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La malattia oncologica in età pediatrica: qualità di vita del bambino e della sua famiglia

Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà spaventosa soprattutto per i genitori per cui è fondamentale la possibilità di ricevere supporto

Di Paola Cutrupi

Pubblicato il 18 Ott. 2021

Per offrire una buona qualità di vita al bambino con malattia oncologica e al suo nucleo familiare occorre elaborare una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società. 

 

La malattia terminale è stata sempre affrontata con atteggiamenti di rifiuto e vergogna che fanno sì che il malato e la famiglia diventino responsabilità esclusiva della Struttura Ospedaliera, conducendo a una medicalizzazione della fase finale della vita che potrebbe sfociare nelle forme di un vero e proprio accanimento terapeutico.

Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà estremamente spaventosa soprattutto per i genitori che sviluppano una forte paura per il futuro unita al senso di impotenza e perdita della speranza per cui diventa fondamentale la possibilità di contare sul supporto offerto dalle figure significative nel contesto di vita, ma anche e soprattutto dagli operatori sanitari che hanno in carico il bambino che dovrebbero attuare strategie rispondenti sia ai bisogni di cura sia ai bisogni psichici dei protagonisti (Jankovic, 2013). In questo contesto ricordiamo la nuova filosofia di cura proposta dal dottor Momcilo Jankovic, (onco-ematologo pediatrico noto per la presenza e disponibilità costante che offre ai propri pazienti) che riconosce l’accompagnamento, l’ascolto e il rispetto come i 3 elementi chiave del lavoro terapeutico (Scaccabarozzi, 2017): l’accompagnamento, inteso come condivisione, richiede che il clinico sia in grado di mostrare il proprio interesse nei confronti del paziente, stimolando il genitore a trasformare il proprio dolore in fonte di energia; l’ascolto è fondamentale nel percorso di cura: il terapeuta deve essere in grado di “ascoltare” e comprendere anche i silenzi del paziente, prestando particolare attenzione al linguaggio del corpo che, spesso, rivela informazioni preziose che il paziente non vuole o non riesce a esprimere a parole; il silenzio, invece, può essere estremamente dannoso: ci sono situazioni in cui le persone che gravitano attorno al paziente hanno una paura tale della perdita da non riuscire ad affrontare l’argomento, facendo finta che nulla sia cambiato, atteggiamento che non aiuta la persona malata, che non trova nelle persone vicine qualcuno con cui sfogarsi; la solitudine e l’abbandono, infatti, sono aspetti che compromettono il benessere del paziente e del suo nucleo familiare, forse ancor di più rispetto ai sintomi fisici della malattia (Jankovic, 2020). È necessario stabilire un approccio integrato che valuti l’essere umano nella sua completezza, elaborando una rete di lavoro che coinvolga anche le associazioni dei genitori, i volontari, le istituzioni e l’intera società, per il raggiungimento dell’obiettivo comune: offrire una buona qualità di vita sia al paziente che al suo nucleo familiare.

L’impatto della malattia oncologica sul bambino, i genitori e i fratelli

I genitori, soprattutto nelle fasi iniziali di malattia, proveranno disagio nel vedere il figlio allettato, calvo e pallido, per cui devono essere supportati dal personale sanitario fin quando l’abitudine permetterà loro di provvedere autonomamente alle necessità del bambino (Zilli, 1987); già dalla pre-adolescenza, si sviluppa un forte senso di privacy che conduce il giovane a provare imbarazzo e vergogna a mostrare il proprio corpo e le proprie debolezze ai genitori, per cui diventa fondamentale istruire i pazienti al riconoscimento di sintomi che potrebbero suggerire l’eventuale presenza di patologie anche gravi (es. ingrossamento delle ghiandole di gola, inguine e ascelle) (Grootenhuis, 2003). I genitori, dunque, devono essere in grado di offrire la loro vicinanza intesa come capacità di prendersi cura anche di se stessi e dei propri interessi, dimostrando ai figli che non bisogna farsi annullare dalla malattia. Il bisogno maggiormente espresso dai ragazzi oncologici, infatti, è proprio quello di ottenere una “normalità di vita”: per questo motivo, nella maggior parte degli ospedali pediatrici è presente una sezione dedicata all’istruzione dei piccoli pazienti. La scuola in ospedale impegna il paziente per circa un’ora al giorno e si avvale di un approccio diverso rispetto a quello tradizionale poiché la malattia comporta una maggiore stanchezza per cui si sostituiscono i classici compiti scolastici con schede da compilare e con la visione di video registrazioni che motivino maggiormente l’attenzione del bambino (Hodges, 2010). Altro aspetto fondamentale è cercare di mantenere continuità con gli insegnamenti della scuola d’appartenenza di modo da favorire il successivo rientro scolastico del paziente, cercando di eliminare eventuali atteggiamenti di pietismo e favorendo atteggiamenti inclusivi finalizzati a supportare il compagno al fine di ottenere nuovamente una normalità di vita (Alderfer, 2010).

Il tumore pediatrico viene riconosciuto come una malattia familiare per cui diviene fondamentale guidare la famiglia allo sviluppo della resilienza, ponendo particolare attenzione alle reazioni dei fratelli più piccoli che potrebbero sviluppare una sorta di autosufficienza unita ad emozioni negative (es. gelosia, rabbia e rifiuto verso genitori troppo impegnati nella cura del figlio malato) che, nel corso dell’adolescenza, si trasformano in cattivo adattamento a causa dello sviluppo di senso di colpa, paura della morte e angoscia. I fratelli più piccoli, inoltre, avvertono l’abbandono e l’inganno dei genitori, arrivando a perdere la fiducia nei loro confronti e allo sviluppo di numerose problematiche relazionali che, in adolescenza, lasciano spazio a disturbi internalizzanti (evidenti soprattutto nelle sorelle) e ad un atteggiamento protettivo verso i fratelli malati (Long, 2010).

I bambini ricoverati, invece, sembrano crescere più velocemente: riconoscono la paura dei genitori, spesso si sentono in colpa nei loro confronti e provano a dimostrare la loro riconoscenza, cercando di mostrarsi più forti per non farli preoccupare (Jankovic, 2020).

Diventa fondamentale una buona comunicazione della diagnosi che, soprattutto in età infantile, deve seguire delle caratteristiche precise: deve essere chiara e non traumatica per il bambino e spesso si avvale di strumenti quali diapositive esplicative (es. metafora di un giardino fiorito minacciato da erbacce) (Scaccabarozzi, 2017). La comunicazione avviene in assenza dei genitori ma in presenza dei fratelli per riuscire a far emergere le preoccupazioni principali, affrontarle e superarle, fornire informazioni adeguate su eventuali interventi e si preferisce non parlare degli effetti collaterali delle malattie, se non esplicitamente richiesti dai bambini.

Talvolta succede che i genitori, sopraffatti dalle loro ansie, diventano inefficaci nel loro ruolo di fruitori di cura, conducendo a conseguenze negative non solo per il bambino malato ma anche per gli altri figli ‘sani’, i quali potrebbero assumere le vesti di ‘giovani caregivers’, termine che indica ragazzi di età inferiore ai 18 anni che decidono di assumersi delle responsabilità di cura normalmente associate agli adulti, sviluppando una serie di problematiche in adolescenza (es. atteggiamenti adultomorfi) che conducono anche alla social closure con problemi nella gestione di emozioni disturbanti e lo sviluppo di un disequilibrio tra cura, amicizia e tempo libero, che incidono anche nell’ambientazione scolastica, conducendo spesso questi ragazzi al drop-out. A queste problematiche si potrebbero associare anche eventuali malattie cardiovascolari (es. ipertensione da stress) (Zavagli, 2012). Stando ai risultati di una ricerca del Censis, infatti, sembra che i giovani caregivers lamentino un senso di svuotamento (38,9%); problemi familiari (41%); uso di ansiolitici e antidepressivi (56%); vissuto di rinuncia (58%); forte impatto nella vita sociale e privata (60%). Il caregiving, infatti, è un compito molto impegnativo che occupa il soggetto per circa 18 ore al giorno, conducendolo ad avere a disposizione soltanto 4 ore da dedicare al tempo libero nelle fasi più avanzate, senza dimenticare nemmeno che il prendersi cura di un familiare si presenti come uno dei principali motivi di disoccupazione dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni (Italia Lavoro, 2014). Di contro, però, bisogna riconoscere che il caregiving conduce anche a conseguenze positive poiché permette a questi giovani di sperimentare maggiormente il loro senso di responsabilità, di diventare più maturi e di aumentare la propria autostima, per cui la presenza di un fratello con malattia non conduce necessariamente a problemi di adattamento dei giovani caregivers: il tutto dipende dal funzionamento familiare e dalla sua capacità di far fronte ai problemi. La situazione migliore sembra presentarsi in famiglie numerose (in cui è possibile dividere adeguatamente i compiti di cura), con uno status socioeconomico elevato (che permetta ai genitori di far fronte alle esigenze di tutto il nucleo familiare) e con prevalenza di figli maschi (meno inclini allo sviluppo di disturbi internalizzanti), senza dimenticare l’importanza della resilienza che aumenta nei nuclei familiari che godono di un buon supporto sociale.

Altro aspetto da non trascurare è il dolore oncologico che, se non adeguatamente trattato, conduce a conseguenze estremamente negative per la qualità di vita dei pazienti, per cui oggi si ricorre spesso alle cure palliative pediatriche, riconosciute come trattamenti terapeutici atti alla soppressione dei sintomi, e nello specifico del dolore, che non vanno a intaccare quantitativamente la durata della vita del paziente, ma hanno l’obiettivo di migliorarla qualitativamente; il ricovero rappresenta un altro aspetto critico che conduce a sensazioni negative (stress, paura e minaccia) e costringe ad un cambiamento delle abitudini quotidiane con conseguenze che sembrano peggiorare nel percorso di crescita del paziente: nella prima infanzia si assiste spesso a problematiche nel legame di attaccamento per cui si opta per l’ospedalizzazione congiunta madre-bambino (Moroni, 2007); nella seconda infanzia, invece, i ragazzi ricoverati iniziano a sentirsi a disagio, sviluppando un comportamento aggressivo; in adolescenza, infine, la mancanza del gruppo dei pari e la perdita delle autonomie precedentemente ottenute, conduce i ragazzi a fenomeni di chiusura e isolamento (Benini, 2007). Il luogo di cura elettivo nelle cure Palliative pediatriche, dunque, è il contesto domestico, per permettere al paziente di rimanere inserito all’interno del proprio contesto di vita, facilitando inoltre anche il ruolo di cura dei genitori che, però, devono essere affiancati da un’équipe multidisciplinare composta da pediatra, servizi territoriali, ospedale e palliativisti. Nonostante ciò è importante sottolineare l’utilità dei trattamenti complementari, ossia un insieme di tecniche volte a promuovere il benessere psicofisico del malato per rendere la malattia più accettabile: queste strategie (tecniche basate sul rilassamento e sui massaggi, clown terapia, pet therapy, musicoterapia, gioco libero) permettono di diminuire i livelli di cortisolo (ormone dello stress) con rilascio di beta endorfine che agiscono sul dolore. Le malattie oncologiche spesso conducono a condizioni di osteonecrosi (distruzione del tessuto osseo a causa delle elevate quantità di cortisone previste dalla terapia), per cui si sottolinea l’importanza della sport-therapy nelle malattie oncologiche: considerando che il movimento accelera la vascolarizzazione, la sport therapy può riuscire a ridurre gli effetti tossici, spesso provocati dalle cure oncologiche (Jankovic, 2020). L’importanza dei trattamenti complementari viene sancita nel 2007 con l’inaugurazione del “Dynamo Camp” (primo Camp di Terapia Ricreativa in Italia) per offrire un periodo di svago e divertimento a soggetti di età compresa tra i 7 e i 17 anni, affetti da patologie gravi e croniche (oncologiche, ematologiche, neurologiche), ma anche ai loro fratelli sani, basandosi sulla consapevolezza che la malattia non interessi solo il singolo, ma coinvolga l’intero nucleo familiare. Una delle particolarità del Camp è quella di farsi carico del bambino in assenza dei genitori poiché essi spesso per paura che il bambino possa star male decidono di privargli lo svolgimento di alcune attività (es. andare a cavallo) che potrebbero regalargli attimi di svago e di serenità. Altro motivo per cui si decide di escludere i genitori dalla permanenza al Camp è quello di permettere loro di avere un “momento di pausa” dal ruolo di caregivers e nel contempo di accrescere la loro speranza nel vedere che per il figlio sia ancora possibile ottenere una normalità di vita che gli permetta di divertirsi in un contesto sicuro e protetto: il Dynamo Camp, dunque, può essere riconosciuto anche come una possibile soluzione per limitare il Caregiver burden (Scaccabarozzi, 2017). Nelle situazioni più gravi, in cui si giunge alla morte del piccolo paziente, il clinico non deve interrompere bruscamente la relazione con i familiari (che probabilmente saranno maggiormente inclini allo sviluppo di disturbi importanti come la depressione maggiore o il PTSD), ma dovrebbe riuscire a colmare il loro bisogno di vicinanza affettiva, supportandoli nell’elaborazione e accettazione del lutto, invitandoli a partecipare a programmi di death education, volti ad aumentare consapevolezza e competenza nella gestione della propria o altrui morte, trasformando la paura in un sentimento positivo di accoglienza, riconoscendo la morte come parte finale del ciclo vitale (Bobbo, 2004).

La perdita di un figlio per malattia oncologica

Il dolore per la perdita di un figlio è talmente forte da spingere i genitori a rimanere legati al centro di cura attraverso l’organizzazione di raccolte fondi e associazioni che vogliono finanziare l’ambiente sanitario allo scopo di far progredire la ricerca e aiutare altri bambini a vincere la loro battaglia (Oberti, 2015). A tal proposito ricordiamo da un lato i B Live, associazione composta da ragazzi che hanno combattuto o stanno combattendo contro una patologia tumorale e decidono di raccontare le proprie esperienze nel “Bullone” (giornale a cui essi hanno dato vita) di modo da offrire forza, coraggio e disponibilità ad altri ragazzi che ancora lottano con la malattia (Scaccabarozzi, 2017); dall’altro il Centro Maria Letizia Verga, quarto centro al mondo che si propone di unire la ricerca e la cura in un’unica struttura; è stato elaborato da Giovanni Verga (in seguito alla perdita della figlia leucemica Maria Letizia Verga) con lo scopo di migliorare l’assistenza clinica e psicosociale da offrire a bambini con leucemia, massimizzando le loro possibilità di guarigione: si tratta di un insieme di misure volte ad umanizzare l’ospedale, rendendolo un ambiente più adatto ai bambini, infatti le 25 camere ospedaliere presentano pareti colorate che seguono una logica specifica: il blu viene utilizzato negli spazi di accoglienza, l’arancione delinea gli spazi di svago e gioco, il giallo gli spazi per la scuola, il rosso contraddistingue gli ambulatori degli assistenti sociali (Scaccabarozzi, 2017).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Alderfer M. A., Long K. A., Lown E. A., Marsland A. L., Ostrowski N. L., Hock J. M., Ewing L. J. (2010), Psychosocial adjustment of sibilings of children with cancer: a systematic review.
  • Alderfer M., Hodges J. (2010). School mental helth, 2(2), 72-81.
  • Benini F., Ferrante A., Facchin P. (2007), Le cure Palliative rivolte ai bambini, Quaderni, 213-217.
  • Bobbo N. (2004), Educazione al limite di fronte al dolore e alla morte dei bambini., Lecce.
  • Failo A., Jankovic M. (2013), Il "prendersi cura" nelle cure Palliative pediatriche., La Rivista Italiana di Cure Palliative., volume 15.
  • Houtzager B., Grootenhuis M., Caron H., Last B. (2003). Quality of life and psychological adaption in sibilings of paediatric cancer patients, 2 years after diagnosis. Psycho-Oncology, volume 13.
  • Moroni L., Colangelo M., Gallì M., Bertolotti G. (2007), "Vorrei regalargli la mia vita": risultati di un progetto di supporto psicologico ai caregiver di pazienti in riabilitazione neuromotoria., Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, volume 29.
  • Oberti I., Pavesi A.S. (2015), Il terzo settore a sostegno di sostenibilità e innovazione in campo sanitario., Techne, 155-161.
  • Scaccabarozzi P. (2017), Quando un figlio si ammala. Momcilo Jankovic e una filosofia di cura per bambini e adolescenti., Franco Angeli, Self-help.
  • Zavagli V., Varani S., Samolsky-Dekel A. R., Brighetti G., Pannuti F. (2012), Valutazione dello stato di salute psicofisico dei caregiver di pazienti oncologici in assistenza domiciliare., La Rivista Italiana di Cure Palliative.
  • Zilli A., Pagni E., Piazza M. (1987), Il paziente terminale., Caleidoscopio.
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