Esperti Psicologi e Criminologi – Avviso di selezione – Bando
SEGNALIAMO UN AVVISO DI SELEZIONE PER PSICOLOGI E CRIMINOLOGI
REGIONE: LIGURIA.
SCADENZA: 30 AGOSTO 2013
REQUISITI:
Per essere ammessi alla selezione è richiesto il possesso dei seguenti requisiti:
Per i candidati psicologi:
Laurea in psicologia (magistrale o vecchio ordinamento).
Abilitazione all’esercizio della professione di psicologo.
Iscrizione all’Albo professionale degli psicologi.
Possesso di partita I.V.A. o dichiarazione di apertura della stessa una volta chiamati dall’amministrazione a prestare la propria opera professionale.
Dichiarazione di non aver riportato condanne penali o applicazioni di pena ai sensi dell’articolo 444 del Codice di Procedura Penale e di non avere in corso procedimenti penali né procedimenti amministrativi per l’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione, né che risultino a proprio carico precedenti penali iscrivibili nel casellario giudiziale ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313. In caso contrario, si indichino le condanne e i procedimenti a carico ed ogni eventuale precedente penale, precisando la data del provvedimento e l’Autorità Giudiziaria che lo ha emanato ovvero quella presso la quale penda un eventuale procedimento penale.
Età superiore ad anni 25 ed inferiore ad anni 70.
Curriculum vitae
Per i candidati criminologi:
Laurea (magistrale o vecchio ordinamento) e diploma di specializzazione in criminologia o scienze psichiatriche forensi conseguito presso le Scuole di specializzazione individuate con D.P.C.M., di concerto con il M.I.U.R., o master di II livello in criminologia, conseguito presso Università.
Possesso di partita I.V.A. o dichiarazione di apertura della stessa una volta chiamati dall’amministrazione a prestare la propria opera professionale.
Dichiarazione di non aver riportato condanne penali o applicazioni di pena ai sensi dell’articolo 444 del Codice di Procedura Penale e di non avere in corso procedimenti penali né procedimenti amministrativi per l’applicazione di misure di sicurezza o di prevenzione, né che risultino a proprio carico precedenti penali iscrivibili nel casellario giudiziale ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313. In caso contrario, si indichino le condanne e i procedimenti a carico ed ogni eventuale precedente penale, precisando la data del provvedimento e l’Autorità Giudiziaria che lo ha emanato ovvero quella presso la quale penda un eventuale procedimento penale;
Età superiore ad anni 25 ed inferiore ad anni 70.
Curriculum vitae.
I requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di presentazione della domanda.
“Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto perché siamo dominate dalla paura: paura di restare sole, paura di non essere degne d’amore, paura di essere abbandonate o ignorate”
R. Norwood (2003).
Love addiction: l’innamoramento è un’esperienza che plasma l’identità dei giovani e l’autostima. Kaarina Maatta, nel 2011 ha chiesto a 55 giovani adulti di descrivere le loro esperienze amorose; i partecipanti allo studio hanno definito la fase dell’innamoramento e il suo significato attraverso connotazioni differenti: come risultato di azioni razionali, come volontà di cambiamento, come distacco dall’età infantile e dalle influenze del gruppo di appartenenza.
I partecipanti hanno poi descritto tutti i “sintomi” dell’innamoramento: la sensazione di leggerezza, l’aumento di forza ed energia, la positività, il desiderio irresistibile di passare il maggior tempo possibile con la persona amata e l’abbandonarsi spesso a giochi e atteggiamenti infantili e frivoli con il partner, con il quale sembra sussistere una sorta di “sesto senso”, un legame che “nessun altro può capire”.
Erri de Luca (1998) descrive così l’innamoramento: “ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rilevato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto su un gradino mentre gli altri ballano”. Tutte queste descrizioni possono essere facilmente riassunte con l’espressione “avere le farfalle nello stomaco”.
Ma le farfalle nello stomaco possono trasformarsi in una gastrite fulminante, una droga d’amore, una vera e propria dipendenza affettiva.
Nella dipendenza affettiva, o “love addiction”, è la relazione stessa a costituire l’oggetto di dipendenza; i soggetti “dipendenti d’amore” non riescono ad avere una vita piena e soddisfacente, vivono in balia delle emozioni, vengono ingoiati dalle storie d’amore arrivando anche all’autodistruzione, non sono autonomi e sono incapaci di prendere decisioni; senza l’altro si sentono persi, smarriti, senza significato.
I dipendenti affettivi sono incapaci di relazionarsi con l’altro in modo maturo, come se non riuscissero a vivere una storia alla pari, e si ritrovano ad avere una relazione asimmetrica come quella che hanno vissuto nell’infanzia con le figure di riferimento.
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Alla base del legame con l’altro vi è un “bisogno d’amore” che si basa su una significativa carenza, “la ferita dei non amati”, così definita da Schellenbaum (2005); questa condizione ha origine nell’infanzia, dalla necessità di soddisfacimento dei bisogni primari di nutrimento emotivo e di accettazione incondizionata da parte dell’adulto.
Nel caso in cui questi bisogni non siano stati soddisfatti lo sviluppo può avere un esito negativo, da cui possono comparire il senso di insicurezza, di incertezza rispetto alle proprie capacità, e il costante bisogno d’amore. Qualunque espressione d’amore anche da adulto non sarà mai in grado di riempire il vuoto originario, dato dalla mancanza di quell’accettazione incondizionata da parte delle figure di riferimento (Costantini, 2009).
Secondo Giddens (1992), la dipendenza affettiva è un disturbo autonomo e presenta caratteristiche quali l’ebbrezza (il soggetto dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione con l’altro, paragonabile a quella del tossicodipendente quando sta andando a procurarsi la sostanza) e la dose (il soggetto dipendente trova nell’altro una sorta di droga e cerca così sempre quantità maggiori in termini di presenza e di tempo da trascorrere insieme).
Numerose ricerche infatti mostrano che la dipendenza affettiva condivide alcune caratteristiche negative con altre dipendenze, in particolare con l’abuso di sostanze (Fisher, 2006; Peele & Brodsky, 1992; Wolfe, 2000). Il partner, assume il ruolo di “eroe”, che diviene unico scopo di vita e la cui mancanza dà alla persona la sensazione di “non esistenza” (DuPont, 1998).
L’aspetto fondamentale proposto da Giddens (1992) è la paura che caratterizza il dipendente affettivo: una caratteristica che precede sempre ogni forma di dipendenza. Paura di perdere l’amore, paura dell’abbandono e della separazione, paura di mostrare se stessi, di amare l’altro per quello che è.
Si tratta di una paura schiacciante, che si può riassumere nella terrificante massima del poeta latino Publio Ovidio Nasone (Amores, III, 11b, 7): “così non riesco a vivere, né con te né senza di te”. Con te, per il dolore che si prova nel subire umiliazioni, maltrattamenti e offese; senza di te perché non si può sopportare l’angoscia che si sente al solo pensiero di perdere la persona amata. Dalla letteratura risulta che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi sono di sesso femminile (Miller, 1994) distribuiti in differenti fasce di età. Si tratta spesso di donne con una bassa autostima, che si sentono colpevoli e poco meritevoli e quindi destinate a non essere ricambiate dell’immenso amore che provano e dimostrano continuamente.
Nelle interviste condotte dalla Maatta (2011) su adolescenti e giovani adulti possiamo ritrovare alcuni aspetti descrittivi dell’innamoramento che connotano quella che potrebbe sfociare in dipendenza affettiva.
I ragazzi infatti riportano di provare una sorta di “regressione e esperienza simbiotica” con l’innamorato agli inizi della storia, che richiama la relazione di totale dipendenza che un bambino ha con la figura di accudimento; il problema è che, come loro stessi riferiscono, questa regressione porta con sé anche l’insicurezza, la paura e il senso di confusione che possono aver provato da bambini di fronte alla percezione che dalla figura di accadimento e dalla sua vicinanza dipendesse la propria felicità in modo esclusivo.
Infine, oltre a essere un’importante occasione per capire meglio se stessi e le proprie reazioni, l’innamoramento diventa per alcuni depositario di alte aspettative salvifiche rispetto a una fuga da quello che non va in tutti gli altri ambiti di vita. Per questo, i ragazzi riferiscono di stare attenti a adattarsi alle aspettative dell’altro, per minimizzare le possibilità di perdere lui/lei e annullare la relazione che sta nascendo.
Ritornando alle giovani generazioni, i mass media potrebbero avere un impatto sullo sviluppo della love addiction; nella giovane musica pop infatti l’amore è spesso rappresentato in associazione a crisi emotive, forte desiderio della persona amata, alta idealizzazione fantastica, pensiero ossessivo ed estrema dipendenza dall’oggetto d’amore (Vannini & Mayers 2002).
Del resto, da sempre l’amore e tutte le sue sfaccettature sono l’oggetto d’ispirazione musicale per eccellenza; negli anni sessanta una famosa canzone dei Temptations “Ain’t too proud to beg”, faceva della dipendenza affettiva un elemento di cui andare fieri: “because I want to keep you any way I can, ain’t too proud to beg, sweet darlin’, please don’t leave me girl…”.
Fisher H. (2000). Broke hearts: the nature and risks of romantic rejections. In A. C. Crouter & A. Booth (Eds.): Romance and sex in adolescence and emerging adulthood: risks and opportunities. Mahwah, N.J.: Lawrence Erlbaum Associaties, pp. 3-28.
Alcuni autori hanno cercato di sviluppare modelli che potessero, in qualche modo, porsi in una posizione intermedia all’interno del continuum distinto ai poli dall’importanza data ad aspetti individuali e aspetti situazionali.
All’interno di questi approcci, generalmente definiti come interazionisti, possiamo individuare il modello della contingenza di Fiedler [1964] il quale tenta di mettere in relazione aspetti individuali con caratteristiche situazionali. L’autore costruisce la sua teoria riprendendo la distinzione fatta da Bales e Slater tra un leader centrato sul compito e uno centrato sulla relazione. L’efficacia di queste due categorie di leader è correlata a una serie di variabili dipendenti dalla situazione quali ad esempio: la qualità dei legami leader-membri, caratteristiche della struttura del compito, la tipologia di potere nelle mani del leader. In particolar modo i leader centrati sul compito risultano più efficaci in condizioni di controllo estremamente alto o estremamente basso della situazione; viceversa coloro che sono centrati sulla relazioni ottengono risultati maggiori se il controllo sulla situazione si pone su un livello intermedio.
In ambito sportivo Giovannini e Savoia [2002] sottolineano come un allenatore il cui comportamento sia riconducibile a uno stile centrato sul compito (secondo le distinzioni di Bales e Slater e quindi anche quella di Fiedler) e a uno stile autoritario (secondo la distinzione di Lewin, Lippit e White) ottenga risultati migliori esclusivamente quando è benvoluto o quando è malvoluto dai componenti del gruppo.Quando è benvoluto la sua autorità non è messa in discussione e può tralasciare il morale della squadra e concentrarsi sul compito. Quando è malvoluto egli comunque possiede poco potere e non è in grado di intervenire sul morale ma può cercare in ogni caso di risolvere problemi legati al compito.Nelle situazioni intermedie, viceversa, l’azione sul morale del gruppo può avere qualche effetto motivazionale che influisca anche a livello della sua prestazione. Ecco perché risultano importanti entrambe le capacità e perché visto che difficilmente una stessa persona manifesta una completa padronanza di ognuna spesso si ha necessità di una doppia figura di leader per massimizzare i risultati sia nelle relazioni che nelle prestazioni del gruppo.
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Partendo dall’elaborazione di Fiedler, Hollander [1958] sviluppa un’ulteriore ipotesi che definisce appartenente ai modelli transazionali, riferendosi con questa definizione ai paradigmi che si possono ricondurre al concetto principale di una relazione bidirezionale tra leader e membri del gruppo. Secondo l’autore, il leader, in un certo senso, acquista il suo potere di influenza attraverso la costituzione di un credito idiosincratico nei confronti dei compagni, ottenuto attraverso la dimostrazione delle sue competenze. In un certo senso ogni membro del gruppo, dopo la prova di esperienza da parte del potenziale leader, riconosce nella sua guida la possibilità di ottenere un guadagno comune e si rende disponibile a investire in lui la propria fiducia, che va a riempire questo credito idiosincratico che sta al leader non esaurire favorendo il raggiungimento degli obiettivi della squadra. Secondo quest’idea all’interno di una squadra l’allenatore/leader ottiene potere non solo istituzionalmente ma anche in relazione ai successi ottenuti e quindi al colmarsi o allo svuotarsi del suo credito idiosincratico nei confronti dei membri della squadra e della dirigenza.
In conclusione a questa rassegna è importante presentare un modello che, come i precedenti ha rivolto l’attenzione a considerare le diverse categorie di variabili che possono influenzare la leadership del gruppo e che si focalizza principalmente all’interno dell’ambito sportivo.
Questa teoria della leadership, elaborata da Chelladurai [1990, 1993], appartiene all’ambito dei modelli multidimensionali. L’autore considera il livello di prestazione e di soddisfazione della squadra dipendente tra tre ordini di fattori legati alla figura del leader e cioè:
– I comportamenti richiesti al leader dalla situazione: che racchiude tutte le variabili espresse dagli approcci situazionisti e dal modello della contingenza di Fidler. I comportamenti in questione dipendono, quindi, dalla struttura e dall’organizzazione alla base del team sportivo e dagli obiettivi che la dirigenza si propone di veder raggiunti a fine stagione.
– I comportamenti del leader preferiti dai membri: che dipendono sostanzialmente dalle caratteristiche degli atleti e dalla tipologia del rapporto che li lega al leader. Inevitabile il riferimento implicito al concetto di credito idiosincratico di Hollander come conseguenze di questa relazione.
– I comportamenti agiti dal leader: che dipendono dalle caratteristiche personali di colui che occupa la posizione di leader che possono essere legate ai tratti di personalità, alla sua esperienza vissuta, al suo grado di competenza.
La congruenza tra questi tre aspetti è alla base, secondo Chelladurai, sia della soddisfazione che delle prestazioni della squadra.
In sostanza il compito principale dell’allenatore risulta quello di individuare e creare un equilibrio tra le richieste della situazione e dei membri del gruppo unite alle proprie caratteristiche personali, in modo da poter affrontare ogni problema usando le abilità opportune, che siano esse centrate sul compito o sulla relazione. Si può dire quindi che la caratteristiche che il leader deve assolutamente possedere siano competenza e versatilità.
In aiuto al problema del grave sovrappeso che affligge ben due terzi della popolazione americana, un nuovo studio suggerisce che l’interazione con un avatar, che funga da modello di comportamento per la perdita di peso, potrebbe aiutare alcune donne nella lotta ai chili di troppo e nella costruzione di abitudini di vita più sane.
Melissa Napolitano, PhD alla George Washington University School of Public Health and Health Services (SPHHS) in collaborazione con i colleghi della Temple University , ha condotto un sondaggio tra 128 donne in sovrappeso.
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La maggior parte di loro aveva cercato di perdere peso durante l’ultimo anno e non aveva mai usato un gioco di realtà virtuale.
Nonostante la mancanza di familiarità con la realtà virtuale molte delle partecipanti hanno dichiarato, in accordo con la teoria del modellamento, che l’osservazione del comportamento di un avatar avrebbe potuto aiutarle a mettere in atto comportamenti per il controllo del peso, come passeggiare tutti i giorni e comprare alimenti più sani.
Il team della Napolitano, grazie alla collaborazione di Antonio Giordano e Giuseppe Russo del Temple’s Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine, ha creato un DVD che ha mostrato alle partecipanti l’avatar in quattro ambienti reali. Le donne non potevano manipolare l’avatar ma potevano sceglierne le fattezze, così da renderlo simile a loro e da facilitare il processo di immedesimazione.
Nella seconda parte dello studio pilota, il team ha scelto otto donne in sovrappeso per un test di quattro settimane: l’obiettivo era studiare gli effetti del modellamento nell’apprendimento di comportamenti utili alla perdita di peso (ad esempio scegliere porzioni di cibo adeguate e come fare attività fisica). Le partecipanti hanno visto il video una volta alla settimana per 15 minuti e stabilito in precedenza degli obiettivi da raggiungere.
Dopo quattro settimane di trattamento le donne avevano perso una media di un chilo e mezzo, in linea con i programmi dietetici tradizionali.
I ricercatori sperano che il processo di modellamento con l’avatar renda le donne più propense a mantenere le nuove abitudini di vita anche nel lungo periodo.
E’ stato verificato sperimentalmente da numerosi ricercatori (Kahneman, Miller 1986; Kahneman, Slovic, Tversky 1982; Motterlini 2008; Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002; Perdighe, Mancini 2008) che gli esseri umani siano più sensibili alle perdite che ai guadagni: ciò significa che soffrono molto di più per una perdita di una certa entità di quanto non gioiscano per un guadagno uguale.
E’ stato calcolato che perdere fa male il doppio del piacere che da guadagnare la stessa cifra. A motivo di ciò sono anche disposti a investire molte più risorse e a correre molti più rischi pur di evitare una perdita di quanto non lo siano per conseguire un guadagno corrispondente. Forse ciò perchè perdere significa passare da uno stato migliore ad uno peggiore e dunque la sofferenza stia nel sapere che è possibile stare meglio e in cosa ciò consista, mentre è indubbiamente minore la sofferenza di chi non gode di agi che non ha mai sperimentato. Nessuno soffre per non aver mai fumato, mentre per un fumatore è doloroso e faticoso smettere. Questa tendenza che ci rende attenti a conservare e prudenti nel correre rischi che potrebbero causarci un peggioramento della situazione ha costituito senza dubbio un vantaggio evolutivo ed è tuttora alla base dell’atteggiamento conservatore e delle strategie iperprudenziali. Ha forti influenze sull’economia, sul mercato, sulle transazioni di borsa e sul gioco d’azzardo.
Ma di queste cose si sono occupati i teorici dei giochi e gli economisti (per una esaustiva rassegna bibliografica si veda Motterlini 2008). Quello che mi preme evidenziare è come questa tendenza innata possa causare tribolazioni se associata ad un’altra ingiustificata credenza che è l’aspettativa che “il trend naturale delle cose sia la crescita”.
Abbiamo un’attenzione selettiva verso i fenomeni nella loro fase di sviluppo e molto meno verso la loro fase involutiva. Se si pensa alla vita degli esseri umani si ha molto più presente il periodo che va dalla nascita alla piena maturità che appare lungo e denso di avvenimenti. Invece si tende a sottovalutare la durata di tutta la lunga fase involutiva. Si è talmente abituati ad aspettarsi la crescita che rispetto all’economia ci si chiede di quanto il PIL sia incrementato dando per scontato che ciò avvenga. Addirittura viene considerato un segnale allarmante la riduzione dell’accelerazione della crescita, essendo appunto scontata la crescita stessa. Forse ci si aspetta un tale andamento dai fenomeni naturali perché le piante crescono e tutte le serie numeriche, ad iniziare dall’età di ciascuno fino ai calendari possono essere incrementate indefinitivamente. Così ci si aspetta che ciò sia possibile, naturale e persino dovuto. Potrebbe sembrare non esserci alcun male in questa immotivata attesa di una crescita costante, invece c’è. Se l’attesa di crescita è data per scontata, quando necessariamente va delusa trasforma qualcosa che sarebbe semplicemente un mancato guadagno in una vera e propria perdita che abbiamo visto essere molto più dolorosa. L’illusione di crescita ci espone alla delusione della perdita. Siamo minacciati da una credenza secondo la quale “tendenzialmente il perseguimento dei nostri scopi avrà prima o poi successo”. A fronte di tale aspettativa, l’insuccesso comporterà ulteriori emozioni disturbanti:
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La prima di rabbia per essere stati privati di un diritto al successo. Molte persone sono francamente irritate dal fatto che le cose non vadano secondo le loro aspettative. Attenzione non sono solo preoccupate e tristi, il che è connesso con la frustrazione di uno o più scopi, ma proprio arrabbiate. Sembra che abbiano stipulato un contratto con una entità astratta che barando non mantenga fede agli impegni presi e li danneggi: questa rabbia costituisce una quota di sofferenza aggiuntiva quanto inutile.
La seconda emozione disturbante aggiuntiva e inutile è determinata dalla possibile autosvalutazione per il fatto di considerarsi incapaci di raggiungere ciò che è quasi naturale che accada frustrando dunque lo scopo di considerarsi dei buoni perseguitori dei propri scopi. Se il successo è considerato facile, quasi scontato, il non raggiungerlo costituisce un vulnus maggiore alla propria autoefficacia che se si considerasse il compito difficile e il risultato incerto.
L’illusione di crescita trasforma i mancati guadagni in perdite con una quota maggiore di sofferenza e vi aggiunge altre due sofferenze gratuite: la rabbia e l’autosvalutazione.
In conclusione siamo vittime di una bizzarra aspettativa del meglio. Forse è a motivo di ciò che tanto successo ha avuto la teoria dell’evoluzione che lo sostiene scientificamente. O forse, al contrario, è questo bias ottimistico che non ci fa vedere gli enormi costi dell’evoluzione. Probabilmente i due effetti sono sinergici e indistinguibili. Osserviamo l’evoluzione dal punto di vista delle speci che ce l’hanno fatta, dei vincitori. Ma ignoriamo i rami secchi, quelli che sono andati incontro ad involuzione e si sono estinti. Come al solito la storia è scritta dai vincitori. Tuttavia in questo caso i vincitori si procurano sofferenza dando per certa e scontata la vittoria. Questa immotivata fiducia in un positivo andamento è forse una concausa dell’atteggiamento astensionista conservatore. Esso consiste nel preferire sbagliare per non aver fatto piuttosto che sbagliare per aver fatto, come se si pensasse che non intervenendo le cose finiranno per andare nel verso giusto (Motterlini 2008). Tale atteggiamento, determinato certamente molto da scopi interni relativi alla propria identità ed efficacia, protegge dal senso di colpa verso possibili errori.
Sembra quasi che gli esseri umani siano spinti da due grandi correnti motivazionali talvolta conflittuali.
Da un lato (più esterno) sembra decisivo perseguire i propri scopi intesi come modificazione del mondo esterno. Dall’altro (più interno) si persegue lo scopo di considerarsi capaci di perseguire i propri scopi e soprattutto di non essere responsabili di eventuali errori (questo diventa un vero e proprio antigoal).
La trappola tra queste due correnti motivazionali scatta quando si preferisce la frustrazione di uno scopo certa e dolorosa ma non attribuibile a sè piuttosto che impegnarsi per evitarla rischiando così di doversi attribuire l’esito fallimentare. Meglio perdere 100 per cause esterne indipendenti dal nostro intervento che 50 a motivo di un nostro intervento. La salvaguardia dello scopo dell’autostima danneggia il perseguimento dello scopo esterno. Sembra che gli esseri umani vogliano ottenere il bottino più ricco possibile ma, soprattutto, e talvolta ciò è conflittuale, “non avere nulla da rimproverarsi”. La percezione e la valutazione di sè stessi varia lungo una dimensione temporale e ciò crea un interessante e doloroso conflitto. Gli esseri umani si rimproverano di cose diverse a seconda di quale sia il tempo che osservano (Kahneman, Miller1986;Leder, Mannetti 2007;Gilovich , 1995).
Quando osservano il passato recente si crucciano soprattutto per i cosiddetti errori di commissione. Per ciò che hanno fatto, per le azioni attive (prevale il rimorso). Invece quando osservano il passato remoto, le recriminazioni che producono sofferenza sono centrate su errori di omissione, ovvero su ciò che non si è fatto e si sarebbe potuto fare. E’ questa la dolorosa esperienza del rimpianto che tanto spesso caratterizza le esistenze tribolate. L’errore che genera sofferenza è duplice:
In primo luogo ci si rimprovera di azioni non fatte in passato ma solo dopo che si è a conoscenza di come siano andate le cose.
In secondo luogo non è definibile il crinale temporale in cui il passato da remoto, dove non si vogliono errori di omissione e rimpianti, diventa prossimo, dove non si vogliono errori attivi e rimorsi.
Il cambio del criterio fa si che ciò che oggi è fatto secondo un criterio sarà successivamente giudicato con l’altro. Possiamo dire che nell’immediato le azioni sono guidate dal criterio di limitare le perdite, mantenere lo status quo e soprattutto non avere responsabilità degli eventuali insuccessi. Invece nella valutazione a lungo termine il criterio utilizzato è quello dell’acquisizione, fortemente aggravato dall’illusione della crescita. Il tentativo nel presente di limitare le colpe spalanca le porte al rimpianto per domani.
Il solo tempo esistente è il presente ma su di esso si concentrano assai poco le attenzioni. Preoccupati di costruire un futuro splendido si accumulano sacrifici e rinunce certe nel qui ed ora in vista di un’alba futura luminosa che spesso non arriva mai. Si mangiano solo uova per salvaguardare la gallina per un domani che forse non si arriverà mai. Una vita passata a lavorare per il traguardo della pensione e poi l’infarto dopo la cena di addio con i colleghi.
Il rimandare il godimento è insegnato da sin piccoli “prima il dovere e poi il piacere”, “lasciati la cosa migliore per ultima così ti rifai la bocca”.
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Quando non ci si perde con lo sguardo in un futuro che si è certi nasconda il sole dietro la nebbia, ci si rivolge al passato come all’età dell’oro, della spensieratezza, della vita piena. Quanto siano felici i bambini lo prova il tempo che passano a piangere. Certo lo fanno spesso per cose che appaiono futili ma che sono tali solo ad occhi adulti. La disperazione assoluta per aver perduto il pallone di cuoio nella scarpata non è meno legittima della sofferenza per aver perduto il posto di lavoro o un appalto vantaggioso. Il timore per l’interrogazione su Foscolo non è minore del terrore che la propria tesi cui si è lavorato per un anno sia demolita al convegno internazionale. Le prime cotte e gli amori adolescenziali non sono meno drammatici e violenti dei divorzi e dei lutti adulti. In sintesi il passato è stato doloroso, il futuro probabilmente lo sarà e si trascura il presente che è l’unico tempo esistente. Quando si osserva prospetticamente la propria esistenza la si distorce. La memoria non è un registratore oggettivo e viene utilizzata come un arma al servizio del confermazionismo (Bower 1981;Cioffi 1989; Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002). Il fatto di avere memoria è stato selezionato dall’evoluzione e comporta dei vantaggi quali: evitare di ripetere gli stessi errori, apprendendo dall’esperienza, costruire delle mappe del mondo che permettano di raggiungere gli scopi. Il fenomeno opposto, quello dell’oblio, si è anch’esso selezionato. Probabilmente serve a fare spazio sull’hard disk, a non tormentarsi per cose rispetto alle quali non possiamo porre rimedio (si pensi ai lutti che punteggiano l’esistenza). Si conserva solo ciò che è più importante e il valore di un ricordo è dato dalle convinzioni attuali, dalla weltaschaung del momento che piega e modella la memoria a propria conferma, come un testimone corrotto, pronto a cambiare versione a seconda dei voleri del committente.
Il fenomeno che merita una riflessione evoluzionistica più approfondita è piuttosto quella strana deformazione mnesica per cui le vicende passate tendono nel ricordo ad apparire belle, dolci e desiderabili producendo spesso quell’emozione dolce amara che è la nostalgia. Naturalmente mi riferisco ad eventi che nel momento in cui si vivevano avevano tutt’altre caratteristiche e magari non si desiderava altro che la loro rapida fine. In parte ciò è spiegabile con il fatto che non si abbia nostalgia di quegli eventi ma piuttosto di sè stessi e del come si era a quei tempi. Ma forse esistono dei motivi più importanti e sostanziali. Il fatto di attribuirsi un passato bello, intenso e ricco fa si che il bilancio complessivo della propria esistenza sia in attivo e ciò spinge a proseguirla. Ingannarsi circa un grande passato, come fanno le nazioni quando tramandano la propria storia, aiuta a sopportare un presente sbilenco e ad affrontare un futuro nuvoloso. E’ un po’ ciò che fanno gli economisti che a fronte di un periodo di evidente difficoltà ampliano l’arco temporaneo di osservazione e la crisi scompare. Perchè se è vero che il PIL nell’ultimo anno è drasticamente sceso, è altrettanto vero che se si considerano gli ultimi cento anni le condizioni di vita sono molto migliorate e dunque c’è di che star contenti.
Le nuove tecnologie possono supportare la comunicazione di persone autistiche? – Parte 1
Se comunicare può sembrare una questione banale, in cui è naturale sentirsi padroni della situazione ed essere in grado di stabilire come andranno i rapporti con il nostro interlocutore, per una persona autistica non è così, a causa della difficoltà nell’entrare in contatto con gli altri. Tra gli strumenti in grado di andare incontro ai bisogni di prevedibilità, concretezza e stabilità, stanno riscontrando risultati positivi e una sempre maggiore diffusione le tecnologie informatiche.
I Disturbi dello Spettro Autistico sono considerati disturbi neuropsichiatrici con un’ampia varietà di espressioni cliniche e comportamentali, risultato di disfunzioni multifattoriali dello sviluppo del sistema nervoso centrale.
Secondo Lorna Wing, il disturbo autistico e le sue forme condividono tutte quelle alterazioni sintetizzate nella cosiddetta “Triade di Wing”: socializzazione, comunicazione e immaginazione. Questi tre aspetti influiscono sulle principali aree dello sviluppo della persona.
Alterazioni nello sviluppo dell’interazione sociale. Le persone con autismo spesso si isolano, mostrando un’apparente mancanza d’interesse e una scarsa capacità di relazionarsi con gli altri, fino ad avere serie difficoltà nello stabilire e mantenere relazioni sociali.
Alterazioni nella comunicazione verbale e non verbale. Si tratta di persone che, manifestando difficoltà nella produzione del linguaggio, hanno bisogno di supporto per comunicare. Possono essere presenti gravi alterazioni nella comunicazione (ecolalia, inversione pronominale, problemi semantici, etc.) che rendono impossibile l’uso strumentale e funzionale del linguaggio verbale.
Repertorio limitato d’interessi e comportamenti. Secondo Baron-Cohen, la difficoltà nell’attribuire un significato alla realtà può portare a reazioni impreviste, eccessive e incoerenti di fronte a stimoli nuovi, sconosciuti o che non siano in grado di essere appresi attraverso l’immaginazione, l’imitazione o l’osservazione. Nella maggior parte dei casi, la presenza di disabilità intellettuale, pur non caratterizzando l’autismo di per sé, può aggravare alcune situazioni.
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Queste alterazioni comportano un deficit di coerenza centrale, che sta alla base delle difficoltà di sintesi e integrazione dell’informazione. Si tratta di una difficoltà di generalizzazione, imprescindibile dai processi di percezione e attenzione, che conduce a un’incapacità di cogliere il tutto, costringendo l’autistico ad avere una percezione frammentata della realtà. Per questo motivo la persona autistica, pur possedendo buone capacità visuo-spaziali, ha bisogno di ripetere più volte un esercizio, prima di riuscire a considerarlo come un’unità coerente e non frammentata. Inoltre, le problematiche legate alle funzioni esecutive, comportano difficoltà nella pianificazione degli obiettivi e nel controllo degli impulsi che si traducono nell’inabilità a formulare piani d’azione, difficoltà a risolvere problemi e a inibire impulsi, a considerare più possibilità all’interno di una cornice di riferimento.
In altre parole, all’interno dello spettro autistico, le persone non sono in grado di adottare una modalità flessibile di pensare, di monitorare e programmare pensiero e azione. L’organizzazione e la percezione dell’esperienza sono ostacolate dal disturbo neuropsicologico di base, che non permetterebbe di concepire l’esperienza e il flusso di informazioni come coerenti, strutturati e orientati a uno scopo.
Se comunicare può sembrare una questione banale, in cui è naturale sentirsi padroni della situazione ed essere in grado di stabilire come andranno i rapporti con il nostro interlocutore, per una persona autistica non è così, a causa della difficoltà nell’entrare in contatto con gli altri. Tra gli strumenti in grado di andare incontro ai bisogni di prevedibilità, concretezza e stabilità, stanno riscontrando risultati positivi e una sempre maggiore diffusione le tecnologie informatiche.
Il loro uso si è fatto massiccio anche tra persone con sindrome dello spettro autistico. Questi strumenti, infatti, si caratterizzano per alcuni aspetti peculiari che li rendono adatti a questo tipo di utente. In particolare, gli elementi che facilitano l’utilizzo delle nuove tecnologie tra gli autistici sono: l’uso prevalente del canale visuo-spaziale, l’uso di un linguaggio strutturato, prevedibile e privo di elementi emotivi e, infine, la possibilità di adattare lo strumento all’utente.
Il canale comunicativo visuo-spaziale va incontro a un bisogno sensoriale del target autistico, dovuto al deficit di coerenza centrale: sembrerebbe, infatti, che sia il canale visivo quello utilizzato prevalentemente dalle persone autistiche, che lo privilegiano, rispetto a quello uditivo, durante l’apprendimento.
Il linguaggio informatico risponde al deficit della teoria della mente. Si tratta infatti di un linguaggio strutturato e, per questo, prevedibile. La sua chiarezza è legata anche alla mancanza di elementi emotivi o sottointesi, che possano interferire con la comprensione da parte di persone autistiche.
Infine, l’adattabilità delle nuove tecnologie passa attraverso diverse modalità di personalizzazione. A partire dall’hardware, che può variare in base alle capacità motorie, percettive e cognitive dell’utente, ad esempio attraverso l’adozione di tastiere facilitate, emulatori di mouse o l’uso del touch screen. Anche la personalizzazione dello schermo è importante: il contrasto delle immagini, la chiarezza dei caratteri utilizzati e le dimensioni, possono facilitare notevolmente l’utilizzo dello strumento da parte degli utenti autistici. Le schermate devono essere sempre molto semplici, con una riduzione dei particolari per favorire la comprensione.
Tutte queste caratteristiche contribuiscono al rafforzamento della motivazione e dell’interesse degli utenti. Infatti, le nuove tecnologie, avvicinandosi al linguaggio e al funzionamento cognitivo tipici dell’autismo, sono in grado di agevolare i processi attentivi e di rafforzare l’autostima e l’autoefficacia, attraverso l’uso costante di feedback che funzionano da rinforzo. Inoltre, le nuove tecnologie offrono un ambiente protetto, in cui l’ansia da prestazione e da esposizione è ridotta al minimo e comunque più facilmente controllabile. Le funzioni esecutive e, più in generale, il benessere psicologico degli individui ne trarrebbe notevoli vantaggi.
La prossima settimana presenteremo alcuni esempi applicativi e progetti relativi a questa tematica.
Wing, L. (1988). The continuum of autistic characteristics. In E. Schopler & G. B. Mesibov (Eds.): Diagnosis and assessment in autism. New York: Plenum Press.
L’appello di Demi Lovato: vorrei una barbie dalle forme normali
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L’appello di Demi Lovato, pop star adorata dalle adolescenti proprio in favore delle sue fan lancia un appello alla Mattel per mettere al mondo del mercato una Barbie più realistica, antitesi del tipo anoressico, formosa, ciocciottella e con tanto di cellulite. Se in più troviamo Kate Upton alla conquista della copertina di Vogue America e arrivano sui nostri schermi occidentali i copri dalle belle curve delle star di Bollywood, allora si forse si stanno – non più soltanto riproducendo, bensì modificando i modelli culturali che finora hanno esaltato l’ideale estetico anoressico.
A differenza del problem-solving, il rimuginio è un pensiero statico e ripetitivo che rallenta la capacità di affrontare in modo efficace le difficoltà
La diagnosi di autismo rappresenta per molti genitori una frattura emotiva profonda, legata alla perdita del figlio immaginato e alla rielaborazione delle aspettative
Un team di ricercatori delle University of Virginia e Harvard University ha ipotizzato che le persone più vulnerabili al gioco d’azzardo siano motivate al gioco dalla possibilità di vincere denaro, mentre le persone meno vulnerabili al gioco d’azzardo siano più motivate dal fascino della suspense.
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.
In accordo con questa ipotesi i partecipanti allo studio che hanno avuto un alto punteggio nelle scale che misurano la vulnerabilità al gioco d’azzardo hanno mostrato una forte motivazione al gioco in relazione alla possibilità di vincere del denaro; inoltre avevano più probabilità di accettare una certa o quasi certa quantità di soldi (per esempio, un 100% di possibilità di vincere $ 2.00) piuttosto che scegliere di giocare per la stessa quantità (ad esempio, un 50% di probabilità di vincere $ 2.00) e hanno anche dimostrato di essere disposti a lavorare con impegno per guadagnare soldi.
Le persone più vulnerabili al gioco d’azzardo anche fatto previsioni più precise su quanto avrebbero rischiato.
Ironia della sorte, sono proprio le persone meno vulnerabili al gioco d’azzardo, motivate dalla suspense, quelle che hanno più probabilità di giocare d’azzardo.
Neurolettura: quali sono le aree cerebrali coinvolte?
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
I risultati di una Ricerca dell’Università di Milano sulle aree cerebrali coinvolte durante la lettura possono essere utili anche in ambito riabilitativo. Qui di seguiito l’abstract della ricerca:
La cosiddetta neurolettura, ossia l’indagine dell’attività del leggere alla luce delle neuroscienze, può dirsi iniziata già alla fine dell’Ottocento, tuttavia solo in tempi recenti si sono compiute importanti scoperte grazie alle tecniche di neuroimaging. Esaminando alcune ricerche neuroscientifiche, da una parte emerge con forza l’estrema complessità dell’atto del leggere, che dal punto di vista filogenetico parrebbe il frutto di una sorta di riciclaggio neuronale (il nostro cervello non è fatto per la lettura, ma in un modo o nell’altro vi si riconverte grazie alla sua innata plasticità); dall’altra si delinea un’universalità delle basi cerebrali della lettura per cui, qualunque sia la lingua in cui si legge, una sola e medesima area cerebrale viene coinvolta, la regione occipito-temporale sinistra. Tale universalità non pare essere messa in discussione neppure dalla rivoluzione digitale in atto: se è vero che la lettura digitale apre nuove prospettive e nuove frontiere, offrendo vantaggi soprattutto in sede di apprendimento, essa non pare al momento avere una significativa incidenza sui meccanismi cerebrali sottesi alla prima fase del leggere (quella della decodifica), mentre potrebbe avere delle ricadute maggiori sui due momenti successivi, la comprensione di un testo e la nostra risposta ad esso, per quanto in quest’ambito le ricerche siano solo all’inizio.
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Notti in bianco e conflitti relazionali. Il ruolo della mancanza di sonno nei litigi
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Una ricerca dell’università della California esplora la relazione tra mancanza di sonno e conflitti nella relazione, in termini di capacità di conciliazione e livelli di empatia rilevati.
Il senso comune suggerisce che dormire male rende scorbutici, questa ricerca passa per la via sperimentale focalizzando l’attenzione più sulle capacità di mettere in pratica i meccanismi riparatori piuttosto che sulla (diremmo ovvia) tendenza a discutere dovuta da una notte insonne. E’ interessante anche che per ottenere dei dati “puliti” siano state eliminate molte variabili.
Riportiamo di seguito l’abstract della ricerca, seguendo il link trovate l’articolo completo.
Abstract
This research examined the impact of a basic biological process—namely, sleep—on relationship conflict, specifically testingwhether poor sleep influences the degree, nature, and resolution of conflict. In Study 1, a 14-day daily experience study, parti-cipants reported more conflict in their romantic relationships following poor nights of sleep. In Study 2, we brought couples intothe laboratory to assess the dyadic effects of sleep on the nature and resolution of conflict. One partner’s poor sleep wasassociated with a lower ratio of positive to negative affect (self-reported and observed), as well as decreased empathic accuracyfor both partners during a conflict conversation. Conflict resolution occurred most when both partners were well rested. Effectswere not explained by stress, anxiety, depression, lack of relationship satisfaction, or by partners being the source of poor sleep.Overall, these findings highlight a key factor that may breed conflict, thereby putting relationships at risk.
I sogni lucidi sono uno stato in cui si è consapevoli di star sognando e possono offrire prospettive interessanti per conoscere la mente e intervenire sugli incubi
L'esposizione a fonti di luce durante il sonno, come è noto, potrebbe rendere il sonno più difficile e non solo: essa si associa a ipertensione, diabete e obesità
Nelle paralisi del sonno la persona può avere allucinazioni o provare sensazioni bizzarre come sentirsi levitare da terra o percepire degli intrusi nella stanza
Un recente studio (Cooper et al., 2023) evidenzia il legame tra la qualità del sonno durante l'infanzia e sviluppo di disturbi psichiatrici in adolescenza
La pandemia da Covid-19 ha portato a numerose modificazioni nella vita quotidiana, soprattutto a causa del lockdown, quali sono stati gli effetti sul sonno?
L'angoscia degli incubi avrebbe un'associazione più forte con le esperienze psicotiche rispetto alla frequenza degli incubi, in accordo con studi precedenti
Gli interventi con maggiore evidenza empirica per i disturbi di sonno nei bambini sono quelli cognitivo comportamentali, che includono diverse strategie
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Snowden e gli uomini delle Agenzie: Bias, Credenze e Scelte Irrazionali. Psicologia
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Uno studio condotto da Valerie Reyna, docente in Human Development and Psychology presso la Cornell University ha indagato il decision making degli agenti segreti paragonato a quello di persone “normali”.
In differenti scenari (teorici nel contesto dell’esperimento) le decisioni degli agenti si sono mostrate spesso più irrazionali e compromesse da bias e credenze di vario tipo.
“With increasing age and experience, people are less likely to engage in literal, quantitative analysis and more likely to use simple qualitative meaning or gist when making decisions,” said Valerie Reyna, professor of human development in Cornell’s College of Human Ecology, and lead author of the study. “While the growth of experience-based intuition can enhance performance, it also has predictable pitfalls.”
For the study, 36 agents from a federal intelligence agency, 63 college students and 54 adults were presented with scenarios involving risk and asked to make choices – the options were systematically varied to omit information or emphasize gain or loss, while leaving the literal meaning the same.
U.S. intelligence agents — like the embattled Edward Snowden — are more prone to irrational inconsistencies in decision making when compared to college students and post-college adults, according to a new study. (…)
Fattori emotivi e cognitivi influenzano il modo in cui facciamo beneficenza. È necessario correggere queste distorsioni o donare è una questione personale?
Quando si parla di bias di conferma, può essere utile avere a mente quali segnali indicano che una persona ne è vittima, inavvertitamente o consapevolmente
La rassegna di Steenbergen e Colombo (2018) amplia la comprensione del modo in cui le euristiche influiscono nel processo decisionale in ambito politico
Studiando il caso Kennedy la mente tende a saltare alle conclusioni. Chi non penserebbe che negli eventi c’è qualcosa di anomalo? Ma perché lo pensiamo?
Parte della ricerca sul pensiero e sulla logica si è concentrata sull'uso dei sillogismi, problemi costituiti da due frasi come premesse e una conclusione
I bias sono procedimenti mentali intuitivi che strutturano la nostra percezione della realtà che permettono giungere rapidamente a delle conclusioni e agire
Alcune persone sono più propense a credere nei fenomeni paranormali rispetto ad altre, ma quali sono le credenze e i possibili bias cognitivi associati?
Le diverse reazioni in relazione alla campagna vaccinale contro il Covid-19, potrebbero essere connesse alla informazioni non sempre univoche e ai bias
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Facebook o non Facebook: questo è il disturbo!
Di Roberta Casadio, Maddalena De Matteis, Valentina Di Dodo, Valentina Retto
Coloro che non utilizzano Facebook come mezzo di comunicazione e condivisione, in contrapposizione a coloro che possiedono un account, sono più timidi e solitari, meno giovani e socialmente attivi, nonché meno inclini alla ricerca di forti sensazioni.
Fu inventato ben 9 anni fa, da Mark Zuckerberg e dai suoi colleghi del college a Cambridge, negli Stati Uniti. Nel giro di pochissimo tempo quasi tutti i programmi televisivi ne parlavano e le persone iniziarono a iscriversi in massa. Tutt’ora, si contano oltre 500 milioni di utenti iscritti nel mondo.
Ma cosa spinge una persona ad iscriversi a Facebook? È possibile, raggruppare le caratteristiche degli individui che utilizzano tale social network e di tutti quelli che, invece, preferiscono non iscriversi? Spingendoci oltre, è possibile tracciare un profilo psicologico e psicopatologico dell’utente di Facebook?
Articolo Consigliato: Facebook e l’ Invidia del Post – Psicologia & Emozioni
In uno studio condotto da Sheldon e colleghi (2012), emerge che coloro che non utilizzano Facebook come mezzo di comunicazione e condivisione, in contrapposizione a coloro che possiedono un account, sono più timidi e solitari, meno giovani e socialmente attivi, nonché meno inclini alla ricerca di forti sensazioni.
Facebook è uno strumento dinamico, in quanto permette alle persone che lo utilizzano di stringere nuove amicizie, rinsaldare vecchie conoscenze, esprimere se stessi e condividere le proprie esperienze. Inoltre, consente anche di tenersi aggiornati, sia per quanto riguarda le novità provenienti dal mondo, sia rispetto agli eventi interni alla comunità di appartenenza (ad esempio: gruppi, associazioni, università, ecc…). I Ricercatori sostengono che le suddette attività siano maggiormente desiderate e attuate da personalità più inclini al contatto sociale e alla ricerca di nuove esperienze ed emozioni.
Diversamente, Rosen e colleghi (2013) hanno evidenziato come l’uso di diverse tecnologie sia strettamente connesso con alcuni disturbi psichiatrici, come la mania, il disturbo narcisistico e istrionico di personalità.
Pertanto, se da una parte gli utenti di Facebook sono descritti come individui socievoli e meno soli, allo stesso tempo, l’utilizzo di tale social network può annoverarsi fra i fattori che caratterizzano le persone che soffrono di alcune patologie psichiatriche.
Gli utenti di Facebook, quindi, sono più o meno “sani” dei non-utenti? Al momento è difficile fare generalizzazioni sull’intera popolazione rispetto ai profili di personalità e al grado di disagio psicopatologico dell’utente e del non-utente. Se, da una parte, potrebbe essere vero che chi non è iscritto a Facebook sia eccessivamente timido e possieda dei tratti di asocialità, mostrando un minore interesse nello sviluppare relazioni sociali strette, dall’altra, chi lo usa molto potrebbe presentare dei tratti narcisistici ed istrionici, ed utilizzare questo portale come una sorta di vetrina dove esporre una studiata immagine di se stesso per ottenere attenzione e ammirazione.
Più semplicemente, si potrebbe ipotizzare che, spesso, dietro la mancanza di un account Facebook vi siano diverse motivazioni, legate, ad esempio, al voler difendere la propria privacy o alla paura di essere controllati, oppure al fatto che esso rappresenti un ostacolo per le relazioni “face-to-face”. Allo stesso tempo, chi possiede un account Facebook potrebbe connettersi principalmente per tenersi aggiornato riguardo gli eventi mondani o di cronaca, e ciò non avrebbe nulla a che fare con un utilizzo atto a colmare i bisogni di ricerca di attenzione o di ammirazione, “postando” sulla propria bacheca fotografie e commenti accattivanti.
In conclusione ciò che forse si rivela più pregnante sono le motivazioni, le ragioni e le aspettative che regolano il tipo di utilizzo del social network. Sarebbe opportuno, pertanto, individuare una nuova direzione di indagine, che possa cogliere gli aspetti più profondi che motivano la scelta di utilizzare o meno un mezzo comunicativo di massa.
Il libro di Lorenzini e Scarinci “Dal malessere al benessere” si occupa di quelle forme di malessere psicologico che non sono classificabili attraverso le tradizionali categorie diagnostiche ma che il paziente porta come motivazione ad intraprendere una terapia.
Nella prima parte del volume gli autori individuano cinque caratteristiche del funzionamento mentale – incremento della conoscenza del mondo a scopo previsionale, incremento della conoscenza di sé, capacità di utilizzare le risorse e il tempo, principio di efficacia personale, attivazione di schemi corporei-affettivi finalizzati alla conoscenza procedurale – che vengono ostacolate da processi di ragionamento il più delle volte inconsapevoli.
Alcuni esempi di tali procedure sono: il conflitto tra scelte alternative tese a raggiungere lo stesso scopo; la sovrastima delle possibilità di successo delle proprie azioni e le ripercussioni emotive derivanti dall’insuccesso; la fiducia nello sviluppo costante di ciò che si è acquisito e la conseguente sofferenza emotiva sperimentata nelle fasi di involuzione; l’incapacità di abbandonare scopi impossibili o inutili; la convinzione che l’impegno sia direttamente proporzionale ai risultati; l’incapacità di attribuirsi un intrinseco valore e un diritto a esistere; la tendenza a restringere il proprio campo d’azione ad un’unica attività o scopo, fallito il quale si genera la sofferenza; la certezza che il pensiero sia sufficiente a modificare il corso dell’esperienza; la tendenza a evitare esiti indesiderati piuttosto che a perseguire esiti gratificanti; la procrastinazione.
Scarinci e Lorenzini fanno notare che queste procedure disfunzionali causano un fallimento degli scopi cui segue il fallimento del meta-scopo di essere efficaci nel perseguire gli scopi, e il terzo passaggio è la tristezza provocata dalla percezione di non essere riusciti a costruire la propria felicità.
Articolo consigliato: Il colloquio in psicoterapia
La seconda parte del libro si pone un obiettivo audace, ossia quello di provare a definire in maniera oggettiva cosa si intenda per benessere psicologico, proponendo una corposa rassegna dei principali strumenti per misurarlo. Questo strizza un po’ l’occhio alla pretesa squisitamente moderna di poter in qualche modo quantificare tutto, anche stati d’animo che sfuggono alle definizioni come la felicità e il benessere. L’idea tuttavia non è del tutto nuova: in Bhutan, piccolo paese dell’Himalaya, è stato addirittura elaborato un complesso indicatore che misura non la ricchezza del paese, bensì la felicità dei suoi abitanti.
Felicità Interna Lorda al posto del Prodotto Interno Lordo, insomma. Certo, tra i criteri che vengono misurati c’è anche il benessere economico, non che in Bhutan si viva di solo spirito; ma sembra ormai assodato che il benessere globale della persona non possa coincidere soltanto con la ricchezza e con l’acquisizione di beni materiali. Aderendo a quest’ottica di felicità multifattoriale, gli autori propongono la versione definitiva della Scala di Valutazione del Benessere, composta da cinque scale principali tra cui compare, relativamente snobbata dagli altri strumenti, la dimensione della trascendenza.
In una riflessione che vuole essere laica è comprensibile che trovino poco spazio i riferimenti all’aldilà e alla vita eterna, che pur per tanto tempo hanno avuto (e hanno tuttora, per chi ci crede) un ruolo cruciale nel medicare gli animi affranti e nel favorire l’accettazione e una certa serenità rassegnata. Tuttavia all’incredulità sempre più diffusa che dopo la morte ci sia qualcos’altro corrisponde necessariamente un drastico spostamento di prospettiva, che colloca gli indicatori del benessere psicologico nel qui ed ora: essere consapevoli di se stessi, godere di buona salute, avere buone relazioni interpersonali, essere autonomi e con un buon controllo sul proprio ambiente, poter accedere ad una buona istruzione e avere uno scopo da raggiungere nella vita.
Con questi presupposti, poco importa se risorgeremo. Eppure, secondo gli autori, anche questa tendenza post-moderna a non concepire la trascendenza porta in sé un carico di angoscia e insoddisfazione, legate al senso di precarietà, di urgenza e di mancanza di senso che l’idea di una morte senza appello implica.
Nella terza parte viene descritto l’intervento per il benessere (IPB); citando gli autori, “la persona va guidata a una definizione di sé in termini di piano esistenziale che si articola in una serie di obiettivi all’interno di un quadro di riferimento delineato dalla ricerca di senso, di relazioni piene e armoniche, di un incremento di consapevolezza e accettazione di ciò che è realizzabile in una dimensione trascendente” (p. 156).
Funzione principale della terapia è dunque aiutare il paziente a definire scopi realistici, a non vincolare la percezione globale del proprio valore al raggiungimento di singoli scopi e ad utilizzare il tempo, la gradualità dell’esperienza, le proprie risorse finalmente liberate dall’urgenza di controllare e determinare il successo.
È’ quanto emerge dai risultati di una ricerca University of Liverpool secondo la quale intervenire sui tratti della personalità, come l’impulsività, potrebbe potenzialmente essere un intervento efficace nel prevenire l’abuso di alcol adolescenziale e lo sviluppo di problemi con l’alcol in età avanzata.
Precedenti ricerche hanno suggerito che il comportamento impulsivo è collegato con il bere in adolescenza, anche se non è chiaro il rapporto di causalità, cioè se i giovani più impulsivi tendono a bere di più, o se bere, in una fase in cui il cervello è ancora in via di sviluppo, è particolarmente dannoso e porta alla progressione di comportamenti impulsivi.
Il team ha utilizzato test computerizzati che hanno misurato il controllo inibitorio, la capacità di ritardare la gratificazione, e l’assunzione di rischi. Più di 280 giovani tra i 12 e i 13 anni hanno preso parte allo studio. I test sono stati ripetuti ogni sei mesi per due anni.
I risultati hanno mostrato che i partecipanti più impulsivi ai test hanno bevuto più pesantemente o hanno sviluppato problemi con l’alcol in un secondo momento. Tuttavia nei retest non emerge che il consumo di alcol abbia portato a un aumento del comportamento impulsivo. Questo suggerisce che ci sia un legame tra l’impulsività e il bere degli adolescenti, ma che l’alcol non necessariamente porta ad un aumento di comportamenti impulsivi nel breve termine.
Secondo i ricercatori questi risultati dovrebbero essere applicati a interventi di prevenzione che siano adeguati alle caratteristiche e ai tratti di personalità individuali, come l’impulsività.
Studi di follow-up a più di due anni aiuteranno anche a capire se il bere pesantemente sul lungo periodo durante l’adolescenza ha un impatto sul comportamento impulsivo.
Molte persone che tribolano propongono per loro stessi una diagnosi che è anche una ipotesi patogenetica naif che viene comunemente chiamata “Stress” descritto come “sentirsi assediato dagli impegni esterni e da troppi pensieri.
Per certi versi è la situazione opposta a quella descritta nella sofferenza da “portafoglio stretto”. Si tratta di soggetti che hanno molteplici scopi terminali e per ciascuno di essi numerosi scopi strumentali o strategie di perseguimento. Siamo di fronte dunque ad un sistema molto ricco di obiettivi ed elastico circa le strategie.
Tutto ciò è premessa di benessere e salute. Un tale sistema è ben protetto sia da fallimenti catastrofici per la diversificazione degli investimenti, sia da fallimenti parziali per la molteplicità di frecce presenti nella sua faretra (le strategie di cui dispone per ciascuno scopo).
Tali doti possono però trasformarsi in una debolezza e in una minaccia. L’altra faccia della medaglia, infatti, è la grande fatica cognitiva che un tale sistema deve compiere sul piano delle scelte interne soprattutto di timing. In che ordine perseguire gli scopi, quali strategie adottare e per quanto tempo prima di sostituirle. Naturalmente esistono una serie di criteri automatici per compiere queste scelte di attivazione e perseguimento di scopi. Sono criteri inerenti il gap tra lo stato attuale e quello desiderato, la raggiungibilità di quest’ultimo e le risorse necessarie per farlo ed altri più sofisticati criteri. Comunque si tratta pur sempre di scelte che implicano un lavoro cognitivo di continui raffronti. Scegliere è faticoso per il lavoro che comporta l’operazione e per il rischio di ritenersi responsabili di eventuali errori. Quando è possibile gli esseri umani tendono a non scegliere per evitare la possibilità di colpa (Motterlini 2008).
Se un sistema siffatto vuole evitare le scelte passa da una prospettiva diacronica ad una prospettiva sincronica ( da “una cosa per volta” a “tutto insieme”).
Ciò comporta un procedere contemporaneo e necessariamente rallentato verso tutti gli scopi utilizzando tutte le strategie a disposizione. L’intralcio che deriva dalle possibili conflittualità tra scopi e soprattutto tra strategie determina un affaticamento e una procrastinazione dei risultati.
Quest’ultima può essere interpretata come segnale dell’aumentare del divario tra stato attuale e stato desiderato incrementando l’importanza e l’urgenza degli scopi in questione. Tale duplice aumento può facilmente innescare un circolo vizioso all’insegna del “subito, di tutto di più” che invece era la radice stessa del malessere e dell’inefficienza del sistema. Certo il soggetto potrà almeno in un primo tempo descriversi come uno che non lascia nulla di intentato, “una gioiosa macchina da guerra”. Prima o poi, però, dovrà fare i conti con la mancanza di risultati oggettivi e con la penosa sensazione interna di affaticamento. Passando il tempo anche lo scopo interno relativo all’identità verrà frustrato perché se a grande affaticamento e dunque a grande impegno, si associa la scarsità di risultati non si possono che tirare conclusioni svalutative circa le proprie capacità.
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Questo tipo di problema è più evidente in alcune fasi dell’esistenza. Una cellula staminale è totipotente. Vale a dire che il suo futuro non ha limitazioni. Può specializzarsi trasformandosi in un qualsiasi tessuto dell’organismo. Ma ogni passo verso la specializzazione la priva della assoluta libertà originaria. Si tratta di un percorso a senso unico dal quale non si può tornare indietro. L’indifferenziato può differenziarsi, ma il differenziato non può tornare a indifferenziarsi. Un processo analogo avviene nello sviluppo della persona. Il bambino non è ancora nulla e può essere tutto. Poi via via che diviene ciò che vuole essere, perde la potenzialità di essere altro. Ogni scelta ha questo duplice aspetto. Da un lato è un volere, un movimento del prendere. Dall’altro è un rinunciare, un movimento del lasciare. Un’affermazione di sé e, contemporaneamente, una rinuncia all’onnipotenza. Esistono momenti, quali ad esempio l’adolescenza, in cui questa dinamica è maggiormente in primo piano. Si decide cosa si vuole essere e, al tempo stesso, cosa archiviare tra le possibilità perdute per sempre. Se questo lavoro di potatura non riesce la pianta avvizzisce sotto il peso di troppo numerosi ma miseri rami (il problema della frammentazione che qui trattiamo). Il motivo di un fallimento di tale vitale operazione potrebbe essere attribuito utilizzando i termini suggestivi quanto ambigui di certa psicologia a “una maggiore sensibilità e conseguente intollerabilità alle perdite” o a“ mancata rinuncia all’onnipotenza infantile”. Credo che nelle spiegazioni della psicopatologia in generale e delle tribolazioni sia sopravvalutato il ruolo dei processi intenzionali (Castelfranchi 1999) e parimenti sottovalutato quello del caso e soprattutto dell’errore e dei rinforzi ricorsivi che esso genera (Lorenzini, Scarinci 2010).
Sono molto diffuse tra pazienti e terapeuti spiegazioni dei fallimenti in termini di “volontà di danneggiarsi”, “tentativi masochistici di auto sabotaggio”.Queste spiegazioni sono tanto di moda quanto insensate. Introducono un principio contradditorio come se il soggetto avesse uno scopo del tipo “non raggiungere i propri scopi”. Se poi si va ad analizzare i modi concreti con cui il soggetto metterebbe in atto questi tentativi di auto danneggiamento ci si avvede di come siano, in realtà, condotte finalizzate al raggiungimento di altri scopi che sono semplicemente conflittuali con i primi. Dunque il problema è banalmente riducibile ad un conflitto tra scopi. In effetti la ipotetica furia masochistica si esprime normalmente con condotte quali bere, fumare, dedicarsi alla lussuria, gongolarsi nella pigrizia, rimandare gli impegni gravosi. Tutte attività che producono un immediato senso di godimento e piacere e sono dunque connessi al raggiungimento di scopi attivi. E’ molto più raro trovare comportamenti auto danneggianti certamente meno ambigui e più a buon mercato come prendersi a martellate sulle nocche delle mani. Le crociere nei mari del sud con il partner dei propri sogni che impediscono di completare il progetto cui si stava lavorando restano le modalità di auto danneggiamento preferite. Mi sembra che spesso si scambi l’effetto di un comportamento con l’intenzione che lo ha prodotto. Tra l’intenzione e l’effetto entrano invece in gioco due fattori importantissimi: il caso e l’errore. La maggior parte delle persone non fumano per farsi venire un cancro al polmone, ne bevono per danneggiarsi il fegato. Queste cose possono avvenire sia per caso, anche se ciò non ci piace pensarlo perché dà un serio colpo all’illusione di controllo (Dugas et al. 1997; 2001), sia perché non volendo abbiamo sbagliato esagerando.
Credo che nei problemi di frammentazione quello che sia disatteso sia proprio lo pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. In sostanza credo che il sistema semplicemente faccia male i conti circa le risorse e il tempo a disposizione e pensi di poter aver successo anche esponendosi su più fronti. Come possono evolvere le cose? Immaginiamo le due possibilità opposte con l’esempio della Germania del III° reich.
Fintantoché le cose vanno bene e i risultati si raggiungono la politica del “tutto e subito senza rinunciare a niente” viene premiata e si rinforza. Lo scopo interno sull’identità di “considerarsi un ottimo perseguitore dei propri scopi” palesemente soddisfatto produce ulteriore gioia. Si decide di invadere anche l’unione sovietica presupponendo che sia come la Polonia. Semplicemente per errore. Non si tiene conto che le fabbriche belliche sono al massimo della produzione, i riservisti sono sempre più giovani ed inesperti e la Russia enorme e fredda. Trattasi di errore e non di “cupio dissolvi”. I successi iniziali consentono di superare di slancio il possibile momento di difficoltà che sopraggiunge quando i risultati iniziano ad arrivare con maggiore ritardo o non completamente. Come a dire “ il fatto che la strada non sia più in discesa, se pure comporta un po’ di fatica, è la prova certa che sono un ottimo scalatore”, E’ il tempo degli eroi inutili, che si sacrificano quando il destino è già segnato. Quando poi iniziano le disfatte e i fronti arretrano scatta il paradosso fatale del voler salvare il salvabile o perlomeno l’onore. Ignorando il minuscolo dittatore berlinese, è quello che accade ai giocatori patologiciche si rovinano, ma con l’intenzione opposta di risollevarsi ed arricchirsi. Come si fa a ridurre i fronti nel momento in cui si sta perdendo? Proprio da quelli minori, prima rinunciabili, può venire il riscatto. Semmai sembra il momento di fare nuovi investimenti. Come si fa ad alzarsi dal tavolo verde certificando così una perdita consistente? Quello è il momento del rilancio decisivo, del tutto per tutto. E’ il tempo delle V2, dell’arma segreta e definitiva. Paradossalmente qui gli eroi non sono più inutili. Se pure non cambiano l’esito della guerra perlomeno salvano l’onore. La nave sta per per calare a picco ma il capitano ritto sul ponte mantiene una enorme stima di sé. Lo scopo interno sull’identità di “considerarsi un ottimo perseguitare dei propri scopi” è salvo, se non circa la competenza, perlomeno circa la caparbietà e la tenacia. Nel caso degli eventi storici non c’è in genere, per fortuna, una seconda volta ma nella vita degli uomini invece si.
La tendenza alla frammentazione, seppure causa di tribolazione o, come si dice comunemente, “stress”, non si estingue. In conclusione un ampio ventaglio di scopi ed un ancor più ampio patrimonio di strategie di perseguimento costituisce senza dubbio motivo di elasticità del sistema e consente di adattarsi alle mutevoli situazioni ambientali evitando fallimenti massicci. Tuttavia un sistema così strutturato deve esercitare costantemente la faticosa capacità di scegliere per non disattendere lo pseudo-scopo “dell’ ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”e subire una paralisi sincronica da frammentazione.
MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze
Nell’ambito delle problematiche legate alle tossicodipendenze, un approccio che ha dato prove di efficacia è il MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention (Bowen, Chawla & Marlatt, 2010) sviluppato nel Centro di Ricerca Addictive Behaviour dell’Università di Washington.
Simile al Mindfulness-Based Cognitive Therapy per la depressione (MBCT) per alcuni aspetti centrali, il MBRP è concepito come un programma di integrazione delle pratiche di mindfulness con i principi della terapia cognitivo-comportamentale applicati alle dipendenze.
Le pratiche di cui è composto il programma MBRP hanno lo scopo di promuovere e favorire maggiore consapevolezza dei trigger legati all’uso di sostanze, agli schemi abituali implicati nei comportamenti di dipendenza e delle reazioni “da pilota automatico” che portano a mettere in atto comportamenti disfunzionali di uso e abuso. Le pratiche di mindfulness previste del MBRP sono progettate per promuovere l’osservazione dell’esperienza presente e portare consapevolezza rispetto alla gamma di scelte che ognuno può mettere in atto.
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Il lavoro con la mindfulness è volto, quindi, ad aumentare la possibilità dell’individuo di rispondere agli impulsi attraverso comportamenti “utili” e adeguati e a non re-agire con modalità dannose per la salute e per il benessere psicologico.
1. Sviluppare la consapevolezza dei trigger personali e delle re-azioni abituali in modo da individuare quando si agisce con il “pilota automatico” e imparare a creare un “tempo di consapevolezza”, una pausa tra questi processi percepiti come automatici;
2. Modificare il rapporto con la sofferenza, riconoscendo e gestendo in modo funzionale e utile le esperienze emotive difficili;
3. Promuovere una modalità basata sulla compassione e sulla sospensione del giudizio verso la propria esperienza.
Tra le pratiche più interessanti utilizzate nel MBRP credo sia importante ricordare il SOBER, di cui abbiamo brevemente parlato su State of Mind.
La pratica SOBER permette ai partecipanti di riconoscere nella quotidianità un momento difficile emotivamente. Ad esempio, situazioni relazionali difficili, in cui si è abituati a re-agire in modo impulsivo, situazioni di ansia, tristezza, rabbia o altre emozioni percepite come difficili da gestire.
In breve, nella pratica del SOBER si consegna al partecipante una scheda che lo guiderà nella pratica quotidiana.
La pratica del SOBER, molto felice se letta nell’acronimo inglese (sober=sobrio), consiste nella messa in pratica dei seguenti passaggi:
S (stop) – Stop – Prenditi qualche istante per interrompere il pilota automatico e per riconoscere che ti trovi in una situazione per te difficile.
O (observe) – Osserva – Osserva e nota cosa sta avvenendo nel tuo momento presente, descrivi le sensazioni del corpo, le emozioni e i pensieri che la tua mente fa in questo momento presente.
B (breath)- Il Respiro – Scegli e porta in modo deciso e gentile tutta la tua consapevolezza sul respiro, semplicemente notando il tuo respiro.
E (expand) – Espandi la consapevolezza – Espandi la consapevolezza a tutto il corpo, nota il tuo corpo che respira. Allarga ancora la tua consapevolezza all’ambiente in cui ti trovi e alle sensazioni del momento presente.
R (respond) – Rispondi – Scegli quale risposta dare in questo momento presente, che sia utile per te e non dannosa (considera anche il “non-agire” come risposta).
La pratica, che viene di frequente provata dai partecipanti e letta come “quella più utile”, può essere estesa anche a ambiti diversi dal campo delle dipendenze. Potrebbe essere uno strumento utile da utilizzare anche in setting individuali (o di gruppo) quando ci si trova di fronte a persone che riportano difficoltà legate alla gestione dell’impulsività e della reattività.
Il consumo di cannabis a lungo termine porterebbe a una riduzione della dopamina, una sostanza presente nel nostro cervello e fortemente coinvolta, tra le altre cose, nell’insorgenza e nel mantenimento di psicosi.
Uno studio da poco pubblicato su Biological Psychiatry ha scoperto che i livelli di dopamina nella regione cerebrale dello striato erano inferiori nei consumatori a lungo termine di cannabis rispetto a coloro che non utilizzavano la sostanza.
I ricercatori hanno utilizzato una tecnica di imaging cerebrale (PET) per misurare la produzione della dopamina nello striato in 19 consumatori abituali di cannabis che avevano esperito sintomi simil-psicotici durante l’uso e 19 soggetti di controllo.
L’ipotesi di ricerca iniziale era che nel gruppo dei consumatori abituali di cannabis vi fossero maggiori livelli di dopamina, dal momento che: 1) precedenti ricerche hanno dimostrato che i consumatori di cannabis presentano un rischio maggiore di sviluppare episodi psicotici o psicosi; 2) la psicosi implica a livello neurobiologico alterazioni a carico del sistema dopaminergico.
Sebbene ipotizzato, nessuno studio però ha ancora dimostrato che il legame tra l’uso di cannabis e il maggior rischio di episodi psicotici o psicosi sia mediato da una disfunzione dopaminergica. In realtà i dati dello studio hanno dimostrato il contrario, ovvero la presenza di bassi livelli di dopamina a carico dello striato nei consumatori di cannabis con esperienza di sintomi simil-psicotici.
Il calo della dopamina a carico dello striato nei forti consumatori di cannabis potrebbe anche contribuire a spiegare la “sindrome di demotivazione” (ancora in discussione se possa effettivamente essere definita una sindrome) che è stata descritta a seguito di un prolungato uso di cannabis. Un altro dato interessante è che altri studi hanno evidenziato che in ex consumatori di cannabis vi sarebbero livelli adeguati di dopamina, il che suggerisce che il fenomeno di deficit dopaminergico osservato in questo studio sarebbe reversibile.
“Welcome to the AEI to the Friday Night Live”. Windy Dryden dà il benvenuto e invita potenziali pazienti a presentarsi sul palco “for free, in UK you would pay much more dollars to have it”.
Inizia Samuel, ha un figlio di 4 mesi e sta cercando di adeguarsi ai cambiamenti della vita di coppia a seguito dell’arrivo del piccolo: la moglie è focalizzata sul bimbo e…. “The sex is not the same like before“…insomma la vita sessuale della coppia è cambiata…lei allatta, il bimbo si sveglia più volte durante la notte, lei è stanca, lui è frustrato perché non è più la stessa cosa.
Windy incede con il secondario- o in gergo REBT newyorkese meta-emotivo: “E in questo caso come te la cavi con la frustrazione?”; niente di che dal punto di vista metaemotivo. Ritorniamo dunque su quel che pensa Samuel che racconta di non sentirsi soddisfatto tanto quanto potrebbe… emerge una credenza, chi fa sesso ha più fiducia in sé stesso…Dryden approfondisce possibili doverizzazioni e credenze irrazionali assolute e rigide alla base di questi pensieri, ma di nuovo nulla di che.
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Senza troppe precauzioni Dryden non patologizza e rimanda al concetto di practical problem, in cui a fronte di una situazione nasce un’emozione negativa funzionale e sana. A questo punto apre al pubblico che sbraga su un problem-solving selvaggio con possibili soluzioni pratiche, dalla baby sitter, alla masturbazione, alla programmazione temporale degli incontri sessuali (povera ragazza e povero ragazzo!). Si chiude così la prima consultazione live “Sembra che tu accetti le cose ma senza che ti piacciono…that what it is!”.
Senza neanche un minuto di esitamento sale sul palco Katy: risata di imbarazzo (anche con un volume della voce decisamente alto!) e ci racconta dell’ansia per la sicurezza dei suoi figli, con tendenze controllanti a livello comportamentale. Dryden indaga la doverizzazione, chiaramente qualcosa tipo “Devo essere sicura che non accadrà nulla di male a loro”, la derivata terribilizzazione, l’intolleranza dell’incertezza e il valore personale.
Non si avventura nel metaemotivo, c’è già trippa per gatti, mentre preferisce disputare (dall’empirico al pragmatico) l’intolleranza dell’incertezza e il valore personale della nostra mamma americana iperprotettiva. Prescrizioni comportamentali di esposizione al rischio a maggior ragione quando ammette con una certa quota di imbarazzo che papà è là fuori che la aspetta in auto per riaccompagnarla a casa.
Ed ecco un giovane ragazzo di colore dall’aspetto (neanche male) misterioso, il tema è assolutamente interessante e degno d’interesse clinico. Il punto è che non posso scriverne. Al termine della sessione si avvicina e mi chiede se con il mio computer stavo postando su Facebook quel che stava accadendo. Grazie a lui, la cronaca del Friday Night Live si chiude con un po’ di mistero e -per far contenti gli ellissiani -di tolleranza che non tutto ciò cui si assiste si può riportare, e che va bene anche così.