Ancora una volta la redazione di State of Mind torna in pellegrinaggio all’Istituto Albert Ellis di New York, dove si insegna il modello della terapia razionale emotiva comportamentale (REBT) di Albert Ellis.
A mia volta affronto, come altri nostri colleghi l’anno scorso, il corso primary della REBT e scrivo un resoconto. I docenti sono alcuni storici allievi di Albert Ellis: Kristen Doyle, Windy Dryden e Raymond DiGiuseppe.
Oltre ai principi base della REBT (per cui rimandiamo ad altri contributi vedi Link) Doyle, Dryden e DiGiuseppe affrontano aspetti non trascurabili. Una volta effettuato l’assessment dell’ABC primario e secondario (in linguaggio REBT meglio definito come meta-emotivo) da dove parte l’intervento?
Esiste una risposta protocollare? Se una parte di terapisti REBT sostiene la partenza indiscussa dal meta-emotivo, il punto di vista di Doyle è più mitigato ponendo molto la questione sulla necessità del paziente suggerendo di chiedere apertamente cosa preferirebbe affrontare per primo. Diversi i casi in cui il meta-emotivo diventa interferente con il lavoro sul primario a diversi livelli, sia in seduta che negli homework.
Altro aspetto non trascurabile: il concetto di regolazione dell’esperienza emotiva non si fonda più sulla diminuzione quantitativa dell’intensità delle emozioni negative come prevedeva il modello di Wolpe bensì si riferisce a un cambiamento qualitativo e categoriale dell’emozione: obiettivo della terapia sarebbe dunque – attraverso la strada cognitiva – cambiare l’identità dell’esperienza emotiva, e non soltanto diminuirla, rimpicciolirla, in qualche modo snellirla: da ansia il target diventa preoccupazione e non “meno ansia”, da depressione a tristezza, da colpa a rimorso e cosi via. Inutile dirlo, tranquillità e rilassatezza come obiettivi credibili della terapia non esistono.
E si arriva all’eleganza della disputa ellissiana ortodossa: disputare i pensieri automatici beckiani -la cosiddetta inelegant solution- viene generalemente scoraggiato, mentre è molto più elegante la disputa ellissiana ortodossa che punta al cuore della credenza irrazionale, cuore cognitivo dell’emozione disfunzionale. Certamente si dovranno fare i conti con quanto il paziente che abbiamo di fronte è in grado di reggere non solo lo scioglimento di queste credenze tacite e implicite ma anche la loro revisione razionalista.
Nel frattempo si respira aria di validazione, trasversalmente ai diversi interventi: dall’imprescindibile necessità di una convinta adesione al “sillogismo motivazionale”, ai facili tranelli invalidanti che insorgono nella disputa delle credenze legate alla rabbia, al rischio di invalidazioni quando affrontiamo la catastrofizzazione/terribilizzazione. Tutto sommato anche la scelta di non disputare i pensieri automatici ma “solo” la credenza irrazionale può essere vista come una scelta altamente validante.
DiGiuseppe si diverte e diverte l’audience parlando delle assunzioni filosofiche ed epistemologiche alla base della REBT: dal falsificazionismo di Popper a Thomas Kuhn.
E raccomanda di non trascurare la psicologia sociale che ben conosce e studia i fenomeni di dissonanza cognitiva presupposto per il cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti.
Gran finale di Windy Driden, che tra una self-disclosure e l’altra presenta una nuova e arricchita gamma emotiva tra cui la gelosia e l’invidia disfunzionali. Ma soprattutto una bella evoluzione è il nuovo ruolo dato all’interno del modello alle conseguenze cognitive che ciascuna esperienza emotiva porta con sé: in altre parole finalmente all’interno del modello si dà uno spazio più che dignitoso all’interdipendenza bidirezionale (già ben conosciuta in psicologia generale) tra emozioni e cognizioni.
Se secondo la REBT le cognizioni causano le emozioni, ora anche le emozioni impattano sui nostri processi cognitivi provocando specifici effetti cognitivi – tipici e distinguibili per ciascuna emozione – che non fanno altro che mantenere l’emozione disfunzionale.
Economia Comportamentale: Come la Psicologia sta influenzando i mercati.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Markets are indeed susceptible to psychological phenomena. “There’s this tug-of-war between economics and psychology, and in this round, psychology wins,” says Colin Camerer, the Robert Kirby Professor of Behavioral Economics at the California Institute of Technology (Caltech) and the corresponding author of the paper.
Indeed, it is difficult to claim that markets are immune to apparent irrationality in human behavior. “The recent financial crisis really has shaken a lot of people’s faith,” Camerer says. Despite the faith of many that markets would organize allocations of capital in ways that are efficient, he notes, the government still had to bail out banks, and millions of people lost their homes.
Economists argue that the dominant players in a market, such as the hedge-fund managers who make billions of dollars’ worth of trades, almost always make well-informed and objective decisions. Psychologists, on the other hand, say that markets are not immune from human irrationality. Now, a new anal… (…)
Un regalo (es. una cena in un ristorante) può essere giudicato in base a due parametri: la desirability e la feasibility, che ne influenzano il gradimento
L’uso del nudging si è rivelato efficace per promuovere alcune condotte e disincentivarne altre; un ambito del suo utilizzo è certamente quello del marketing
La psicologia del denaro può aprire ad una visione del denaro che non viene demonizzato come oggetto del male, ma visto come qualcosa che circola nel mondo
Questo contributo si concentra sul mental accounting e sul processo di decison-making quando il contesto ha un impatto negativo a livello cognitivo-emotivo
Dall’esigenza di instaurare una collaborazione tra mondo economico e neuroscienze nasce la neuroeconomia, che comprende strumenti come il neuromarketing
L’ipertestualità è una proprietà dei testi in Rete che consentono un collegamento tra loro per tematiche; un esempio particolare di ipertesto è il QR code.
Il marketing si affida a serie tv e ad attori come Can Yaman per promuovere brand e prodotti, e in alcuni casi accade di "promuovere" anche gruppi etnici..
Per una efficacia promozione del prodotto, marketing e comunicazione devono interagire strettamente affinché strategia e stile comunicativo siano coordinati
Fin dalle prime pagine il territorio del sogno appare quindi individuato da coordinate assai diverse da quelle del “deposito di detriti” della vita psichica in cui si è trovato a lungo costretto, sia pure in posizione di privilegio (la ben nota “via regia all’inconscio”); i sogni abbandonano infatti il ruolo di prodotti pur utili al lavoro dell’analista ma essenzialmente “di scarto” per assumere sempre più quello di funzione centrale, viva e vitale della mente umana, e perciò anche dell’analisi – di fatto, una funzione necessaria perché una mente possa compiutamente esistere.
Nel loro secolo abbondante di vita, psicoanalisi e cinema sono stati spesso uniti in una sorta di gemellaggio. Tradizionalmente se ne sono sottolineati la comune età anagrafica, il ruolo ad un tempo sovversivo e propulsivo all’interno della cultura del Novecento e anche alcune immagini-chiave condivise, a partire da quelle cardine (abbondantemente rivisitate e risignificate) di ‘proiezione’ e ‘schermo’.
Ad apparentarli geneticamente è comunque, risalendo alle radici, il loro essere entrambi a diverso titolo creature della modernità – ossia, non solo di un progresso scientifico e tecnologico straordinariamente rapido, ma anche (soprattutto, forse) del dato grezzo di una radicale frattura di ordine culturale, epistemologico, sociale, politico ed economico.
Di una frattura storica, insomma – e varrà la pena ricordare che, già per il Bloch dell’Apologia della storia, i dati storici sono per definizione anche psicologici. Fu peraltro, quella del trapasso nell’epoca nuova, una discontinuità tanto marcata che un’intera cultura venne perentoriamente chiamata a darvi significato. Facendo nostra la traccia teorica indicata da Civitarese in questo suo nuovo volume saremmo allora tentati di riconoscere, nella psicoanalisi come nel cinema, due esemplari “sogni del moderno”: e questo perché, fatte salve le diverse specificità, entrambi costituiscono al pari dei sogni non solo una modalità creativa di rappresentazione di un reale potenzialmente critico o minaccioso (sarà un caso che la prima storica proiezione dei Lumière di un treno in corsa seminasse il panico tra gli spettatori?), ma prima ancora il tentativo di creare per esso una cornice di senso precisamente a partire dalla sua “messa in rappresentabilità”.
È a mio parere soprattutto questa consanguineità nel segno dell’onirico a suggerire a Civitarese il fitto intreccio di film e discorso psicoanalitico che, capitolo dopo capitolo, percorre il libro quasi per intero: un’impressione in certo modo confortata dall’accostamento delle due citazioni in epigrafe – la prima di Simic, che definisce i sogni ‘film della mia vita’, e la seconda di Bion, che del sogno mette in luce la funzione più profonda: non già di censoria copertura bensì di produzione e semmai di scopert(ur)a in fieri del senso.
Fin dalle prime pagine il territorio del sogno appare quindi individuato da coordinate assai diverse da quelle del “deposito di detriti” della vita psichica in cui si è trovato a lungo costretto, sia pure in posizione di privilegio (la ben nota “via regia all’inconscio”); nel tragitto percorso da Civitarese attraverso l’opera di Freud, Klein, Bion, Meltzer, Ogden e Ferro, con incursioni più brevi in quella di John Steiner e Masud Khan, i sogni abbandonano infatti il ruolo di prodotti pur utili al lavoro dell’analista ma essenzialmente “di scarto” per assumere sempre più quello di funzione centrale, viva e vitale della mente umana, e perciò anche dell’analisi – di fatto, una funzione necessaria perché una mente possa compiutamente esistere.
Questo rovesciamento di prospettiva non va letto, è importante sottolinearlo, come mera presa di distanze dalla posizione freudiana: la sua natura è piuttosto quella di un gesto dialettico generativo.
Nel portare l’attenzione sulla dialettica, Leitmotiv dichiarato nel capitolo dedicato a Ogden ma più sfumatamente al centro e in atto nell’intero volume, intendo soprattutto sottolineare il particolare vertice che caratterizza l’accostarsi di Civitarese a Freud e in generale all’edificio teorico psicoanalitico: ciò che si incontra nelle sue riletture, così come nelle proposte teoriche originali, non è infatti un’“ablazione” delle figure parentali psicoanalitiche, ma si propone come costruzione rivendicatamente ibrida (sintesi, più che antitesi) in cui anche il paradigma freudiano classico trova il suo posto – non più, però, come cornice unica ed esaustiva, ma come parte di un quadro teorico-clinico più ampio e dai margini costantemente rinegoziati. (Si legga ad esempio, nel quinto capitolo, il contrappunto “freudiano” a un Meltzer percepito a tratti come eccessivamente rigido nella sua critica all’Interpretazione dei sogni).
Al pari del trattamento, dunque, anche la teoria psicoanalitica procede qui nella direzione di un’espansione del senso non necessariamente rettilinea e certamente non teleologica. Ci si trova in sostanza, rispetto agli autori affrontati, in una disposizione dialogica non troppo diversa da quella che Ogden chiama, a proposito dei suoi stessi saggi critici, ‘lettura creativa’.
Per Civitarese, che in questo segue e rilancia sulla lezione di Bion – ma per alcuni aspetti già di Ferenczi – il sogno non va inteso, o almeno non primariamente, come semplice scarica evacuativa della psiche, come appagamento criptato di un desiderio infantile, o ancora come guardiano notturno, oltre che del sonno, di un contenuto ideativo inconscio ben definito per quanto sepolto in recessi della psiche individuabili solo per via indiretta.
Il sognare è invece una funzione mentale attiva (pur se in diversa modalità) anche durante la veglia e per nulla ancillare rispetto al pensiero, del quale costituisce anzi l’indispensabile sostrato. I sogni che continuamente facciamo sono infatti il ponte fondamentale tra il grado zero del puro esistere e della corporeità (bionianamente, di O) e l’ordine del simbolico – e a transitare questo ponte sono le emozioni, che proprio attraverso le diverse tappe della loro elaborazione onirica diventano via via esperibili, fatte proprie, rappresentabili anche a livello cosciente e fertili di pensiero. In altre parole il sogno rimane anche in questo quadro una “via regia” all’inconscio, ma non tanto nella misura in cui fornisce indizi riguardanti precisi desideri rimossi, quanto per la sua maggiore prossimità (rispetto al modus logico-razionale e astratto del pensiero) al nucleo corporeo ed emotivo della realtà del soggetto nell’hic et nunc (anche, ma non solo, della relazione analitica). Detta ancora altrimenti: la funzione-sogno, creando attraverso la continua elaborazione del flusso delle emozioni una giuntura tra il corpo e la mente, è di fatto una via regia alla realtà – definita quest’ultima da Civitarese come la porzione del nudo reale che ciascuno di noi riesce a fingere: il mondo in cui ciascuno di noi sente di vivere, insomma.
Della teoria bioniana del sogno che costituice il pilastro portante del volume Civitarese non si limita a offrire un’esposizione aggiornata fino ai più recenti sviluppi di Ogden e Ferro, ma procede a esplorare le implicazioni in sede tecnica e a livello di concettualizzazione della psicopatologia. Rispetto al ruolo e alla funzione dell’interpretazione, ad esempio, il vertice si sposta decisamente (per seguire l’efficace formulazione della quarta di copertina) da un lavoro sui sogni a un lavoro con i sogni – ciò che significa, per l’analista che porge un’interpretazione al paziente, soprassedere rispetto all’idea (dal doppiofondo narcisistico e autorassicurante) di potergli fornire pronta all’uso la chiave di lettura univoca del significato inconscio dei sogni portati in seduta o di qualsiasi altra sua comunicazione, mirando piuttosto a metterlo in contatto momento per momento con la realtà emotiva incarnata nel suo sognare nella misura in cui egli è in grado di divenirlo in quel preciso frangente. La scintilla del senso scocca infatti non da un disvelamento ex cathedra di contenuti segreti, bensì dal contatto tra la mente e le emozioni che il lavoro analitico tende a favorire attraverso una “sintonizzazione” creata in prima istanza nel campo della relazione analista-paziente (e modulata soprattutto dall’analista), e poi sperabilmente introiettata nel tempo dal paziente come funzione autonoma della propria mente. In altre parole, il lavoro interpretativo non si propone in questo quadro di offrire al paziente il “pesce” del significato, ma di costruire o potenziare a partire dal materiale (insieme narrativo ed emotivo) da lui messo a disposizione la “canna da pesca” con cui potrà prendersi cura da sé della sua fame di senso – e andrà segnalato che, in quest’ottica di co-costruzione radicalmente intersoggettiva, tanto la fattura della canna quanto gli eventuali “trucchi del mestiere” per usarla saranno inevitabilmente legati anche alla persona e allo stile dell’analista: al modo peculiare in cui egli per primo accede alla corporeità e alle emozioni proprie così come a quelle che prendono vita all’interno del campo. Naturale corollario di quanto appena detto è che, nella stanza di analisi ma già al principio della vita e durante l’accudimento, la nascita o la crescita di una mente sono possibili solo a patto che un’altra mente, già in grado di sognare e pensare, si metta a disposizione della prima: ciò che fa della vita psichica una realtà ontologicamente sociale.
È questo un postulato centrale su cui Civitarese torna a più riprese e da molteplici punti di vista: da un lato chiamando il pensiero dei suoi autori a interagire con questa specifica angolatura teorica (particolarmente interessanti le osservazioni sulla Klein, qui presentata come anello di congiunzione tra il modello unipersonale e quello intersoggettivo), dall’altro mostrando le implicazioni filosofiche del problema dell’ontogenesi umana risalendo fino a Hegel e alla rivisitazione fattane da Kojève, il cui splendido aforisma citato nel capitolo su Ogden si presta a riassumere uno dei cardini di questo libro produttivamente multifocale e più in generale di molta psicoanalisi contemporanea: ‘occorre essere almeno in due per essere umano’.
Gli scienziati dell’ University of Veterinary Medicine di Vienna hanno studiato il legame tra i cani domestici e i loro proprietari e hanno trovato similitudini con il rapporto genitore-figlio negli esseri umani.
Gli esseri umani hanno un bisogno innato di stabilire rapporti stretti tra di loro, cosi come molti animali anche hanno la necessità evolutiva di relazioni con conspecifici. Per gli animali domestici la situazione è ancora più complessa poichè possono entrare relazione non solo con i conspecifici, ma anche con gli esseri umani.
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Gli scienziati dell’ University of Veterinary Medicine di Vienna hanno studiato il legame tra i cani domestici ei loro proprietari e hanno trovato similitudini con il rapporto genitore-figlio negli esseri umani.
Gli animali domestici sono così ben adattati a vivere con gli esseri umani, che in molti casi il proprietario sostituisce i conspecifici e assume il ruolo di principale partner sociale dell’animale domestico. Un aspetto del legame tra gli esseri umani e cani è il cosiddetto “effetto base sicura”: i neonati umani usano i loro caregivers come base sicura dal momento che si trovano ad interagire con l’ambiente.
Analizzando il comportamento dei cani e dei loro proprietari, i ricercatori hanno esaminato le reazioni dei cani mentre erano in una situazione in cui avevano la possibilità di guadagnarsi del cibo giocando con alcuni giocattoli interattivi; nello specifico gli animali sono stati assegnati a tre condizioni diverse “proprietario assente”, “proprietario silenzioso” e ” proprietario incoraggiante”.
Dai dati osservazionali è emerso che i cani sembravano impegnarsi molto meno nel gioco per ottenere cibo se i loro proprietari erano assenti rispetto a quando il partner umano era presente (con trascurabili differenze nella condizione di incoraggiamento o silenziosità).
Gli stessi risultati per cui i cani sembravano più motivati a lavorare per ottenere una ricompensa materiale in presenza del loro amico umano si sono replicati in un esperimento successivo in cui i ricercatori hanno sostituito il proprietario con una persona sconosciuta durante il compito sperimentale.
Questo parallelismo tra l’effetto base sicura tra i rapporti umani e il rapporto cane-uomo sarà ulteriormente studiato in successivi studi comparativi diretti sui cani e bambini e loro caregivers.
“Se vuoi fare veramente qualcosa, puoi farcela! Se vuoi diventare scrittore puoi trovare delle strategie per aggirare la dislessia, come usare un registratore, dettare a qualcuno o scrivere piano piano impiegandoci molto più tempo della norma…ma ce la puoi fare”. Parola di Fonzie…Wow!
Nonostante abbia quasi 70 anni Henry Winkler, noto a tutte le generazioni come il mitico Fonzie di Happy Days, non è cambiato di una virgola: stesso sorriso, stessa simpatia, stessa voglia di divertirsi. Gli manca solo il giubbotto di pelle e quasi ti aspetti che ti ordini in maniera perentoria, indicando il bagno della Libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte: “Nel mio ufficio! Adesso!“.
Winkler sta girando l’Europa per promuovere il suo nuovo libro per bambini: Hank Zipzer e Le Cascate del Niagara, primo volume di una serie che narra le avventure di un ragazzino sveglio, creativo e intelligente che però soffre di dislessia; un testo che affronta in maniera divertente e commovente il tema dei disturbi specifici di apprendimento (DSA) vissuto in prima persona proprio dall’autore stesso.
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Eh già, perché Winkler soffre di dislessia, un DSA che riguarda la capacità di leggere: fa fatica a riconoscere lettere, sillabe e parole, che spesso sono “ballerine” (cioè sembrano muoversi sul foglio), nonostante l’assenza di deficit cognitivi o sensoriali; legge in maniera scorretta e/o lenta compiendo nella lettura e nella scrittura errori caratteristici come la sostituzione di lettere (m/n; v/f; b/d) e l’inversione di lettere e di numeri (es. 21 – 12).
Ha scoperto di soffrire di dislessia grazie a suo figlio che aveva difficoltà a scuola e spesso veniva sgridato dai genitori: “Puoi fare meglio di così!”, lo rimproveravano. Ma il figlio meglio di così non riusciva a fare e a seguito di un’accurata valutazione gli è stato diagnosticato un DSA. Winkler ha in questo modo capito di soffrire anche lui stesso di dislessia e di essersi comportato con suo figlio esattamente come i suoi genitori si erano comportati con lui: scambiando il suo disturbo per mancanza di volontà e scarso impegno (cosa purtroppo ancora diffusa).
L’attore ha deciso di dedicarsi al progetto Hank Zipzer ispirandosi alla propria storia di vita, creando esilaranti avventure in cui ogni riferimento a fatti, persone o cose non è, forse, puramente casuale: magari non avrà realmente portato in classe le cascate del Niagara, ma a quanto pare la temibile Ms. Adolf e la comprensiva Ms. Rock sono realmente esistite.
Hans Zipzer e Le Cascate del Niagara non è un libro qualunque, bensì un testo ad “alta leggibilità”, stampato appositamente dalla casa editrice Uovonero con alcune precise caratteristiche per favorire la lettura anche a chi ha difficoltà specifiche: un’impaginazione chiara, ariosa, che accompagna la lettura nel ritmo e ne facilita la leggibilità, l’utilizzo di un carattere di stampa studiato e testato per non confondere le lettere, l’uso della carta color crema che stanca meno la vista, una particolare cura nell’editing dei testi che favorisce strutture sintattiche chiare ed un linguaggio semplice che stimoli l’arricchimento lessicale senza disorientare il lettore.
Inoltre Winkler ha pensato ad alcune accortezze per facilitarne ulteriormente la lettura a chi soffre di dislessia: frasi semplici e brevi, simpatici elenchi di pensieri random che frullano in testa al protagonista e un capitolo che consta di una sola riga “Perché così quando la maestra darà loro il compito di leggere un capitolo a scelta del libro non avranno problemi!”
Winkler ha combattuto una vita contro la dislessia che gli ha creato problemi a scuola dove “Ero l’incubo di qualsiasi insegnante di matematica (la dislessia spesso si associa alla discalculia, ndr)… che poi, quante volte nella vostra vita quotidiana avete utilizzato il termine ipotenusa?!!!”, ma anche sul set di Happy Days quando doveva imparare le battute di Fonzie. Come ha fatto? “Ho avuto la fortuna di costruire la mia intera carriera d’attore attorno ad un’unica battuta: …HEY!” scherza.
Ma quanto è stato difficile scrivere l’intera serie di avventure di Hank Zipzer? È risaputo che le vie del Fonzie sono infinite: Winkler ha dettato l’intera opera alla sua assistente perché “Se vuoi fare veramente qualcosa, puoi farcela! Se vuoi diventare scrittore puoi trovare delle strategie per aggirare la dislessia, come usare un registratore, dettare a qualcuno o scrivere piano piano impiegandoci molto più tempo della norma…ma ce la puoi fare”. Parola di Fonzie…Wow!
Dipartimento di Psicologia, Università di Firenze.
“Importanza dei Pensieri” è risultato l’unico dominio cognitivo ossessivo in grado di predire in modo significativo una scarsa risposta terapeutica al termine del programma di trattamento.
Circa il 40% dei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) non risponde in modo ottimale al trattamento evidence-based, basato su esposizione con prevenzione della risposta (Clark, 2003).
Tra i fattori che potrebbero spiegare l’insuccesso terapeutico sono state proposte le credenze osessive (Keeley et al., 2008). E’ stato ipotizzato che il domino cognitivo Importanza dei Pensieri possa mediare una più debole risposta terapeutica (Foa et al., 1999). Alcuni studi suggeriscono che questo dominio cognitivo sia associato ad un più scarso insight rispetto alla sintomatologia DOC, e alla cosiddetta overvalued ideation, ovvero la tendenza a sopravvalutare l’importanza dei pensieri e ritenere che la presenza di questi ultimi sia sempre logicamente giustificata (Neziroglu et al., 2004).
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L’obiettivo del presente studio è stato quello di indagare quali fattori prognostici sono associati ad una scarsa risposta ad un programma di trattamento in regime residenziale basato su Esposizione e Prevenzione della Risposta quotidiana e prolungata in combinazione con terapia farmacologica per il DOC resistente.
Sono stati inclusi nello studio 31 pazienti ricoverati nel periodo compreso tra marzo 2008 e marzo 2012, presso l’Unità di Trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo Resistente presso la Casa di Cura Poggio Sereno (Fiesole, Firenze). I criteri di inclusione dei soggetti sono stati i seguenti: a) diagnosi primaria di disturbo ossessivo compulsivo in base ai criteri DSM-IV-TR (American Psychological Association, 2000); b) assenza di psicosi, dipendenza da alcole/o sostanze, disturbi mentali organici e ritardo mentale; c) presenza di un disturbo ossessivo-compulsivo resistente a precedenti trattamenti farmacologici e cognitivo-comportamentali di provata efficacia somministrati per una durata ritenuta sufficiente a produrre un cambiamento sintomatologico [Rasmussen e Eisen (1997) indicano una durata minima adeguata di 10-12 settimane di terapia continuativa con SRI combinata con un intervento con ERP di 20-30 ore complessive].
I pazienti selezionati hanno completato i seguenti strumenti di assessment: la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale, il Beck Depression Inventory-II, l’Obsessive Belief Questionnaire-87, che sono stati somministrati prima e dopo il percorso di trattamento.
Importanza dei Pensieri è risultato l’unico dominio cognitivo ossessivo in grado di predire in modo significativo una scarsa risposta terapeutica al termine del programma di trattamento (β= .53, t= 2.41, p< .05). Questo risultato appare coerente con studi in letteratura che indicano che non tutti i domini cognitivi ossessivi sono specifici del DOC. Ad esempio, l’Intolleranza per l’Incertezza e la Sovrastima del Pericolo appaiono correlati anche con il disturbo d’ansia generalizzata, mentre Importanza dei Pensieri è considerato un dominio specifico del DOC (Holaway, Heimberg & Coles, 2006).
Sembra quindi che un programma di trattamento residenziale basato su una somministrazione quotidiana e prolungata dell’ERP possa ridurre l’impatto negativo di alcuni beliefs disfunzionali sull’esito terapeutico.
Il meccanismo che potrebbe spiegare questo effetto è riconducibile al processo di emotional processing, considerato il meccanismo responsabile del cambiamento terapeutico su cui si fonda l’esposizione nel trattamento di numerosi disturbi d’ansia (Abramowitz, Deacon & Whiteside, 2010).
Tale meccanismo fa riferimento al processo di disconferma dei beliefs disfunzionali attraverso la presentazione di informazioni correttive, incompatibili con gli schemi cognitivi preesistenti. Ad esempio, nel caso del DOC il miglioramento sintomatico sarebbe risultato di ripetute esperienze di disconferma dei beliefs relativi alla probabilità che si verifichino eventi catastrofici se non vengono attuate le compulsioni.
Un altro elemento ricavabile dai risultati riguarda l’importanza di introdurre nei protocolli evidence-based interventi mirati ad aumentare la risposta terapeutica di pazienti con basso insight. Come appare da recenti studi pionieristici (Sookman & Steketee, 2010), l’introduzione di tecniche cognitive basate sul modello degli schemi può ridurre l’effetto prognostico negativo anche dei beliefs specifici del DOC, quali quelli legati al dominio Importanza dei Pensieri e ad un basso insight, risultando utile sia come strategia terapeutica di augmentation che promuova la compliance nelle sedute di esposizione che come tecnica di prevenzione della ricaduta.
Se qualcuno si sente molto in difficoltà in caso di rifiuto sociale, l’ossitocina potrebbe promuovere la fiducia nell’altro e la ricerca di sostegno sociale, evitando pericolosi circoli viziosi di ritiro sociale.
La prossima volta che qualcuno vi snobba ad una festa, se vi viene da pensare che nascondersi è la soluzione per sfuggire ai vostri vissuti negativi, ripensateci.
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Gli scienziati hanno dimostrato che avvicinarsi ad altre persone nel corso di un evento stressante è un modo efficace per regolare queste emozioni negative con l’aiuto dell’ossitocina.
L’ossitocina, un ormone tradizionalmente studiato per il suo ruolo chiave durante il parto e l’allattamento al seno, più di recente viene studiato per il suo effetto sul comportamento sociale.
In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Psychoneuroendocrinology, dimostra che l’ossitocina può aumentare i livelli di fiducia nell’altro anche a seguito di un rifiuto. In un esperimento in doppio cieco, a 100 studenti è stata somministrata ossitocina oppure una sostanza placebo attraverso uno spray nasale, e succcessivamente sono stati sottoposti a un’esperienza di rifiuto sociale.
Nello specifico è stata simulata una conversazione in cui i partecipanti venivano interrotti o ignorati da alcuni collaboratori degli sperimentatori.
I risultati hanno dimostrato che i soggetti che riferivano elevati livelli di disagio emotivo dopo essere stati rifiutati hanno riferito una maggiore fiducia nelle altre persone se era stata somministrata loro ossitocina prima dell’interazione problematica rispetto a coloro che – mostrando alti livelli di emozioni negative – avevano ricevuto la sostanza placebo. Al contrario, l’ossitocina non ha avuto effetto sulla fiducia in coloro che non sono stati emotivamente influenzati dal rifiuto sociale.
Quindi secondo i ricercatori se qualcuno si sente molto in difficoltà in caso di rifiuto sociale, l’ossitocina potrebbe promuovere la fiducia nell’altro e la ricerca di sostegno sociale, evitando pericolosi circoli viziosi di ritiro sociale. La prossima fase della ricerca avrà inizio a studiare gli effetti di ossitocina in coloro che sono ad alto rischio di sviluppare depressioneclinica.
Irrational human decision making during a zombie apocalypse
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Siete in una stanza piena di Zombie e volete uscirne in fretta. Ecco un consiglio: lo stress dato dalla situazione vi farà scegliere la via che vi è più familiare, anche se è quella più affollata. Datevi una migliore possibilità di sopravvivenza e controllate se non c’è una strada più accessibile per la fuga…
Da un esperimento dei ricercatori dell’Università dell’Essex (UK) presentato al London’s Science Museum.
Viaggiare può essere un’esperienza stimolante, ma anche una fonte di stress legata all’organizzazione, agli imprevisti e all’adattamento a nuovi contesti
Avere perso il treno oggi avrà un impatto così grande sulla mia vita tra sei anni? Il distanziamento temporale ci aiuta a rimettere le cose in prospettiva
La PNEI è un modello scientifico emergente che concepisce l’essere umano nella sua totalità, rifiutando qualsiasi tipo di compartimentazione riduzionistica
L'epigenetica sta mettendo in luce come le alterazioni biologiche e comportamentali post traumatiche possono essere trasmesse alla prole
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Baby Femminicidio.. Vittime e Carnefici sempre più piccoli!
Di Elena Tugnoli
Pre adolescenti o adolescenti rischiano maggiormente la vita nella scelta del partner, più che tra le mura di casa; donne di maggiore età rischiano maggiormente la vita nell’ambiente domestico.
Il femminicidio è oggi molto presente nell’attualità, telegiornali, riviste, giornali ne parlano continuamente.
Oggi siamo “abituati” a sentirne parlare ma ancora ci sconvolgiamo, sia per la violenza e la crudeltà di cui è capace un uomo, familiare o non, sia perché le vittime e i carnefici iniziano ad essere molto piccoli di età.
Ultimo caso quello di Fabiana, accoltellata e bruciata dal fidanzatino 17enne.
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Le ricerche riportano che spesso ragazze o donne scelgono partner violenti fisicamente o psicologicamente quando vengono da contesti dove la violenza è di casa. Ad esempio adolescenti che hanno vissuto relazioni con partner violenti, in età adulta perpetuano la stessa scelta, soprattutto le femmine rispetto ai maschi, continuano a scegliere partner con cui avere relazioni pericolose. Oppure vittime di violenza da bambini, da adolescentiavranno più probabilità di esserne nuovamente vittime o di mettere in atto comportamenti aggressivi. (1-2)
Altre ricerche mostrano che l’aumento delle ragazze uccise dipende non più dalla mano di familiari ma di fidanzati già dall’età di 11 anni, le cause sono o fidanzati di maggiore età oppure fidanzatini in preda a “pulsioni” adolescenziali, quindi meno capaci di prevedere/gestire reazioni impulsive o emotive. (3-4)
Questi dati quindi ci suggeriscono una differenzazione per età: pre adolescenti o adolescenti rischiano maggiormente la vita nella scelta del partner, più che tra le mura di casa; donne di maggiore età rischiano maggiormente la vita nell’ambiente domestico.
La differenza è sottile ma la donna è più capace di valutare il partner e di riconoscerne la pericolosità pur scegliendo di rimanerci insieme a seguito di dinamiche psicologiche/affettive. La ragazza adolescente non ragiona in termini di pericolosità ma di affettività inserita poi in un contesto di ribellione genitoriale dovuta alla fase di età. Le variabili che sembrano fare la differenza per gli adolescenti individuate dai ricercatori sono: l’influenza dei pari, uso di sostanze, l’adattamento psicologico e gli atteggiamenti verso la violenza. La facilità all’influenza del gruppo e l’atteggiamento verso la violenza, che si possa intendere come sfida o come poco timore della pericolosità (familiarità per la violenza?), possono portare le ragazze a sottovalutare il rischio e mettersi in condizioni pericolose maggiormente che le donne adulte.
Altri ricercatori sottolineano come la qualità delle relazioni violente non differisca molto da quelle non violente, secondo gli adolescenti, per criteri quali: percezione di amore, cura del partner, presenza di gelosia ed altri fattori. Inoltre emerge come la relazione “pericolosa” sia di lunga durata, ci siano molti contatti affettivi e un maggiore supporto strumentale. Questi dati ci permettono di sottolineare come siano invischiate queste relazioni probabilmente da dinamiche molto ben collaudate e compensate di vittima-carnefice.(6)
La caratteristica che accumuna queste due classi di età è la difficoltà a separarsi dal partner nonostante la sua pericolosità. Così come Fabiana non si è decisa a lasciarlo, anche Rosaria, un altro caso di cronaca, dopo essere finita in ospedale per colpa del compagno e dopo ripetuti ripensamenti decide di tornare dal suo carnefice. Queste sono due delle alternative possibili per chi inciampa in una relazione difficile, la terza che sarebbe la salvezza non viene considerata perché accecate “dall’amore”…
Una nuova ricerca dimostra che la postura fisica più espansa o contratta – anche condizionata da vincoli ambientali e strumentali con cui troviamo a convivere – può impattare su variabili squisitamente mentali.
Ad esempio, avere a disposizione una grande scrivania che consente di allungarsi mentre si sta
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lavorando o avere un posto guida mastodontico su un’automobile possono indurre le persone a sentirsi più potenti e a stimolare un comportamento più disonesto, come ad esempio rubare, truffare, e anche violare il codice della strada.
Questo è quanto emerge da una nuova ricerca che include i dati di quattro studi e che è in prossima pubblicazione sulla rivista Psychological Science.
Negli ambienti di lavoro, nella vita di tutti i giorni, le nostre posture corporee possono essere incidentalmente più o meno espanse o contratte – dai sedili nelle nostre auto, ai mobili nei nostri spazi di lavoro e nelle nostre case – e questi ambienti possono influenzare la propensione ad assumere comportamenti disonesti nella vita di tutti i giorni.
Ad esempio, in un esperimento, i ricercatori hanno manipolato l’espansività della postura indotta da specifiche aree di lavoro e verificato il grado di attuazione di comportamenti disonesti; in un altro esperimento è stato esaminato se i soggetti alla guida in un sedile più imponente fossero più incentivati ad andare veloce in una simulazione di guida in un video-game.
Per verificarne la validità ecologica, uno studio osservazionale ha confermato che le automobili con sedili del conducente di dimensioni maggiori avevano maggiori probabilità di essere illegalmente parcheggiate per le strade di New York.
In un’ottica di embodied cognition, la ricerca sull’ergonomia della disonestà indica che anche lievi e inconsapevoli cambiamenti posturali possono avere un impatto sui nostri pensieri, atteggiamenti e comportamenti morali.
Alcuni tratti caratteriali dei due personaggi uniti ai loro vissuti esistenziali sono rilevabili in soggetti con organizzazione di personalità tipo disturbo alimentare psicogeno: il senso di vuoto, il confronto continuo avvertito come sfida, l’importanza del giudizio degli altri per il valore personale e l’identità, l’incombenza del fallimento determinato dall’incapacità e dall’incompetenza personale punteggiano la narrazione filmica.
Info:
Come tu mi vuoi.
Un film di Volfango De Biasi, con Nicolas Vaporidis, Cristiana Capotondi, Giulia Steigerwalt, Elisa Di Eusanio, Paola Carleo, Paola Roberti, Marco Foschi, Niccolò Senni, Roberto Di Palma, Luigi Diberti. Commedia. Italia 2007.
Trama:
Giada è una giovane studentessa universitaria bruttina e povera, ma molto intelligente. Riccardo frequenta la stessa facoltà, ma ha poca voglia di studiare, è ricco e fa la bella vita. Lui è costretto a prendere ripetizioni e a dargliele sarà proprio lei. Dopo varie vicissitudini arriva l’amore, ma sarà necessario un cambiamento radicale.
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I temi del film sono relativi all’importanza che assume l’immagine sociale, il conformarsi ai modelli culturali dominanti per essere presi in considerazione, con tutti i risvolti che tali atteggiamenti possono comportare. L’essere accettati è un bisogno che viene soddisfatto conformandosi alle aspettative altrui: si diventa ciò che si presume gli altri vogliano rinunciando ad essere se stessi, ad agire secondo propri scopi, a prendere in considerazione preferenze e scelte autonome pur di rispondere alle aspettative.
Riccardo studia perché il padre, freddo e assente, se lo aspetta ed è disposto a mantenerlo solo a questa condizione e perché la madre, sempre accondiscendente nei suoi confronti, lo implora. La vita notturna romana che frequenta assiduamente è piena di lustrini e apparenza, un mondo dove tutti vivono sopra le righe pur di essere considerati e apprezzati.
Anche l’intelligenza di Giada viene piegata alla regola dell’essere “cool” pur di avere successo. Deve cambiare e diventare bella, vestirsi alla moda e adeguarsi alla mentalità comune per essere accettata non solamente dall’uomo che ama, ma addirittura per ottenere un lavoro all’università. In effetti sia Riccardo che Giada
cambiano, diventano più flessibili rispetto al contesto: lui si impegna nello studio e diventa un po’ meno ‘fancazzista’, lei rinuncia ad alcuni atteggiamenti intellettualistici in cui presume di sapere la verità.
E questo forse è il messaggio che propone il film.
Alcuni tratti caratteriali dei due personaggi uniti ai loro vissuti esistenziali sono rilevabili in soggetti con organizzazione di personalità tipo disturbo alimentare psicogeno: il senso di vuoto, il confronto continuo avvertito come sfida, l’importanza del giudizio degli altri per il valore personale e l’identità, l’incombenza del fallimento determinato dall’incapacità e dall’incompetenza personale punteggiano la narrazione filmica.
Il film può consentire al paziente di familiarizzare con certi tratti di personalità per incrementare la consapevolezza e creare le condizioni migliori per una ristrutturazione cognitiva.
Game Over – La dipendenza dal gioco non è un gioco
La redazione di State of Mind presenta in questo articolo:
CENTRO DI ASCOLTO PSICOLOGICO NAZIONALE GAME OVER
Se per molti il gioco d’azzardo è un innocuo e sano passatempo, per altri, tuttavia, il giocare può trasformarsi da semplice evasione a sintomo di un vero e proprio disturbo patologico definito ludopatia.
Già dal 1980 gli studiosi del fenomeno hanno riconosciuto la dipendenza da gioco come patologia.
Nel 1992 l’OMS ha definito il gioco d’azzardo compulsivo una “forma morbosa chiaramente identificata”. Studi scientifici stimano che attualmente la percentuale di persone che possono essere colpite da gioco d’azzardo patologico (GAP) può raggiungere il 3% della popolazione.
Alla luce di ciò Primo Consumo, in partnership con Codere italia spa, si preoccupa, con il progetto “Game Over – La dipendenza dal gioco non è un gioco”, di tutelare la salute psicofisica dei giocatori attraverso una serie di iniziative e servizi volti a promuovere il gioco responsabile e a prevenire il diffondersi della ludopatia.
Nell’ambito del progetto è stato attivato da settembre 2011 per i giocatori e loro familiari
attivo 5 giorni su 7, dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 13.00
(chiamata gratuita sia da telefono fisso che da cellulare)
il servizio è coordinato da psicologi e psicoterapeuti esperti di problematiche psicologiche legate al gioco d’azzardo che direttamente accolgono le chiamate dei giocatori e dei familiari, rispondendo in modo efficace, mirato e personalizzato alle richieste delle persone che contattano il Centro.
Il Centro di ascolto Game Over:
– prevede un immediato intervento sulla crisi, con servizi di informazione e orientamento personalizzati in base alle richieste e alla specifica situazione.
– prevede percorsi di sostegno con uno psicologo di riferimento volti ad accompagnare la persona verso strategie e soluzioni più funzionali alla gestione della sua condizione di gioco;
– garantisce agli utenti il completo anonimato, tutela della privacy e segreto professionale
– dispone, inoltre, di un database nazionale aggiornato sulle principali risorse e centri pubblici o privati convenzionati presenti in Italia che si dedicano alla cura e al trattamento delle ludopatie. Gli psicologi del centro d’ascolto sono in grado di dare informazioni chiare che possano garantire la maggiore facilità di accesso possibile ai servizi in base al bisogno dell’utente
Grazie al Centro d’Ascolto Game Over è possibile quindi intervenire per prevenire l’insorgere di condizioni patologiche e l’aggravarsi di situazioni già problematiche legate alla dipendenza da gioco d’azzardo e, laddove necessiti, è possibile indirizzare l’utente presso strutture territoriali specifiche per il problema.
L’attivazione del NUMERO VERDE 800.185.453 consente di offrire un servizio totalmente gratuito (sia da telefono fisso che da cellulare), agevolando l’accesso anche alle persone con disagio economico che possono contattare il Centro per ricevere i servizi di sostegno psicologico e informazioni. La gratuità del servizio si rileva particolarmente utile per una popolazione che, proprio in virtù delle problematicità legate al gioco, spesso può trovarsi in condizioni economiche anche molto critiche.
Un’ulteriore caratteristica del servizio è il rispetto dell’anonimato della persona che contatta il Centro d’ascolto. Tale aspetto può consentire di formulare una prima richiesta d’aiuto tutelando la propria intimità e la propria riservatezza, mantenendo quella che può essere percepita dal giocatore come una sorta di “distanza di sicurezza” nella quale poter esprimere il proprio disagio.
Il giocatore patologico è spesso vittima di sentimenti di colpa e di vergogna che rappresentano un ostacolo notevole alla formulazione di una richiesta di aiuto. La consapevolezza di poter contattare su specialisti in forma totalmente anonima rappresenta uno stimolo a compiere quel primo, difficile passo nell’ammissione, in primo luogo a se stessi, di avere un problema legato al gioco. Lo psicologo del Centro di ascolto è quindi presente, pronto ad accogliere, sostenere, orientare ed informare con professionalità anche in una sola telefonata. È tuttavia previsto che la persona, sia essa il giocatore o il familiare, possa contattare ulteriormente lo psicologo ed intraprendere un percorso di accompagnamento e di sostegno, avvalendosi delle risorse presenti sul territorio.
Nel gioco d’azzardo patologico sono frequenti menzogne, segreti e le “cose non dette” tendono ad invadere l’esperienza del soggetto e della famiglia.
Nel supporto psicologico il mezzo telefonico può rappresentare uno “spazio” particolarmente “abitabile” che il chiamante fa proprio ed utilizza per l’espressione di sentimenti che ha altrove difficoltà a manifestare. È utile ricordare che nel momento in cui una persona decide di contattare un numero verde sta già attuando un processo complesso che si fonda sulla consapevolezza di avere un problema, consapevolezza che è alla base di un percorso terapeutico e riabilitativo.
La persona apre uno spiraglio nella sua sofferenza verso l’esterno, lo specialista all’altro capo del telefono coglie il gesto, l’intenzione e il bisogno del soggetto con gli strumenti professionali e umani necessari ad un intervento mirato ed efficace.
Il Centro di ascolto eroga tre principali servizi: “Sostegno psicologico”, “informazione” e “orientamento”.
Sostenere psicologicamente. È l’attività che impegna maggiormente gli psicologi del Centro di ascolto. Il servizio di sostegno psicologico, può contribuire in modo sistematico e scientificamente valido, all’attivazione di risorse della persona, alla soluzione di problemi, alla sperimentazione di vissuti di sollievo, al miglioramento di capacità comunicative, alla correzione di idee disfunzionali.
Ecco perché parliamo di “terapia di sostegno psicologico”. Questa può attuarsi nella sola prima telefonata, oppure svilupparsi nel tempo. Chi contatta il centro d’ascolto può, infatti, instaurare un rapporto di sostegno duraturo e sistematico con uno stesso psicologo, lungo il corso delle fasi problematiche legate al rapporto con il gioco; si attua così una vera e propria presa in carico della persona. Alcuni dei più frequenti interventi di sostegno mirano ad affrontare e gestire le emozioni spiacevoli quali vergogna, colpa, ansia, depressione; la difficoltà a chiedere aiuto; le crisi delle relazioni in famiglia; i problemi di comunicazione; i disagi indotti dalla ludopatia nelle sue varie fasi.
Informare. Per raggiungere le risorse che soddisfano i propri bisogni, si necessita fondamentalmente di informazioni. Per motivi di urgenza del disagio e di complessità del bisogno, la persona può non essere in grado di ottenere da sola le informazioni corrette e mirate. Deve quindi rivolgersi ad “esperti” o a specifiche fonti. Il Centro di ascolto è una di queste fonti e fino a questo punto svolge una funzione simile a quella di tanti altri call center, sportelli informativi o siti internet. L’aspetto che lo distingue da altri servizi “dispensatori” di informazioni è che queste sono offerte in modo attivo, mirato e centrato su bisogni specifici di ciascuna persona che contatta il Centro. Le informazioni offerte riguardano le risorse sociali e sanitarie nazionali per la diagnosi, la cura, l’assistenza nell’ambito del gioco d’azzardo patologico (Sert, comunità, centri clinici, Giocatori anonimi, ecc.)
Orientare. La parola “orientamento” richiama alla mente il suo contrario: “disorientamento”, “smarrimento”, e ciò lascia trasparire l’area dei bisogni che questo servizio mira a soddisfare. Nella ludopatia la persona si trova in una condizione sociale, psicologica, fisica, affettiva ed economica di sbandamento, di perdita di certezze, di fronteggiamento di problemi complessi, multipli e pressanti. La persona può sentirsi “confusa”, “smarrita”, “in balia degli eventi”, “disorientata”. Come per le informazioni anche l’orientamento è offerto dal Centro in modo propositivo. Orientare è un’arte che richiede innanzi tutto ascolto competente. Sarebbe più corretto dire che si aiuta la persona (processo di empowerment) ad orientarsi piuttosto che “orientarla”. Le si forniscono comunque sostegno e informazioni precise, chiare, essenziali per poter riprendere la strada smarrita o tracciare un nuovo sentiero.
Studi su animali indicano che l’esposizione prenatale alla nicotina altera lo sviluppo delle aree del cervello legate alla elaborazione delle ricompense che potrebbe essere un fattore di rischio per l’uso di sostanze e dipendenza più tardi nella vita.
Il fumo nuoce gravemente alla salute questo è risaputo. Soprattutto i rischi del fumo in gravidanza sono più gravi di quanto molte donne immaginano. Purtroppo non tutte le future madri riescono a rinunciare alle sigarette durante la gravidanza. Il fumo attivo e passivo sono nocivi in maniera specifica per le vie respiratorie aumentando la frequenza di patologie respiratorie ed asma. E’ ormai accertato che attraverso la placenta non passa solo la nicotina ma anche sostanza cancerogene come benzopirene con probabili rischi in età adulta.
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Tassi più elevati di consumo di sostanze e dipendenza sono stati osservati nella prole di madri che hanno fumato durante la gravidanza.
Studi su animali indicano che l’esposizione prenatale alla nicotina altera lo sviluppo delle aree del cervello legate alla elaborazione delle ricompense che potrebbe essere un fattore di rischio per l’uso di sostanze e dipendenza più tardi nella vita.
Tuttavia, nessuno studio ha esaminato l’effetto del fumo materno sulla risposta cerebrale della prole durante l’elaborazione della ricompensa. Sono stati effettuati degli studi uno studio di Kathrin U. Müller, Dipl.-Psych, della Technische Universität Dresden, Germania.
Infatti gli adolescenti con esposizione prenatale al fumo di sigaretta differiscono dai loro coetanei non esposti per quanto riguarda il funzionamento della zona del cervello responsabile dell’anticipazione o la ricezione di un premio.
I ricercatori hanno valutato 177 adolescenti con l’esposizione prenatale al fumo di sigaretta materno e 177 coetanei non esposti di un età compresa tra i 13-15 anni, appaiati per sesso, livello di istruzione materna, e il sito di imaging. La risposta a premio è stata misurata nella zona striato ventrale del cervello utilizzando la risonanza magnetica funzionale. Questa area del cervello riceve proiezioni da regioni corticali coinvolti nei processi sensoriali motori e cognitivi e riceve input dal sistema dopaminergico. Sistemi recettoriali legati alla dopamina sono considerati di primaria importanza nel modulare la risposta dell’organismo in termini di emozioni positive legate alla ricompensa.
Negli adolescenti esposti prima della nascita, gli autori hanno riscontrato una risposta più debole nel corpo striato ventrale durante l’anticipazione della ricompensa. Rispetto ai loro coetanei non esposti. Non sono state riscontrate differenze per quanto riguarda la responsività dello striato ventrale al ricevimento di una ricompensa.
La responsività più debole dello striato ventrale all’anticipazione della ricompensa negli adolescenti con esposizione prenatale può rappresentare un fattore di rischio per l’uso di sostanze e lo sviluppo di dipendenzapiù tardi nella vita.Tale risultato mette in evidenza la necessità di istruzione e misure preventive per ridurre il fumo durante la gravidanza.
In conclusione le analisi futuri dovrebbero valutare: 1) se gli adolescenti esposti al fumo sviluppano un aumentato rischio di uso di sostanze e dipendenza e; 2) quale sarebbe il ruolo delle differenze neuronali riportate durante ricompensa anticipazione in questo sviluppo.
Molte persone lamentano di avere importanti obiettivi in vari settori dell’esistenza ma di non riuscire ad impegnarsi per il loro raggiungimento. Questa valutazione sul proprio mancato impegno aggiunge un plusvalore alla sofferenza già sperimentata per il mancato raggiungimento degli obiettivi stessi.
La demotivazione si sperimenta in particolari condizioni.
Ci si demotiva verso uno scopo strumentale se:
lo scopo terminale a cui serviva ha perso di importanza (non è più importante essere bello per conquistare la donna che desidero se essa è morta)
lo scopo terminale è stato raggiunto (nel caso precedente ci siamo sposati da vent’anni)
mi convinco che tale scopo strumentale non è comunque efficace per il raggiungimento di quello terminale (ad esempio capisco che alla donna in questione interessano gli uomini colti e non quelli belli).
La demotivazione dunque sembra essere un meccanismo di risparmio delle risorse al servizio dello pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. In sintesi se una strategia è certamente inefficace o non mi interessa più l’obiettivo cui era finalizzata sembra più che ragionevole abbandonarla. Tuttavia questo abbandono è spesso giudicato negativamente e genera sofferenza aggiuntiva a quella per la frustrazione dello scopo.
Ipotizzo che i motivi possano essere:
nel caso che lo scopo terminale resti ancora attivo si fallisce anche lo scopo interno riguardante l’identità di “essere uno che persegue senza riserve e senza risparmi i propri obiettivi importanti”. Infatti si può ritenere che non sia l’inefficacia della strategia la causa della demotivazione ma assolutamente il contrario. I risultati non ci sono proprio a causa della demotivazione. L’inefficacia della strategia è dovuta all’averla perseguita poco e male e aumentando intensità e durata si sarebbe ottenuto il risultato.
Nel caso invece in cui il risultato sia stato ottenuto si ritiene paradossalmente che ciò non giustifichi il ritiro dell’investimento. In nome di una sorta di inerzia degli investimenti giustificata con la necessità di mantenere il risultato “devo continuare ad essere bello anche se l’ho sposata da vent’anni altrimenti potrei perderla”.
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Persino la rinuncia allo scopo terminale perché raggiunto o definitivamente compromesso può comportare una quota aggiuntiva di sofferenza per la fatica cognitiva che comporta. Infatti se uno scopo terminale importante viene abbandonato il sistema deve affrontare un lavoro di ristrutturazione della gerarchia degli scopi per attribuire nuove priorità. Le nuove priorità comporteranno l’attivazione di nuove strategie di perseguimento. Si tratta dunque di cambiare rotta e sistema di navigazione.
Caso diverso è il disimpegno quando gli scopi terminali e strumentali sono validi e attivi ma il soggetto non si sforza, quanto ritiene che dovrebbe, per perseguirli.
Il problema sta tutto nel definire lo standard soggettivo dell’impegno che sarebbe ritenuto adeguato. Per alcuni soggetti, gli standard sono elevatissimi e soprattutto non ben definiti. Per loro si può sempre fare di più e dunque si deve. Ergo non si è fatto mai abbastanza. Sembrano agire in base alla regola “il massimo sforzo a prescindere dal risultato”. Ma non è questa la sede per occuparci di questa vera e propria patologia (Mancini 2005; Lorenzini, Sassaroli, Ruggiero 2006; Perdighe, Mancini 2008 ). Qui l’attenzione è su coloro che avrebbero l’opportunità e il desiderio di impegnarsi di più per i propri scopi ma non lo fanno attribuendosene poi la colpa. Perché ciò che è possibile e auspicato dal soggetto stesso non avviene?
In primo luogo l’impegno costa fatica ed essa è l’indicatore di una dissipazione di energie che potrebbero non essere disponibili se improvvisamente necessarie per altri obiettivi più urgenti. Quindi quando sentiamo fatica siamo naturalmente portati a smettere.
In secondo luogo più sono le risorse investite per uno scopo e maggiore diventa la sua importanza perché al suo valore si aggiungono i cosidetti “costi sommersi” (Piattelli Palmarini 1995; Motterlini 2008; Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002) ovvero quanto si è speso per esso. Sembra che il valore di un obiettivo sia la somma del suo valore iniziale più quanto si è già speso per raggiungerlo. A correzione parziale di questo meccanismo ad andamento esponenziale credo che l’impegno verso uno scopo non proceda in modo costantemente crescente nel tempo. Ciò rischierebbe infatti di creare un meccanismo a retroazione positiva per cui “più è importante e più mi impegno, ma, più mi impegno e più diventa importante… ” Credo piuttosto che proceda con un andamento pulsante. Si ha una folata di impegno iniziale, conseguente alla valutazione congiunta dell’importanza dello scopo e della presunta efficacia dell’impegno stesso. Ad essa segue una nuova valutazione sulla raggiungibilità dello scopo (al tempo 2) dopo il primo impegno (VRS’).
Il confronto tra la valutazione sulla raggiungibilità dello scopo prima e dopo l’iniziale folata di impegno diviso la quantità dell’impegno profuso fornisce una valutazione dell’efficacia dell’impegno stesso.
Efficacia dell’impegno = valutazione raggiungibilità al tempo 2 – valutazione raggiungibilità al tempo 1 / quantità dell’impegno profuso
Soltanto se sia la valutazione di raggiungibilità al tempo 2 che la valutazione dell’efficacia dell’impegno risultano positive seguirà una seconda folata di impegno. Al termine della quale si ripeterà la doppia automatica valutazione Il ciclo si ripete generando folate di impegno che esitano in coppie associate di valutazioni a confronto.
E’ sufficiente che lo scopo venga valutato difficilmente raggiungibile o che si valuti scarsa l’efficacia dell’impegno per innescare il circolo del progressivo disimpegno sempre in ossequio allo pseudoscopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.
Esiste poi un’altra causa del disimpegno e va ricercata nel tentativo di preservare la propria autostima e dunque nello scopo di “considerarsi un esperto perseguitore di scopi”. Infatti se posso dirmi che lo scopo non era poi così importante (nolo sumere acerbam) o che avevo tanti altri impegni per cui non ho potuto dedicarmici (chissà quanti compiti sono fatti all’ultimo momento e “con la mano sinistra” proprio per questo) la frustrazione dello scopo esterno non si riverbera anche su quello interno dell’autostima.
Demotivazione e disimpegno non sono dunque sovrapponibili: la prima implica spesso il secondo ma non viceversa. Entrambi vengono generati da valutazioni circa l’utilità e l’efficacia delle strategie messe in atto secondo lo pseudo-scopo “dell’ ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Dunque sono assolutamente adattivi. Successivamente tuttavia essi valutati rispetto a scopi interni inerenti l’identità che ne risultano frustrati generando una quota di sofferenza aggiuntiva da parte di chi reputa che poteva e doveva fare di più.
Questa affermazione è ovvia perchè a qualsiasi quantità data si può aggiungere una ulteriore unità ma può diventare uno strumento di sofisticata tortura. Si insinua nella mente quando tornando a casa con un 7 nella versione di latino i genitori smorzano il sorriso con un complimento che è insieme un rimprovero “uno come te può fare molto di più” progressivamente il “può” si trasforma in un “deve”.
Spesso c’è un sottinteso ancora più pesante: il successo parziale è merito del talento dono di natura trasmesso coi geni. Quindi si capisce che il complimento è in realtà per i genitori. Il rimprovero invece è tutto per il soggetto che non fa fruttare il talento ricevuto come dovrebbe. Questo tarlo del miglioramento del record personale fa rivisitare mentalmente le prestazioni per cogliere tutte le incertezze, gli inciampi, i balbettii che dovranno essere eliminati la prossima volta per fare quell’indefinito “di più” che è alla propria portata. E infatti questo accade. Si riesce effettivamente meglio. Ma questa è la prova evidente dello scarso precedente impegno e conferma che è possibile fare di più.
Il processo può ricominciare daccapo. Ogni successo è, paradossalmente, dimostrazione della colpa precedente e innesco di una ansia per una nuova gara con sé stesso. Il sé presente sconfiggerà i sé precedenti per essere poi sconfitto dal sé successivo. A riprova che “si può sempre fare di più”.
Schema Therapy per bambini e adolescenti Report dal Workshop di Milano 22-23 giugno
Report del workshop
La Schema Therapy per bambini e adolescenti
Milano 22-23 giugno
Il Dr. Cristof Loose, psicologo psicoterapeuta formatosi in Schema Therapy, che ha portato la sua esperienza clinica con bambini e adolescenti, ci ha guidato nella scoperta di come la Schema Therapy possa essere declinata in un approccio terapeutico indicato per i più piccoli.
Il workshop è stato una scoperta guidata nel capire come la teoria della Schema Therapy possa spiegare ai bambini la cornice teorica degli interventi che verranno fatti nel percorso terapeutico.
Siamo partiti dalla definizione di schema: tema vasto e pervasivo concernente una persona e la relazione che questa ha con gli altri, sviluppato durante l’infanzia e elaborato nel corso della vita e disfunzionale a un livello significativo.
Passando attraverso a quelle esperienze che favoriscono l’acquisizione di un determinato schema:
Frustrazione dei bisogni
Esperienze traumatiche
Eccessiva indulgenza
Esperienze di accudimento invertito.
In particolare gli obiettivi della Schema Therapy per bambini e adolescenti sono: 1- focalizzarsi sui bisogni emotivi del bambino, validarli e favorirne il soddisfacimento; 2- indebolire gli schemi maladattivi precoci; 3- apprendere come uscire da schema mode controproducenti; 4- porre enfasi sulla relazione terapeutica; 5- istruire i genitori e i caregivers supportandoli e incoraggiandoli a liberarsi da pattern emotivi e comportamentali disfunzionali.
Prima di tutto è necessario chiarire nella testa dei terapeuti il concetto di schema, la divisione e il raggruppamento in domini, specificando in modo dettagliato i pensieri e gli stili di coping per ognuno dei 18 schemi descritti da Young. Così da avere una mappa chiara e definita da poter usare in terapia.
Articolo consigliato: Schema Therapy: Intervista a Alessandro Carmelita
Si arriva alla concettualizzazione del caso passando attraverso quelli che sono i fattori di rischio e di protezione connessi alla vita dell’individuo per lo sviluppo di disturbi psicologici o psicosomatici della persona.
Parte iniziale del percorso terapeutico è una prima fase di psicoeducazione in cui si ragiona assieme al bambino sull’origine del problema, su dove e da chi ha imparato a comportarsi in un certo modo in risposte a specifiche situazioni. Da un lato validando il significato della risposta trovata fino ad ora dall’altro suggerendone altre possibili. Una prima occasione per parlare degli schemi attivati, andando a collegare cognizione e stile genitoriale con le strategie di coping (evitamento, resa e ipercompensazione), delineando così la storia specifica di ogni singolo cliente. In questo il clinico può essere aiutato da card sulle quali vi sono scritti diversi pensieri tipici per ogni schema: si chiede al bambino di selezionare quelli per lui maggiormente conosciuti e frequenti. Un primo strumento di valutazione che permette di costruire un linguaggio condiviso con il paziente.
Nella seconda parte del workshop il Dr. Loose ci presenta il modello degli schema mode. I mode sono stati emotivi attimo per attimo che possono venire scatenati da eventi quotidiani e da eventi per il quali il bambino è particolarmente attivato. Il terapeuta pian piano presenta al bambino i mode nei loro aspetti cognitivo-emotivo-fisiologici e di messa in atto, ragionando sulla differenza tra il conoscere\riconoscere e il sentire uno schema mode. Nella terapia con i bambini e gli adolescenti risulta importante lavorare con i mode perché questi permettono di spiegare e comprendere agevolmente i propri comportamenti e vissuti emotivi. Avere una cornice coerente di spiegazione del comportamento permette ai bambini di avere una maggior consapevolezza che consente di interrompere vecchi pattern mode e schemi disfunzionali portando di conseguenza un sostanziale cambiamento comportamentale. Primo step del lavoro con i mode è quello di rafforzare la relazione terapeutica e di enfatizzare quelle che sono le risorse del nostro cliente, tenendo presente anche le caratteristiche positive che spesso in un percorso terapeutico vengono considerate dal pazienti meno importanti e degne di nota. Regola generale nel lavoro con i mode del bambino è condurre il bambino in quello stesso mode. Il terapeuta e il bambino costruiscono insieme un quadro dei mode della persona, una sorta di squadra interna che il bambino deve conoscere per modificare il proprio comportamento e per comprendere quello che fino ad oggi è stato. Anche nel lavoro con i mode dei bambini centrale è il concetto di limited reparenting, cioè andare a soddisfare, grazie alla relazione terapeutica, i bisogni che sono stati frustrati.
Le strategie terapeutiche vengono presentate come una panoramica attraverso la visione di sedute videoregistrate e attraverso esercizi esperienziali: lavoro con disegni e fotografie; terapia del gioco basata sui mode; lavoro con racconti, marionette da dita e mani, metafore, lavoro con la sedia, immaginazione, presentazione visiva della “casa interiore”, flash card e compiti per casa. Tanto il materiale visto e tanta la possibilità di sperimentarsi nel ruolo del terapeuta e del cliente imparando ad utilizzare una terminologia declinata sui bambini e le sequenze di lavoro adatte ad età specifiche. Le simulate, che rendono sempre molto ricchi i workshop, rendendo possibile l’immergersi in un mondo emotivo proprio immaginando e sentendo la potenza che certi strumenti all’interno della cornice teorica della Schema Therapy hanno.
Una parte importante del workshop è stato il fornire linee guida per il lavoro con i genitori, Schema Coaching. I contenuti trattati sono stati le tipiche costellazioni dei mode genitoriali, flash card sul ciclo dei mode, indagine su schemi e mode parentali, implementazione pratica nel mode work svolto con i genitori (lavoro con la sedia, disegni). Diventa importante definire quali mode esistono e come vengono attivati dai comportamenti dei figli. Ritornare all’infanzia dell’individuo al fine di chiarire quali bisogni siano rimasti insoddisfatti nell’infanzia del genitore, considerare il tipo di infanzia che hanno avuto i genitori del nostro cliente, inclusi gli schemi che hanno avuto e che hanno tutt’ora.
Sicuramente molto affascinata da tutto il materiale che il Dr. Loose ha portato per farci immergere nella sua modalità terapeutica, pupazzi, marionette, carte da gioco, fogli, colori e burattini rientro a casa con molte idee spunti e soprattutto con tanto materiale che posso praticamente utilizzare in terapia, e questo credo che sia il valore aggiunto di un buon workshop fare andare a casa i terapeuti con tanto materiale da mettere nella propria cassetta degli attrezzi.
Ripensando a questo interessante workshop mi vengono in mente due frasi tratte dal piccolo principe che in chiusura condivido con voi:
Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)
I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta.
E’ stato condotto un nuovo studio finalizzato a valutare lo stigma verso le persone ingiustamente condannate. Infatti le condanne possono essere annullate, ma il pregiudizio sociale rimane invariato e persiste.
Gli errori giudiziari sono inquietantemente comuni. Infatti si stima che soltanto negli Stati Uniti oltre 1050 persone sono state condannati e successivamente assolte. E’ stato condotto un nuovo studio finalizzato a valutare lo stigma verso le persone ingiustamente condannate. Infatti le condanne possono essere annullate, ma il pregiudizio sociale rimane invariato e persiste.
Kimberley Clow e Amy-maggio Leach hanno intervistato 86 studenti di psicologia in Canada che si sono interfacciati con 3 gruppi di persone. Il primo gruppo veniva rappresentato dalle persone che sono state ingiustamente condannate per un delitto; il secondo gruppo da persone che sono state condannate per un crimine che avevano effettivamente commesso; e il terzo gruppo da persone in generale.
Gli studenti hanno dimostrato atteggiamenti negativi nei confronti delle persone ingiustamente condannate, valutandole in modo simile ai delinquenti. Anche se gli studenti desideravano mantenere meno distanza sociale dall’ ingiustamente condannato a fronte del delinquente, hanno preferito avere più distanza dall’ ingiustamente condannato rispetto le persone in generale. E mentre gli studenti hanno espresso più pietà per le persone ingiustamente condannate, ciò non si è tradotto in un maggiore sostegno in termine di assistenza per quanto riguarda alloggi o reintegrazione lavorativa. In realtà, gli studenti erano più propensi a dare le spese mensili e sostegno per le persone in generale, in alternativa all’ingiustamente condannato.
“Un individuo ingiustamente condannato dovrebbe essere considerato come qualsiasi altro cittadino non condannato“, affermano Clow e Leach. “I nostri risultati, tuttavia, suggeriscono che questo non si verifica, purtroppo le persone ingiustamente condannate non sono percepite come gli altri cittadini.”
Prendere atto di questi risultati è solo un primo timido passo verso una maggiore comprensione di questo problema. E ‘pericoloso generalizzare con fiducia da un campione di studenti, e non abbiamo imparato molto sul perché i partecipanti hanno stigmatizzato così duramente il gruppo degli ingiustamente condannati. E’ possibile che gli studenti hanno tenuto una convinzione generale che le persone ingiustamente condannate sono probabilmente colpevoli di altri reati. O forse hanno creduto che le persone ingiustamente condannate sono moralmente contaminati da loro del tempo in prigione.
E’ interessante ricordare il caso Kirk Bloodsworth avvenuto nel 1993. Dopo quasi nove anni di carcere, Bloodsworth è stato liberato grazie al test del DNA che ha dimostrato la sua innocenza a fronte delle accuse di aver stuprato e ucciso una bambina di nove anni. Eppure, nonostante il suo rilascio, Bloodsworth continuava ad essere diffamato, trovando scarabocchi denigratorie (“assassino di bambini“) sul suo camion.
Il Sogno come attività programmabile – Psicologia & Psicoterapia
Segnaliamo questo interessante articolo del Prof. Lucio Sibilia scritto per Psicologia Contemporanea.
…Negli anni Novanta, Krakow e collaboratori (1993) pubblicarono i positivi risultati a lungo termine (30 mesi) di un trattamento cognitivo-comportamentale della sindrome da incubi in un’ampia casistica di pazienti, con un metodo di “pratica immaginativa” (imagery rehearsal) molto simile ai precedenti. Stavolta con uno studio controllato. Una casistica più recente è stata pubblicata da Germain e collaboratori (2004) per il trattamento degli incubi nei soggetti vittime di aggressioni sessuali e affetti da PTSD (Sindrome da Stress Post-Traumatico). In entrambi gli studi, gli incubi non solo si riducevano drasticamente, ma si osservava anche un miglioramento di altri parametri del sonno. Negli ultimi anni, nuovi studi hanno replicato questi effetti su altre popolazioni cliniche. Il metodo si basa sul concetto comportamentale di “prova pratica” (in inglese re-hearsal). Il soggetto viene istruito a comporre per iscritto in anticipo una descrizione di un sogno…
An intensive CBT treatment can be defined as any time period up to three months in residential treatment. This approach involves daily CBT sessions condensed over a period of several weeks. It typically offers at least 20 hours of treatment and psychological support per week.
Cognitive-Behavioural Therapy (CBT) by Exposure and Ritual Prevention (ERP) is the most effective treatment for Obsessive-Compulsive Disorder (OCD) (Abramowitz, 1996). However, few people suffering from OCD receive CBT, mostly due to limited access (Mancebo et al., 2011).
A way to improve CBT access is to offer a time-concentrated treatment course. An intensive CBT treatment can be defined as any time period up to three months in residential treatment. This approach involves daily CBT sessions condensed over a period of several weeks. It typically offers at least 20 hours of treatment and psychological support per week (Osgood-Hynes et al., 2003).
Research demonstrated that longer exposure results in increased habituation to anxiety-evoking stimuli and better outcome (Abramowitz, 1996).
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Intensive treatment might be suitable for those patients who have not responded to weekly outpatient sessions or to pharmacotherapy alone (treatment resistant patients). It might be useful for those who are geographically distant from the treatment centre; in addition when there is a lack of available specialized CBT service.
Despite important advantages of time-concentrated treatment, there is poor research on the effectiveness of this format of treatment for resistant OCD.
The aim of the current study was to examine the effectiveness of an intensive residential treatment for resistant OCD.
The sample included 39 inpatients admitted between 2008 to 2012 to the Unit for Resistant Obsessive-Compulsive Disorder Treatment, Casa di Cura Poggio Sereno of Florence, Italy. Inpatients were eligible if they had a principal diagnosis of resistant OCD and were excluded if they were less than 16 years old, had past or current psychosis, alcohol or drug-addiction, organic disorders and mental retardation.
The mean age was 34 years and the sample was composed by 33% males. The Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) and Beck Depression Inventory (BDI-II) were used as outcome measures, which were administered at pre and post-treatment.
An individual ERP treatment was delivered to the inpatients for 2 hours in the morning and 2 hours in the afternoon for five days a week overall. The work during the first week aimed at providing inpatients a rationale for the two main components of the intervention, exposure and response prevention. Psycho-education was included to explain the processes involved in the aetiology and persistence of OCD. During the subsequent four weeks the behavioural treatment was delivered.
During the first week a fear hierarchy was constructed that listed a variety of situations the patient find distressing and avoids. During treatment weeks inpatients graduatedly and repeatedly were exposed to the anxiety-eliciting situations. The response prevention component involved the suppression of any safety behaviour that alleviate the discomfort produced by the obsessions. During the week-end homework of self-directed ERP were assigned to the patients.
The frequency of the inpatients who recovered was 42%, inpatients who improved were 28% and those who did not change were 30%. Effect Size on Y-BOCS scores was 1.51.
Intensive format of ERP seemed to be an effective treatment strategy for symptom improvement of resistant OCD. This kind of treatment might enhance treatment compliance as patients can be supported for a longer period after they have underwent the exposure. This longer period of support can make it easier for the patient to expose themselves to anxiety-provoking situations with the knowledge that their taking risks will be supported.
Weekly outpatient treatment might fail for resistant OCD because compulsions can interfere with basic functioning so that a person is unable to engage in basic requirements. So much more assistance may be needed for an individual to participate in therapy. Some patients have minimal family or peer support, or have supports that reinforce symptoms by unintentionally accomodating the patient’s OCD requests (Oldfield et al., 2011). Intensive treatment may also facilitate progress monitoring, allowing clinicians to adjust the treatment plan as appropriate.
However, in our trial there was absence of an ERP spaced sessions arm to compare the relative efficacy of those format of treatment for resistant OCD. Moreover long-term follow-up measures were not used for evaluating the return of fear after the discharge from the clinic and the generalisation of treatment effects. Future randomized controlled trials are required to compare weekly and intensive treatments on follow up measures.
In conclusion, these findings evidence the importance of the intensity of treatment. This component could be an useful strategy for enhancing response in OCD patients who did not respond to standard weekly treatments.