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L’intolleranza all'incertezza potrebbe avere un ruolo significativo nell'esacerbare il disagio e ridurre il benessere psicologico nei casi di tumore ovarico
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Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie – RECENSIONE
RECENSIONE DEL LIBRO
Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie
Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie di Frank M. Dattilio è curato, nell’edizione italiana, dalla dottoressa Montano, direttrice dell’Istituto Beck.
In questo testo l’autore si propone di fornire agli psicoterapeuti, che si trovano a lavorare con le coppie o a dover gestire all’interno di un percorso di terapia individuale temi legati alla crisi di coppia, una serie di tecniche in origine utilizzate nella terapia cognitivo-comportamentale e adattate al percorso di coppia.
Il manuale, integrando la CBT con i concetti chiave delle teorie neurobiologiche, sistemicho-relazionali, dell’attaccamento e della regolazione emozionale, guida passo per passo il terapeuta nel percorso con la coppia e la famiglia, facendo uso di molti esempi clinici, a cui è dedicato anche il capitolo finale del libro.
Per chi abbia una formazione sistemica relazionale e conosca la letteratura sul lavoro con coppie e famiglie la sensazione è quella che il lavoro con la coppia descritto in questo volume sia in parte sovrapponibile a quello di un terapeuta sistemico relazionale. La ricostruzione dei propri modelli di relazione all’interno della famiglia di origine e della storia di attaccamento e di come questi impattino sul problema attuale della coppia è però solo una parte del lavoro, che si concentra poi, con modalità tipiche della CBT, sull’identificazione e la ristrutturazione di schemi, distorsioni cognitive e pensieri automatici che danno vita alle dinamiche relazionali problematiche per la coppia e la famiglia, con l’obiettivo di modificare le aspettative irrealistiche che ciascuno ha nei confronti degli altro/altri, correggere le interpretazioni errate che impediscono una corretta e funzionale comunicazione, diminuire le interazioni distruttive.
Per usare termini cari alla terapia cognitivo-comportamentale gli schemi (Beck et al. 1979), che le persone utilizzano come modelli sui quali elaborare le informazioni relative alle esperienze di vita, hanno anche una componente “familiare”, cioè rivelano come le persone all’interno della famiglia di origine hanno percepito le ripetute interazioni familiari nel corso degli anni.
Gli schemi familiari, credenze condivise sulla maggior parte degli eventi che accadono in famiglia, danno vita a gran parte delle interazioni familiari quotidiane, infatti le componenti cognitive, emotive e comportamentali degli schemi familiari di ciascuno sono in grado di elicitare risposte, spesso prevedibili, negli altri membri della famiglia.
Gli schemi familiari, insieme a quelli sulla relazione di attaccamento con le figure significative dell’infanzia, fungono da modello di interpretazione e previsione delle realtà relazionali successive, influenzando la vita di coppia e le relazioni coni figli e stanno alla base di molte delle distorsioni nella percezione dell’altro.
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Gli schemi hanno anche una componente intergenerazionale, cioè si tramandano attraverso le generazioni con meccanismi di proiezione familiare boweniani, ben esplorati dal modello sistemico-relazionale. Gli schemi individuali e quelli familiari, centrali nei conflitto/disagio di coppia e familiare devono essere affrontati nelle fasi iniziali del trattamento, già nella fase di assestment. L’autore indica anche uno strumento ad hoc che guida il terapeuta in questa indagine, il Family of Origin Inventory di Richard Stuart.
Il piano generale di trattamento prevede di aiutare la coppia a prendere consapevolezza di come il passato relazionale di ciascuno influenzi il presente – con l’assunzione di ruoli e lo strutturarsi di credenze e schemi cognitivi disfunzionali – distorcendo la percezione che si ha dell’altro e influenzando la comunicazione disfunzionale in coppia.
Il passo successivo è aiutare i membri della coppia a prendere distanza dalle proprie credenze e ristrutturare i propri schemi; favorendo al contempo una ricontrattazione della relazione che comprenda una certa dose di accettazione dell’altro.
Un capitolo è dedicato all’assessment in cui sono elencati, oltre all’uso del genogramma familiare, molti questionari utili a raccogliere informazioni sul funzionamento generale della coppia e della famiglia e che possono servire da traccia per l’approfondimento, nei colloqui successivi, di alcuni temi e dinamiche interpersonali salienti.
Inoltre molte sottoscale forniscono un profilo nelle aree di forza e in quelle di debolezza all’interno delle relazioni. Nonostante la parte più consistente della valutazione avvenga all’inizio, la concettualizzazione del caso procede per il corso dell’intero trattamento. Nella parte del volume dedicata all’assesment vengono anche date indicazioni su alcune situazioni e alcuni elementi del sistema cui è necessario, fin dalla fase di valutazione iniziale, porre particolare attenzione: la richiesta di mantenere informazioni riservate, la presenza di segreti familiari, l’analisi dei confini, i meccanismi di triangolazione, l’assunzione di ruoli rigidi, la distribuzione del potere e del controllo all’interno della coppia o della famiglia.
L’osservazione diretta delle interazioni di coppia e familiari da parte del terapeuta è un elemento molto importante, perchè permette al terapeuta di cogliere il non verbale della comunicazione e di identificare i pattern di comunicazione più significativi che contribuiscono a mantenere il problema relazionale. Particolare attenzione viene data alle azioni costruttive e collaborative e a quelle distruttive, oppositive e manipolative. Una tecnica usata per osservare un interazione familiare strutturata è quella del problem solving familiare, che permette al terapeuta di osservare direttamente, ed eventualmente di intervenire, sulle difficoltà di comunicazione della coppia o della famiglia. La motivazione al cambiamento è un altro degli elementi che deve essere testato fin dall’inizio del percorso, a questo scopo vengono assegnati dei compiti da svolgere a casa (homework): lo svolgimento di questi compiti è un buon indicatore della volontà dei pazienti di impegnarsi; inoltre il come questi compiti vengono svolti fornisce ulteriori informazioni sulle dinamiche di coppia e familiari.
Molta attenzione viene data alla comprensione di come i propri schemi, le distorsioni cognitive, le attribuzioni e le doverizzazioni influenzino i pensieri automatici.
L’identificazione dei pensieri automatici e delle risposte emozionali e comportamentali, che fanno da sfondo ai temi relazionali problematici che la coppia porta in terapia, è uno dei passaggi fondamentali del protocollo di coppia del manuale; uno strumento ad hoc per usato per familiarizzare con questa pratica è il Dysfunctional Tought Record, una scheda di registrazione dei pensieri disfunzionali.
Questo lavoro, che viene svolto sia in seduta che a casa, ha lo scopo di aumentare la consapevolezza di come le reciproche risposte emotive e comportamentali negative possano essere controllate, grazie all’identificazione dei pattern di pensieri che le elicitano. Ciascuno, insomma, dovrà assumersi maggiore responsabilità in merito alle proprie reazioni emotive e comportamenali nei confronti del partner. Segue il processo di disputing e ristrutturazione dei pensieri automatici grazie al quale la coppia inizia a mettere a fuoco le distorsioni nel proprio ragionamento e viene incoraggiata a considerare gli eventi relazionali da una prospettiva differente.
Un ampia parte del volume è dedicata alle tecniche cognitivo comportamentali: oltre agli immancabili homework – che vanno dall’identificazione dei pensieri automatici, all’automonitoraggio degli stati interni tra una seduta e l’altra, alla programmazione di attività congiunte, alla lettura di testi specifici, fino videoregistrazione delle interazioni casalinghe – vale la pena citare il training di comunicazione, in cui i partners imparano ad esprimere pensieri ed emozioni e ad ascoltarsi reciprocamente, empatizzando e validando ciò che l’altro sente; questa tecnica aiuta a ridurre le distorsioni cognitive e a modulare l’espressione delle emozioni, migliorando le interazioni comportamentali problematiche; il problem solving congiunto; i contratti di scambio dei comportamenti
desiderati, in cui ciascuno viene incoraggiato a farsi avanti nei confronti degli altri; il training di assertività, in cui la coppia impara a riconoscere la differenza tra risposte assertive, passive e aggressive e come l’assertività favorisca interazioni più sane; gli interventi paradossali, generalmente efficaci nei casi di stallo e maggiore gravità e da usare solo dopo che il paziente ha appreso e utilizzato con successo le abilità di comunicazione e problem solving; l’inversione di ruolo, in cui, per facilitare il decentramento di ciascun membro della famiglia, ciascuno è incoraggiato, in un role playng, ad assumere la prospettiva dell’altro.
La parte finale del volume è dedicata a come affrontare i più comuni ostacoli terapeutici e situazioni particolari come il divorzio, la coppia omosessuale, le violenze domestiche, l’uso di sostanze, le relazioni extraconiugali.
Although each year approaching 30% of the population worldwide has some form of mental illness, at least two thirds receive no treatment. This under-treatment occurs even in countries with the best resources, while the proportions of people with mental illness who are treated in low and medium resource countries (LAMIC) are far less (Wang et al., 2007).
Two factors which contribute towards this degree of neglect are the reluctance of many people to seek help for mental illness related problems because of their anticipation of stigma should they be diagnosed, and the reluctance of many people who do have a diagnosis of mental illness to advocate for better mental health care for fear of shame and rejection if they disclose their condition (Kohn et al., 2004a).
Stigma is believed to be one of the major barriers to seeking treatment, because both possession of a psychological diagnosis and the act of seeking treatment appear to be stigmatizing.
Stigma is related to treatment avoidance in at least two ways: First, people wish to avoid possibly being publically identified and labeled as “mentally ill” by seeking mental health counseling. Second, by seeking treatment people implicitly accept the label of “someone who needs psychological help” which can threaten self-esteem.
Public stigma may be defined as the typical societal response that people have to stigmatizing attributes, and self-stigma represents the internalized psychological impact of public stigma. Through self-stigmatization, people can experience losses in self-esteem and self-efficacy. Though common, such losses are not the automatic consequences of possessing a stigmatizing characteristic. Awareness and endorsement of public stigma as well as application to the self are thought to be necessary to generate self-stigma and the emotions of shame, fear, embarrassment, and alienation are central to self-stigma.
In which way it can be assumed that self-stigma and public stigma would influence attitudes toward help-seeking?
In a study from Bathje & Pryor (2011) self-stigma was found to fully mediate the relationship between awareness of public stigma and attitudes toward help-seeking and partially mediate the relationship between the most prominent component of endorsement of public stigma (sympathy) and attitudes toward help-seeking. Thus, simply being aware that mental illness is stigmatizing does not directly impact attitudes toward help-seeking. Instead, it appears that it is the internalization of stigmatizing beliefs and the resulting harm to self-esteem (self-stigma) that leads an individual to have negative attitudes toward help-seeking.
Self-stigma only partially mediated the relationship between endorsement of public stigma and attitudes toward help-seeking, meaning that both the sympathy and controllability components of endorsement directly influence attitudes.
Finally, attitudes toward help-seeking were found to fully mediate the relationship between self-stigma and intentions to seek counseling when mental health concerns are experienced.
Il fenomeno dell’invecchiamento cerebrale è naturale e fisiologico ma è confermato che tenere allenata la mente riduce l’invecchiamento e potenzia la memoria.
Con l’avanzare dell’età le strutture dell’organismo si indeboliscono gradualmente con la conseguenza che le capacità funzionali diminuiscono. Uno dei primi sintomi dell’invecchiamento è la perdita della memoria a breve termine. Si possono dimenticare parole o nomi di persone che prima ci risultavano più semplici diventano più difficoltose.
Il fenomeno dell’invecchiamento cerebrale è naturale e fisiologico ma è confermato che tenere allenata la mente riduce l’invecchiamento e potenzia la memoria, “prendere parte ad attività di questo tipo durante tutta la vita di una persona, dall’infanzia alla vecchiaia, è importante per la salute del cervello in età avanzata”, ha dichiarato l’autore dello studio Robert S. Wilson, del Rush University Medical Center di Chicago.
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Una nuova ricerca suggerisce che possiamo rallentare questo procedimento tenendo in allenamento costante il cervello tramite la lettura di libri, la scrittura e la partecipazione alle attività che stimolano il cervello a qualsiasi età, può preservare la memoria. Lo studio è stato pubblicato il recentemente sulla rivista on line Neurology ®, la rivista medica dell’American Academy of Neurology.
Per lo studio, 294 persone sono state sottoposte a test che misuravano la memoria e il pensiero, ogni anno per circa sei anni prima della loro morte a un’età media di 89 anni. Queste persone inoltre, hanno risposto a un questionario per verificare se hanno letto libri, si sono dedicati alla scrittura o hanno partecipato ad altre attività mentalmente stimolanti durante l’infanzia, l’adolescenza, la mezza età ed alla loro età attuale.
Dopo la morte, i loro cervelli sono stati esaminati con l’autopsia per la prova dei segni fisici di demenza, quali lesioni, placche cerebrali e grovigli.
La ricerca ha scoperto che le persone che hanno partecipato alle attività mentalmente stimolanti sia durante la vecchiaia che nel corso della vita, avevano un ritmo più lento di declino della memoria rispetto a coloro che non avevano partecipato a tali attività nel corso della loro vita, dopo aggiustamento per diversi livelli di placche e grovigli nel cervello. L’attività mentale rappresenta quasi il 15 per cento della differenza nel declino, al di là di ciò che viene specificato da placche e grovigli nel cervello.
Sulla base di questi risultati, non dobbiamo sottovalutare gli effetti delle attività di tutti i giorni, come la lettura e la scrittura, per i nostri figli, noi stessi ed i nostri genitori o nonni sottolineano i ricercatori.
Lo studio ha rilevato che il tasso di declino è stato ridotto del 32 per cento nelle persone con attività mentale frequente nella vita, rispetto alle persone con attività mentale media, mentre il tasso di declino delle persone con attività poco frequenti è stato del 48 per cento più veloce rispetto a quelli con attività media .
Lo studio è stato sostenuto dal National Institute of Aging e il Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Illinois.
PROYOUTH: LA PREVENZIONE DEI DISTURBI ALIMENTARI VIA WEB
Progetto PROYOUTH
Video di presentazione del ProYouth, un Progetto Europeo per la prevenzione dei Disturbi Alimentari e la promozione del benessere psicologico in adolescenza.
Il ProYouth è attivo dal 2011 in sette Paesi Europei e in Italia è promosso dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale “Studi Cognitivi”.
Il ProYouth si propone come supporto agli adolescenti, che potranno usufruirne in modo gratuito e anonimo interfacciandosi con la piattaforma che si trova all’indirizzo proyouth.eu
Stigma is a word which has evaded clear, operational definition: it can be considered as an amalgamation of three related problems: a lack of knowledge (ignorance and misinformation), negative attitudes (prejudice), and excluding or avoiding behaviors (discrimination) (Thornicroft, 2006b).
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People with mental disorders often wait for a long time before looking for help, with average delays before seeking help of 8 years for mood disorders, and at least 9 years for anxiety disorders. Those who wait longer than average before receiving care are more likely to be young, old, male, poorly educated, or a member of a racial/ethnic minority (Morgan & Fearon, 2007).
How do people judge where to go for help? A large national survey in Germany described vignettes of people with depression or schizophrenia and asked about how to find help. Revealingly the general public thought that mental health staff is useful for treating people with schizophrenia, but not for depression. The reason for this is that most people felt that schizophrenia was caused by biological or uncontrollable influences, while they understood depression to be a consequence of ‘social disintegration’ (including unemployment, drug or alcohol misuse, marital discord, family distress or social isolation) so that people with depression were more often recommended to seek help and social support from a friend or confidant (Angermeyer et al., 1999).
Similar findings also emerged from a study in Iowa where people living in the most rural environments were more likely to hold stigmatizing attitudes toward mental health care than people in towns, and such views strongly predicted willingness to seek care (Hoyt et al., 1997). So it seems to be true that stigma about mental illness is no less in many rural areas, and it may be even stronger than in towns and cities. In part this may be based upon fears that a rural community will learn details about a period of mental illness, while it is easier in cities to remain anonymous. But relatively little research has been done in rural areas to understand these processes in more detail.
It seems to be clear, however, that stigma plays an important role in determining people’s Help Seeking Behavior.
Diversi sono i progetti nati per assistere e compensare le difficoltà che possono presentare le persone con una sindrome dello spettro autistico. Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) promuovono la capacità di anticipazione e la strutturazione del tempo e delle attività.
Inoltre lo sviluppo di competenze sociali è potenziato dagli strumenti multimediali e dalle realtà virtuali, in grado anche di favorire il gioco di finzione.
Grazie all’uso di dispositivi tecnologici è possibile generare degli ambienti intelligenti in grado di promuovere i processi di percezione – azione, comprensione, pianificazione, problem-solving e relazione. Inoltre, grazie alla portabilità di alcuni dispositivi, è possibile riprodurre gli ambienti virtuali intelligenti nei diversi contesti in cui una persona con autismo vive. Alcuni studi hanno dimostrato come, a differenza dei mezzi convenzionali, le nuove tecnologie offrano la possibilità di aumentare il livello di attenzione durante la presentazione degli stimoli e nello svolgimento dei compiti, adattandosi alle capacità individuali e allo stile e al ritmo di apprendimento personale.
Tic-Tac è un software per facilitare la comprensione e la gestione del tempo in soggetti autistici. Il concetto di tempo è rappresentato utilizzando un codice visibile, udibile e tangibile (vibrazione del dispositivo su cui è installato), accompagnato da pittogrammi o fotografie che identificano l’attività svolta o la situazione sperata. Nella modalità visiva, ad esempio, il passare del tempo si rappresenta attraverso la diminuzione o l’aumento di bastoni, cerchi o da clessidre che si riempiono progressivamente. Tutte le opzioni presenti nell’orologio (come ad esempio i colori, il tipo di immagine usata, la durata) possono essere adattate alla situazione e alla persona che ne usufruisce.
Visualizzazioni di sostegno
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Si tratta di un portale web studiato per facilitare l’uso delle metodologie della Pianificazione Centrata nella Persona (PCP) seguendo le quali è la persona con disabilità che deve scegliere obiettivi, necessità e aspettative, contando sul supporto dell’altro per il raggiungimento delle mete prefissate. Famiglia, amici e operatori permetteranno la costituzione del Piano di Sviluppo Personale del soggetto, inserendo informazioni che permettano di conoscere la persona con autismo da diversi punti di vista. Ciascuno ha a disposizione uno spazio in cui inserire le informazioni rilevanti, la storia, le preferenze, i sogni, le paure e i progressi della persona autistica. Lo spazio è mediato da un facilitatore, figura utile per la pianificazione delle attività, per la coordinazione dei diversi interlocutori e di eventuali incontri o riunioni.
TAAC
Si tratta di un’applicazione “Touch Augmentative and Alternative Communication” nata con l’obiettivo di aiutare chi fatica a comunicare verbalmente, promuovendo le capacità di entrare in relazione di chi questi problemi li vive quotidianamente. Con l’obiettivo di aiutare nel comporre frasi, ricorre alle immagini e al text to speech. Per certi aspetti, funziona come la tastiera di un Blackbarry, predicendo la parola o il concetto che si vuole esprimere, in base a quello che si scrive, lavorando però con le immagini: quando si clicca su un’immagine, appaiono quelle correlate. Taac sintetizza le parole e trasforma i concetti in voce, ma non solo: un aspetto interessante è la possibilità di personalizzare le carte usate, associando -ad esempio- al concetto di genitori le foto della mamma e del papà del ragazzo.
T4A è un acronimo per indicare una piattaforma “Touch for Autism” nata per favorire il coordinamento dei diversi attori in dialogo con la persona autistica, riducendo il rischio di frammentazione a cui si può assistere nella presa in carico della persona stessa. Si tratta di un progetto di educazione e riabilitazione che prevede la gestione dell’intero processo da parte di un operatore case manager che, attraverso l’uso di un banco madre (tavolo multitouch interattivo-riabilitativo), può dialogare con uno strumento portatile (tablet) che accompagna il bambino e gli adulti di riferimento. Dopo una prima fase sperimentale, T4A è oggi una piattaforma tecnologica altamente innovativa in grado di guidare l’apprendimento, la comunicazione, le abilità sociali e personali del bambino con autismo attraverso strumenti utilizzabili con il tocco.
ZO’E’
Zo’è è un comunicatore dinamico che mira a supportare i processi comunicativi di tutte le persone che non sono in grado di utilizzare voce o gesti per esprimersi. E’ attualmente utilizzato in progetti riabilitativi ed educativi, con l’obiettivo di sviluppare l’autonomia dell’utente.
Si tratta di un’applicazione fornita su tablet, con la quale è possibile interagire attraverso il display touchscreen. E’ uno strumento adattabile all’utente, in base alle sue esigenze specifiche. E’ infatti possibile personalizzare le immagini utilizzate e i testi associati ad ognuna di queste. Per aumentare la personalizzazione è anche possibile attivare la sintesi vocale dei testi inseriti o della propria voce.
LULA
Un altro software riabilitativo per lo sviluppo di abilità comunicative e linguistiche, rivolto a tutti i soggetti con deficit della comunicazione e problemi relazionali, nello specifico persone autistiche, è LULA. Questo software sfrutta la cosiddetta ‘modalità animata rallentata’ per presentare azioni ed emozioni in un modo maggiormente comprensibile per questo target.
Il progetto cerca di favorire soprattutto le abilità pragmatiche, che risultano dall’integrazione e dalla corretta contestualizzazione di informazioni verbali, non verbali e contestuali. In questo senso, le persone autistiche non sono in genere in grado di cogliere gli elementi socialmente rilevanti della comunicazione, ma si soffermano piuttosto su quelli irrilevanti.
Lula cerca di sviluppare queste abilità pragmatiche attraverso un approccio integrato che tenga conto, allo stesso tempo, degli stati mentali, della struttura dell’evento, della funzione dialogica e dell’empatia.
Per raggiungere questo obiettivo, Lula utilizza un linguaggio fumettistico che facilita la comprensione e attribuzione di emozioni e l’animazione come tecnica di rappresentazione delle situazioni sociali.
ALPACA
Alpaca (Alternative Literacy with PDA and Augmentative Communication for Autism) è invece un palmare multimediale per bambini autistici che, attraverso un software in grado di gestire immagini e suoni, coinvolge allo stesso tempo i sensi del tatto, della vista e dell’udito. Immagini e suoni sono personalizzabili in base alle esigenze dell’utente, con lo scopo di supportare maggiormente l’insorgere delle abilità linguistiche e comunicative.
IMMAGINARIO
Immaginario è un’applicazione pensata per gli adulti che interagiscono con persone con un disturbo dello spettro autistico. Il supporto alla comunicazione mira, in questo caso, a sostenere la comprensione attraverso l’uso di immagini.
I dispositivi mobili su cui questa applicazione può essere installata consentono di avere sempre con sé il materiale necessario per comunicare. Le immagini sono associate a concetti, a loro volta categorizzati in base a criteri semantici. Anche in questo caso, gli sviluppatori hanno puntato sulla possibilità di personalizzare le immagini, creando nuove carte, testi e registrazioni audio.
PROLOQUO2GO
Proloquo2Go è un’applicazione che sfrutta un vocabolario di simboli e icone che permette all’utente di costruire frasi che sono lette verbalmente dal tablet. Obiettivo di questa applicazione non è solo quello di supportare la comunicazione, ma anche di agevolare l’apprendimento di competenze sociali, abilità motorie, logopediche, etc.
Wing, L. (1988). The continuum of autistic characteristics. In E. Schopler & G. B. Mesibov (Eds.): Diagnosis and assessment in autism. New York: Plenum Press.
La relazione tra anomalie strutturali e funzionali in questi regioni cerebrali in pazienti depressi è tutt’altro che chiara. Tuttavia, entrambi i tipi di cambiamenti possono esservi alla base dei sintomi di questo disturbo.
Questa mancanza di comprensione ha indotto il dottor Bart de Kwaasteniet e colls. presso il Centro Medico Accademico di Amsterdam a utilizzare un approccio di neuroimaging multimodale per chiarire tale rapporto.
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I ricercatori, guidati dal professor Damiaan Denys, hanno reclutato 18 pazienti con disturbo depressivo maggiore e 24 individui sani. Tutti i partecipanti hanno subito molteplici scansioni di neuroimaging. Loro hanno focalizzato specificamente la connettività strutturale e funzionale tra il corteccia subgenuale cingolata anteriore (ACC) e il lobo temporale mediale, due regioni che sono collegate dal fasciculus uncinato. Queste regioni sono note per essere coinvolte nella regolazione delle emozioni e della memoria.
I ricercatori hanno spiegato che c’è una diminuita integrità strutturale del fasciculus uncinato che collega il lobo temporale mediale e il la corteccia subgenual ACC. Inoltre, hanno identificato un aumento del collegamento funzionale tra questi regioni in depressione rispetto ai controlli. È importante sottolineare che hanno identificato una correlazione inversa tra l’integrità del fasciculus uncinato e il collegamento funzionale tra l’ippocampo ACC e bilaterale subgenual nella depressione maggiore.
Questi risultati suggeriscono che i disturbi strutturali del fasciculus uncinato contribuiscono a un incremento delle interazioni funzionali tra i circuiti del cervello associati con i sintomi della depressione. Questo porta ad ipotizzare che le anomalie nella struttura del cervello portano a differenze nella connettività tra aree cerebrali nei disturbi depressivi.
Tuttavia, i ricercatori hanno anche ipotizzato che il contrario può essere vero. In altre parole, che l’aumento della connettività funzionale tra queste regioni del cervello porta a cambiamenti strutturali nelle fibre della sostanza bianca del cervello per mezzo di un aumento anomalo di trasduzione del segnale. Questa ipotesi è supportata da recenti studi che suggeriscono che nella schizofrenia l’iperattività del circuito può essere un fattore predittivo di una successiva atrofia corticale.
Questo interessante studio suggerisce che le anomalie nei collegamenti strutturali tra le regioni del cervello, in particolare della sostanza bianca, sono associati con attività anomala all’interno di un circuito cerebrale implicato nei sintomi della depressione. Questa osservazione solleva una questione importante: “quali sono le implicazioni del trattamento delle anomalie funzionali del circuito senza il riparo dei difetti strutturali?“.
E’ probabile che le anomalie strutturali contribuiscono al rischio per la ricaduta della depressione tra gli individui la cui attività del circuito cerebrale ha risposto ai farmaci antidepressivi.
Associate fellowship: il terzo livello di specializzazione nella REBT
Negli altri articoli di questa serie vi abbiamo raccontato i primi due livelli di specializzazione nella terapia razionale-emotiva (Rational Emotive Behavioral Therapy, REBT). Nei giorni che vanno dal 10 al 15 luglio 2013 alcuni membri della redazione di State of Mind hanno affrontato il terzo livello, ovvero il cosiddetto “Associate Fellowship Practicum”. E oggi possiamo raccontarvelo.
I primi due livelli (Primary e Advanced Practicum, rispettivamente) erano introduttivi e consistevano nell’insegnamento dei principi base e in esercitazioni di peer-counseuling tra partecipanti dello stesso Practicum. In breve, nel Primary e Advanced i partecipanti utilizzano e si somministrano tra loro il modello ABC-DEF, portando materiale personale reale e non simulato. Secondo gli operatori dell’Ellis Institute, il materiale psicologico simulato risulta irrealisticamente impermeabile a una disputa REBT.
Nel terzo livello si porta materiale clinico, ovvero file audio di sedute registrate da ascoltare insieme a supervisori REBT ufficiali. Nel caso di sedute non in inglese (come era il nostro caso e quello di un collega turco) si portano le trascrizioni di segmenti significativi delle sedute. Quest’anno siamo stati in quattro ad affrontare l’Associate Fellowship: due italiani, il collega turco a cui abbiamo già accennato e una collega indiana. I nostri supervisori erano tre esponenti storici della REBT formati direttamente da Albert Ellis –Raymond DiGiuseppe, Windy Dryden e James MacMahon- e un collega più giovane, Daniel David.
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Durante le supervisioni ci siamo chiariti le idee su qualche concetto clinico e pratico. In particolare, è emersa un’indicazione: focalizzarsi soprattutto sui pensieri di tipo valutativo e considerarli come credenze disfunzionali.
Questa è una differenza significativa con la terapia cognitiva alla Beck. Per la REBT i pensieri che generano sofferenza sono valutazioni e non inferenze più o meno errate sulla realtà. Ovvero, non si tratta di previsioni più o meno errate su fatti e/o eventi accaduti o che potranno accadere (chiamati “inferences” all’Ellis Institute), ma di giudizi di valore intensamente negativi idiosincratici ed emotivi (le terribilizzazioni, gli “awfulizing”) oppure convinzioni su come le cose dovrebbero andare o dovrebbero essere fatte, i famosi “must”. Questi sono chiamati “beliefs”.
Questa attenzione per i giudizi di valore rigidamente auto-somministrati invece che alle descrizioni inaccurate della realtà generate da errori logici, come pensato da Beck, rende la terapia molto meno astratta e distaccata dalle emozioni di quella di Beck. Non si tratta di andare a caccia dell’errore, ma di individuare questi giudizi idiosincratici e di porli in discussioni con un atto al tempo stesso volontaristico (“where is written this?” “dove sta scritto questo?”) ed emotivo.
La disputa a sua volta la si concepisce non più come un processo impersonale di revisione logica delle informazioni a disposizione, ma come un processo di separazione emotiva da convinzioni ritenute vere per il semplice fatto che ci passano per la testa. Sarà per questo che nella terapia di Beck si parla di “questioning” invece che di “disputing”?
Considering the previous literature, studies have been conducted based on the assumption that equity of access can be achieved only if available services are acceptable to diverse populations of potential users.
It is well known that individuals progress through several stages before seeking mental health treatment. These stages include experiencing symptoms, evaluating the severity and consequences of the symptoms, assessing whether treatment is required, assessing the feasibility of and options for treatment, and deciding whether to seek treatment.
An interesting study (Lovell, K. & Richard, D., 2000) conducted in the UK, for example, shows that providing briefer treatments can lead to overall increases in service delivery and more cost-effective services.
The authors argue that evidence exists for service protocols that promote equity, accessibility and choice and that CBT services should be organized around multiple levels of entry and service delivery rather than the more usual secondary care referral system.
First, where promising evidence exists, less therapist intensive treatments should be the first choice for the majority of clients. In most cases therapy should be routinely initiated by the provision of brief therapies such as self-help materials and guidance – delivered through accessible alternative channels such as bibliotherapy or telephone advice lines. These services should be accessed by potential clients without reference to complex referral systems and artificial gateways.
Second, in circumstances where a patient is deemed to be at serious risk, or for individuals with more complex needs, or for those who have been unsuccessful in following a brief treatment regime, more intensive therapist guided and therapist aided packages of care should be provided. Third, therapist assisted multi-strand and/or complex therapies should be used where the previous stages have been unsuccessful or where clients with a previous history of treatment failure present for assistance.
In a study published on The British Journal of Psychiatry, the authors (Richards & Bower, 2011), illustrate the Australian Better Access initiative, a program designed to improve access to psychological therapies for affective and anxiety disorders. The main aim of the project was based on the assumption that therapies shouldn’t be given in private clinics and in the traditional face to face sessions, but psychological therapy should be provided by the State trying to accessing whose will benefit from treatment but can’t be reached by traditional models. The strength of the program was to base treatments considering questions relating to five core issues: access (who got treatment?), equity (were services targeted appropriately at need?), utilization (what treatments did people receive?), effectiveness and cost-effectiveness (did they improve outcomes at a sustainable cost?) and patient-centeredness (did the service meet patient needs?).
As we see in the previous part of this article, one of the main reasons people state as not accessing mental health services seems to relate to the fact that they want to solve the problem on their own; considering this issues in a more details way, the finding that people not seeking help ‘preferred to manage themselves’ raises many questions about their decision-making. Those decisions often reflect the way that services are perceived to respond to distress, rather than a deficit in patient knowledge. Persuading more people with common mental health problems to access psychological therapies is unlikely to be a simple matter of public education. Instead, it will require the design and delivery of services that minimize the material and psychological costs of accessing care, while maximizing their potential impact.
La nostalgia incrementa l’ottimismo. Questa è la conclusione di una serie di 4 studi pubblicati recentemente on line sul Personality and Social Psychology Bulletin.
Secondo Cheung e colleghi, la nostalgia non sarebbe esclusivamente uno stato emotivo orientato al passato, ma il suo campo d’azione si estenderebbe al futuro, influenzandone la percezione in termini positivi.
I dati ottenuti nel primo studio suggeriscono infatti un profondo legame tra i due costrutti. In particolare, è emersa la presenza di una percentuale maggiore di espressioni legate all’ottimismo all’interno di racconti di eventi autobiografici attivanti nostalgia rispetto a racconti di eventi ordinari, indipendentemente dalle emozioni positive scaturite dal ricordo emotivamente rilevante.
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La seconda ricerca, che ha previsto l’induzione di uno stato di nostalgia attraverso il ricordo di eventi emotivamente rilevanti, ha mostrato come un maggior coinvolgimento nostalgico aumenti i livelli di ottimismo non solo attraverso un incremento dell’affettività positiva, ma anche tramite un rapporto diretto.
Al fine di approfondire i possibili mediatori di tale relazione, un terzo esperimento ha chiesto a 664 partecipanti di ascoltare, in modo randomizzato, una canzone dal contenuto nostalgico o una canzone di controllo. I risultati indicano che: l’effetto positivo della nostalgia sui livelli di ottimismo è generalizzabile per età e genere; la nostalgia accresce l’ottimismo sia direttamente sia tramite un aumento dei livelli di autostima e non attraverso maggiori livelli di emotività positiva.
Nel quarto e ultimo studio, gli autori hanno ipotizzato che autostima e senso di connessione sociale fungessero da mediatori della relazione tra nostalgia e ottimismo. Infatti, il nostro senso di autostima origina prevalentemente da processi sociorelazionali come il senso di connessione sociale. Quest’ultimo, a sua volta, è spesso oggetto di rêverie nostalgiche, come possono essere quelle riguardanti la famiglia o i rapporti sentimentali.
Durante la ricerca, i soggetti dovevano leggere il testo di una canzone precedentemente identificata da loro come nostalgica rispetto ad una condizione di controllo in cui leggevano una canzone scelta da altri. I dati hanno confermato il modello di mediazione proposto. Uno stato nostalgico è in grado di innescare un più profondo senso di connessione sociale che, a sua volta, sfocia in una più elevata autostima. Quest’ultima diventa una sorta di lente positiva capace di infondere maggior ottimismo per il futuro.
Ripensare nostalgicamente a ciò che è passato può quindi farci rivivere una positività sepolta nei nostri ricordi, che ci permette, nel presente, di avere uno sguardo più ottimista nei confronti di ciò che ci aspetta in futuro.
Cheung, W. Y., Wildshut, T., Sedikides, C., Hepper, E. G., Arndt, J., & Vingerhoets, A. J. J. M. (forthcoming). Back to the Future: Nostalgia increases Optimism. Personality and Social Psychology Bulletin.
Accessing mental health services: I want to solve the problem on my own
It has been shown that people from economically deprived and socially marginalised groups or ethnic minorities are more likely to have higher rates of psychiatric morbidity but less access to the services (Dionisi et. al 2013). The factors implicated in the choice of not accessing the mental health services are complex and still not very well defined, as researches show that these factors are clearly influenced by many variables and cultural differences (Kovandzic et al, 2012). Multiple stigma(s) and lack of effective information are identified as the main barriers to accessing services for ‘hard-to-reach’ groups (Richards, D. & Bower, 2011).
Studies focused on this topic (Richards, D. & Bower, 2011) show that emotionally distressed individuals most commonly identify attitudinal barriers (such as wishing to solve the problem on their own and thoughts that the emotional problem would go away) for not seeking mental health treatment. Although fear of stigmatization is commonly thought to be an important reason for not seeking mental health treatment, the limited number of studies have not found fear of stigmatization to be a commonly reported barrier to seeking treatment for emotional problems. Structural barriers, such as financial cost for mental health treatment, also may affect use of mental health services (although this issue has been highly controversial).
In a study that surveys people from three different countries (Sareen et. al, 2007), researchers have found that the long delays between onset of mental disorders and initial contact with a mental health professional can be explained by people’s attitude of thinking “I want to solve the problem on my own”, followed by “Help would probably be any good”.
Important associations between particular socio demographic factors and types of mental disorders have been found:
younger age was positively associated with fear of involuntary hospitalization and concerns about embarrassment from using mental health services;
the presence of an anxiety disorder was positively associated with endorsement of the item that help probably would not do any good. These findings suggest that individuals in the community may not be aware of the treatable nature of anxiety symptoms and disorders;
the presence of a past-year mood disorder and substance use disorder was positively associated with a fear of involuntary hospitalization;
the presence of a substance use disorder was associated with concerns of embarrassment about using mental health services.
Considering these findings some research has been conducted on implementing services and programs facilitating the access to mental health services by acting on these barriers. In the next article we will go through some of the programs have been conducted so far.
I giovani ricercatori del progetto Bridge between Research and Practice, nato dalla partnership tra Studi Cognitivi – Cognitive Therapy School and Research Institute (Milano, Italy) e Open Minds – Center for Mental Health Research (Cluji-Napoca, Romania).
Sareen, J., Jagdeo, A., Cox, B., Clara, I., ten have, M., Belik, S., de Graaf, R., M. (2007). Perceived barriers to mental health service utilization in the United States, Ontario, and the Netherlands. Psychiatric Services, 58:3, 357-364. DOWNLOAD PDF
La risoluzione dei sogni, foto più o meno nitide della nostra realtà, del nostro futuro o di ciò che vorremmo accadesse? Risoluzione che indica la densità dei punti elementari, parti di un’immagine che non ammette disegni, perché frutto di punti, di minuscoli punti, percepibili nel loro insieme, solo da occhi attenti e da cuori aperti ai più reconditi istinti, desideri e bisogni, svelatisi senza riserve né menzogne.
Solo allora, la risoluzione dei nostri sogni, veicolata da coraggio e coerenza, migliorerà la qualità dei singoli istanti-scatti di vita, fotografandoli in noi con la stessa nitidezza che garantirebbe uno sguardo diretto sulla realtà. Sogni, dunque, in grado di mutare in tangibili verità. Sogni partoriti da nuovi scatti, probabilmente mossi, ma audaci, allineati a nuove prospettive, madri di un percorso di crescita in parvenza “cronicizzato” sulle ansiose inquietudini dell’uomo moderno.
Una storia suggestiva che – così si legge nell’incipit – inizia “con un sogno e finisce con la verità”. Imprevedibilità della vita che può travolgere chiunque, come ha travolto Tulio, protagonista del libro “Sogni a bassa risoluzione”, di Andrea Cacciavillani, scrittore, poeta, paroliere musicale, autore di testi da cui sono state tratte sceneggiature teatrali e monologhi. La trama, decisa e coinvolgente, si snoda attraverso tre fasi esistenziali della vita dell’uomo, tessute, seppur in un gioco di rimbalzi temporali, sul filo del presente, su cui “galleggia”, pressoché sospeso, un trentacinquenne, guardia giurata in un centro commerciale.
A tormentarlo è l’insonnia, patologia ormai ventennale, di temuta irreversibilità, ma che, si scoprirà poi, esser legata ad un orribile incubo che ne aveva congelato la crescita emozionale ed i sogni, a quattordici anni, proprio nel giorno della morte di suo padre.
Coincidenza o sovrapposizione di eventi? Realtà o fantasia? Forse entrambi, ma lo scopriremo seguendo il cammino del protagonista. Sarà lui che, diretto dalla toccante penna del Cacciavillani, ci racconterà sia della sua infanzia – descritta per monologhi, in prima persona, durante le sedute di psicoanalisi, volte a tamponarne il notturno malessere – che del suo ieri più immediato, colorato dalla nascita di una profonda amicizia con un collega.
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Narrazione che si muove attorno al filo conduttore, teso sulle notti insonni di Tulio, compulsivamente chiuso a chiave nella sua stanza, in una solitudine costellata da sporadici dialoghi con la madre e dal ricorrente mostruoso incubo, morsa di sogni che “alitano sul collo delle nostre paure” (da “Sogni”, in Icaro cuori di cera, Raccolta di poesie, 2001, Gallina Editore). Ritmo stanco il suo, rassegnato, ma stravolto, improvvisamente, dal ritrovamento di un cellulare e da un sms – “una dolce carezza per te” – che l’uomo riceve, su quel telefono, da una misteriosa Altea, unica voce in rubrica.
In preda a sensazioni sconosciute, le risponderà “grazie della carezza, mi aiuterà a sognare”. Seguirà un “allora quest’altra carezza entrerà nei tuoi sogni…” ed un “è già nei miei sogni” (pagg. 28-29). Di qui, un rincorrersi di sms, mms, foto “a bassa risoluzione” di particolari femminili, una mano, delle labbra, scateneranno un rapporto, impetuoso e morboso, nato causalmente (o forse no?) con una sconosciuta, da cui Tulio è attratto, inspiegabilmente legato, basito di “come fosse a suo agio in quella situazione” (pag. 52).
Una preconoscenza di anime, che riporta a quel “non ti ho inventata, ti ho trovata subito dopo il crollo della mia anima pronto a capire chi noi fossimo” o a quel dialogo tra corpi distanti, pronti a dirsi “tu sei reale, tanto quanto non sei qui” (frasi rispettivamente tratte da “Scivola”, in Minore di Diesis, Appunti di Poesia, 2013, Galassia Arte Editore, e “Cammino”, in Icaro cuori di cera, Raccolta di poesie, 2001, Gallina Editore).
Questi, gli input che indurranno il vigilantes – mosso da un represso ma intenso desiderio di Amare, forse, più che di essere amato – a riflettere, a rimescolare le carte in tavola, a ridiscutere tutte le scelte e reimpostare totalmente la sua vita. Era bastato un sms, un segno del destino, un evento che Tulio non aveva fatto nulla perché gli si catapultasse addosso.
Del resto, “la verità è che abbiamo il vizio di credere che quando arriviamo ad una conclusione qualcosa è stato trovato solo perché abbiamo cercato” (pag. 95). Tema, quello dell’incrocio tra casualità e scelta, tra staticità e provocata dinamicità, che lo scrittore dipinge consegnandoci teneri frammenti di pensiero di un Tulio bambino, incantato ad “osservare l’aquilone nell’istante subito precedente il volo” con “l’impressione che in quell’attimo tutto si fermasse. Un piccolo istante durante il quale” in lui “nasceva la consapevolezza dell’esistenza di un cielo” (pag. 15). Un Tulio che, adolescente, ed infine adulto, saprà guardare con nostalgia la sua infanzia, perché “quando sei bambino non devi dimostrare niente”, ma a un certo punto “ti ritrovi, senza che tu lo abbia chiesto, in un posto che non è più solo tuo ma è di tutti. Devi lottare, sgomitare per essere notato. Tutti quegli sguardi amorevoli e gratuiti non ti sono più dispensati” (pag. 46).
Ma non tutto è perso, forse quella magia che si respira da bambini, la si può rivivere in un amore, come accadrà a Tulio, incredulo e ansioso – nel rispondere a quel primo sms di Altea – di calcare il primo passo che lo allineerà al mondo, per “far parte di nuovo dell’essenza umana. Sentirsi uno dei tanti” (pag. 113). Terminerà così la sua attesa, con un sogno di realtà, assassino di quell’incubo bestiale che l’aveva pietrificato per vent’anni, ad “aspettare un tram che non sai mai se e quando passerà. Forse per questo che nonostante tutto – riflette – mi distendo sul letto. Così sono pronto se il sonno dovesse arrivare” (pag. 10). L’attesa. Tutto ruota attorno all’attesa di un anello mancante, in una catena di episodi e di vissuto composto di attimi anonimi, sfocati, immortalati in immagini a bassa risoluzione, nei quali Tulio era abituato a muoversi, come un prodotto matematico, come somma vivente di tutto ciò che per troppo tempo, aveva negato a sé stesso.
Anello mancante che – incastrandosi in un intrigante incedere di eventi – arriverà a chiudere il cerchio con un semplice avviso sonoro, un bip luminoso che lo metterà all’angolo, quando il suo cuore impazzito leggerà l’ultimo messaggio di Altea: “…è arrivato il momento di vederci. Non ti scriverò né richiamerò. Ti aspetto. Stanotte” (pag. 183). Ecco che, spinto dalla sua imbavagliata ansia di vivere, l’uomo – in un finale a sorpresa – ne conoscerà l’identità, comprenderà le ragioni delle sue inquietudini infantili, e suturerà le ferite del conflittuale rapporto con la madre, donna capace, non di plateali dimostrazioni d’amore per il figlio, ma di piccole grandi attenzioni, di “gesti che assumono importanza non per quello che danno ma per quello che sottraggono” (pag. 103).
E mi si consentirà di immaginare la voce di Tulio, sussurrare, finalmente stretto ad Altea, un lei “mi tocca la vita, lo fa con un gesto” (da Portatemi via, Tabula Osca, testo di Andrea Cacciavillani). O forse, se quell’uomo avesse avuto inchiostro, avrebbe scritto “l’istante in cui ho udito la tua voce spostare l’aria attorno alla mia bocca ho capito il potere del suono” (da Diesis Minore, in Minore di Diesis, appunti di poesia, 2013, Galassia Arte Editore). Qualsiasi fosse il suo pensiero, o la sua parola, dinanzi a se, in quel momento, poteva godere della luce giusta per poter scattare una foto, questa volta sul suo futuro, nitida come l’amore e la libertà, inatteso frutto di quei “sogni a bassa risoluzione”, e di un miracolo che accade “nel momento in cui capisci una cosa importante: i sogni non devono essere esauditi ma raccontati” (pag. 46).
Molteplici, dunque, gli ingredienti del romanzo, l’amore, l’avventura, una nota di noir e di mistero, e segreti sapientemente accennati dallo scrittore, abile nel regalare al lettore suspense ed emozioni, stregandolo fino all’ultima pagina e all’ultima lettera dell’opera. Lettere, simboli, strumenti che il Cacciavillani dosa con stile, maestria e sentimento, per comunicare, ad ampio spettro, con chi, immerso tra le righe del romanzo, avrà provato le stesse intense emozioni di Tulio. E se, come afferma l’Autore, la scrittura è un mezzo quasi atavico di comunicazione, tanto che “i bimbi disegnano prima di parlare”, ben presto ci accorgeremo che non saremo più noi a leggere il romanzo, ma sarà il romanzo a scavarci dentro, a divorare le nostre inquietudini, e far riemergere assopite serenità.
Così, l’introspezione e il viaggio di Tulio, diventeranno il nostro più intimo itinerario, scevro da banali cliché o da mediocri perbenismi. Tulio è un uomo, vive nella sua società, nel tempo di tutti, dove nulla manca e niente si ha per davvero. Tulio è nessuno e siamo tutti, uomini, donne, ragazzi. Ad impreziosire l’opera, poi, è la matura e riuscitissima ricerca di un linguaggio onesto, in grado di descrivere con immediatezza ambienti e personaggi. Infine, nota eccelsa del romanzo, seppur non autobiografico, è il posarsi su carta, goccia a goccia, della personalità, istintiva e profonda, dello scrittore. Una storia – da cui è stata già tratta una sceneggiatura cinematografica – che, ricordiamo, “inizia con un sogno e finisce con la verità”, perché se non si sogna – sostiene, intervistato, il Cacciavillani – non si potranno mai vivere i desideri. Sognare un amore, il futuro, un progetto, è il primo passo per viverlo. Il sogno resta l’elemento che contraddistingue l’essere umano, e se condiviso con un complice, con il nostro incastro perfetto, può trasformarsi in realtà. Si chiudono così, su una realtà dapprima sognata, e poi vissuta, le 198 pagine di un romanzo che graffia il cuore.
Dal momento che l’umorismo è utile per una varietà di scopi, tra cui la difesa psicologica contro l’ansia, gli autori hanno ipotizzato che l’attivazione di pensieri riguardanti la morte potrebbe stimolare l’umorismo.
L’umorismo è una parte intrinseca dell’esperienza umana, eppure, poca ricerca è stata condotta fino ad oggi sulla funzione psicologica dell’umorismo.
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Secondo la Terror Management Theory, la conoscenza della propria transitorietà crea una dirompente ansia esistenziale, che l’individuo tiene sotto controllo con due meccanismi di coping: la rigida aderenza ai valori culturali dominanti, e il rafforzamento dell’autostima.
Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Humor indaga se l’attivazione di pensieri sulla morte influenzi la propria capacità di generare creativamente umorismo.
Dal momento che l’umorismo è utile per una varietà di scopi, tra cui la difesa psicologica contro l’ansia, gli autori hanno ipotizzato che l’attivazione di pensieri riguardanti la morte potrebbe stimolare l’umorismo.
Nello studio 117 studenti sono stati suddivisi in quattro gruppi sperimentali, ciascuno dei quali si è confrontato con i temi del dolore e della morte, mentre mentre svolgeva dei compiti. Due dei gruppi, mentre svolgevano i compiti, sono stati esposti, inconsapevolmente, a parole lampeggianti (dolore e morte) per 33 millesimi di secondo. Gli altri due gruppi hanno svolto un compito di scrittura per esprimere emozioni riguardanti la propria morte o una visita dolorosa dal dentista. In seguito, tutti e quattro i gruppi hanno dovuto scrivere la didascalia di una vignetta del The New Yorker.
Le didascalie delle vignette sono state poi presentate ad una giuria indipendente che non sapeva nulla dell’esperimento. I risultati indicano che le didascalie scritte da individui stimolati con la parola morte sono state votate come nettamente più divertenti dalla giuria.
Il risultato opposto è stato ottenuto dagli gli studenti che hanno invece scritto sulla morte: le loro didascalie erano le meno divertenti.
Sulla base di questo esperimento, i ricercatori hanno concluso che l’umorismo aiuta l’individuo a tollerare l’ansia latente che potrebbe altrimenti essere destabilizzante. In accordo anche con studi precedenti che indicano che l’umorismo è una componente integrale della resilienza.
L’attivazione di pensieri coscienti riguardanti la morte sembra invece compromettere la generazione creativa di umorismo.
Gli autori sottolineano la necessità di ulteriori ricerche, non solo per esplorare l’efficacia dell’umorismo come un meccanismo di coping in varie circostanze, ma anche per identificarne i vantaggi emotivi, cognitivi e sociali in condizioni di avversità.
Compulsione, Ansia e Perfezionismo nelle fotografie di John William Keedy
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Il Post propone una curiosa collezione di fotografie dell’artista texano John William Keedy. Una volta tanto non solo parole ma immagini per rappresentare le bizzarrie dei nostri stati mentali.
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Le foto provano a rappresentare cosa non si considera normale e perché. Alcune, ha raccontato Keedty in un’intervista allo Huffington Post statunitense, vengono dalla sua esperienza personale: è affetto da disturbi d’ansia e agorafobia. La serie completa si mescola poi con immagini che non riguardano la sua storia ma che hanno a che vedere con i disturbi in generale.
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Il Corriere della Sera intervista lo psicologo Luca Mazzucchelli riguardo alle terapie online. Al di là dell’incentivo economico (il costo delle sedute è calcolato intorno al 10% in meno) è interessante il punto sulla possibilità del rapporto mediato dall’interfaccia web di “vincere le ritrosie” e permettere un più semplice primo contatto tra utente e terapeuta.
C’è di più: la capacità di internet di fare breccia nel muro della ritrosia, timidezza o nevrosi che sia. «In alcuni casi, come per pazienti con paura di uscire di casa o con forte ansia, internet è il mezzo, e incontrarsi dal vivo è il fine», spiega Mazzucchelli. Non solo: «Sono molte le persone che si sentono stigmatizzate andando dallo psicologo. Avere un primo contatto online da casa permette loro di superare il freno iniziale».
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Psicologia contro il gioco d’azzardo patologico: istruzioni per il legislatore
di Andrea Ferrari
Psicologia contro il gioco d’azzardo patologico:
istruzioni per il legislatore
In tempi recenti il gioco d’azzardo è salito sempre più alla ribalta delle cronache, specialmente per quanto riguarda le preoccupazioni per i costi sociali a esso connessi, sia in termini di sofferenza individuale e familiare, sia per le ricadute economiche negative connesse a tali sofferenze (indebitamenti, ricorso all’usura e a comportamenti criminali, perdita del lavoro…), tali da far sorgere più di un dubbio sull’effettiva utilità di fare leva sul gioco per rimpinguare le magre casse statali.
[…] Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
[…]— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voialtri due.
— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!
— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.
— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri.
— Gli altri! — ripeté il Gatto.
— Che brave persone! — pensò dentro di sé Pinocchio […]
(Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio)
In tempi recenti il gioco d’azzardo è salito sempre più alla ribalta delle cronache, specialmente per quanto riguarda le preoccupazioni per i costi sociali a esso connessi, sia in termini di sofferenza individuale e familiare, sia per le ricadute economiche negative connesse a tali sofferenze (indebitamenti, ricorso all’usura e a comportamenti criminali, perdita del lavoro…), tali da far sorgere più di un dubbio sull’effettiva utilità di fare leva sul gioco per rimpinguare le magre casse statali.
Un dato sopra gli altri: nell’ammontare della raccolta generata dal gioco d’azzardo, non tutti gli scommettitori incidono allo stesso modo. Poiché non risultano dati italiani che forniscano indicazioni precise, citiamo dati canadesi secondo i quali i giocatori patologici contribuiscono con percentuali dal 23% al 50% sulla raccolta complessiva del gioco d’azzardo (Williams & Wood 2004; Williams & Wood, 2007).
Un altro dato di cui tenere conto è sull’incidenza delle slot-machine (e delle VLT) sulla raccolta complessiva del gioco: in Italia rappresentano il 76,9% del fatturato sul gioco (rapporto AAMS 2012, http://www.aams.gov.it/site.php?id=5320). Ciononostante, secondo dati Eurispes (2009) la percentuale di scommettitori dediti alle slot non risulta essere superiore al 10% sul totale, un dato forse non più aggiornato ma comunque indicativo. Non a caso, le slot-machine sono considerate la forma di gioco più pericolosa (Dowling, 2005)
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Sebbene non sia possibile valutare quanto e se le problematiche di dipendenza da Gioco d’azzardo siano incrementate nel corso degli anni, sappiamo dalle ultime rilevazioni quanto il problema sia grave: si stima che quasi un italiano su 10 abbia qualche problema con il gioco. Inoltre questi numeri risultano significativamente maggiori rispetto a quanto si rileva negli altri stati occidentali (Bastiani et al, 2013).
I fattori psicologici/individuali giocano un ruolo indiscutibile nel generare un problema di dipendenza da gioco, tuttavia crediamo che una regolamentazione più responsabile da parte del legislatore produrrebbe effetti significativi sulla riduzione globale delle problematiche, intervenendo sui fattori strutturali e situazionali del gioco d’azzardo (Griffiths, 1999).
Esistono e sono documentate alcune misure che si sono rivelate efficaci nel contenimento delle problematiche da gioco (Williams, West & Simpson, 2012). Tra queste citiamo:
• Ridurre il numero di locali ove sia possibile giocare d’azzardo: a tal proposito ricordiamo che la normativa italiana prevede che sia possibile installare slot-machine in qualsiasi locale provvisto di licenza per la somministrazione di bevande. In questa categoria sono inclusi, tra gli altri, anche gli stabilimenti balneari. Ogni nostro commento è superfluo.
• Eliminare le forme di gioco a più alto rischio: ad oggi, nella sola Norvegia sono state ritirate tutte le slot-machines al di fuori dei casinò (Bu & Skutle, 2013). Questo provvedimento ha contribuito a ridurre significativamente il numero di persone con problematiche di gioco, sebbene sia stato osservato uno spostamento verso il gioco online, che presenta caratteristiche di rischio simili.
• Determinare un importo massimo limitato per ciascuna scommessa.
• Richiedere agli scommettitori di aderire ad un limite massimo di spesa giornaliera, da loro predeterminato. Questo provvedimento potrebbe essere particolarmente utile se integrato nelle slot-machine, rendendo visibile un avviso al termine di ogni scommessa (Stewart, Wohl, 2013)
• Limitare o eliminare l’accesso a bancomat e a bevande alcoliche nei casinò.
In aggiunta a tutti i fattori sopraelencati, vorremmo segnalare un fattore particolarmente importante, la cui presa in considerazione costerebbe poco in termini legislativi ma moltissimo in termini di impatto sul gioco, in particolar modo sulle slot-machine. Il nostro suggerimento è quello di ridurre in modo significativo la velocità di gioco(ovvero il tempo che intercorre tra l’avvio della scommessa e l’emissione del risultato), incrementando di converso la durata della scommessa. In uno studio di Chóliz (2010) è stata confrontata la persistenza nel gioco in due slot-machine con velocità di gioco di 2s e una di 10s: i soggetti che hanno utilizzato quest’ultima hanno giocato il 30% in meno di partite. Secondo le normative presenti, la velocità di gioco minima è di 4 secondi (art. 110 comma 6 T.U.L.P.S.), che significa che sono sufficienti dieci minuti per giocare 150 € ad un ritmo di 1€ per scommessa.
In conclusione, ci sono evidenze sufficienti perché vengano messe in atto misure legislative per favorire il contenimento delle problematiche da gioco. Ma la volontà legislativa, sempre ammesso che esista, si dovrà scontrare necessariamente con la riduzione delle cifre di raccolta. E tra il dire e il fare, ci passa un mare di denaro.
Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni!
Eurispes (2009). L’Italia in gioco. Roma: EURISPES.
Griffiths, M. (1999). Gambling technologies: prospects for problem gambling. Journal of Gambling Studies, 15 (3), 265-283.
Stewart M.J., Wohl M.J. (2013). Pop-up messages, dissociation, and craving: how monetary limit reminders facilitate adherence in a session of slot machine gambling. Psychology of Addicted Behaviors, 27(1), 268-73. doi: 10.1037/a0029882.
Williams, R.J., Belanger, Y.D., & Arthur, J.N. (2011). Gambling in Alberta: History, Current Status, and Socioeconomic Impacts. Final Report to the Alberta Gaming Research Institute. Edmonton, Alberta. April 2, 2011.
Già nel 2011 il Telefono Azzurro e Eurispes hanno presentato a Roma l”Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”, svolta su un campione di 1.523 ragazzi e 1.100 bambini.
I dati sono preoccupanti: il 23,6% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni sono stati vittime di cyberbullismo, una percentuale degli under 11 ha già esperìto il gioco d’azzardo on-line, in particolare il gratta e vinci, il 4,9% degli adolescenti ha cercato consigli per il suicidio, il 68,7 % non riesce a staccarsi da internet quando richiesto.
Il termine Internet Addiction fu coniato nel 1995 da Ivan Goldberg che propose dei criteri riformulando quelli della dipendenza da sostanze del DSM-IV: un uso maladattivo di internet, che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativi, come manifestato da tre (o più) dei seguenti, che ricorrono in qualunque momento dello stesso periodo di 12 mesi:
1. Tolleranza, come definito da ognuno dei seguenti:
bisogno di aumentare la quantità di tempo e di collegamento a internet per raggiungere l’eccitazione desiderata;
l’effetto marcatamente diminuito con l’uso continuato della stessa quantità di tempo su internet.
2. Astinenza, come manifestato da ciascuno dei seguenti:
criteri caratteristici della crisi d’astinenza:
a) l’interruzione o la riduzione dell’uso prolungato e pesante di internet
b) due o più dei seguenti, che si sviluppano da diversi giorni a un mese dopo l’interruzione del comportamento:
– agitazione psicomotoria;
– ansia;
– pensiero ossessivo riguardante ciò che sta accadendo su internet;
– fantasie o sogni su internet;
– movimenti volontari o involontari di battitura a macchina con le dita.
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3. I sintomi del criterio 2 causano disagio o menomazione nell’area sociale, occupazionale, o in qualche altra importante area di funzionamento.
L’uso di internet o di servizi simili viene impiegato per alleviare o evitare sintomi di astinenza
Si accede spesso a Internet con più frequenza e per periodi di tempo più lunghi di quanto fosse stato preventivato
Persistente desiderio e tentativi falliti di cessare o di controllare l’uso di Internet
Una grande quantità di tempo spesa in attività legate all’uso di Internet (per es. effettuare prenotazioni su Internet, cercare nuovi browser nel Web, ricercare fornitori su Internet, organizzare files o scaricare materiale)
Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono sospese o ridotte a causa dell’uso di Internet
L’uso di Internet continua nonostante la consapevolezza di avere persistenti o ricorrenti problemi fisici, sociali, occupazionali o psicologici, i quali molto probabilmente sono stati causati o esacerbati dall’uso di Internet (perdita del sonno, difficoltà coniugali, ritardi negli appuntamenti del primo mattino, negligenza nei doveri professionali oppure sentimenti di abbandono da parte degli altri significativi.
La letteratura individua cinque tipologie di cyberdipendenti:
Cyber-Relational Addiction: la tendenza a instaurare relazioni amicali e amorose sul Web. Questo causa l’idealizzazione delle persone ed una progressiva perdita del contatto con la realtà per abbandonarsi ad una dimensione amorosa o amicale virtuale. Sono spesso utilizzati siti di incontri, le chat e i newsgroup.
Net-Compulsions: i comportamenti compulsivi messi in atto tramite Internet, ovvero:
– gioco d’azzardo
– commercio in rete
– partecipazione ad aste on-line.
Frequenti sono i gravi problemi finanziari per le persone affette da questi tipi di dipendenze.
Information-Overload: la ricerca compulsiva di informazioni on-line. Nel 1997 è stata condotta una ricerca basata su un campione di 1000 persone provenienti da Stati Uniti, Hong Kong, Germania, Singapore e Regno Unito dal titolo: “Glued to the screen: An investigation into information addiction worldwide”.
Il 54% del campione della ricerca sostiene di esperire una forte eccitazione quando riesce a trovare ciò che stava cercando e il 50% passa molto tempo a cercare informazioni in rete.
Cybersexual-Addiction: l’uso compulsivo di siti pornografici o comunque dedicati al sesso virtuale. E’ una delle tipologie più frequenti. Le principali attività sono flirtare e instaurare relazioni amorose, ma non sempre si tramutano in conoscenze e relazioni reali.
Computer-Addiction: l’utilizzare il computer per giochi virtuali, soprattutto giochi di ruolo, in cui il soggetto può costruirsi un’identità fittizia. Il soggetto può avere un’identità parallela: o esprimersi liberamente per ciò che è, grazie all’anonimato, oppure “indossare”, proprio come una maschera, delle nuove identità.
A questo punto è facile immaginare come fenomeni dissociativi e paranoidei siano spesso alla base delle dipendenze da Internet: il controllare la vita degli altri tramite Internet, l’abbandonare le amicizie reali e i propri svaghi (come ad esempio la palestra) per passare del tempo on-line, la mancata percezione del tempo che passa, il vivere una realtà virtuale con una nuova identità oppure l’aver bisogno di uno schermo per potersi esprimere liberamente denotano personalità con forti problemi interpersonali, che hanno difficoltà nell’instaurare relazioni autentiche e che non godono di una buona autostima.
Certamente il problema non sono i social-network in sé. L’avere un profilo Facebook, Twitter e Google+, non sono sinonimi di una cyberdipendenza. Piuttosto bisogna interrogarsi su quali rapporti reali, su quali amicizie, su quali “migliori amici” si hanno nella vita reale con cui uscire per una passeggiata o mangiare un gelato, a cui telefonare se si ha bisogno di aiuto o a cui confidare qualcosa. Bisogna chiedersi se le relazioni amorose che si instaurano siano autentiche e intime, ricche di momenti trascorsi e condivisi con il partner e non solo caratterizzate da scambi di email e chattate.