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Peer Pressure Starts in Childhood, Not with Teens

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

La pressione del gruppo dei pari (o coetanei) sembra influenzare i bambini in una fase molto precendente a quello che i ricercatori hanno creduto fino a questo momento. La ricerca è condotta dall’Università del Maryland ed è stata pubblicata sulla rivista Child Development e l’abstract è consultabile qui.

“This is not just an adolescent issue,” says University of Maryland developmental psychologist Melanie Killen, the study’s lead researcher. “Peer group pressure begins in elementary schools, as early as age nine. It’s what kids actually encounter there on any given day.”

Peer Pressure Starts in Childhood, Not with TeensConsigliato dalla Redazione

Peer group influences affect children much earlier than researchers have suspected, finds a new University of Maryland-led study. (…)

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Dualismo mente/corpo: la cura dell’attivitá fisica ha benefici sulla prestanza mentale.

di Andrea Ferrari

 

Dualismo mente/corpo: la cura dell’attivitá fisica ha benefici sulla prestanza mentale. - Immagine©-Alexander-Raths-Fotolia.comQuattro secoli dopo Cartesio, il legame mente e corpo appare sempre più inscindibile. Nella società odierna il progressivo miglioramento delle condizioni di vita ha portato all’invecchiamento della popolazione, con un conseguente incremento della popolazione affetta da demenza e decadimento cognitivo.

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Al momento non paiono esserci rimedi efficaci per queste condizioni, ragion per cui molte ricerche sono orientate all’individuazione di fattori in grado di prevenirne l’insorgenza.

Un buon consiglio per la popolazione anziana è sicuramente quello di mantenere la mente attiva (Stern, 2006), per cui potete continuare a sfidare la Pagina della Sfinge e a immergervi nella lettura di un buon libro. Ma non trascurate l’attivitá fisica, perché secondo un recente articolo apparso sul Journal of Aging Research (Nagamatsu et al., 2013) mantenersi in allenamento puó migliorare le prestazioni mnemoniche e la prestanza cognitiva, anche se differenti tipi di esercizio sembrano avere effetti differenti a livello cerebrale.

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Questo gruppo di ricerca dell’Università della Columbia Britannica ha reclutato dodici donne, di età compresa tra i 70 e gli 80 anni, tutte affette da decadimento cognitivo lieve (mild cognitive impairment), una condizione in cui le prestazioni cognitive risultano inferiori rispetto a quanto sarebbe previsto per la data classe di età. Inoltre, il decadimento cognitivo lieve è un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza.

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Malattia dei Corpi di Lewy - Parte 2. - Immagine: © Gina Sanders. Fotolia.com
Articolo consigliato: la Malattia dei Corpi di Lewy – Parte 2

I ricercatori hanno suddiviso il campione in tre gruppi, i quali hanno svolto per sei mesi degli esercizi di fitness sotto la supervisione di un allenatore. Un gruppo di donne ha fatto esercizi di sollevamento pesi per due volte alla settimana; un altro gruppo ha fatto delle passeggiate; l’ultimo gruppo, di controllo, ha svolto soltanto esercizi di stretching e tonificazione muscolare.

Per la valutazione degli effetti del trattamento, alle donne sono stati somministrati alcuni test di misurazione della memoria verbale e spaziale, in due fasi: prima di cominciare i 6 mesi di allenamento e alla loro conclusione.

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La memoria verbale rappresenta l’abilità di ricordarsi le parole, mentre la memoria spaziale consiste nel ricordo di dove gli oggetti sono localizzati. Entrambe deteriorano con l’età, ma nelle persone affette da decadimento cognitivo lieve il deterioramento è esacerbato.

Nello studio, trascorsi i sei mesi, le donne assegnate al gruppo di controllo hanno ottenuto punteggi inferiori nel post-test: il loro decadimento cognitivo era cresciuto.

 Al contrario, le donne che hanno svolto esercizi hanno ottenuto prestazioni migliori in tutti i test di memoria, ma con alcune differenze significative: mentre entrambi i gruppi (sollevamento pesi vs passeggiate) hanno ottenuto punteggi pressoché equivalenti nei test di memoria spaziale, le donne che hanno passeggiato hanno ottenuto miglioramenti più consistenti nella memoria verbale.

Secondo l’opinione degli Autori, questi risultati suggeriscono che differenti tipi di allenamento fisico hanno ricadute specifiche sulla fisiologia cerebrale e causerebbero miglioramenti in diversi tipi di memoria.

Concludendo, possiamo mandare un appello ai nostri anziani: curate la mente, ma non dimenticatevi del corpo!

 

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DEMENZA – ATTIVITA’ FISICA –  MEMORIA –  TERZA ETA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

In Treatment Americano: una visione d’Insieme

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In Treatment americano - una visione d'insiemeDopo aver pubblicato una visione d’insieme sulla versione italiana di “In Treatment”, torno alla versione americana con un articolo conclusivo. È arrivato il momento di dire una parola conclusiva anche sulla versione americana e sull’intera serie in generale.

L’idea di costruire un telefilm sulla psicoterapia era una scommessa rischiosa. La psicoterapia reale non è particolarmente drammatica. Esiste il modello di Safran e Muran (1996, 2000a, 2000b) importato in Italia da Colli e Lingiardi (2009) che parla di “rotture e riparazioni”. Per fortuna nella terapia le rotture e le riparazioni sono separate da significativi intervalli di tempo. In una terapia studiata da Colli e Lingiardi si segnala una rottura alla seduta 5 e un’altra alla seduta 18. Tra queste due rotture tredici sedute di pura noia, almeno dal punto di vista drammatico.

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In treatment Italiano: una Visione d’Insieme
Articolo Consigliato: In treatment Italiano: una Visione d’Insieme

 

Non così in “In Treatment”, in cui c’è una rottura quasi a ogni seduta, ovvero a ogni seduta. Un ottovolante terapeutico, alla fine del quale Paul Weston è comprensibilmente esausto. Ma queste sono le ragioni della drammaturgia. Esistono anche le ragioni del realismo, alla quale “In Treatment” obbedisce, per quanto è possibile.

 

Come ho già scritto recensendo varie puntate, “In Treatment” gioca molto sulla contrapposizione tra un modo di fare terapia distaccato e, per così dire, antico e un modo più moderno, emotivo e relazionale. Il modo antico dà importanza alla consapevolezza auto-controllata e razionale degli atti mentali del pensiero cosciente, quello moderno e relazionale all’emotività e affettività delle situazioni interpersonali. Tutto questo non è solo teoria, ma si riflette nei personaggi.

 

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Gina, la supervisora di Paul, appare distaccata e razionale mentre Paul è sempre invischiato nelle relazioni, nel bene e nel male. La differenza di metodo diventa nella serie televisiva scontro personale; per questo Gina rimprovera a Paul di avere scelto un modo di fare psicoterapia pericoloso, di eccessivo coinvolgimento con i pazienti e di rottura delle distanze e dei confini. Paul a sua volta rimprovera a Gina freddezza, carenza di umanità e di contatto.

 

La serie continuerà a suonare questo motivo per tre stagioni in tutto.

 

 Il messaggio finale è abbastanza inquietante. Alla fine Paul sembrerà sempre più invischiato nella sofferenza dei suoi pazienti e incapace di costruire una vita vera al di fuori della terapia. Non aggiungo altro sulla trama per non rovinare il godimento drammatico a chi ha intenzione di seguire l’intera serie.

 

 

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IN TERAPIA – IL COLLOQUIO PSICOLOGICO

 

 

BIBLIOGRAFIA

La cura del profilo di Facebook: sentirsi meglio ma con un calo delle performance

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Che cosa accade a chi almeno quotidianamente si gingilla attorno alla propria pagina personale di Facebook? Si avrebbe un repentino ma non duraturo incremento dell’autostima non supportato tra l’altro da un coerente miglioramento delle performance.

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Una nuova ricerca condotta presso l’ Università del Wisconsin ha voluto indagare gli effetti di questo fenomeno di esposizione alla propria pagina di auto-presentazione su facebook su due outcome psicologici: l’autostima e le performance in compiti cognitivi.

L' Invidia del post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com_1
Articolo consigliato: L’invidia del post.

All’interno di un disegno sperimentale, i soggetti sono stati randomicamente assegnati a due condizioni: nella prima avevano la consegna di trascorrere del tempo gurdando il proprio profilo personale del social network mentre nell’altra condizione i soggetti dovevano guardare la pagina personale di uno sconosciuto.

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In seguito, è stata misurata l’autostima utilizzando lo strumento Implicit Association Test (IAT); i soggetti sono poi stati sottoposti a un compito cognitivo di sottrazione seriale.

I risultati dimostrano che anche una breve esposizione al proprio profilo di facebook determina un incremento dell’autostima ma ostacola –come emerso da analisi mediazionali- la successiva prestazione in un task cognitivo.

 Se dunque i soggetti che si sentono meglio in termini di autostima  ottengono prestazioni peggiori rispetto a coloro che hanno una percezione di minore autostima allora le logiche sottostanti l’autoaffermazione non andrebbero nella direzione della massimizzazione: in un bilancio sforzo-benefici le persone puntano a manterenere un ragionevole livello di autostima piuttosto che a sfruttare ogni opportunità per incrementarlo.

C’è da dire che riguardo alla tendenza di aggiornare e arricchire il proprio profilo da una survey condotta di questi tempi dal Pew Research Center è emerso che gli utenti più giovani di Facebook sarebbero molto più guardinghi nella pubblicazione di foto o informazioni che possano compromettere a breve o a lungo termine la loro vita sociale o lavorativa.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Il Lutto: accettare la perdita

 

Il Lutto: accettare la perdita. - Immagine:© Artem Furman - Fotolia.com È necessario aiutare la persona a togliere alla perdita la connotazione di “evento modificabile”, accettando l’irrimediabilità dell’accaduto e percorrendo un cammino che porta alla riorganizzazione di sé e della propria esistenza su nuove basi.

Di cosa parliamo quando parliamo di lutto? La parola lutto indica il dolore dovuto alla morte di una persona cara. Parkes (1980) afferma che il dolore del lutto è naturale come gioia dell’amore: la sofferenza determinata dal distacco nasce dall’intensità del legame che sentiamo verso la persona che abbiamo perso.

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Il dolore del lutto si differenzia da quello dovuto ad altre perdite per intensità e la definitività della perdita, alla quale non è possibile rimediare (Pangrazzi, 1991); lutto comporta, quindi, la necessità di accettare una perdita. L’accettazione è un processo che, per definizione, implica la tendenza al rifiuto, intendendo con rifiuto il desiderio del soggetto di credere che  la perdita non  si sia verificata (Perdighe, Mancini, 2010).

Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione. - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione.

Il vissuto di lutto non rappresenta, di per sé, un fenomeno patologico e non implica sempre il ricorso ad un intervento psicoterapeutico; detto questo, si tratta comunque un processo impegnativo, non facile da vivere, a prescindere dagli eventi che hanno determinato la perdita.

È possibile che la persona che ha subito un lutto rimuova il dolore legato alla perdita, congelando l’elaborazione del lutto, o che compaia una sintomatologia depressiva come una delle complicazioni più frequenti (Pangrazzi, 1991); può, semplicemente, nascere uno stato di sofferenza non inquadrabile in uno specifico quadro diagnostico.

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Si effettua una valutazione caso per caso, tenendo conto del contesto di appartenenza della persona e dei fattori culturali; si pone l’accento su elementi chiave come la durata e la persistenza della sofferenza, la mancata ripresa delle attività quotidiane dopo che è trascorsa una “certa” quantità di tempo dalla perdita, la presenza forti emozioni di colpa o di rabbia, la riduzione della vita di relazione (Perdighe, Mancini, 2010).

Il processo di elaborazione del lutto viene, solitamente, suddiviso in quattro fasi. Non si tratta di una suddivisione rigida e le caratteristiche di una fase possono, di frequente, ripresentarsi anche nelle fasi successive.

Nella prima fase il soggetto manifesta uno stato di calma apparente determinata dalla negazione della realtà e dalla soppressione delle emozioni; questo stato può avere fine solo quando la persona che ha subito la perdita si sente in una situazione abbastanza sicura da potersi lasciare andare emotivamente (Parkes, 1980).

Nella seconda fase si sperimentano tendenza alla ricerca e, in seguito, rabbia: ricerca fisica dell’oggetto perduto (il soggetto spera che la persona amata e perduta ritorni) e ricerca psicologica (si rimuginano in modo ossessivo gli eventi che hanno condotto al distacco).

Si verifica spesso che si speri di poter ritrovare chi si è perso, agendo come se la perdita non fosse mai avvenuta; si tratta di una dinamica finalizzata a negare la realtà, troppo dolorosa da accettare. Durante questa fase può comparire anche un’ideazione suicidaria determinata dalla fantasia di operare un ricongiungimento con la persona morta (Kast, 1996).

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In un secondo momento, quando comincia a farsi strada la consapevolezza dell’inevitabilità del distacco, subentra la collera per l’abbandono subito; la rabbia è fondamentale per la ristrutturazione interna della persona che ha subito la perdita.

La terza fase comporta disorganizzazione: la perdita sottrae, insieme alla persona amata, il legame affettivo cui la persona abbandonata farebbe riferimento in un momento di bisogno. È proprio tale paradosso (per accettare la perdita avrei bisogno del conforto della persona che ho perduto) a provocare lo stato di disorganizzazione, per cui il soggetto si sente svuotato, senza più confini sicuri (Parkes, 1980).

L’ultima fase è caratterizzata  da una scarica emotiva catartica, aspetto essenziale di un lutto nella misura in cui  diminuisce la possibilità che il soggetto utilizzi manovre difensive. In questo senso,  arrivare all’accettazione significa prendere atto di qualcosa che non si può modificare, che non si può far altro che accettare.

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Articolo Consigliato: Fare ACT – Acceptance and Commitment Therapy

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Le complicazioni del processo di accettazione nascono soprattutto dal trattare la perdita come una questione ancora aperta, suscettibile di cambiamento; alcuni fattori che  possono ostacolare l’accettazione e, di conseguenza, l’elaborazione del lutto sono (Perdighe, Mancini, 2010):

a) gravità: tanto più la perdita  è significativa tanto più compromette la realizzazione di obiettivi esistenziali  fondamentali per l’individuo;

b) mancanza di sostegno sociale; non avere una rete di aiuto significa non avere persone che possano fornire supporto e sostituirsi, almeno parzialmente, alla persona perduta;

c) indisponibilità degli altri significativi a parlare della perdita;

d) atteggiamenti di censura della manifestazione della sofferenza;

e) aspettative interpersonali e sociali su quelle che dovrebbero essere le reazioni e i comportamenti normali da adottare; un esempio sono gli incitamenti a reagire e a riprendere la vita normale, mettendo in atto una “fuga nell’operosità”(Kast, 1996).

La manifestazione più frequente della tendenza ad eludere la perdita è il pensare in modo continuativo all’accaduto cercando di “trovare una soluzione”; in questo modo si tenta di evitare o posticipare la presa di consapevolezza della non eludibilità della perdita, nell’illusione che esista un’alternativa alla realtà (Perdighe, Mancini, 2010).

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È necessario, quindi, aiutare la persona a togliere alla perdita la connotazione di “evento modificabile”, accettando l’irrimediabilità dell’accaduto e percorrendo un cammino che porta alla riorganizzazione di sé e della propria esistenza su nuove basi.

LEGGI: 

ACCETTAZIONE DEL LUTTO – DEPRESSIONE –  SUICIDIO – ACCETTAZIONE

BIBLIOGRAFIA:

Cyber Bullismo…L’umiliazione è Totale!

Di Elena Tugnoli 

 

Cyberbullismo...L’umiliazione è Totale! . - Immagine: © NLshop - Fotolia.com Se inizialmente, quando i bulli non erano nella rete, le conseguenze erano si gravi ma contenute con  cambi di comportamento/personalità e con grandi sofferenze psicologiche, oggi essendoci un pubblico più ampio l’umiliazione è totale.

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In questi giorni il caso di Carolina, quattordicenne che ha deciso di togliersi la vita dopo che per mesi è stata oggetto di insulti in rete a causa della pubblicazione di un video di un violenza subita  da un gruppo di amici dell’ex fidanzato, è su tutti i giornali. Al centro dell’accusa c’è anche la rete. 

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Ma cos’è il Cyber Bullismo?

Bullismo virtuale. - Immagine: © gcpics - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Bullismo virtuale (o cyber-bullismo): una violenza inaspettata.

Le ricerche attuali sottolineano come il cyber bullismo sia non il nuovo bullismo ma una sua appendice. I ruoli non cambiano, il comportamento derisorio o violento non è più indulgente su internet dove il pubblico è maggiore. I rischi delle vittime e anche dei bulli sono gli stessi, i dati delle ricerche riportano che permane, come conseguenza di questa esperienza, l’abbassamento dell’autostima fino al rischio di cadere in episodi depressevi.

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In un altro studio i dati mostrano come si possa arrivare anche alla messa in atto di comportamenti suicidari, questo sia per la vittima che per il bullo, sia online che nel mondo reale.(1-2)

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Si riscontra inoltre come i cyber bulli non si distinguano dai bulli classici: l’abuso di sostanze, gli atteggiamenti violenti e comportamenti sessuali a rischio sono in egual misura presenti in entrambi.(3)

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Le conseguenze delle cyber vittime sono le stesse delle vittime di atteggiamenti derisori classici. Queste risultano quindi amplificate in quanto i rischi di depressione e suicidi o tentati suicidi è maggiore.

Se inizialmente, quando i bulli non erano nella rete, le conseguenze erano si gravi ma contenute con  cambi di comportamento/personalità e con grandi sofferenze psicologiche, oggi essendoci un pubblico più ampio l’umiliazione è totale.

E pubblica dal momento che i social network attuali non mettono  in atto quelle norme di tutela e sicurezza che promettevano.

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Questa totale umiliazione forse è responsabile dell’aumento di suicidi o dell’aumento della sofferenza adolescenziale? Se prima si poteva cambiare scuola per sfuggire/proteggersi da una situazione di sopruso ora cosa si può fare?

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L’altro aspetto inquietante del cyber bullismo è che spesso non conosci il nemico. L’anonimato di internet permette di nascondersi e di non farsi riconoscere. Se prima sapevi chi evitare ora no.

LEGGI: 

BULLISMO –  VIOLENZA – SUICIDIO – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – SOCIAL NETWORK –  ADOLESCENTI

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Stress: Che cosa lo Provoca?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone possono provare stress lungo tutta la vita, dalla nascita fino alla morte. La vita offre un gran numero di eventi stressanti, che possono essere visti in modo oggettivo e soggettivo. Il termine di stress si e’ trasformato nel corso del tempo e dal linguaggio psicologico ha iniziato ad essere usato nel quotidiano.

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Sindrome da Affaticamento Cronico. Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sindrome da Affaticamento Cronico

Si nota, ad esempio, che viene abusato dai media, portando a volte a distorsioni nella definizione. Il termine stress come fattore che causa disagio è stato introdotto da Selye (1960). La divisione del criterio di stressor soggettivo e oggettivo permette di identificare eventi potenzialmente molto negativi non esperiti come tali e fattori di stress con conseguenze potenzialmente a basso rischio percepiti come molto minacciosi, provocando un grande caos nel corpo (Shwartz, 2001).

L’esperienza di situazioni di stress unita alla mancanza di sicurezza nell’ambiente, la mancanza di adeguate risorse e di supporto di persone importanti possono portare gravi deficit nel funzionamento sociale, oltre che disturbi emotivi e, come è già stato detto,  problemi nel far fronte alle situazioni stressanti della vita quotidiana.

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Lo stress intrapsichico si incontra svolgendo le attività quotidiane, sottolineando l’importanza dell’esperienza personale ed il suo impatto sulla sopravvivenza dell’uomo (Carnegie, 2001). Quindi vi sarebbe una correlazione con il passato, l’acquisizione di esperienza che può aiutare nella gestione delle situazioni nel futuro.

Per i giovani di 20 anni o poco meno lo stress è fortemente associato con la vita sociale (Hobfoll, 2006). Il numero di potenziali fattori di stress e il loro impatto sulla qualità della vita hanno motivato dei ricercatori ​​ad entrare nel campo della scienza con lo scopo di ridurre al minimo gli effetti negativi dello stress e migliorare la qualità della vita.

Recenti ricerche mostrano che lo stress non solo agisce negativamente sul livello di benessere percepito, ma addirittura potrebbe far emergere problematiche depressive (Compas, Connor-Smith, Jaser, 2004). In questo caso si potrebbe lavorare sulle strategie di coping in modo da indagare come emozioni e pensieri interferiscono con le attività della persona. Fronteggiare eventi stressanti richiede un equilibrio fra esigenze personali e capacità di gestire la situazione, attraverso il miglioramento dello stato emotivo (Compas, Connor-Smith, Jaser, 2004; Hobfoll, 2006).

LEGGI:

STRESS – PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo Resistente con Depressione Secondaria

Di Davide Coradeschi e Andrea Pozza

 

Il ruolo delle credenze disfunzionali nel

disturbo ossessivo-compulsivo resistente con

depressione secondaria:

Uno Studio Trasversale

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo resistente con Depressione Secondaria. - Immagine: © freshidea - Fotolia.com L’Intolleranza dell’incertezza potrebbe essere un fattore in grado di spiegare l’insuccesso terapeutico per le forme di OCD associate ad una sintomatologia depressiva estremamente invalidante.

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Nel disturbo ossessivo-compulsivo la presenza di grave sintomatologia depressiva, data da un punteggio maggiore di 30 al BDI-II, può predire una scarsa risposta al trattamento con esposizione e prevenzione della risposta (Abramowitz et al., 2000).

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L’identificazione di variabili in grado di differenziare i pazienti con grave depressione secondaria da quelli che non presentano tale sintomatologia potrebbe consentire di elaborare protocolli multicomponenziali che siano efficaci anche per i pazienti con OCD resistente.

Questa forma di OCD, caratterizzata da una serie di precedenti insuccessi terapeutici con i trattamenti evidence-based, risulta frequentemente contraddistinta sia da gravi sintomi depressivi secondari che da un’esacerbazione delle manifestazioni OCD stesse. A causa degli effetti invalidanti del OCD sul funzionamento quotidiano, molti pazienti riportano valori estremamente elevati al BDI-II, pur non soddisfacendo i criteri per una diagnosi conclamata di disturbo depressivo maggiore.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo- “lo stato dell’arte”. - Immagine: © M.studio - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il Disturbo Ossessivo Compulsivo- “lo stato dell’arte”.

L’obiettivo del presente studio è stato quello di indagare se vi fossero differenze nella gravità delle credenze ossessive in relazione alla presenza di grave depressione secondaria in un gruppo di 46 pazienti con OCD resistente. 

Sono stati inclusi 46 pazienti (età media= 35.40, DS= 10.75) con diagnosi primaria di disturbo ossessivo-compulsivo resistente. I pazienti erano stati indirizzati per intraprendere un percorso psicoterapeutico e farmacologico di tipo residenziale.

I pazienti hanno completato la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale, il Beck Depression Inventory-II e l’Obsessive Belief Questionnaire-87.

All’interno del campione sono stati individuati due sottogruppi, un gruppo con ed uno senza grave sintomatologia depressiva. I due gruppi sono stati formati sulla base dei punteggi al BDI-II, superiori o meno a 30, in linea con i criteri di classificazione dei sintomi depressivi di Beck e colleghi (Beck, Steer e Brown, 1996). Nel campione dello studio presentato il 37% (N= 17) era rappresentato da pazienti con grave depressione secondaria.

I risultati delle analisi hanno evidenziato che i pazienti OCD gravemente depressi tendono a presentare una sintomatologia di tipo ossessivo-compulsivo maggiormente invalidante rispetto ai meno depressi o non-depressi.

Questo risultato sembra confermare, almeno in parte, l’ipotesi secondo cui una maggiore gravità della sintomatologia OCD potrebbe predisporre allo sviluppo di sintomi depressivi, che, conseguentemente, tendono ad esacerbare la sintomatologia ossessivo-compulsiva stessa (Besiroglu et al., 2007). I risultati hanno  inoltre evidenziato che i pazienti con gravi sintomi depressivi tendono ad avere una maggiore intolleranza per l’incertezza rispetto ai pazienti OCD meno depressi o non depressi.

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Nel OCD l’Intolleranza dell’incertezza potrebbe essere un fattore di vulnerabilità rispetto allo sviluppo di un quadro depressivo secondario estremamente invalidante. L’intolleranza dell’incertezza può agire come fattore di mantenimento in varie forme di disagio psicologico in quanto tende ad essere associata ad una scarso orientamento verso il problema nelle situazioni quotidiane (Talli et al., 1991).

In uno studio longitudinale su pazienti con disturbo d’ansia generalizzata Miranda e colleghi (2008) hanno osservato che, a causa dell’impossibilità quotidiana di escludere anche la minima probabilità di eventi futuri indesiderati, l’Intolleranza dell’incertezza può tradursi in una sempre più forte certezza che tali esiti negativi si verifichino in futuro. Questa certezza risulterebbe successivamente nello sviluppo di una condizione di hopelessness, caratteristica della sintomatologia depressiva.

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Il presente studio sembra offrire preliminari indicazioni per ricerche future ai fini dell’elaborazione di strategie di trattamento specifiche per i pazienti OCD con depressione secondaria. L’Intolleranza dell’incertezza potrebbe essere un fattore in grado di spiegare l’insuccesso terapeutico per le forme di OCD associate ad una sintomatologia depressiva estremamente invalidante. Studi futuri dovranno indagare se questo dominio cognitivo possa essere responsabile della scarsa risposta al trattamento nei pazienti OCD gravemente depressi.

Disturbo Ossessivo Compulsivo - Perseguitati dai Dubbi. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Disturbo Ossessivo Compulsivo – Perseguitati dai Dubbi

L’introduzione nei protocolli basati su esposizione con prevenzione della risposta di training di orientamento al problema, utilizzati con successo per ridurre l’Intolleranza dell’incertezza nel disturbo d’ansia generalizzata, potrebbe risultare utile a migliorare l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale anche per il OCD con grave depressione secondaria (Dugas & Ladouceur, 2000).

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Sembra opportuno considerare alcuni limiti dello studio. L’utilizzo di un disegno trasversale non consente di escludere la possibilità che lo sviluppo di credenze disfunzionali sia conseguente alla compresenza di una sintomatologia OCD e depressiva gravi.

In conclusione, i dati ottenuti sembrano offrire alcune indicazioni nella comprensione dei fattori che potrebbero essere responsabili dell’esacerbazione della sintomatologia OCD, suggerendo l’utilità di interventi mirati alla modificazione delle credenze disfunzionali al fine di ottimizzare la risposta terapeutica anche di pazienti con OCD resistente al trattamento.  

LEGGI: 

DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO – OCD – DEPRESSIONE – CREDENZE -BELIEFS – PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Fare ACT di Russ Harris – Recensione

 Recensione

FARE “ACT”

di Russ Harris

 

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Fare "ACT" - Russ Harris - Recensione

Il libro di Russ Harris, uno dei più importanti studiosi del modello ACT, è il primo tentativo completo e  sistematico di descrivere accuratamente i processi che sottendono l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Hayes et al. 1999).

La modalità con cui questo libro insegna a fare Act è di assoluta utilità per il clinico trovandosi di fronte ad innumerevoli strategie e schede di esercizi che costituiscono una guida ideale per stare col paziente all’interno della cornice di un modello ascrivibile nelle terapie di terza generazione.

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La premessa infatti da cui parte l’Act è esplicitata sin dalle prime pagine del manuale con una metafora semplice quanto spiazzante per coloro che provengono dalla CBT Standard:

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo.

Vorrei che immaginassi che questo libro rappresenti tutti i tuoi pensieri, sentimenti e ricordi difficili con cui hai lottato per tanto tempo. E mi piacerebbe che tu lo afferrassi forte in modo che io non possa togliertelo.  Adesso mi piacerebbe che lo mettessi davanti in modo da non riuscire più a vedermi e che lo avvicinassi così tanto al viso da toccarti quasi il naso. Adesso com’è cercare di avere una conversazione con me, mentre sei completamente dentro nei tuoi pensieri e sentimenti?” (“Fare Act, pag.32)

Questa semplice metafora sintetizza come l’Act faccia nascere la psicopatologia nell’ “evitamento esperenziale”: ossia nelle strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare le nostre esperienze interne (siano esse pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi).

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Il focus non è quindi sul contenuto del pensiero “cosa pensiamo” ma sui processi “come pensiamo”, ma in più l’Act fa un passo avanti rispetto ad altri modelli di terza generazione. Il riferimento è alla C dell’acronimo, al Commitment, all’impegno, a come cioè il rimanere incastrati nelle strategie di controllo disfuzionali ci fa perdere di vista quelli che sono i nostri valori.

 L’Act sottolinea come un rischio verso cui possiamo incorrere nel lavoro con questi tipi di pazienti sia non esplorare quali possano essere i loro valori, avendo loro focalizzato la loro esistenza da cosa scappare e non verso dove andare.

Tutti i processi che sottendono le due aree, accettazione e impegno, sono descritte dettagliatamente nel manuale accompagnando il clinico attraverso esempi e schede di lavoro da poter usare col paziente. Oltre all’analisi del modello e alle varie strategie il libro offre una guida passo passo per condurre una terapia Act riempiendola con consigli ed esempi per superare i momenti di stallo o di difficoltà col paziente.

La sensazione, leggendo il libro, è di aver finalmente formalizzata una guida ad un modello che può diventare un’ottima risorsa per noi clinici andando a sottolineare l’importanza dell’accettazione per quei nostri pezzetti che riteniamo sbagliati o indici di fragilità.

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ARTICOLI SU: 

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT – IN TERAPIA – EVITAMENTO – ACCETTAZIONE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Harris, R. (2011) Fare “ACT”. Una guida pratica per professionisti dell’Acceptance and Commitment Therapy. FrancoAngeli ACQUISTA ONLINE

 

Il Funzionamento del Bambino con ADHD: i Contatti con i Coetanei

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un bambino con ADHD ha spesso gravi difficoltà nelle relazioni con gli altri bambini. La sua iperattività e impulsività sono spesso causa di avversione negli altri bambini, soprattutto quando si sta cercando di lavorare insieme e divertirsi. I bambini possono non accettare la sincerità e l’apertura di un bambino con ADHD, soprattutto quando non è inibito nel  fare commenti sgradevoli agli altri (1998) .

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Descrivendo il funzionamento di un bambino con ADHD, gli psicologi si sono concentrati su tre aree principali: la casa, la scuola ed i contatti con i coetanei. Quest’ultima è considerata come un’area di transizione tra casa e scuola, non meno importante rispetto alle altre.

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Nell’ambiente degli amici, il bambino impara le relazioni sociali, le regole, a stare in un gruppo e a rispettare i sentimenti degli altri (Conners, 2000). Queste relazioni funzionano in modo diverso rispetto alla famiglia, perché scompare l’autorità caratteristica della relazione figli genitori.

Barkley descrive la sua esperienza di lavoro con bambini con ADHD in questo modo: un bambino con ADHD ha spesso gravi difficoltà nelle relazioni con gli altri bambini. La sua iperattività e impulsività sono spesso causa di avversione negli altri bambini, soprattutto quando si sta cercando di lavorare insieme e divertirsi. I bambini possono non accettare la sincerità e l’apertura di un bambino con ADHD, soprattutto quando non è inibito nel  fare commenti sgradevoli agli altri (1998) .

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Certamente agli altri bambini spaventa la facilità e la velocità con cui un bambino con ADHD diventa sconvolto, frustrato ed aggressivo. Quando un bambino è fisicamente o verbalmente aggressivo, provocatorio, oppositivo ed ostile, i problemi nelle relazioni tra pari sono particolarmente acuti. Tutto ciò porta il bambino con ADHD a guadagnarsi una “cattiva” reputazione tra coetanei in classe e nel quartiere.

Occorre considerare, inoltre, anche il problema di una corretta valutazione delle intenzioni dei coetanei. L’essenza di problemi sociali di questo tipo è rappresentato dal sottosviluppo di un senso del tempo e del futuro.

I bambini con ADHD tendono a vivere il presente, ciò che possono ottenere in questo momento, ciò che conta di più per loro. Questo significa che le abilità sociali che non danno ricompense immediate, come la condivisione e la cooperazione, in fondo non sembrano “valer la pena”. Dato che questi bambini non riescono a valutare correttamente le conseguenze delle loro azioni, spesso non riescono a vedere che il loro egoismo ed egocentrismo condurranno, in futuro, ad una perdita di amicizia (Barkley, 2000).

Il problema è che spesso i genitori sono le uniche persone dalla parte del bambino, e  per loro non è possibile partecipare, insieme al bambino, ai contatti tra compagni. Gli psicologi, pertanto, consigliano, durante le prime fasi, di lavorare allo sviluppo delle normali abilità sociali, come offrire aiuto nel trattare le reazioni negative verso gli altri ed organizzare i contatti con i coetanei in un ambiente familiare positivo in cui il bambino avrà un senso di sicurezza. 

LEGGI:

 DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’ – ADHD – RAPPORTI INTERPERSONALI – BAMBINI

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Report del VII Congresso Nazionale Confiam di Musicoterapia

Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli

Report:

VII congresso nazionale Confiam di Musicoterapia

(Padova 24-26 maggio 2013)

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VII Congresso di Musicoterapia - 24-26 maggio 2013 - Padova

Le prime immagini che ci saltano alla mente ripensando al Congresso Nazionale di Musicoterapia di Padova riguardano la maestosità della meravigliosa Aula Magna di Palazzo Bo, sede della prima giornata di lavori, dove circa quattro secoli fa gli studenti potevano fare le domande al Prof. Galileo Galilei.

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Diversi studi hanno dimostrato come nelle esperienze emotivamente intense di incontro con l’altro, come ad esempio la psicoterapia, restino impressi nella memoria più certi aspetti non verbali, piuttosto che le cose che vengono dette. Le prime immagini che ci saltano alla mente ripensando al Congresso Nazionale di Musicoterapia di Padova riguardano la maestosità della meravigliosa Aula Magna di Palazzo Bo, sede della prima giornata di lavori, dove circa quattro secoli fa gli studenti potevano fare le domande al Prof. Galileo Galilei.

Le immagini sonore sono invece quelle dei bellissimi intermezzi musicali tra un intervento e l’altro, che a nostro modesto parere potrebbero essere introdotti anche nei congressi non musicoterapici (e perché non in parlamento!) per vivacizzare un po’ l’ambiente e tenere alta l’attenzione. Scegliere quello più memorabile non è facile, tra l’ingresso trionfale delle cornamuse, le fantastiche melodie di organetto e i coinvolgenti giochi vocali e ritmici condotti da Manuela Guadagnini e Daniele Pinato.

Ma veniamo ai contenuti scientifici. Essendo stati relatori e intrattenitori psicantrici del Congresso noi stessi, non siamo riusciti ad essere dei reporter sempre presenti. Riporteremo dunque gli interventi a cui siamo riusciti ad assistere e che ci hanno colpito maggiormente.

Il Dr. Alberto Schön  è stato uno degli apripista del convegno e il suo intervento dal titolo “Quanto è musicale il pensiero?” ha ricordato che quest’ultimo, come la musica, è ordinato in una sequenza. In più la musica fa parte delle attività estetiche creative e ha un versante di gioco: avendo tutte queste funzioni fa parte del processo di pensiero. La musica richiede l’uso di molte memorie: propriocettiva, emotiva, comunicativa preverbale, motoria, comparativa, etc. Infine, paragonata a un significante formale, è una forma di protopensiero, che delinea uno spazio interiore idoneo ai processi di simbolizzazione, privo di significato definito, ma ricco di senso.

Il Dr. Gabriele Catania dell’Ospedale Sacco di Milano ha presentato il suo interessante progetto Le stanze di Faber, sull’utilizzo terapeutico delle canzoni di Fabrizio de Andrè. Catania ha spiegato che l’idea per questo progetto è nata ascoltando la canzone “La ballata dell’amore cieco (o della vanità)”, che racconta di un amore incondizionato che si spinge fino al masochismo e che aveva delle analogie con la storia di sfida onnipotente alla morte di una sua paziente anoressica.

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PSICANTRIA @ SITCC 2012De Andrè è stato senza dubbio il cantautore che meglio ha raccontato gli ultimi, gli emarginati e i matti, cercando di comprenderne l’essenza, mantenendo sempre un tono empatico e scevro da giudizi. I giudizi su sé stessi infatti zavorrano la sofferenza. Catania ha riletto alcuni brani di Faber, adattandone i testi, per dare vita a un progetto di prevenzione primaria atto a informare la popolazione rispetto al disagio psichico e a superare lo stigma nei confronti delle malattie mentali. Ha sottolineato la potenza dello strumento canzone per la trasmissione delle informazioni in modo empatico.

Il musicoterapista Giacomo Cassano ha portato un interessantissimo percorso svolto con pazienti psichiatrici sul “viaggio” nelle Città invisibili, di Italo Calvino. In quanto metafora di ogni microcosmo umano, ogni città diventava lo spunto per una discussione di un aspetto sul quale potersi confrontare, riconoscere e musicare insieme nel presente. Così come capita a Marco Polo nel racconto del libro il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto e cambia a seconda dei vissuti del presente, così questo “viaggio musicato” è stata un’opportunità di riletture  dei vissuti passati dei partecipanti, fornendo nuovi spunti e letture autobiografiche.

Lo psichiatra Roberto Poli del DSM di Cremona e la musicoterapista Laura Gamba hanno presentato i dati di alcuni studi osservazionali e retrospettivi sull’effetto del trattamento musicoterapico sui pazienti schizofrenici. Ci sono già evidenze dalla letteratura internazionale che, integrata con altri trattamenti riabilitativi, la MT risulti efficace nel migliorare il funzionamento globale dei pazienti psicotici (Gold et al., 2008; Mossler et al., 2011).

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Favorendo la comunicazione, l’interazione, lo scambio e l’espressione delle emozioni, la MT interviene efficacemente sui sintomi negativi della schizofrenia (ritiro sociale, appiattimento affettivo, scarsa espressione delle emozioni). La sua efficacia riguarda anche aspetti più generali della patologia quali preoccupazione, irrequietezza, ansia, depressione, con possibilità di intervenire sulle difficoltà di attenzione e concentrazione.

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I colleghi di Cremona hanno utilizzato come metodo terapeutico il dialogo sonoro e l’improvvisazione di gruppo, con il libero utilizzo di strumenti musicali e della voce e l’ascolto di brani musicali proposti dalla musicoterapista e dagli stessi pazienti, con la verbalizzazione e la condivisione dei vissuti.

Alla luce di valutazioni tramite le scale CGI, GAF, PANSS, rispetto al trattamento standard, i pazienti che hanno partecipato ai gruppi di MT hanno mostrato miglioramenti statisticamente significativi riguardo la condizione clinica globale, la sintomatologia psicotica (in particolare i sintomi negativi) il funzionamento complessivo e la qualità della vita.

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 Il musicoterapeuta Davide Woods ha presentato una relazione sull’improvvisazione musicale individuale, all’interno di gruppi. Nella sua presentazione –  supportata da ascolti di prime sedute e ultime sedute (24esima) dello stesso paziente al pianoforte, accompagnato e sostenuto da due musicoterapeuti (uno al piano e l’altra al violoncello) –  l’analisi del materiale musicale ha messo in luce una evidente variazione verso una maggiore pulsazione e organizzazione temporale da parte del paziente, assente o scarsa e più disorganizzata nei primi incontri. Il linguaggio sonoro diventando via via più strutturato e organizzato, è stata l’occasione per esercitare funzioni pre-mentali, anticamera di processi simbolici.

La musicoterapeuta Deborah Parker ha tenuto una relazione su “Musicoterapia nei campi profughi palestinesi del Libano”, un progetto internazionale nato due anni fa, volto alla formazione di musicoterapeuti in Libano, che sta personalmente supervisionando. In campi profughi, dove ci sono numerosi bambini orfani e vittime di atrocità, con sintomi da PTSD, la musicoterapia è entrata come forma di comunicazione e sostegno per riaccordare una relazione con l’altro attraverso il suono.

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Il Dr. Zambito ha trattato il complesso tema del rapporto tra musica e neuroscienze, chiarendo subito che non vi sono dati a favore dell’esistenza di un “unico” centro musicale nel cervello.

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La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini
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Le aree cerebrali responsabili della musica sembrano avere una sovrapposizione parziale, anche se incompleta, con quelle responsabili del linguaggio. Non dovremmo perciò sorprenderci se le analogie comportamentali e cognitive tra musica e linguaggio sono sì stringenti, ma incomplete.

E’ ben noto che ascoltare musica, suonare e comporre sono attività che coinvolgono tutto l’encefalo, bilateralmente, la corteccia, la neo corteccia il paleo e il neo cervelletto.

Toni, intervalli musicali sono sottoposti all’attività delle regioni temporali a destra, della corteccia dorso laterale prefrontale sinistra e della parte inferiore della corteccia frontale dx.

La percezione ritmica e la produzione coinvolge le regioni del cervelletto, e dei gangli della base. Tenere il tempo, sincronia, possono essere sotto il controllo di centri oscillatori cerebellari.

In passato si riteneva che la musica fosse “lateralizzata” a destra, mentre ora risulta chiaro che non vi è un’area singola, né un singolo emisfero alla base della conprensione/processazione/esecuzione/interpretazione di un brano musicale.

L’emisfero destro svolge un ruolo decisivo per quanto concerne l’organizzazione melodica della musica essendo concepito come sede preliminare della percezione.

L’emisfero sinistro  esercita un ruolo per la codifica dell’altezza del suono, elemento irrinunciabile per apprezzare l’essenza della musica occidentale e probabilmente anche quella di qualsiasi altra musica organizzata secondo l’altezza di riferimento.

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Sono seguite alcune interessanti osservazioni sul cervello dei musicisti.

Studiando la rappresentazione corticale della corteccia somatosensoriale di un gruppo di musicisti che suonavano strumenti ad arco, con esperienza musicale di dodici anni circa e un gruppo di controllo senza alcuna formazione musicale è emerso nel gruppo di musicisti un aumento della rappresentazione corticale delle dita della mano sinistra nel gruppo di musicisti. In questi musicisti la mano sinistra è utilizzata in  modo intensivo e preciso per cambiare l’altezza delle note mentre la mano destra sostiene l’arco. Per quanto riguarda la corteccia uditiva accade una cosa analoga. La risposta della corteccia cerebrale nelle aree uditive nei due gruppi era maggiore del gruppo di musicisti rispetto al gruppo di controllo.

Questi risultati possono essere interpretati come un aumento della rappresentazione della corteccia uditiva necessaria all’elaborazione fine dei suoni musicali.

Nei musicisti vi è un’aumentata attività di connessione funzionale tra:

– la corteccia motoria e le aree sensitive/sensoriali

– tra la corteccia motoria e il talamo

– tra il talamo e la corteccia premotoria

– tra il cervelletto e le aree uditive.

Se non ci fosse limite alla plasticità corticale dopo vent’anni il cervello intero diventerebbe interamente corteccia uditiva somatosensoriale. Per fortuna la natura ha provvisto dei limiti alla plasticità.

Soprattutto nei musicisti che suonano in modo virtuosistico, l’utilizzo intenso e continuativo delle dita e la plasticità cerebrale portano a una disorganizzazione delle rappresentazioni corticali a livello della corteccia somatosensoriale, con un conseguente disturbo del controllo delle dita delle mani che prende il nome distonia focale.

L’amusia congenita è invece un disturbo caratterizzato dalla difficoltà nel percepire e produrre suoni musicali, nonostante le funzioni cognitive e l’udito siano intatti. Gli studi comportamentali hanno dimostrato che si tratta di un problema della discriminazione fine dei toni.

Il cervello degli amusici risponde a piccole differenze di toni a livello pre-attentivo, ma è incapace di riconoscere a livello cosciente quelle piccole deviazioni di tono a un livello attentivo più profondo. Tali risultati concordano con studi precedenti che dimostravano che la corteccia uditiva negli amusici funziona normalmente.

La relazione si è chiusa con la stimolante domanda se la musica renda più intelligenti. La musica ha effetti a breve termine, di tipo motivazionale ed attentivo, a lungo termine, in quanto attività multimodale, stimola  la concentrazione, i tempi di reazione, la sincronizzazione/regolazione emotiva,  motoria e relazionale, l’uso e l’apprendimento del linguaggio.

 Lo psichiatra di Legnago La Monaca ha illustrato la funzione del Karaoke nell’ambito della riabilitazione psichiatrica. Il Karaoke (in giapponese “senza orchestra”), nato in Giappone negli anni 70, è risultato efficace nel ridurre l’ansia sociale e migliorare l’interazione rispetto al semplice canto, ha mostrato un effetto rilassante sull’ansia, sul coordinamento ideo-motorio, e si è mostrato utile per migliorare l’inclusione sociale e il funzionamento (Leung et al., 1998).

La valutazione dell’esperienza tramite Focus Group con gli utenti ha dimostrato come questa attività sia giudicata in modo estremamente positivo, come una fonte di speranza, piacere e gioia e come occasione di sperimentare un ruolo diverso da quello di malato.

La Monaca ha poi definito i processi riabilitativi in ambito psichiatrico come  “strategie fondate su interventi che mirano a favorire l’inclusione sociale e a migliorare il funzionamento interpersonale e sociale, il benessere soggettivo e la qualità della vita, riducendo i fattori di rischio e incrementando i fattori protettivi implicati nell’insorgenza e nel mantenimento della disabilità connessa ai disturbi mentali”. Ha illustrato l’importante e attualissimo concetto di Recovery come “un processo di riduzione al minimo della malattia e dei suoi effetti sulla vita, con il tentativo di capire come conviverci e come gestire una patologia che può durare per un determinato periodo di tempo”. L’idea di base è che le persone non hanno bisogno di una guarigione completa e di diventare “normali” per potersi dedicare ad una vita nella comunità. Ha mostrato i dati di diversi studi che hanno evidenziano come la prognosi a lungo termine delle malattie mentali gravi non sia così negativa.

Il Professor De Zorzi, etnomusicologo dell’Università Cà Foscari di Venezia, ha illustrato l’uso in paesi islamici come il Kazakistan delle ripetizioni dei dihkr, sorta di preghiere ad Allah, per il trattamento delle dipendenze.

 

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LEGGI:

CONGRESSI – MUSICA – LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE – DIPENDENZE 

DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO – PTSD – SCHIZOFRENIA – NEUROSCIENZE – MUSICOTERAPIA

 

 

BIBLIOGRAFIA

Delirio Persecutorio – Un Modello Teorico a Tre Fattori

Giampalolo Salvatore e Nadia Di Sturco

Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

SEMINARIO: FOCUS SULLA DIMENSIONE DELIRANTE – VALUTAZIONE E TRATTAMENTO TRA SCHIZOFRENIA E DISTURBO BIPOLARE 2 LUGLIO 2013 – ROMA

Delirio Persecutorio. - Immagine: © auremar - Fotolia.comNel tentativo di fornire una descrizione originale dei fattori che conducono al delirio persecutorio nella fase acuta della schizofrenia, proponiamo un modello teorico che considera tale sintomo il risultato dell’interazione di tre fattori: disfunzione della capacità di mentalizzazione, rappresentazione del sé come vulnerabile, threat/self protection system iperfunzionante.

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Gran parte dell’esperienza psicotica è contrassegnata dall’ “eccesso”, ovvero dalla presenza di ciò che normalmente è assente.

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Il delirio, e nello specifico quello a contenuto persecutorio, ne è un esempio rappresentativo e corrisponde alla falsa credenza secondo la quale le altre persone focalizzerebbero la loro attenzione sul soggetto, con un’attitudine malevola e piani volti a danneggiarlo.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.

Nel tentativo di fornire una descrizione originale dei fattori che conducono al delirio persecutorio nella fase acuta della schizofrenia, proponiamo un modello teorico che considera tale sintomo il risultato dell’interazione di tre fattori.

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Il primo consiste in una peculiare disfunzione della capacità di mentalizzazione, ossia della capacità di riflettere su pensieri, emozioni e intenzioni altrui. Più specificamente, questa disfunzione comporterebbe un’alterazione della capacità di sintonizzazione pre-riflessiva con conseguente inabilità nella comprensione e disambiguazione dei segnali comunicativi che vengono scambiati nell’arena sociale.

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Il secondo fattore contempla una rappresentazione del sé come vulnerabile, plausibilmente connessa con eventi traumatici. La condizione più temuta è quella di subordinazione e inferiorità rispetto all’altro percepito più forte, dominante o motivato a escludere, sottomettere, umiliare il sé.

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L’incapacità di comprensione delle intenzioni altrui, associata al senso basico di vulnerabilità, fa in modo che il soggetto si senta esposto alla minaccia proveniente dagli altri individui; ciò determina un incremento di arousal negativo nel contesto di un threat/self protection system iperfunzionante, terzo fattore del nostro modello. Si tratta di un sistema necessario negli individui per identificare prontamente i segnali di pericolo e proteggersi da una minaccia incombente. Esso

riduce lo stato soggettivo di confusione e ambiguità di fronte agli atti comunicativi intrinsecamente ambigui (come espressioni facciali, sguardi, risate/sorrisi), fornendo al soggetto una spiegazione chiara e soddisfacente, anche se delirante, per i comportamenti altrui (“Che cosa vuole? Sta per attaccarmi!”) e preparandolo a reagire attraverso un viraggio aggressivo che genera un senso di forza efficace verso il nemico (“Me la pagherà!”) e riduce la percezione di sé come vulnerabile.

I fattori che promuovono il ricorso ad una singola e inconfutabile lettura della totalità degli eventi sono uno stato di ipervigilanza e i bias cognitivi (ad esempio, saltare alle conclusioni sulla base di pochi dati a supporto, attribuire all’esterno la causa di stati interni negativi), entrambi attivati dal threat system, che conducono il soggetto a concentrarsi solo sulle informazioni che confermano l’intenzione malevola degli altri.

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Questo, a sua volta, conduce il soggetto ad agire con modalità (ad esempio, sospettosità, aggressività) che elicitano

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI - RECENSIONI
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nell’altro risposte comportamentali, quali aggressività o disingaggio dalla relazione, che confermano e rinforzano la percezione soggettiva dell’altro come ostile. Si creerebbero, in tal modo, dei cicli interpersonali disfunzionali che contribuiscono alla stabilizzazione e al mantenimento del delirio.

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Riteniamo che il nostro modello, oltre ad offrire una comprensione più sofisticata del ruolo giocato dai diversi fattori nella genesi e nel mantenimento del delirio, abbia importanti implicazioni per la psicoterapia.

Esso, infatti, suggerisce quanto sia importante non tentare di confutare e modificare la credenza delirante nelle prime fasi del trattamento, in quanto questa costituisce per il paziente l’unica forma di organizzazione delle informazioni; piuttosto, il terapeuta deve focalizzare l’attenzione sulla difficoltà di comprensione delle intenzioni altrui e sul senso di vulnerabilità.

LEGGI:

DELIRIO –  PSICOSI –  SCHIZOFRENIA –  MENTALIZZAZIONE – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE –  BIAS – EURISTICHE – CICLI INTERPERSONALI

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FOCUS SULLA DIMENSIONE DELIRANTE:

VALUTAZIONE E TRATTAMENTO TRA SCHIZOFRENIA E DISTURBO BIPOLARE

2 LUGLIO 2013 – ROMA

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BIBLIOGRAFIA:

I Disturbi del Sonno e le Relazioni con la Depressione

di Francesca Fregno

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sonno e Depressione – Studi elettroncefalografici ed epidemiologi hanno fornito un forte supporto sul fatto che i disturbi del sonno rappresentano un importante fattore eziologico della depressione.

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Il sonno è una funzione biologica elementare ed un terzo della nostra vita viene speso in sonno.

Come l’alimentazione e la riproduzione, è una funzione necessaria ed indispensabile per tutti gli esseri viventi ed è indubbio che durante il sonno avvengono eventi importanti dal punto di vista biologico quale il ristoro delle forze, delle energie fisiche e mentali.

Insonnia. Lasciami Dormire Ancora. - Immagine: © Johan Larson - Fotolia.com
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Numerose teorie identificano la funzione del sonno nel recupero fisico, nella facilitazione delle funzioni motorie, nel consolidamento dell’apprendimento della memoria. 

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La privazione del sonno negli umani provoca sonnolenza, senso di fatica, irritabilità progressivamente più intensa. La maggior parte dei ricercatori sostiene che la principale funzione del sonno ad onde lente sia di permettere al cervello di riposare, mentre il sonno REM sembra promuovere lo sviluppo celebrale e l’apprendimento.

In base a misure polisonnografiche, il sonno è stato diviso nelle categorie sonno REM e sonno NREM o sonno ad onde lente. I cicli del sonno sono detti cosi’ per via della loro associazione con la presenza (REM) o assenza (NREM) di rapidi movimenti oculari.

Il disturbo del sonno costituisce uno dei sintomi più prevalenti delle malattie mentali. Nei pazienti con disturbo depressivo maggiore (DDM)  le anomalie del sonno rappresentano caratteristiche cardini. Studi elettroncefalografici ed epidemiologi hanno fornito un forte supporto che i disturbi del sonno rappresentano un importante fattore eziologico della depressione.

Cambiamenti nella struttura del sonno anticipano i cambiamenti dello stato clinico dei pazienti in corso di trattamento e possono anche rappresentare un segno di recidiva della depressione o prevedere comportamenti di suicidio.

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Nonostante l’assenza di un evidenza diretta, la concomitanza del disturbo del sonno e disturbi dell’umore suggerisce, tuttavia, che uno o più ipotetiche relazioni possano sussistere tra loro.

La prima è che il disturbo del sonno e l’umore depresso  rappresentino risposte fisiologiche ad un’ alterazione fondamentale del ritmo circadiano e di conseguenza il disturbo del ciclo circadiano sarebbe la causa primaria. La seconda interpretazione è che il disturbo del sonno  e la malattia depressiva producano effetti causali reciproci, e forse costituiscono una disfunzione dei meccanismi di feedback che normalmente stanno alla base della loro interazione.

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Leonard Cohen: Guarire dalla Depressione Cronica. - Immagine: © Italpress.
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Tuttavia vari esperimenti hanno dimostrato che i disturbi dei ritmi circadiani  sono frequentemente osservati nel contesto dell’umore depresso. E’ stato suggerito ad esempio che le anormalità della tempistica del ciclo sonno REM e  NREM, che sono osservate nei pazienti depressi, sono dovute a disturbi delle vie di conduzione che regolano i cicli sonno/ veglia. Infatti è stato esaminato che la sincronizzazione del ritmo sonno/veglia e del ciclo riposo/ attività  con i cicli luce/scuro dell’ambiente  esterno è essenziale per la manutenzione di un’ottima salute  mentale e fisica.

E’ stato visto in pazienti che sperimentano livelli ridotti di illuminazione lamentano più frequentemente sintomi correlati al sonno e episodi depressivi rispetto a pazienti sottoposti a livelli normali di illuminazione. Questo dato è stato ottenuto in uno studio comprendente 459 pazienti in post menopausa.  In conclusione la natura ciclica dei disturbi dell’umore suggerisce che i disturbi del ciclo circadiano siano il fattore precipitante maggiore dei disturbi dell’umore.

LEGGI: 

DISTURBI DEL SONNO – SONNO – DEPRESSIONE – APPRENDIMENTO – MEMORIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Salò o le 120 Giornate di Sodoma”: il Macabro Apologo – Recensione

 

Recensione

SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA

di Pier Paolo Pasolini

 

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Salò o le 120 Giornate di Sodoma“ Salò” si pone, nella produzione pasoliniana, come una sorta di metafora dell’impotenza al potere, come una ritualizzazione mondana della trasgressione, come un macabro apologo. Masturbazione, travestimento, voyerismo, coprofagia, occupano tempo e pensieri dei quattro signori della morte.

Esso può sembrare un film monotono, ripetitivo, a suo modo didascalico, e perfino moralistico. Moralistico come, necessariamente, diventa una rappresentazione che cerchi di ricalcare la struttura dell’inferno.

Pasolini, in questo film, presenta un quadro sistematico delle perversioni, sul modello del racconto di Sade.

I protagonisti, fruitori di queste che vorrebbero essere delle raffinatezze erotiche, per acuire ed esaltare il godimento, sono quattro rappresentanti del potere, posti in un’epoca identificata con la repubblica di Salò. Essi provano queste situazioni perverse, guidati da tre donne, le narratrici, le quali, smaliziate fin dall’infanzia, sono divenute ora esperte ruffiane, profonde conoscitrici di ogni segreto dell’erotismo.

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In “Salò” vi sono accennati soltanto due rapporti normali: quello, appena abbozzato, dei due fanciulli sposi per scherzo, in cui l’amplesso viene impedito come qualcosa di proibito, e quello clandestino della servetta negra, che si conclude con l’uccisione immediata dei colpevoli. Il sesso vero, dunque, nel film non esiste, ci sono soltanto le sue caricature: le perversioni.

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In Salò non c’è sesso, c’è solo la morte del sesso. I protagonisti o sono impotenti nel rapporto normale o lo sostituiscono con il voyerismo, l’esibizionismo, il feticismo; oppure riescono ad avere un rapporto soltanto con individui specifici alla propria perversione. Si attua dunque una specializzazione, anche se in ciascuna perversione permangono elementi delle altre.

ARTICOLI SU: CINEMA

I quattro fruitori non sembrano avere delle preferenze particolari, essi vogliono provare ogni forma di sessualità perversa e, ispirati dalle tre narratrici, le sperimentano con frequenti ripetizioni, con varie modalità, fino a giungere ad una strage finale.

Nonostante ciò i comportamenti perversi non sono stabilizzati, anzi potremmo dire, parafrasando Musatti, che si assiste ad una disposizione polimorficamente perversa. L’espressione “polimorfismo perverso” è propria della sessualità infantile. Per questo motivo i personaggi del film, anziché essere degli amatori raffinati, vogliosi di provare tutto per godimenti sempre maggiori, risultano degli individui assolutamente immaturi, rimasti ad uno stadio infantile caratterizzato da una curiosità che non arriva ad appagarsi.

In tutto il film prevale un unico organo genitale: il fallo. La supremazia del fallo è propria della fase evolutiva che Freud chiama fallica. I personaggi sembrano fissati a questo stadio nel quale il bambino non conosce ancora la differente costruzione dei sessi; un esempio è rappresentato dalla scena della scelta del più bel didietro, dove fanciulle ed efebi, mescolati insieme, sono veduti di schiena nudi in ginocchio, in modo che non si distinguano i maschi dalle femmine.

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Questa immaturità è confermata dal fatto che nel film non vi è conclusione; c’è sì una melanconica scena finale di due ragazzi che ballano, ma una conclusione vera e propria non esiste, così come avviene nella realtà in ogni forma di sessualità perversa o deviata nell’oggetto.

 In “Salò” soggettivo ed oggettivo, in precedenza tenuti separati nell’intera  produzione filmica pasoliniana, si ricompongono come una massa compatta, senza alcuna possibilità di riscatto e, ancor meno, senza alcuna sublimazione.

Infatti esso segna un autentico taglio epistemologico. Non più il mondo da un lato e la coscienza infelice dall’altro, ma bensì una scrittura e una concezione che abbracciano tutto, i dettagli come l’insieme.

Una scrittura e una concezione che metaforicamente rimuove ogni speranza implicando tutti nel tetro universo che descrive e che preclude un qualunque alibi e conforto anticipando tragicamente la sua prematura  fine.

 

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LEGGI ARTICOLI SU: 

SESSO – SESSUALITA’ – PSICOANALISI – CINEMA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Leadership negli Sport di Squadra – Introduzione #1

Leadership negli Sport di Squadra:

INTRODUZIONE – Parte 1

 

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Monografia: Leadership nello Sport - Introduzione. - Immagine ©-iko-Fotolia.comAll’interno di un gruppo esiste un ruolo che si innalza gerarchicamente al di sopra degli altri perché dotato della capacità di influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone più di quanto non sia esso stesso influenzato. Costui è il leader.

Per molti anni sono state costruite ricerche allo scopo di individuare le caratteristiche, le condizioni e le situazioni che possono condurre una persona a questo status, e cioè alla vetta della gerarchia strutturale del gruppo a cui appartiene.

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Queste hanno ottenuto risultati parziali, spiegando una parte del complesso fenomeno della leadership ma ammettendo, spesso, per non dire sempre, troppe eccezioni per potere essere considerate definitive.

Alcuni modelli si sono concentrati sull’idea di un leader, tale, per doti innate e naturali, altri per un suo stile comportamentale, altri ancora per caratteristiche della situazione in cui si trova ad agire e alcuni, infine, per le aspettative e i bisogni degli altri membri del gruppo.

Attualmente la tendenza principale è quella di giungere ad un modello che permetta l’integrazione degli aspetti positivi delle teorie precedenti e che analizzi il fenomeno della leadership senza sottovalutarne nessuna.

E’ sempre più chiaro che il vero leader non deve essere una persona rigida dal punto di vista mentale e comportamentale, perché altrimenti ogni cambiamento nella struttura o nei fini del gruppo porterebbe alla sua inevitabile caduta, anche se, allo stesso tempo, deve possedere caratteristiche specifiche che gli permettano di raggiungere questa posizione. Non tutti, anche a parità di competenze, possono, infatti, essere leader. La prima e la principale di queste abilità è la “versatilità” e cioè la capacità di adattare il proprio comportamento a situazioni problematiche sempre uniche e diverse, che richiedono, appunto, risposte e reazioni specifiche da parte di chi detiene il potere.

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Open – La Mia Vita, Di Andre Agassi, Einaudi (2011) – Copertina

Il mondo dello sport, e in particolare degli sport di squadra, rappresenta, come afferma Cei [1998], un base favorevole agli studi sui gruppi sociali e sulla leadership. Questo perché permette di studiare persone già naturalmente riunite sotto la stessa bandiera, che interagiranno come gruppo perlomeno per un’intera stagione. I modelli sulla leadership nello sport, e gli studi effettuati al riguardo sembrano confermare l’idea per cui è impossibile parlare di un comportamento da leader in senso universale poiché non esiste un leader universale. Resta vero che esistono, comunque, qualità non sufficienti ma necessarie per svolgere i compiti associati a questo ruolo. Il leader deve saper adattarsi ai problemi più svariati, deve fare tesoro dell’esperienza, deve conoscere ed essere consapevole del proprio comportamento e delle sue conseguenze sia per la prestazione che per la soddisfazione della squadra. Deve sapere che non può concentrarsi su solo uno di questi due obiettivi, sia perché sono interdipendenti tra loro, sia perché, a seconda della situazione, può ottenere risultati migliori (su entrambi), centrando il proprio lavoro sull’uno o sull’altro.

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            In realtà, l’ambito sportivo presenta una peculiarità, non esclusiva, ma particolarmente frequente nelle caratteristiche che contraddistinguono lo status di leader. Gli studi al riguardo hanno dimostrato, infatti, l’esistenza di più di un leader nella squadra sportiva.

E’ vero che la presenza di più leader può essere individuata in qualsiasi gruppo sociale, ma negli sport di squadra si possono osservare, molto frequentemente, due figure ben distinte nelle loro caratteristiche: il leader istituzionale e il leader intimo. Il primo è l’allenatore, il leader della squadra esterno alla squadra stessa, eletto dalla dirigenza e dotato del potere legittimo e di competenza. Il secondo è il capitano (definito per comodità visto che la figura che riveste il ruolo di capitano ufficiale può non coincidere con il leader intimo), detentore della leadership interna al gruppo, eletto dagli altri componenti della squadra e caricato di notevole responsabilità perché riconosciuto essere la persona più adatta e competente ad averla. Proprio per la diversa origine e per la diversa posizione, questi due ruoli si pongono in modo diverso verso la collettività. Entrambi devono mantenere un atteggiamento versatile se vogliono avvicinare la squadra ai suoi obiettivi, e spesso per uno è più facile giungere a risolvere quei problemi che l’altro fatica ad affrontare e viceversa.

Attraverso l’analisi degli studi sull’argomento, come vedremo nel secondo capitolo, si può affermare che se questo aspetto, e cioè la loro complementarietà, è il principale vantaggio apportato alla squadra dall’esistenza dei due leader, l’assenza di una collaborazione tra questi può divenire, se presente, quello negativo. In effetti il conflitto tra allenatore e capitano, se non viene arginato in fretta, si è dimostrato essere una vera mina distruttiva per tutta la squadra, che si ripercuote negativamente sul morale e sui risultati ottenuti.

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 Nel terzo capitolo le caratteristiche dei due leader verranno messe a confronto sia con la prestazione che con la soddisfazione del gruppo. Come molti autori hanno teorizzato sia l’allenatore che il capitano devono prestare attenzione ad entrambi i fattori principalmente perchè la prestazione e la soddisfazione sono due variabili interdipendenti. Non considerare uno di questi livelli, implica automaticamente minare anche la positività dell’altro. La scelta di focalizzarsi, temporaneamente, più sul primo che sul secondo, o viceversa, deve essere fatta sulla base di ciò che richiede la situazione. L’analisi del rapporto tra il comportamento dei due leader, la prestazione e la soddisfazione e la conferma della loro interdipendenza non rappresentano altro che un’ulteriore evidenza della necessaria “versatilità” del leader, o meglio, dei leader.

L’obiettivo di questo lavoro non è soltanto quello di descrivere le caratteristiche peculiari della figura del leader nello sport ma anche individuare come, secondo gli autori che hanno trattato l’argomento, deve comportarsi quest’ultimo per favorire la prestazione e la soddisfazione della squadra; dimostrando, infine, su un piano puramente teorico, come questa “versatilità” è il requisito primario per avere successo.

Si cercherà di raggiungere questo obiettivo attraverso la descrizione delle principali teorie e dei principali modelli inerenti la leadership (capitolo 1), l’analisi delle due tipologie di leader riscontrabili in ambito sportivo e delle loro somiglianze e differenze in diversi contesti (capitolo 2) e lo studio del rapporto tra ognuno dei due leader e i loro obiettivi primari, e cioè la prestazione e la soddisfazione della squadra (capitolo 3).

Infine, nell’ultimo capitolo, saranno presentati alcuni strumenti normalmente utilizzati nelle ricerche in ambito sportivo, che permettono di analizzare e valutare il comportamento del leader.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Nostra Memoria: Quando Fidarsi è Bene e Non Fidarsi è Meglio!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Quando pensiamo a noi stessi, inevitabilmente pensiamo a quali persone siamo e al bagaglio delle nostre esperienze lungo l’arco di vita: questa è la nostra memoria. Essa racchiude la totalità delle conoscenze che definiscono l’idea di noi stessi e delle nostre relazioni.

Le ricerche sviluppatesi in questo ambito hanno messo in discussione l’affidabilità della nostra memoria, evidenziando che a volte, ad esempio, un episodio che consideriamo realmente accaduto nella nostra vita, in realtà non è mai avvenuto.

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Elizabeth Loftus rappresenta, a livello internazionale, una delle più grandi esperte nello studio della malleabilità della memoria e dei cosiddetti “falsi ricordi”. In un disegno sperimentale, definito “il testimone oculare”, la studiosa mostra come sia possibile contaminare i ricordi degli altri, attraverso l’utilizzo di diverse domande.

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Questo può accadere, ad esempio, negli scambi tra un testimone e gli agenti della polizia. Semplicemente al variare delle parole utilizzate per estorcere delle informazioni, il testimone può ricordarsi di episodi che in realtà non ha mai vissuto e che vengono involontariamente suggeriti dall’interlocutore.

E questo può accadere può spesso di quanto si crede.  Tra le più importanti scoperte della Loftus vi è senz’altro quella relativa ai “falsi ricordi”, episodi mai esistiti che vengono però vissuti come reali. Uno studio del 1995 mostrò come sia possibile impiantare nella memoria il ricordo di un evento traumatico mai accaduto.

A 24 studenti e ai loro familiari più stretti venne chiesto di rievocare tre spiacevoli episodi dell’infanzia, come perdersi al supermercato: ogni familiare doveva riportare nel dettaglio ciascun dei tre episodi ed un falso ricordo, qualcosa che in realtà non era mai avvenuto. Ad ogni studente venne chiesto, quindi, di stimare quanto fosse sicuro della veridicità di ciascun episodio. Il risultato sorprendente fu vedere come i soggetti considerarono il “falso ricordo” come realmente accaduto.

Un’altra importante area di approfondimento concerne la possibilità di influenzare il comportamento altrui agendo sui ricordi. I partecipanti furono spinti a credere che, durante l’infanzia, si fossero ammalati mangiando del gelato alla fragola. Una settimana dopo, i soggetti riportarono dettagli accurati circa l’episodio (“rich false memory”)e furono convinti che questo fosse avvenuto nel loro passato. Pertanto, il loro comportamento alimentare, si modificò in conseguenza di questa scoperta.

 Gli studi sulla malleabilità della nostra memoria rappresentano non solo uno strumento per conoscere il funzionamento della mente umana, ma anche un mezzo per sapere come difenderci dalla contaminazione dei nostri ricordi.

Loftus evidenzia come la distorsione della memoria sia un fatto che accade nella vita quotidiana di ognuno di noi: questo fenomeno, definito “prestige-enhancing memories”, permette di alterare alcune vicende della nostra vita in modo da vedere noi stessi più positivamente di ciò che realmente siamo.

E questa non è necessariamente una cosa negativa, anzi: un po’ di distorsione potrebbe essere utile alle persone!

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MEMORIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Soddisfazione e Longevità dei Matrimoni Online e Offline

Soddisfazione e Longevità dei Matrimoni Online e Offline. - Immagine:© Sangoiri - Fotolia.comTi posso offrire un caffè (virtuale)? Soddisfazione e longevità dei matrimoni online e offline – I matrimoni nati online hanno un grado di soddisfazione maggiore di quelli nati offline.

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Un recente articolo apparso sul Time, riprendendo una ricerca dell’Università di Chicago, titola che i matrimoni nati online hanno un grado di soddisfazione maggiore di quelli nati offline.

Una notizia che in tempi di divorzio e di crisi dei legami suscita sicuramente curiosità e interesse. La ricerca, però, sembra nascere con una Spada di Damocle sulla testa: è stata, infatti, commissionata dal sito di incontri online eHarmony. Nasce, così, spontanea la domanda su quanto i dati (o la loro interpretazione) rischi di essere in qualche modo fuorviata dal committente.

Lo studio di per sé, però, consente di riflettere e ragionare ancora una volta su quanto i nuovi strumenti messi a disposizione della rete modificano – in un senso o in un altro – il nostro modo di relazionarci e di vivere.

L' Amore ai Tempi delle Reti Sociali. - Immagine: © detailblick - Fotolia.com
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Il professor Cacioppo, autore della ricerca, afferma che più di un terzo dei matrimoni Americani iniziano online, sottolineando così come gli incontri tramite la rete siano ormai molto più comuni di 10 anni fa. Dalla ricerca, infatti, condotta su 20.000 americani convolati a nozze tra il 2005 e il 2012 risulta che il 35% delle unioni è iniziata proprio online. Credo che possiamo spiegarci questa modifica grazie alla diffusione massiccia del world wide web, che ha reso più accessibili le comunità online, e ha fatto sì che le persone le vivessero come meno spaventose o aliene.

In genere gli innamorati digitali hanno tra i 30 e i 39 anni, un lavoro spesso ben pagato, e nel 45% dei casi si incontrano grazie ai siti di appuntamenti online.

La ricerca, inoltre, evidenzia anche il tasso di divorzio di queste unioni: Il tasso di fallimenti è risultato del 6% nelle coppie che si sono conosciute on-line: 45% per quelle coppie venute in contatto attraverso siti di incontri, 20% social network, 9,5% chat room, oppure gruppi di discussione, email, community, giochi multiutente. E dell’8% tra quelle che avevano incontrato il proprio coniuge a scuola, sul lavoro, in centri di aggregazione sociale, a casa di amici, a feste, o attraverso familiari. Una differenza che si riduce includendo nell’analisi i fattori che più frequentemente giocano un ruolo nelle rotture (educazione, reddito, numero degli anni di convivenza), ma che secondo i ricercatori resta pur sempre significativa.

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Lo studio sembra aver anche messo in luce una maggiore soddisfazione tra i partner conosciutisi online, rispetto a quelli che si sono incontrati al bar o al college.

Eli Finkel, professore di psicologia sociale alla Northwestern University, però, mette in guarda rispetto a facili entusiasmi o a conclusioni premature: nonostante la ricerca copra un buon numero di soggetti e abbia una sua validità, non è possibile ridurre i risultati all’equazione: “Matrimoni nati online = matrimoni più duraturi e felici”. Secondo Finkel, infatti, lo studio dimostra semplicemente che è possibile trovare un partner stabile anche online.

Infatti, in entrambi i casi (incontri online o offline) il luogo specifico di incontro porta ad una durata differente dell’unione. Non sorprende che, ad esempio, crescere insieme o incontrarsi a scuola o tramite amici comuni comporta un matrimonio più soddisfacente rispetto alle relazioni nate in un bar o per caso. Curioso il dato che dimostra che incontrarsi al lavoro equivale ad incontrarsi in un bar o in un nightclub in termini di soddisfazione coniugale.

Per quanto riguarda i luoghi di incontro online gli incontri nati in chat room o nelle comunità online sono meno soddisfacenti rispetto a quelli nati attraverso e grazie siti di appuntamenti specializzati, sebbene anche qui il dato sembri variare a seconda della tipologia di sito utilizzata.

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Nelle chat room e negli incontri casuali offline, si incontrano solo persone del circondario e non un grande numero di persone” sostiene Cacioppo “Se una persona si rivolge ad un sito di incontri online ha un maggiore ventaglio di possibilità”. Mi viene da pensare che forse il dato potrebbe essere spiegato anche con il fatto che i siti di incontri online prevedono una scheda minuziosa e dettagliata volta a “matchare” ossia a combinare i partner, cercando di trovare “la combinazione perfetta”, unendo persone attraverso gusti, preferenze, affinità. Non è detto che lo strumento funzioni, ma sicuramente consente di aumentare le possibilità di incontrare una persona “affine” ai propri gusti, molto più che un incontro casuale in un bar o ad una festa.

Cacioppo sostiene anche che le caratteristiche personali possano avere un impatto sulla differenza di soddisfazione tra matrimoni online e offline: “Se si è più riservati o controllati o meno espansivi, è più probabile che ci si senta più portati ad incontrare deliberatamente il proprio partner online piuttosto che impulsivamente al bar”.

Un’altra lancia spezzata in favore degli incontri online riguarda la possibilità di “essere più facilmente se stessi” rispetto ad un incontri vis-a-vis dove il contatto visivo e la comunicazione non verbale giocano un ruolo preponderante nell’interazione.

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Credo che questo studio, al di là dei dati in sé, possa essere usato come spunto di riflessione su come gli strumenti di comunicazione online possano divenire luoghi mentali, privi di fisicità ma non di certo di significato.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Gioco d’Azzardo patologico e Disturbi di Personalità: non solo Antisociali

di Manuela Pasinetti – Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Gioco d' Azzardo Patologico e Disturbi della Personalità. - Immagine © gekaskr - Fotolia.comIl gioco d’azzardo patologico (GAP) è un argomento sempre più d’attualità, anche nel mondo scientifico. Numerose ricerche si sono infatti susseguite nel corso degli anni e numerose sono, ad oggi, le evidenze rispetto ad una comorbilità tra GAP e disturbi di personalità, soprattutto appartenenti al Cluster B (istrionico, narcisistico, antisociale e borderline).

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I tratti di impulsività, di disregolazione emotiva, di sensation e novelty seeking tipici di questo Cluster di personalità sono stati spesso osservati e riscontrati nei giocatori patologici e sembrano essere alla base dei comportamenti disfunzionali messi in atto da questi individui (Clarke, 2004; Martinotti et al., 2006).

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Il disturbo antisociale di personalità, in particolare, sembra essere il disturbo maggiormente riscontrato tra i gamblers e anche quello più studiato (Slutske et al., 2001; Pietrzak & Petry, 2005). Tuttavia, tra i pochi studi che si sono occupati di indagare la correlazione tra il gioco d’azzardo patologico e i disturbi di personalità diversi dall’antisociale, uno studio ha messo in luce che nel 53% dei giocatori patologici si riscontra un disturbo di personalità non antisociale (Steele & Blaszczynski, 1998).

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Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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Un recente studio americano (Odlaug, Schreiber & Grant, 2012), pubblicato lo scorso anno sul Journal of Personality Disorders, ha esaminato la relazione esistente tra gambling patologico, disturbi di personalità e impulsività in un gruppo di 77 soggetti maschi e femmine con un’età media di 36 anni (range 14-59) che trascorreva in media 13 ore a settimana giocando (slot machine, bingo, lotteria, tavoli da gioco, etc.), con perdite di denaro di circa 535$ a settimana.

Dai risultati è emerso che, di questi 77 soggetti, il 45.5% soddisfaceva i criteri per almeno un disturbo di personalità e il 18.2% per due o più disturbi. I disturbi di personalità maggiormente riscontrati appartenevano al Cluster C: il disturbo ossessivo-compulsivo (27.3%), il disturbo evitante (10.4%) e il disturbo passivo-aggressivo (9.1%).

Risultati che contrastano con la maggior parte degli studi esistenti che evidenziano, come già detto, una correlazione maggiore tra GAP e disturbi di Cluster B ma che concordano con una meta-analisi precedente in cui erano state rilevate alte percentuali di tratti ossessivo-compulsivi nei gamblers (Durdle, Gorey & Stewart, 2008), senza tuttavia riscontrare una forte correlazione con il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Doveroso sottolineare che la scelta di non includere nel campione soggetti che facevano uso di sostanze può aver inciso non poco sui risultati (alta è infatti la correlazione tra il disturbo antisociale e l’uso di sostanze).

 Ancora, rispetto al tratto dell’impulsività, indagato usando la Barratt Impulsiveness Scale, lo studio mostra che i soggetti appartenenti al Cluster C riportano punteggi elevati solo nella sottoscala relativa all’impulsività legata al decision-making (Attention Impulsiveness), mentre i soggetti del Cluster B mostrano punteggi elevati sia nella sottoscala precedente sia in quella relativa agli acting out (Motor Impulsiveness).

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Questi risultati evidenziano, quindi, ancora una volta la correlazione positiva tra GAP e impulsività, ma suggeriscono una comorbilità con specifici aspetti dell’impulsività, che meritano di essere approfonditi e presi in considerazione dai clinici che si trovano a trattare con questi pazienti.

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GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – PGD – GAMBLING –DISTURBI DI PERSONALITA’ – PD 

DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ –  IMPULSIVITA’

BIBLIOGRAFIA:

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