza terapeutica: entrambi sono portavoce di una propria visione del mondo ed entrambi apportano il loro patrimonio di convinzioni, valori, aspettative e bisogni (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

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In questo quadro, la condizione ottimale sembra essere un background simile ma non troppo, in modo che l’empatia non ceda il posto ad una eccessiva uniformità di vedute; ciò potrebbe  porre le premesse per una terapia troppo statica, in cui la comprensione e l’affinità concorrono a creare una situazione stagnante, invece di contribuire alla crescita e di aiutare il cliente a sviluppare le proprie potenzialità evolutive.

Al terapeuta è richiesta la capacità di destreggiarsi in modo flessibile tra le polarità antitetiche della vicinanza e del distacco, dell’affinità e della differenza, in modo tale che la relazione terapeutica abbia dei sani confini; in altre parole, il ruolo terapeutico si identifica con il creare una distanza ottimale rispetto al cliente, che permetta di rispecchiare il cliente  e di essere “empatico, intuitivo, capace di mettersi dal punto di vista dell’altro” senza perdere di vista la propria diversità  (Lis, 1993, 18).

 In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere la visione del mondo del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento.

La premessa di fondo è che ciò che spinge ad intraprendere un percorso terapeutico non è tanto il desiderio di rileggere il passato, quanto piuttosto di superare il senso di insoddisfazione attuale per conseguire un futuro migliore. 

Cosa significa concretamente? Che il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento.

Il terapeuta è  chiamato ad essere, per il cliente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità.

 

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COLLOQUIO PSICOLOGICO – RAPPORTI INTERPERSONALI – IN TERAPIA – ALLEANZA TERAPEUTICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 07 – Ottimismo e Sicumera

Dispositivi Cellulare Hands-Free: Pericolosi per la Guida?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Guidare utilizzando dispositivi cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Se parliamo al cellulare mentre guidiamo i nostri movimenti sono limitati e impediti e per questo motivo l’uso del cellulare mentre si guida è vietato dal codice della strada; un nuovo studio condotto alla University of Alberta rivela che anche l’uso di auricolari o di vivavoce, che ci permetterebbe di avere le mani libere per eseguire le manovre al volante, è ugualmente pericoloso.
Lo studio pilota ha dimostrato che guidare utilizzando un dispositivo cellulare hands-free porta a commettere significativamente più errori di guida (ad esempio attraversare la linea centrale, eccesso di velocità e cambiare corsia senza segnalarlo) rispetto al guidare senza distrarsi in una conversazione telefonica.

L’aumento di errori corrisponde anche a un picco nella frequenza cardiaca e nell’attività cerebrale.

I ricercatori hanno usato la spettroscopia a infrarossi – una tecnica ottica non invasiva che permette di esaminare in tempo reale i cambiamenti nell’attività cerebrale del lobo prefrontale sinistro – per studiare l’attività cerebrale di 26 partecipanti che hanno completato un corso di guida utilizzando il VS500M Virage, un simulatore di guida.
I partecipanti sono stati testati con il simulatore di guida in una condizione di controllo, cioè mentre guidavano senza parlare al cellulare. Sono stati poi testati nuovamente, mentre parlavano al telefono con il vivavoce in conversazioni della durata di due minuti; le conversazioni non toccavano argomenti emotivamente rilevanti.

I risultati indicano un significativo aumento dell’attività cerebrale mentre ha luogo una conversazione telefonica rispetto alla condizione di controllo, in cui questo non avviene. I risultati hanno anche indicato che il flusso di sangue al cervello aumenta significativamente nel corso della telefonata, così da poter soddisfare la richiesta di ossigeno dei neuroni in una condizione di “distrazione”.
I ricercatori fanno notare che si tratta di uno studio preliminare e sperano che la ricerca in questo senso possa aiutare a informare in merito alle implicazioni di sicurezza nell’utilizzo di dispositivi a mani libere durante la guida.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mayank Rehani & Yagesh Bhambhani, CEREBRAL OXYGENATION AND BEHAVIOURAL RESPONSES DURING SIMULATED DRIVING WITH AND WITHOUT HANDS-FREE TELECOMMUNICATION : A NEAR-INFRARED SPECTROSCOPY STUDY, University of Alberta. (DOWNLOAD)

 

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