Cos’è il Machine Learning?
Il Machine Learning, un ramo dell’Intelligenza Artificiale, si concentra sulla manipolazione di dati mediante algoritmi al fine di emulare il processo di apprendimento umano.
Gli algoritmi di Machine Learning permeano una vasta gamma di settori nella nostra società, tra cui le ricerche online, la promozione di prodotti, i servizi di traduzione, il riconoscimento vocale e persino lo sviluppo di veicoli a guida autonoma (Kambeitz et al., 2017). Nell’ambito della sanità, il Machine Learning ha dimostrato di raggiungere risultati paragonabili o superiori rispetto agli esperti umani in compiti quali la diagnosi dei tumori cutanei, polmonari, mammari e delle patologie oculari (Dwyer et al., 2018). Tuttavia, nonostante l’entusiasmo generale per queste innovative metodologie, è fondamentale trattarle con circospezione e una dose di scetticismo, specialmente in campo psichiatrico. Qui il Machine Learning trova applicazione nella diagnosi, prognosi e terapia dei disturbi mentali (Chen & Asch, 2017).
La complessità delle questioni coinvolte richiede un approccio critico e una valutazione attenta dell’efficacia e dell’etica di tali applicazioni, tenendo sempre presente il potenziale impatto sul benessere e sulla salute dei pazienti.
Il Machine Learning nella iagnosi
Nella ricerca psicodiagnostica, gli studi iniziali sull’impiego del Machine Learning si sono concentrati sull’analisi delle neuroimmagini strutturali e funzionali, focalizzandosi principalmente sulle patologie della depressione, della schizofrenia e della malattia di Alzheimer (Lee et al., 2021). Solo in tempi più recenti, tale approccio è stato esteso all’esaminare anche disturbi d’ansia, anoressia, abuso di sostanze e fobie specifiche, integrando nella valutazione dati genetici, metabolomici e proteomici (Dwyer et al., 2018).
Negli ultimi dieci anni, il Machine Learning si è dimostrato particolarmente utile nella formulazione di diagnosi differenziali. Ad esempio, Redlich e colleghi (2014) hanno utilizzato questa metodologia per individuare le firme cerebrali più efficaci nel distinguere le diverse condizioni diagnostiche. Queste firme cerebrali sono state poi applicate con successo in campioni diversi, risultando in un tasso di diagnosi errato del 31%. Analogamente, nel 2015, Koutsouleris e colleghi hanno identificato le specifiche firme cerebrali in grado di separare la depressione dalla schizofrenia e le hanno utilizzate in campioni di pazienti con diagnosi incerte, come quelli nel primo stadio della psicosi o con un elevato rischio di svilupparla.
Secondo quanto sottolineato da Dwyer e colleghi (2018), questi studi suggeriscono che le firme neuroanatomiche apprese durante le indagini diagnostiche potrebbero fungere da supporto nelle decisioni cliniche in situazioni di incertezza diagnostica. Tuttavia, è importante notare che le previsioni fornite dagli algoritmi sono limitate dall’ampia variazione sintomatica e neuroanatomica introdotta dalle definizioni cliniche estese, specialmente quando le dimensioni dei campioni di studio sono notevoli (Schnack & Kahn, 2016). Pertanto, molti ricercatori si sono concentrati su come superare questa limitazione, ricorrendo al “Unsupervised Machine Learning” per identificare automaticamente sottogruppi di individui con profili simili basati su dati cognitivi, genetici, o caratteristiche funzionali e strutturali del cervello (Dwyer et al., 2018).
Il Machine Learning nella prognosi
Nell’ambito clinico, la prognosi di un paziente riveste una fondamentale importanza. Attualmente, il processo di prognosi si basa sulla classificazione di un individuo in una categoria diagnostica, fondata su sintomi e segni clinici, per poi fare riferimento alle statistiche medie della popolazione (Dwyer et al., 2018). Nel contesto dell’applicazione del Machine Learning a questo specifico ambito, la letteratura scientifica ha documentato risultati molto promettenti. Ad esempio, una revisione condotta da Arbabshirani e colleghi nel 2017 ha evidenziato un’elevata accuratezza predittiva, superiore al 70%, in 27 studi di neuroimaging che si focalizzavano sulla previsione della transizione dal decadimento cognitivo lieve alla malattia di Alzheimer. Inoltre, l’utilizzo di dati ottenuti da risonanze magnetiche ha consentito di ottenere tassi di predizione altrettanto robusti per la depressione (in varie forme: cronica, in miglioramento e in rapida successione; Rashid & Calhoun, 2020). Nel caso della depressione, sono stati impiegati questionari clinici auto-riferiti per valutare l’evoluzione della malattia e dati presenti nelle cartelle cliniche per suddividere gli individui in categorie in base al rischio suicidario (Dwyer et al., 2018). Ulteriori approcci hanno incluso l’utilizzo congiunto di dati di neuroimaging, dati demografici, dati clinici, dati cognitivi e dati genetici per classificare gli individui in base alla probabilità di sviluppare un abuso di sostanze (Bertocci et al., 2017).
Secondo quanto sostenuto da Dwyer e colleghi (2018), queste suddivisioni categoriali rappresentano un passo cruciale nell’ottimizzazione delle valutazioni prognostiche delle malattie, indicando un potenziale importante aperto dall’impiego del Machine Learning in questo ambito.
Il Machine Learning nel Trattamento
Negli ultimi dieci anni, la ricerca nel campo del Machine Learning ha sfruttato ampiamente database multi-sito di vasta portata e fondi di dati biologici per fornire supporto alle decisioni terapeutiche. In particolare, gli studi volti a supportare le decisioni terapeutiche farmacologiche hanno dimostrato grande utilità, soprattutto nel contesto della depressione, dove è stata cercata la previsione della risposta dei pazienti a farmaci come l’escitalopram, la sertralina, la venlafaxina e il citalopram (Dwyer et al., 2017; Hampel et al., 2023).
Un esempio concreto è stato condotto da Chekroud e colleghi (2016), che hanno eseguito uno studio clinico sul citalopram. Hanno identificato un modello predittivo basato su 25 variabili fornite dai pazienti, in grado di prevedere la remissione clinica con un’accuratezza del 65%, un incremento del 30% rispetto all’efficacia prevista del farmaco. La validità dei modelli è stata ulteriormente confermata dalla loro capacità di prevedere la remissione in un campione indipendente (Chekroud et al., 2017).
Inoltre, valutazioni di natura biologica possono rivestire un’importanza particolare, specialmente nei casi di interventi terapeutici invasivi, come la terapia elettroconvulsivante. In questo contesto, uno studio condotto da Redflich e colleghi (2014) ha dimostrato che la struttura cerebrale può predire con un’accuratezza del 78% la risposta al trattamento. Allo stesso tempo, dati derivanti da risonanze magnetiche funzionali del cervello sono stati utilizzati con successo per prevedere la risposta alla terapia cognitivo-comportamentale nei disturbi d’ansia, ottenendo un’accuratezza superiore al 75% (Dwyer et al., 2018).
Secondo Dwyer e colleghi (2018), la scelta del trattamento per i pazienti dovrebbe non solo tener conto delle loro specifiche esigenze, ma dovrebbe essere guidata anche da una valutazione rigorosa dei costi e dei benefici associati. Questa valutazione dovrebbe prendere in considerazione non solo l’efficacia del trattamento sui sintomi, ma anche i potenziali rischi avversi, gli effetti collaterali, il grado di invasività, la possibile resistenza al trattamento, e gli impatti in termini di tempo e costo finanziario. Gli autori suggeriscono la possibilità di integrare queste informazioni in un’appropriata strumentazione decisionale clinica, al fine di agevolare il processo decisionale riguardante il trattamento. Attualmente, la ricerca sta concentrando sempre più l’attenzione sugli effetti collaterali dei trattamenti, come ad esempio la sindrome metabolica causata dall’uso di antipsicotici, e la problematica della resistenza al trattamento. Tuttavia, si riconosce che è necessario compiere ulteriori studi in questo campo per una comprensione più approfondita e completa delle questioni coinvolte.