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Leadership negli sport di squadra: teorie e modelli sulla leadership #3

Leadership negli Sport di Squadra

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP – Parte 3

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

LEGGI: INTRODUZIONE – PARTE 1 

 

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP . - Immagine ©-Sergey-Nivens-FotoliaLa leadership è, quindi, un processo volto a influenzare o modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di altre persone [Hersey e Blanchard, 1988] e a partire da questa definizione molti autori hanno sviluppato modelli e teorie per individuare le caratteristiche essenziali che deve possedere una persone per assumere la posizione di leader.

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L’obiettivo è stato quello di comprendere cosa rende certe persone in grado di influenzare gli altri più di quanto sono influenzati essi stessi. Diverse teorie si sono susseguite nell’analisi di quest’argomento dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi e hanno portato alla nascita di modelli piuttosto differenti. E’ importante premettere come tuttora il dibattito sia completamente aperto in tutti gli ambiti e in special modo in quello sportivo dove la tematica in questione ha ricevuto attenzione solo recentemente.

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Uno di questi, e uno dei primi, tentativi è quello che si basa sulle teorie dei tratti.

Questo fondamento teorico ha portato alcuni psicologi a cercare di individuare, principalmente attraverso questionari come il Questionario dei 16 fattori di Cattel, alcune caratteristiche tipicamente comuni alla maggior parte dei leader. Il concetto alla base è l’idea che per essere leader siano necessarie alcune doti naturali identificate in specifici tratti di personalità. Appare, ed è, una posizione estremamente innatista che confina le possibilità di divenire un leader alle proprie caratteristiche naturali. Per questo motivo l’insieme dei modelli che si basano su questa idea sono stati etichettati come Teorie del grande uomo. Risulta sin troppo facile individuare i limiti di queste ricerche che, come nota Hollander [1985 ] nella sua rassegna sulla leadership, si limitano a considerare solo una categoria di fattori, quelli legati alle capacità del leader, escludendone altre importanti.

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L’inefficacia di questo modello, che in ambito sportivo ha retto sino all’inizio degli anni Ottanta, è stata verificata da uno studio di Stogdill [1974] su 150 ricerche appartenenti all’approccio del grande uomo, dalle quali si può facilmente notare come anche i tratti di personalità più ricorrenti presumibilmente associati alla posizione di leader non riescono, in realtà, a darne ragione.

Il Grande Capo - Locandina
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La consapevolezza del fallimento delle teorie del “grande uomo” ha portato alla necessità di individuare alternative. In particolare sono state percorse due diverse strade che hanno posto l’accento, l’una, sul comportamento del leader e, l’altra, sulle caratteristiche della situazione, più che su i tratti della personalità.

La prima ha sviluppato l’idea degli stili di leadership che rappresentano schemi comportamentali tipici della persone che rivestono lo status di leader e che possono essere finalizzati a diversi obiettivi e classificati in diverse categorie. In particolare Bales e Slater [1955] distinguono due diverse tipologie di leader definite da due funzioni ben distinte: la prima (leader socio-emozionale) si concentra sul mantenimento del morale del gruppo e di un clima sereno per tutti i membri, la seconda (leader centrato sul compito) si orienta al raggiungimento degli obiettivi per cui il gruppo è nato e quindi all’organizzazione e alla gestione del lavoro.

Come afferma Palmonari [in Arcuri, 1995] questi due orientamenti possono essere individuati nella stessa persona o possono esistere due leader legati a diverse funzioni. Questa distinzione è particolarmente importante in ambito sportivo dove la prestazione ottimale, intesa come compito della squadra, che può essere raggiunta attraverso il lavoro di un leader centrato sul compito non può prescindere da una soddisfazione intrinseca dei membri che la compongono e della quale si occupa un leader socio-emozionale, soprattutto in particolare situazioni (vedi sotto).

Anche in quest’ambito, pur non negando la possibilità che la medesima figura possa aderire a entrambi gli stili di leadership, si può osservare come l’ottimale rendimento della squadra richieda, nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza di più di un leader, proprio perché spesso uno solo non è in grado di ottimizzare le prestazioni e la soddisfazione della squadra in tutte le situazioni. Un’altra distinzione che fa sempre riferimento agli stili comportamentali del leader e che può facilmente essere ricondotta a quella appena presentata è stata elaborata da Lewin, Lippit e White [1939].  Anche secondo questa teoria possiamo osservare come le conseguenze del comportamento del leader determini conseguenze sostanzialmente a due livelli: quello della produttività e quello del morale del gruppo. Gli stili individuati da questi autori sono:

Stile autoritario: è un leader che tende a gestire con rigoroso controllo i membri del gruppo e le loro azioni, spesso senza dar loro possibilità di recriminare e generando così disgregazione e aggressività. Sicuramente questo comportamento risulta dannoso per il morale del gruppo ma in compenso favorisce oltremodo la produttività, per questo si può collegare a quello che Bales e Slater definiscono come leader centrato sul compito.

Stile democratico: il gruppo viene condotto in modo partecipativo, in cui ciascun membro ha la possibilità di intervenire e di sentire riconosciuto il proprio ruolo nel team. Questo tende a massimizzare la profondità della relazione tra i membri e il morale individuale. Anche la produttività risulta positiva anche se non ai livelli di quella determinata da uno stile autoritario. Questo stile di leadership potrebbe essere connesso all’idea di leader socio-emozionale di Bales e Slater in quanto si focalizza principalmente sul rapporto tra i componenti del gruppo.

Stile lassez-faire: il comportamento del leader è completamente disinteressato e ciò porta all’emersione dal gruppo di altri leader spontanei e ad una situazione caotica che tende comunque a disgregare le relazioni intragruppi. In questo modo, senza alcuna guida, la produttività non può che essere scadente e, d’altro lato, anche il morale del gruppo non è elevato e il rapporto tra i membri minimo; questo perché il leader fallisce in tutti i compiti associati alla posizione a cui è stato assegnato.

Secondo l’approccio che, al contrario delle teorie del “grande uomo”, si è focalizzato sulla rilevanza delle caratteristiche situazionali, il leader diventa colui in grado di svolgere determinate azioni (ottimali per il raggiungimento di un obiettivo), in determinate condizioni. In questo modo, non solo non esiste un leader tale per caratteristiche della personalità innate ma ogni situazione pone in rilievo una persona diversa come potenziale leader. Non viene riconosciuta quindi l’esistenza di un leader unico ma, anzi, i sostenitori di quest’approccio associano un leader diverso per ogni situazione. Per avvalorare quest’ipotesi Nixon e Carter [1949] sottopongono diverse coppie a tre compiti di diversa natura osservando come difficilmente la stessa persona assume il ruolo di leader in tutte le condizioni. Questo sistema di teorie, se ha il pregio di porre l’accento sull’importanza delle variabili che contraddistinguono la situazione, d’altra parte commette l’errore, come Hollander [1985] gli attribuisce, di esagerare dalla parte opposta alle teorie basate sui tratti non fermandosi a superarle ma arrivando a trascurare completamente le qualità individuali dei componenti del gruppo.

L’esagerazione di questo approccio è evidente anche in ambito sportivo. Presupponendo infatti che ogni situazione di gioco necessiti di una diversa figura di leader si arriverebbe ad analizzare una partita in quanto insieme di singole azioni perdendo di vista l’importanza dell’organizzazione generale della squadra e della persona che la gestisce.

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

INTRODUZIONE – PARTE 1 

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PERSONALITA’  -TRATTI DI PERSONALITA’ – PSICOLOGIA DELLO SPORT – PSICOLOGIA SOCIALE

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La trappola della felicità di Russ Harris – Recensione

Recensione del libro

LA TRAPPOLA DELLA FELICITA’.

COME SMETTERE DI TORMENTARSI E TORNARE A VIVERE

di Russ Harris

Erickson

(2010)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La trappola della felicità - HarrisIl libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

Fino a venti o trent’anni fa se qualcuno avesse parlato di “accettare un sintomo”, il sadico psicologo o psichiatra di turno avrebbe potuto pensare metaforicamente a una bella ascia terapeutica con cui tagliare via il disagio. Le terapie cognitivo comportamentali classiche e le terapie psicofarmacologica avevano più o meno questo obiettivo.

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Negli ultimi anni la parolina magica accettazione ha assunto, in ambito psicologico, il significato di accogliere e integrare anche i lati di noi che non ci piacciono, che ci fanno soffrire e che vorremmo eliminare.

Il libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

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La prima parte del libro si concentra sul relazionarsi diversamente ai propri pensieri, più che cercare di correggerli, in linea con i concetti di mindfullness, che a sua volta si ispira a un atteggiamento proprio delle religioni orientali, in particolare il buddismo.

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Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

L’autore si batte molto sul togliere valore al pensiero come capacità umana suprema, consigliando la “defusione” dai propri pensieri. Noi non siamo ciò che pensiamo, ma i pensieri sono prodotti del nostro cervello, che talvolta ostacolano l’agire in base ai nostri valori. Quindi viene consigliato di fare spazio dentro di sè ai pensieri disfunzionali e alle emozioni spiacevoli e di dargli il benvenuto (qualcosa del tipo “Prego pensieraccio si accomodi! Posso offrirle un caffettino?”), arrivando a ringraziare la propria mente, piuttosto che maledirla, per averli prodotti.

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Questo lasciare uno “spazio di respiro” al disagio ha la finalità di non permettere alla sofferenza di amplificarsi, ma di manifestarsi in modo naturale, per poi scomparire.

D’altra parte anche le emozioni piacevoli arrivano e passano, ma con quelle siamo solitamente più accoglienti.

Uno degli obiettivi è quello di coltivare il sé osservante, entità mentale non giudicante che di solito non riconosciamo, e che si contraddistingue dal sé pensante che ci induce spesso a lottare contro la realtà.

Ci sono molti esercizi utili per coltivarlo. Per esempio, mentre leggete questa recensione, cercate di osservarvi mentre la leggete e di essere consapevoli del fatto che vi state osservando.

La seconda parte dell’opera fa riferimento ai valori, cioè ai nostri desideri più profondi rispetto a come vorremmo essere e a come vogliamo rapportarci al mondo (ad esempio essere un partner affettuoso). I valori vanno distinti dagli obiettivi, che sono i risultati desiderati nella vita (ad esempio diventare ricchi, sposarsi etc.).

 Devo dire che l’utilizzo del termine valore in ambito psicoterapico mi ha colpito molto. La maggior parte dei sociologi e degli opinionisti impegnati accusa, spesso in modo condivisibile, la nostra società postmoderna di aver perso il sistema dei valori, che in altre epoche (o anche oggi in altri mondi) furono imposti dalle religioni o dalle ideologie. Nelle nostre vite così libere e, a tratti disorientate, connettersi con i propri valori può essere un modo per non perdersi. Una volta chiariti i propri valori, si può agire in base ad essi, perché come sottolinea l’autore non siamo padroni dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, ma delle nostre azioni eccome!

Il cambiamento, che ricordiamolo non è quasi mai piacevole o indolore, deriva secondo l’autore dall’allenarsi a rapportarsi diversamente ai propri pensieri e stati d’animo e a vivere guidati dai propri valori. Harris invita il lettore ad aspirare a una vita più piena e significativa, fornendo gli strumenti per uscire da una sorta di schiavitù dei propri lati oscuri, vere fabbriche di autoaccuse e di trappole paralizzanti.

Per rendere più autentico il racconto, l’autore narra le proprie difficoltà e resistenze nello scrivere il libro stesso e di come sia riuscito a vincere “il blocco dello scrivano” proprio grazie all’uso delle strategie illustrate nel volume. Più di così…

 

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PSICOTERAPIA COGNITIVA – FARMACI – FARMACOLOGIA –  ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT – MINDFULNESS – ACCETTAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Come i social media riflettono e amplificano il narcisismo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Facebook è uno specchio e Twitter è un megafono: come i social media riflettono e amplificano il narcisismo. 

Gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

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Un team di ricercatori della University of Michigan ha studiato la relazione tra narcisismo e la quantità tempo speso a navigare sui social media e il numero di post giornalieri pubblicati su Facebook e Twitter, includendo la lettura di post e i commenti ad altri.

lInvidia-del-post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com
Articolo Consigliato: Facebook e l’invidia del post

I ricercatori hanno reclutato 486 studenti universitari. Tre quarti erano di sesso femminile con un età media di 19 anni. I partecipanti hanno risposto alle domande sul loro grado di utilizzo dei social media, e ricevuto una valutazione della personalità su diversi aspetti del narcisismo (esibizionismo, sfruttamento, superiorità, autorità e l’autosufficienza).

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Nella seconda parte dello studio, i ricercatori hanno chiesto a 93 adulti con una età media di 35 anni, di completare un sondaggio online.

I risultati dello studio indicano che gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

Tra i giovani studenti universitari, quelli con un più alto punteggio nelle scale del narcisismo hanno la tendenza a pubblicare più frequentemente su Twitter; tra la popolazione adulta invece i narcisisti spendono più tempo a pubblicare aggiornamenti di stato su Facebook.

Secondo Panek, autore dello studio, gli adulti, che hanno già formato il loro sé sociale, usano Facebook come uno specchio, curando la propria immagine e controllando come gli altri vi rispondono, per ottenerne l’approvazione. 

Gli studenti universitari invece scelgono il megafono di Twitter. Questo gli permette di sovrastimare l’importanza delle proprie opinioni, espresse su una vasta gamma di temi e in un vasto ambiente sociale.

Questo studio è tra i primi a confrontare il rapporto tra narcisismo e diversi tipi di mezzi di comunicazione sociale in diversi gruppi di età, anche se i ricercatori non sono stati in grado di determinare la direzione della causalità: se il narcisismo porti ad un maggiore uso dei social media, o se sia l’uso dei social media a favorire il narcisismo, o, ancora, se questo rapporto sia mediato da altri fattori. 

LEGGI:

 SOCIAL NETWORK – DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Mi stai mentendo? Mark Frank insegna a smascherare le bugie

Report dal seminario Comportamento e Inganno

Sabato 15 giugno e Domenica 16

Gorizia

LEGGI LA SCHEDA DELL’EVENTO

 

Mark G. Frank - Comportamento e Inganno - Seminario

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

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Quanto siete bravi a riconoscere se qualcuno vi sta mentendo? Forse pensate di essere molto abili, ma la verità è che in media l’accuratezza della maggior parte delle persone nel riconoscere una bugia si aggira intorno al 54%: a tirare ad indovinare quasi ci si azzecca allo stesso modo!

Eppure capire se qualcuno non sta dicendo la verità è fondamentale in moltissime professioni (es. polizia, agenzie investigative, medici, psichiatri, psicologi…) e anche nella vita quotidiana ogni tanto non guasta.

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
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Mark Frank, esperto mondiale nella comunicazione non verbale e nel riconoscimento delle menzogne, ha tenuto a Gorizia il seminario Comportamento e Inganno con lo scopo di affinare le capacità di osservazione dei partecipanti illustrando quei comportamenti scientificamente validati che segnalano le intenzioni dell’interlocutore, in particolare in relazione alla volontà di nascondere informazioni ed emozioni e di ingannare l’altro.

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Mark Frank è stato collega di Paul Ekman, noto psicologo e ricercatore a cui si è ispirata la celebre serie tv Lie to me. Ed infatti la parte teorica del seminario ha ripreso i contenuti del libro di Ekman I volti della Menzogna (Leggi: I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire), affrontando i temi del riconoscimento delle espressioni facciali e degli indizi comportamentali della verità e della menzogna.

La parte sicuramente più interessante (e divertente) è stata la visione di numerosi filmati, alcuni tratti dagli studi condotti da Mark Frank, altri tratti da interviste a personaggi anche famosi (da Mel Gibson a O.J. Simpson); i partecipanti dovevano valutare se i protagonisti stavano mentendo o meno oppure dovevano riconoscere l’emozione da loro provata. Inutile dirvi che i risultati alla prima visione erano piuttosto scarsi. Dopo il training sul riconoscimento delle micro-espressioni facciali, che consiste nell’imparare a riconoscere i movimenti facciali distintivi delle principali emozioni (paura, disgusto, disprezzo, gioia, tristezza, sorpresa, rabbia) i video venivano rivisti…e si apriva un mondo nuovo.

Al termine del training, infatti, i partecipanti riuscivano a cogliere emozioni prima passate assolutamente inosservate: per esempio, fugaci espressioni di paura sul volto di un marito addolorato per l’omicidio della moglie durante il suo appello ad aiutare la polizia a risolvere il caso (e indovinate alla fine chi era l’assassino?) oppure rapide espressioni di disgusto sul viso di un manager che stava parlando di etica nella propria azienda (e che è poi è stato arrestato per truffa nei confronti della società). Impressionante, vero? Lo è ancora di più rivedere i video a rallentatore, proprio come in una puntata di Lie to me, e vedere comparire in maniera distinta emozioni nascoste.

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

Gli indizi emotivi si esprimono tramite il volto e la voce (influenzandone tono, intensità e velocità nell’eloquio) e sono in contraddizione con il contesto o con il contenuto espresso; spesso sono micro-espressioni facciali, ovvero l’emozione tenuta nascosta dal soggetto sfugge per una brevissima frazione di secondo al suo controllo e fa capolino in maniera repentina sul suo volto. 

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Gli indizi cognitivi invece riguardano la memoria e lo sforzo mentale. Per quanto riguarda la memoria, i racconti inventati differiscono qualitativamente rispetto ai racconti veritieri: spesso hanno contenuti impossibili, sono scollegati rispetto al contesto e poco dettagliati; inoltre il soggetto ha difficoltà a muoversi agilmente nel racconto.

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Raccontare una bugia implica inoltre uno sforzo mentale notevole che può palesarsi attraverso la voce (il soggetto si contraddice, esita, commette errori nell’eloquio) oppure il corpo (i gesti illustratori si riducono, compaiono emblemi contradditori, gesti manipolatori e segnali di controllo).

Quando identificate questi segni rivelatori un campanello d’allarme dovrebbe risuonare nella vostra mente, ma non dovete dimenticare che l’incoerenza del comportamento verbale e non verbale non è mai indice assoluto di menzogna; infatti un segno rivelatore indica l’occultamento di un pensiero o di un’emozione. La domanda da porsi, pertanto, è come mai l’interlocutore sta facendo ciò?

Facial Expressions - © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Riconoscere un’emozione dal volto: giapponesi, americani e questioni di contesto.

Gli indizi dell’inganno sono molto più sottili e complessi e per valutare se la persona che vi sta di fronte vi sta raccontando una bugia o meno dovete interpretare i segnali osservati domandandovi quale sia la loro origine, approfondendo la questione con domande pertinenti per sviluppare il colloquio e raccogliere ulteriori informazioni. Mark Frank sottolinea come la ricerca dell’inganno dipenda molto proprio dalla qualità del colloquio condotto. Diventa fondamentale quindi creare un buon rapporto con l’interlocutore; instaurare una buona relazione è infatti il modo migliore per ottenere informazioni.

Indubbiamente Comportamento e inganno è stato un seminario interessantissimo e soprattutto utile per aumentare la probabilità di non farsi ingannare dagli altri in quanto ha fornito gli strumenti per riconoscere gli indizi dell’inganno e sfatare falsi miti su segni di menzogna che in realtà non sono assolutamente validi (es. la credenza che non guardare negli occhi sia indicativo del fatto che si sta mentendo).

Infatti la questione non riguarda tanto la capacità degli altri di farci fessi – perché chi mente dissemina una grandissima quantità di indizi senza accorgersene – , quanto la nostra incapacità nel rilevare tali indizi. Se il seminario ha il merito di migliorare le nostre abilità di detective, non può però influenzare in alcun modo gli altri fattori che fanno sì che a volte le menzogne ci sfuggano. A volte infatti non ci interessa sapere se l’altro ci sta mentendo e anzi, capita anche che vogliamo essere ingannati perché non siamo in grado di tollerare la verità, e in tali casi non c’è training sulla menzogna che tenga.

LEGGI:

ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSION –  LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

 CONGRESSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ansia Sociale: la timidezza patologica. Partecipa alla Ricerca!

 

Il Dipartimento di Ricerca di Studi Cognitivi presenta:

Ansia Sociale: una forma patologica e dannosa di timidezza.

Ricerca su Ansia Sociale - Studi Cognitivi - © olly - Fotolia.com. - SLIDE

PARTECIPA ALLA RICERCA!

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Le motivazioni al suicidio – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I tentativi di suicidio sono stati raramente il risultato di impulsività, un grido d’aiuto, o la soluzione per risolvere un problema finanziario o pratico. Tra tutte le motivazioni per il suicidio due sembrano essere comuni a tutti i partecipanti: la disperazione e il dolore emotivo travolgente.

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Uno studio della University of British Columbia getta nuova luce sul motivo per cui le persone tentano il suicidio e fornisce la prima misura scientificamente testata per valutarne le motivazioni.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Tratti di Personalità & Suicidio

Pubblicato sulla rivista ufficiale della American Association of Suicidology, la ricerca fornisce a medici e ricercatori nuove importanti risorse da usare nel campo della prevenzione del suicidio, per migliorare i trattamenti, e ridurre la probabilità di recidive.

Lo studio, basato su 120 partecipanti che hanno recentemente tentato il suicidio, suggerisce che molte delle motivazioni che fino ad ora si è creduto giocassero un ruolo importanti nel suicidio in realtà sono relativamente rare. Ad esempio, i tentativi di suicidio sono stati raramente il risultato di impulsività, un grido d’aiuto, o la soluzione per risolvere un problema finanziario o pratico. Tra tutte le motivazioni per il suicidio due sembrano essere comuni a tutti i partecipanti: la disperazione e il dolore emotivo travolgente.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: IMPULSIVITA’

Lo studio rileva inoltre che i tentativi di suicidio che sono stati influenzati da fattori sociali, come la richiesta di aiuto o il tentativo di influenzare gli altri, si associano a una minore motivazione alla morte e vengono effettuati con una

maggiore possibilità di salvataggio. Al contrario, i tentativi di suicidio motivati ​​da fattori interni – come disperazione e di dolore insopportabile – rivelano un desiderio di morire più radicato.

The Inventory of Motivations for Suicide Attempts (IMSA), usato nello studio, è oggi lo strumento più preciso per valutare le motivazioni al suicidio.

Concentrarsi sulle motivazioni è un nuovo approccio nel campo della ricerca sul suicidio”, dice Klonsky, “fino ad ora l’attenzione si è concentrata in gran parte sul tipo di persone che tentano il suicidio – i dati demografici, la genetica – senza in realtà esplorarne le motivazioni; il nostro è il primo lavoro che fa questo in modo sistematico. Motivazioni diverse infatti richiedono diversi tipi di trattamenti e interventi di prevenzione.”

LEGGI:

SUICIDIO – IMPULSIVITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La solitudine dei numeri primi – Cinema & Psicoterapia #6

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #06

La solitudine dei numeri primi (2010)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

La Solitudine dei Numeri Primi. LocandinaIl senso di colpa di Mattia e il senso di inadeguatezza di Alice li accompagneranno. I due si incroceranno e si scopriranno affini, ma irreparabilmente divisi, come i numeri primi, separati da un numero pari, vicini, ma non abbastanza da toccarsi. 

Info:

La solitudine dei numeri primi.

Un film di Saverio Costanzo, con Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Martina Albano, Arianna Nastro, Tommaso Neri. Drammatico. Italia, Francia, Germania, 2010.

Trama 

Il film narra la storia di Alice e Mattia. Due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, segneranno le loro vite di adolescenti prima, giovani adulti poi.

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Lei, con un padre che nutre grandi aspettative, ha un incidente che le procura una menomazione del corpo lui, intelligentissimo con una sorella autistica, vive isolato.

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Un giorno per partecipare alla festa di compleanno di un compagno di classe, abbandona la sorella in un parco. Non la ritroverà più. Il senso di colpa di Mattia e il senso di inadeguatezza di Alice li accompagneranno. I due si incroceranno e si scopriranno affini, ma irreparabilmente divisi, come i numeri primi, separati da un numero pari, vicini, ma non abbastanza da toccarsi. 

Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett (2002). Locandina
Aricolo Consigliato: Il favoloso mondo di Amélie – Cinema & Psicoterapia #3

Motivi d’interesse: 

La sofferenza attraversa il corpo e la mente dei due protagonisti. La solitudine contraddistingue le loro vite. L’una legata al non sentirsi a posto, all’essere snobbata perché zoppa: l’autostima di Michela crolla e la necessità di controllare in qualche modo una realtà crudele la porta all’anoressia.

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L’altra determinata da una sorella autistica che gli fa sentire gli altri umilianti, prima e dal senso di colpa, poi. Mattia non ha interesse per le relazioni sociali e si rifugia nell’autolesionismo. 

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Quando i due si incontrano sembrano alla disperata ricerca di una possibilità diversa. Si confidano, rivelano all’altro il loro trauma. Si scambiano persino gesti affettuosi, ma non resistono insieme. Lui parte per il Nord Europa, lei conosce un medico e lo sposa. Alice non può avere figli, ciò che le chiede il marito, da tempo non ha più le mestruazioni. I due si separano, ancora una volta il corpo la tradisce e cade in depressione.

Le sembra di incontrare la sorella di Mattia, lo chiama e senza fornire spiegazioni gli chiede di tornare. Lui accetta e torna in Italia, ma Alice non riesce a raccontargli ciò che credeva di aver visto. I due passano del tempo insieme, si baciano. Alice è innamorata di Mattia, ma il muro di solitudine che li divide è lì e gli impedisce di essere ancora insieme, di costruire una relazione. Mattia riparte. 

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I temi che propone il film sono propri di tante pazienti con disturbi alimentari. L’attenzione centrata sul corpo, la vergogna e il senso di inadeguatezza, la sensazione di non essere a posto, la scarsa autostima, le aspettative eccessive delle figure d’attaccamento, il bisogno di controllo, l’impossibilità di costruire relazioni significative e il profondo senso di solitudine in cui ci si rifugia per evitare il rifiuto.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Mattia percorre una via diversa per arrivare al senso di solitudine che sembrerebbe ontologico. Passa per l’umiliazione e il senso di colpa che lo rendono evitante, che lo allontanano dagli altri perché indegno, colpevole in senso altruistico.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’

Per entrambi la ricerca disperata e vana di avvicinarsi, di darsi una possibilità alternativa si infrange nella mancata elaborazione delle vicende traumatiche delle loro esistenze e nell’impossibilità di ordinarle attraverso significati più adattivi. 

Indicazioni per l’utilizzo: 

La narrazione offre la possibilità di confrontarsi su temi specifici con pazienti evitanti e con diagnosi di anoressia. Il film può essere utile a fini didattici.

Trailer:

 

LEGGI:

 AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE  –  DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE –  RECENSIONI – CINEMA – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Sul Narcisismo del Terapeuta. Recensione della favola del maestro e dell’allievo

 

Favola: Sul narcisismo del terapeuta

Da “Le fiabe dell’Africa Nera”

– Chi è il maestro e chi l’allievo –

RECENSIONE

 

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Favola: Chi è il maestro e chi l'allievo - Recensione.-Immagine: © aroas - Fotolia.com “Maestro, tutti conoscono le tue capacità straordinarie. Dunque a che pro farne mostra proprio in questa occasione? Lascia stare la leonessa così com’è!“.

 

Ciò che fiabe, favole, racconti popolari possono insegnarci non riguarda solo il percorso umano ed emotivo di coloro che chiedono il nostro aiuto, bensì anche la nostra esperienza di terapeuti alle prese con noi stessi, i nostri limiti e la figura talvolta ingombrante che per il bene della terapia e dei pazienti dobbiamo abbandonare. E’ questo il senso di una favola che arriva da molto lontano, molto vicino.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: IN TERAPIA

Il Giovane Gambero - Recensione
Articolo Consigliato: Il Giovane Gambero – Recensione

 Chi è il maestro e chi l’allievo –

 

Tempo fa tre maghi che si consideravano sapienti, fecero un viaggio insieme a un giovane alunno. Cammina cammina, un giorno passarono vicino allo scheletro di un animale le cui ossa erano sparpagliate sul terreno. Il primo mago affermò ben sicuro: “Si tratta dello scheletro d’una leonessa! Con il solo schioccare delle dita posso riformarne la figura per intero“. Detto fatto, a un suo cenno, la struttura ossea si ricompose perfettamente. Il secondo mago esclamò: “Solo io posso ricostruire integralmente il corpo di questa belva!” e mentre diceva ciò la leonessa riebbe la sua carne, la pelle, e i muscoli possenti. L’ultimo mago volle stravincere, e dichiaro: “Ebbene, in men che non si dica, io posso far ritornare in vita questo bestione!“. Impaurito l’allievo lo scongiurò: “Maestro, tutti conoscono le tue capacità straordinarie. Dunque a che pro farne mostra

proprio in questa occasione? Lascia stare la leonessa così com’è!“.

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Ma costui, spinto da mania di grandezza, fece rivivere il felino che subito si gettò sui tre maghi, divorandoli in un sol boccone. Per sua fortuna, l’allievo ce la fece a salire su un albero, ponendosi così in salvo. Sazia e soddisfatta, la leonessa si allontanò, lasciando sul terreno i tre scheletri.

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 DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ -NARCISISMO – IN TERAPIA

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Come ci ricordiamo i volti? Questione di differenze di genere

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Differenze di genere: secondo un nuovo studio che verrà prossimamente pubblicato su Psychological Science le donne sono in grado di ricordare meglio i volti rispetto agli uomini in parte perché direzionano e focalizzano lo sguardo in modo specifico su alcune caratteristiche del volto.

 

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Secondo gli autori il modo con cui velocemente orientiamo lo sguardo all’interno di un volto che stiamo visualizzando impatterebbe sulla possibilità di memorizzarlo e di riconoscerlo in un momento successivo.

 

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Procastinazione. Differenze Genere e Educazione. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.com
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Ai soggetti sperimentali sono stati mostrati allo schermo di un computer diversi volti: durante il processo di percezione visiva è stata utilizzata una tecnologia di eye-tracking per misurare e identificare gli specifici movimenti oculari.

Grazie a tale procedura quindi si è in grado di analizzare analiticamente la focalizzazione dello sguardo su diverse parti dei volti presentati (ad esempio, l’area degli occhi, del naso e della bocca). Ogni volto veniva presentato associato a un nome che soltanto in seguito è stato poi richiesto ai partecipanti di ricordare (a distanza di diverse ore o di quattro giorni).

 

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 Dai risultati è emerso che le donne fissavano per un tempo significativamente maggiore le caratteristiche del volto (naso, bocca e occhi) ma senza esserne pienamente consapevoli: cioè non si tratterebbe di una strategia messa in atto consapevolmente per ricordare i volti, ma di specificità di un processo percettivo tendenzialmente inconsapevole.

Lo studio quindi fornisce nuovi insights sui meccanismi alla base del recupero delle memorie episodiche in relazione alle differenze di genere.

 

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GENDER STUDIES – MEMORIA – NEUROPSICOLOGIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Post-doctoral Position – 2 years – Cognitive Neuroscience – Brescia

 

 

Post-doctoral Position (2 years) available at the Cognitive Neuroscience Section, The Saint John of God Clinical Research Centre (Brescia, Italy) (www.cognitiveneuroscience.it), to work on EEG correlates of multiple object perception. As part of a collaborative project, founded by a grant from the Italian Ministry of Health, between The Saint John of God Clinical Research Centre (Brescia, Italy) and the Center for Mind/Brain Sciences at the University of Trento (Trento, Italy), the project will aim at characterizing the behavioral and neural activity involved in multiple object perception in healthy aging and in different forms of cognitive decline (Alzheimer Disease and Mild Cognitive Impairment). The position will involve the recruitment and cognitive evaluation of normal and pathological elderly subjects, as well as the running of EEG experiments. Applicants must have a doctoral degree. Priority will be given to applicants having a strong background in neuropsychological assessment. Desirable qualifications include also previous research experience in psychophysiology and cognitive neuroscience. Ideal start date would be September 2013. Interested candidates should submit a CV, a supporting statement and the details of two referees to contact for recommendation letters if needed.

For further information or to submit an application please contact Dr. Debora Brignani ([email protected]).

Why Teenagers Need Peer Pressure

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Interessante articolo del Wall Street Journal riguardo alle ultime ricerche in campo neuroscientifico su adolescenti e peer pressure. 

Si sa che gli adolescenti sono più soggetti all’influenza sociale rispetto agli adulti e fino a poco tempo fa questo era imputato allo sviluppo cerebrale ancora in atto (in particolare dei lobi frontali). Nuovi studi invece pongono l’accento sulla gratificazione immediata derivante dal conformarsi al gruppo dei pari, più forte nei ragazzi che negli adulti. Da questi nuovi studi poi si può per induzione ipotizzare stili genitoriali che aiutino i figli a crescere con personalità in grado di prendere decisioni razionali e autonome.

 

New studies on peer pressure suggest that teens—who often seem to follow each other like lemmings—may do so because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, and not because teens are less capable of making rational decisions.

Why Teenagers Need Peer PressureConsigliato dalla Redazione

Why Teenagers Need Peer Pressure
New studies on peer pressure suggest that teens may follow the herd because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, not because teens are less capable of making rational decisions. (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Quanto funzionano gli e-books?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una nuova ricerca dell’Indiana University non vi sarebbero differenze prestazionali per gli studenti che utilizzino materiali digitali (e-books) o libri in carta stampata.

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I ricercatori si sono chiesti se vi fossero differenze significative nella comprensione del testo tra la fruizione di dispositivi cartacei o digitali.

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Nello studio sono stati coinvolti circa 200 studenti universitari: la metà ha utilizzato e-books (con la consegna di leggere un capitolo specifico) fruiti attraverso iPad2 mentre l’altra metà ha letto il capitolo da un tradizionale libro di testo stampato su carta.

In seguito gli studenti sono stati sottoposti a una verifica a domande aperte con 8 domande semplici e 8 domande moderatamente difficili riguardanti il capitolo appena letto.

I risultati evidenziano che il livello di comprensione del testo è simile e non presenta differenze significative attribuibili ai dispositivi cartacei o digitali.

 

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Per di più, non sono emerse differenze significative nella comprensione del testo nemmeno in relazione al grado di expertise e di precedente utilizzo dei tablet.

Ad ogni modo dai focus groups che si sono svolti nello studio sono emerse alcune resistenze all’utilizzo degli e-books: i soggetti hanno riferito preoccupazione per lo sforzo percepito a livello oculare durante la lettura del testo dal dispositivo digitale e anche relativamente agli elevati costi dei libri digitali.

 

 

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BIBLIOGRAFIA

Sicking J. (2013), Research shows students perform well regardless of reading print or digital books

Gioco d’azzardo: I fattori strutturali – PARTE I

Di Andrea Ferrari

I fattori strutturali nel gioco d’azzardo e le implicazioni comportamentali e legislative

PARTE I

 Guida per un utilizzo consapevole.

 

I fattori strutturali nel gioco d’azzardo - PARTE I. - Immagine: © Sonulkaster - Fotolia.comSecondo i dati pubblicati dall’AAMS (Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato), in Italia la raccolta del gioco d’azzardo è stata di quasi 80 miliardi di Euro.

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Il gioco d’azzardo è un tema molto indagato nelle ricerche medico-sociali contemporanee. Una parte di queste ricerche si prefigge di comprendere le dinamiche neurobiologiche, psicologiche, demografiche, che possono condurre l’individuo a sviluppare una dipendenza da gioco, o che si associano a essa. Altre ricerche, invece, si occupano direttamente della comprensione delle caratteristiche dei giochi, che in sé possono presentare elementi di rischio, indipendentemente dalle caratteristiche individuali del consumatore.

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Facendo riferimento alla trattazione di Griffiths (1999), indichiamo come fattori situazionali determinate caratteristiche

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dell’ambiente, quali la localizzazione delle sale da gioco e soprattutto il loro numero per una determinata area geografica, l’utilizzo di metodi pubblicitari e di richiamo. È facilmente intuibile che sia possibile osservare un incremento del gioco d’azzardo all’interno di una determinata area geografica, in conseguenza all’apertura di nuove sale da gioco. La disponibilità è quindi un fattore chiave.

Per fattori strutturali nel gioco d’azzardo (Griffiths, 1999) s’intendono quelle caratteristiche costruttive del gioco stesso che sono progettate con lo scopo di suscitare nel giocatore un maggior desiderio di giocare.

Ad esempio:

• l’ammontare della scommessa (incluse informazioni riguardo all’affidabilità);

• strutturazione dei premi (il loro numero e il loro ammontare);

• probabilità della vincita (dal 53% delle lotterie istantanee a una probabilità su 620 milioni circa di realizzare un 6 al Superenalotto);

• dimensione del jackpot (dai 1000 Euro dei Gratta & Vinci più economici, fino a svariati milioni di euro nel Superenalotto);

• elementi di abilità (reale o percepita);

• la presenza più o meno alta di “quasi-vincite”;

• effetti di luci e colori (es. l’uso della luce rossa nelle slot-machines);

• effetti sonori (uso di musiche per indicare la vincita);

• natura sociale o asociale del gioco (come attività individuale o di gruppo);

• le regole del gioco;

• le modalità di presentazione degli stimoli (Ladoucer, Sevigny, 2002).

La conoscenza di queste caratteristiche, a differenza di quanto avviene con lo studio delle caratteristiche psicologiche del giocatore, ci permette di stimare quali giochi comportino rischi maggiori (o minori) di condurre allo sviluppo di una problematica da gioco nei consumatori.

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La letteratura in esame, del resto, è molto chiara. Due parametri che possono produrre differenti condizioni di rischio psicosociale sono: 

• la frequenza con cui si emettono i risultati (continuità Vs. discontinuità);

• il tempo necessario per la riscossione della vincita. 

Alcuni giochi forniscono un risultato una volta l’anno (es. Lotteria Italia) o, in intervalli temporali piuttosto larghi. Altri, forniscono i risultati in tempi molto brevi (ad es. 5 minuti per il Win For Life, < 1 minuto i Gratta & Vinci, < 5 secondi le Slot-Machine). Una durata inferiore della scommessa si traduce in una maggiore focalizzazione sul gioco da parte del consumatore, i cui pensieri sono maggiormente assorbiti dall’attesa del risultato. Inoltre, la possibilità di riscuotere la vincita in tempi rapidi favorisce lo sviluppo di uno stile di gioco continuativo, in cui si dedica poco tempo a considerazioni di tipo finanziario, e le vincite possono essere immediatamente rigiocate.

Nelle slot-machines, l’intervallo di tempo che intercorre tra la cessazione di una partita e l’avvio di una nuova puntata, di solito non supera i 2 secondi.

Uno studio empirico (Chòliz, 2010) ha verificato che, qualora questo intervallo fosse allungato fino a 10 secondi, la persistenza del comportamento di gioco risulterebbe drasticamente ridimensionata.

Un altro stratagemma frequentemente impiegato nei giochi d’azzardo, al fine di incrementare la persistenza nel gioco, è quello di inserire delle quasi-vincite, ovvero eventi che rappresentano un fallimento nel raggiungere un obiettivo, ma con uno scarto molto ridotto. La percezione illusoria di aver “sfiorato una vincita” fa sì che il consumatore sia maggiormente invogliato a sfidare nuovamente la sorte; infatti, poiché di casualità si tratta, una relazione tra l’ottenimento di una quasi-vincita e l’abilità personale è del tutto fuori discussione. Tuttavia, di fronte a una quasi-vincita, il giocatore spesso è portato a ritenere che, grazie ai suoi sforzi, la vittoria sia a portata di mano.

ESEMPIO DI QUASI VINCITA
ESEMPIO DI QUASI VINCITA

All’interno della comunità scientifica, le quasi-vincite sono conosciute come rinforzatori particolarmente efficaci fin dagli anni ’50 del secolo scorso, al punto che nello stato USA del Nevada (per intenderci, lo stato di Las Vegas) il legislatore ha proibito ai produttori di slot-machines di farne uso (Harrigan, 2008).

Dopo questa breve disamina sui fattori strutturali, analizziamo ora le caratteristiche dei principali giochi d’azzardo consumati in Italia, ordinati, in senso decrescente, sulla base della frequenza di emissione del risultato (continuità Vs. discontinuità).

GIOCHI D'AZZARDO CONSUMATI IN ITALIA

Secondo i dati pubblicati dall’AAMS (Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato), in Italia la raccolta del gioco d’azzardo

Gioco d' Azzardo Patologico e Disturbi della Personalità. - Immagine © gekaskr - Fotolia.com
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è stata di quasi 80 miliardi di Euro. Il 56,3% del fatturato totale è stato raccolto grazie a slot-machines e Video Lottery, 12,7% dai Gratta & Vinci, l’8,5 dal Lotto, il 4,9 dalle scommesse sportive, il 3 per cento dal Superenalotto, e il rimanente da bingo e scommesse ippiche. Il 69% della raccolta avviene quindi grazie alle due tipologie di gioco che trovano in cima alla tabella sopraindicata, e questa correlazione non sembra essere frutto di una coincidenza.

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Un altro dato che suscita una riflessione è dato dal rapporto Eurispes “L’Italia in gioco” (Eurispes, 2008), in cui risulta che i giocatori di slot-machines sarebbero una percentuale minore del 10% sul totale dei giocatori italiani. Abbiamo quindi un 10% di giocatori che è responsabile di oltre la metà degli incassi del gioco legale.

In effetti, le slot-machines sono oggetto di attenzione da parte dei ricercatori perché, sono considerate la forma di gioco che, più di ogni altra, è in grado di indurre dipendenza, tanto da essere state soprannominate come “The crack cocaine of gambling” (Dowling et al., 2005), ovvero l’equivalente che ha il crack nel mondo delle droghe illegali.

LEGGI:

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO (PDG) – GAMBLING – DIPENDENZE – CRONACA & ATTUALITA’ – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Dialogo con il prof. Sanavio sul colloquio in psicoterapia cognitiva

LEGGI LA RECENSIONE DEL LIBRO: IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVA

IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVAIn una buona recensione la parte migliore sono le critiche, e le critiche del prof. Enzo Sanavio al nostro volume “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” sono centrate. È vero, per cominciare, che il titolo può essere fuorviante. Il nostro libro descrive la tecnica del colloquio di psicoterapia cognitivo-comportamentale, ma citare solo “il colloquio” nel titolo confonde le idee.

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Forse sarebbe stato meglio chiamarlo “La seduta di psicoterapia cognitiva”. Il termine “colloquio” intendeva indicare una sorta di unità molecolare e non elementare della psicoterapia; molecolare perché il colloquio è qualcosa in più dell’elemento atomico del singolo intervento; ma è anche certamente meno che una seduta completa.

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Comprensibile anche la critica sulla nostra definizione di psicoterapia, molto focalizzata sul versante mentale e psicologico. Vero è che il prof. Sanavio fa storicamente parte di un movimento teorico che -a volte- ha respinto il concetto di psicoterapia, preferendo quello di modificazione comportamentale. È sempre utile che ci si ricordi degli aspetti prescrittivi e didattici della psicoterapia cognitiva.

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Giovanni Ruggiero - intervista
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Quindi accettiamo le critiche. Forse accettiamo un po’ meno gli elogi. Naturalmente scherziamo, gli elogi sono ancora più graditi; però abbiamo un’osservazione da fare sulle belle parole che Sanavio ci dedica. Il prof. Sanavio scrive che “Probabilmente un libro sulla teoria e sulla tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva è un’impresa impossibile. Non per caso, l’argomento ‘colloquio’ è pressoché assente nelle riviste specializzate e nella ricerca scientifica.

Questa affermazione ci incoraggia a pensare che abbiamo fatto bene a scrivere questo libro e ci fa capire perché questo libro fosse atteso dagli allievi.

Se è vero quel che scrive Sanavio, ovvero che si fa poca ricerca sul colloquio, questo segnala un lato debole della psicoterapia cognitiva. Ovvero una tendenza a trascurare una descrizione concreta e tecnica di come si conduce un colloquio in questo tipo di psicoterapia. In un certo senso è una verità stupefacente. La psicoterapia cognitiva si è sempre vantata di essere scientifica, controllabile, di non avere misteri e sapienze esoteriche. Ora però apprendiamo che descrivere come si fa un colloquio di psicoterapia cognitiva sarebbe un’impresa impossibile.

E allora tutti i manuali di psicoterapia cognitiva di che parlano? Di una forma astratta e manualizzata di somministrazione della nostra terapia che non corrisponde alla realtà del colloquio? E perché poi ci sarebbe poca ricerca sul colloquio? Anche questo è vero: si fa molta ricerca sui modelli psicopatologici e sull’efficacia, ma su come si fa il colloquio ce ne è poca, scrive Sanavio. Questo significa che tanta scienza, di cui giustamente ci vantiamo, ha prodotto un’insufficiente tecnologia del colloquio in psicoterapia cognitiva. E che troppi ricercatori si dedicano alla ricerca teorica e non a quella applicata. Troppi fisici e pochi ingegneri, in psicoterapia cognitiva.

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 Il discorso a questo punto diventerebbe lungo. Concludiamo con due annotazioni. È vero che, dopo lo slancio iniziale di Ellis e Beck (soprattutto di Ellis), per molto tempo la tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva non ha visto sostanziali progressi. Clark, Salkovskis e Fairburn non hanno proposto nuovi interventi, ma si sono limitati ad adattare la tecnica di Beck a singoli disturbi, rendendola più specializzata.

Progressi ce ne sono stati in ambito REBT (vedi le varie edizioni del manuale di Walen, DiGiuseppe e Dryden, dal 1980 fino a quest’anno; ad agosto 2013 esce la terza edizione) ma non sono stati recepiti in ambito CBT standard; ed è un  peccato, perché la tecnica REBT continua a evolvere in termini meta-cognitivi e meta-emotivi mentre quella CBT rimane quella rigidamente razionalista di Beck.

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Infine c’è la terza ondata, con i vari Hayes, Wells e Young, che ha ideato innovazioni tecniche interessanti, ma che spesso tende a rinchiudersi in paradigmi non comunicanti tra loro, di modo che le innovazioni, invece di andare a arricchire il repertorio tecnico dei terapeuti, tendono a diventare una sorta di strumento unico che esclude tutti gli altri: il re-parenting di Young, la detached mindfulness di Wells, gli esercizi di defusione e la riflessione sui valori di Hayes. E gli altri interventi? Un oggettivo impoverimento del patrimonio culturale della tecnica del colloquio.

 

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PSICOTERAPIA COGNITIVA – IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – IN TERAPIA – 

RATIONAL-EMOTIVE BEHAVIOUR THERAPY – REBT

PSICOLOGIA COMPORTAMENTALE – COMPORTAMENTISMO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tribolazioni 08 – Sarà sempre così

TRIBOLAZIONI 08

 SARA’ SEMPRE COSI’

LEGGI LA MONOGRAFIA: TRIBOLAZIONI

LEGGI L’INTRODUZIONE ALLA MONOGRAFIA

 

Tribolazioni 08 - Sarà sempre così. - Immagine: © michaklootwijk - Fotolia.com

Tutta questa collettiva rimozione della morte che ha chiuso i cimiteri e deportato le agonie e le camere ardenti negli ospedali si fonda su una premessa sbagliata o quantomeno indimostrata e cioè che il non esistere più sia un peso insopportabile.

Tutto ciò che avviene agli esseri umani avviene nel tempo. Un tempo che va in una sola direzione ed è a termine. Credo che una caratteristica comune dei soggetti che tribolano sia una sorta di cecità nei confronti della dimensione temporale. Pensano che le cose resteranno sempre come sono nel presente. E’ possibile che questa illusione serva ad attenuare la consapevolezza della propria personale  morte. Tale coscienza distingue gli umani da tutti gli altri viventi ma sembra del tutto ininfluente sulle scelte della vita quotidiana.

Non la pensiamo quasi mai come ad una possibilità concreta di cui tener conto. Ma perché abbiamo evolutivamente selezionato questo modo di funzionare? Forse una piena e presente consapevolezza della propria finitezza comporterebbe un disimpegno sui compiti esistenziali. E’ possibile.

Della morte e del morire. Immagine - © goccedicolore - Fotolia.com
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Tuttavia ammesso che tale presentificazione comporti il vantaggio evolutivo di farci correre affannosamente come se fossimo eterni presenta anche importanti svantaggi. Per illustrarli immaginiamo due situazioni opposte.

1. La prima situazione vede un soggetto a cui tutto sta andando particolarmente bene, ottiene successi negli obiettivi per lui importanti e il suo stato emotivo è ottimo.  Potrebbe godere del momento favorevole ed assaporarne i frutti ma in genere non si limita a ciò e pensa che sarà sempre così e talvolta anche che è giusto che sia così e sarebbe ingiusto se qualcosa cambiasse. Il favorevole stato attuale diventa una base-line data per acquisita e, in qualche modo, dovuta e scontata. Ciò indubbiamente comporta una gioia ancora maggiore in quanto considerata eterna, senza nubi all’orizzonte.

Tuttavia questo stato paradisiaco scontato nasconde due minacce. Considerato che gli esseri viventi riescono ad apprezzare non tanto i valori assoluti, quanto piuttosto le differenze, proprio il fatto che sia scontato e quindi che non sia raffrontato con una possibile condizione peggiore  priva il soggetto di parte della soddisfazione. E’ esperienza comune che il valore di un bene lo si apprezzi maggiormente quando si rischi di perderlo. Non si può desiderare ciò che già si ha, ma d’altronde la vera felicità sta proprio nella soddisfazione di un desiderio.

Il massimo del piacere si ha nella fase appetitiva e di avvicinamento al bene desiderato. La fase consumatoria, per quanto sia l’obiettivo finale, pone fine al tempo del desiderio. Chi staziona dunque in uno stato di benessere perfetto in cui tutti gli obiettivi importanti sono stati raggiunti è come chi non ha obiettivi attivi. E questa è proprio la situazione connotabile come noia.

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Forse è proprio per sfuggire a questo sonno motivazionale da mancata attivazione degli scopi che si spiega il comportamento apparentemente bizzarro e spesso definito masochistico di soggetti che improvvisamente sabotano tutto ciò che avevano raggiunto dopo averlo tanto desiderato, per poi ricominciare da capo.

Nei rapporti affettivi, ad esempio, questo costruire per poi rovinosamente demolire è riportato da molti soggetti come motivo di tribolazione.

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La miscela pericolosa che innesca la noia è composta dal raggiungimento dei propri scopi associato alla convinzione che tutto resterà immutabile. Sarebbe sufficiente la consapevolezza della transitorietà di tale stato per renderlo non più scontato  e dunque ancora oggetto di desiderio e di attività di manutenzione per conservarlo.

Oltre al rischio della noia la scotomizzazione della dimensione temporale in una situazione di benessere  non consente di fare i conti con l’aspettativa di una perdita e  di prepararsi ad essa. Cosicchè quando questa arriverà, perché al bel tempo segue necessariamente quello brutto, sarà più dolorosa perché inaspettata e persino considerata ingiusta. Quasi si fosse firmato un contratto che dia come diritto acquisito e definitivo il benessere.

Come già visto in altre situazione al dolore per la perdita e alla sorpresa per l’evento inaspettato, si aggiunge una autosvalutazione  per non essere stati in grado di prevederlo. Il fallimento dello scopo del mantenimento (già particolarmente doloroso in quanto collocabile nel campo delle perdite piuttosto che dei mancati guadagni), si complica con il fallimento dello scopo sull’identità di “essere un buon predittore” e di saper mantenere i risultati acquisiti.

2. La seconda opposta situazione vede invece un soggetto cui tutto sta andando particolarmente male e che per questo è afflitto da grandi sofferenze. Mi riferisco ad esempio a quelle situazioni in cui si pensa o addirittura si mette in atto un’ipotesi suicidiara.

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Quello che rende insopportabile un dolore al punto da far preferire l’assenza di vita pur di farlo cessare è certamente la sua intensità ma soprattutto la errata previsione della sua eternità. E’ “il fine pena mai” a renderlo particolarmente intollerabile. Tale valutazione si dimostra sempre fallace se si lascia al tempo l’opportunità di scorrere senza suicidarsi. E’ proprio vero che il tempo tutto curi. Nel futuro ma persino nel presente se il suo scorrere può essere rappresentato mentalmente. Non c’è dolore che a distanza di decenni non sia perlomeno modificato. Ma lasciando da parte il suicidio c’è dell’altro.

Anche nel caso della situazione negativa percepita come definitiva si può verificare qualcosa di simile alla noia (assenza di scopi attivi) precedentemente descritta nella situazione favorevole. Se le cose resteranno sempre come sono attualmente, non c’è ragione di impegnarsi per modificarle a proprio vantaggio. Se nel primo caso era “inutile” perché non bisognava apportare cambiamenti, in questo secondo caso è “inutile” nel senso che non è possibile apportarli.

Infine una annotazione dal sapore filosofico/economica. Il valore di un bene è innalzato dalla sua carenza. In ipotesi estrema, se fosse disponibile illimitatamente non avrebbe alcun valore. Che valore avrebbe il dono se non sottraesse nulla al donatore essendo le sue risorse illimitate.

Allo stesso modo le ore che gli uomini vivono hanno un grande valore perché non sono infinite. Forse è per questo che amore e morte sono fortemente connessi: senza la morte sarebbe difficile l’amore.

In conclusione la scotomizzazione della dimensione temporale sia che ci si trovi in una situazione di grande benessere, sia nel suo esatto contrario, porta ad una situazione di noia e di perdita dell’agentività. 

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Forse saremmo più tranquilli nella consapevolezza  che tutto si modifica e passa. Certamente la consapevolezza dello scorrere del tempo è associata a quella della morte che è uno degli ultimi tabù della nostra cultura. Non si educano più i giovani a questa consapevolezza. La visita ai cimiteri nelle domeniche novembrine dove i morti sono stati sostituiti da anglosassoni zucche, è caduta in disuso come abitudine delle famiglie. Ciò lascia godere il verde e la pace di tali cipressati luoghi soltanto a chi vi risiede stabilmente che, a motivo della propria condizione di morto, non riesce giustamente ad apprezzarli. Il fatto che non si trascinino più i bambini tra lapidi e foto ricordo, che non gli si leggano più le iscrizioni di commiato dei sopravvissuti è scelta apparentemente protettiva di quegli animi innocenti ma in verità ottusa.

Anche il gioco, ottimo per l’apprendimento della matematica, di calcolare di getto quanti anni il sepolto fosse stato in questa valle di lacrime e da quanti se ne fosse liberato, non viene più praticato. Tutta questa collettiva rimozione della morte che ha chiuso i cimiteri e deportato le agonie e le camere ardenti negli ospedali si fonda su una premessa sbagliata o quantomeno indimostrata e cioè che il non esistere più sia un peso insopportabile. Al contrario l’idea che tutto passa e che le conseguenze degli errori, per quanto terribili, saranno ben presto dimenticate può essere di grande sollievo soprattutto per coloro che sentono forte il fardello della responsabilità.

Qualsiasi scandalo abbiate combinato, da qualsiasi letto siate stati scacciati da coniugi indignati e cornuti. Quale che sia la rovina che avete costruito con azioni scellerate e colpevoli omissioni. I nipoti dei vostri figli non ricorderanno neppure il vostro nome. Persino i grandi criminali della storia riposano senza memoria e l’effetto delle loro malefatte come i cerchi di un sasso in uno stagno si è via via estinto.

Molte tribolazioni sarebbero ridimensionate dalla consapevolezza della morte che si vuole invece fuggire Rassicurate dunque i bambini che si muore davvero ed è per sempre e per tutti.

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Il Colloquio in psicoterapia cognitiva di G. M. Ruggiero e S. Sassaroli – Recensione

di Ettore Sanavio

Recensione del libro:

IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVA

di G. M. Ruggiero e S. Sassaroli

 

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IL COLLOQUIO IN PSICOTERAPIA COGNITIVAIl colloquio in psicoterapia cognitiva, volume di Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli, è un libro importante e chi qui in Italia scriverà del tema non potrà non confrontarsi con esso.

Ma non è un libro sul colloquio, o almeno soltanto sul colloquio.

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Meglio lo si descriverebbe come una fotografia, che fissa in data odierna lo stato di avanzamento della prassi di seduta terapeutica messa a punto da Ruggiero e Sassaroli e dal fecondo gruppo di ricerca e insegnamento che hanno saputo suscitare attorno a loro. Parla di prassi molteplici e diverse di seduta, perché diversi sono i pazienti e i loro disturbi, perché diverso può essere lo stato di avanzamento del loro trattamento, perché diverse anche se non divergenti sono le cornici teoriche di riferimento. Il tutto in circa 300 pagine.

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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #1. - Immagine: © fabioberti.it - Fotolia.com
Artcicolo consigliato: Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio Parte 1

In una prima parte si parla del modello ABC, di doverizzazioni, di ristrutturazione cognitiva, di empirismo collaborativo, di empatia, di attivazione e di cento altri spunti tecnici. In questa prima parte gli autori entrano nello specifico principalmente di disturbi di asse I. Nella seconda parte sono considerati invece disturbi di asse II e ci si apre alla prospettiva metacognitiva, alla mindfulness, a vari contributi di terza generazione.

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Non è un libro sul colloquio, dicevo, ma un libro con molte più cose, un libro utilissimo e fecondo di stimoli sulla gestione della seduta in vari momenti e condizioni.

Probabilmente un libro sulla teoria e sulla tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva è un’impresa impossibile. Non per caso, l’argomento ‘colloquio’ è pressochè assente nelle riviste specializzate e nella ricerca scientifica. Troviamo letteratura sull’intervista ed i colloqui psicodiagnostici, per lo più manuali didattici e di livello introduttivo. Ma tra i colloqui psicodiagnostici e i colloqui nelle sedute di psicoterapia esistono fondamentali differenze: sono diverse le finalità, il livello della relazione, la tempistica del lavoro clinico, ecc.

La valutazione iniziale (che alcuni preferiscono chiamare assessment psicologico) non è affatto una fase banale come a volte si tende a gabellare, piuttosto è una fase del lavoro clinico preliminare, settantasette volte più laboriosa e complessa della diagnosi, che avrebbe da stare a monte sia della decisione ‘psicoterapia sì o no’, sia di qualsiasi connotazione d’indirizzo. Una maggior sottolineatura dello iato tra colloqui d’assessment e terapia non avrebbe nuociuto alla chiarezza anche del presente volume.

 Data la stura alle noterelle critiche, me se ne consentano un paio. Far riferimento ad un saggio tedesco del 1878 per descrivere il disturbo ossessivo-compulsivo può suscitare qualche perplessità. Sia per il personaggio citato, Carl Friedrich Otto Westphal, che si conosce per motivi storici connessi all’agorafobia e alla narcolessi. Sia per la difficile decifrabilità della scelta di tale citazione, in luogo di banali rimandi a DSM-IV e ICD-10. Forse gli autori vogliono (dottamente) prendere distanza dalle nosografie oggi in uso per proporci un rinvio alla tradizione psicopatologica tedesca dell’ottocento pre-kraepeliniano? Meno dozzinale una seconda osservazione. Dare per scontato che la ‘prima regola’ della psicoterapia sia “che la terapia è un trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali” può parere un tantino talebano, o almeno un tantino autocentrico. Un enuretico magari apprezzerebbe smettere di bagnare il letto.

 ARTICOLO CONSIGLIATO: “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Introduzione al volume

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LEGGI:

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – IN TERAPIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA – MINDFULNESS

DOVERIZZAZIONEDISPUTING E RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

BIBLIOGRAFIA:

Ruggiero, G. M., Sassaroli, S. (2013), Il colloquio in psicoterapia cognitiva, teoria e pratica clinicaRaffaello Cortina Editore ACQUISTA ONLINE

L’università di Verona & il progetto europeo sull’emigrazione dei Rom

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 


Siamo interessati in particolare – spiega Piasere – agli effetti della migrazione sui ruoli di genere in una società tradizionalmente basata sul matrimonio e su un’ideologia “pro-natalista”, in cui sono la norma il matrimonio precoce, a volte molto precoce secondo i nostri standard, seguito da maternità numerose e spiccato senso della genitorialità femminile”.

Consigliato dalla Redazione

 

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