Kahneman evidenzia come alcuni bias cognitivi possano interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi errori del terapeuta è molto spesso la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.
Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Il primo articolo della serie, pubblicato il 09 Gennaio su State of Mind, si è concluso con il riferimento alle teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia. Nel presente articolo esamineremo nel dettaglio una parte di queste importanti teorie.
L’attenzione
L’attenzione può portarci alla cecità. Quando concentriamo la nostra attenzione, per un motivo o per l’altro, su determinati particolari, altri stimoli sono del tutto scotomizzati. L’esperimento The invisible gorilla ne è un esempio suggestivo: concentrati nel contare i passaggi della palla di una squadra di basket gli osservatori non si accorgono che a un certo momento il campo è attraversato da un gorilla.
Quando si diventa esperti di una materia l’attenzione che si applica diminuisce. Gli psicoterapeuti esperti, ad esempio, possono compiere errori proprio perché pigri nell’aprirsi a valutazioni diagnostiche o a possibilità terapeutiche alternative a quelle praticate di routine.
La legge del minimo sforzo si applica sia allo sforzo fisico sia allo sforzo cognitivo (Kahneman, 2013).
Spostare l’attenzione da un compito all’altro è faticoso, impegna la memoria di lavoro in un duro sforzo, soprattutto quando si hanno limiti di tempo, quindi meglio evitare sovraccarichi mentali e selezionare compiti facili cui prestare attenzione.
Memoria e attenzione selettive sono processi molto presenti in psicopatologia e impegnano il terapeuta a dividere la concentrazione sul compito dal controllo intenzionale dell’attenzione. Controllare se la manopola del gas è chiusa richiede uno sforzo notevole per un ossessivo, mentre per un cultore della letteratura il mantenere l’attenzione concentrata sul romanzo vincitore dell’ultimo premio Strega non è faticoso e non richiede autocontrollo. Le tecniche di mindfulness, in questo senso aiutano ad avere un’esperienza ottimale, ad attivare uno stato di flusso che libera risorse da impegnare verso il compito che si svolge con piena consapevolezza.
Una trappola da “attenzione polarizzata è insita nel concetto stesso di “diagnosi. In proposito si legga il resoconto dell’esperimento noto come “la beffa di Roshenam”. Quando si formula una diagnosi, automaticamente, si percepiscono tutti gli elementi che la confermano e si trascurano quelli che la metterebbero in dubbio. Lo stesso si verifica quando si ha un principale interesse di studio. I costrutti in quel dominio si arricchiscono e si raffinano e dunque colgono aspetti della realtà sempre più numerosi. E’ normale tra colleghi dirsi che se un certo paziente andrà in un certo studio si prenderà certamente una certa diagnosi e viceversa se andrà in un altro. C’è chi vede dappertutto disturbi dell’umore, chi riconosce deficit metacognitivi ovunque e chi percepisce tracce di disorganizzazione dell’attaccamento in ogni paziente. Per dirla come lo direbbe nostro nonno “ognuno ha le sue fisse” e trova continuamente motivi per convincersi della loro bontà e importanza.
L’energia mentale che s’impegna in compiti eseguiti dal sistema 2 genera stanchezza e può indurre errori intuitivi, perché viene meno la funzione di monitorare e controllare pensieri e azioni suggerite dal sistema 1. Esiste pertanto un principio di ottimizzazione (Lorenzini, Scarinci, 2013) del funzionamento mentale che può indurre bias sia in relazione ai processi di tipo 1 per cui l’intuizione ci porta a scegliere acriticamente, sia riguardo ai processi di tipo 2 per cui la pigrizia comporta un cattivo funzionamento della razionalità.
Un terapeuta deve lasciarsi guidare dall’intuizione clinica ed essere spregiudicato e creativo in quella che Popper definisce “la logica della scoperta” in cui è attivo il sistema 1, ma poi deve entrare in quella che Popper chiama “la logica della giustificazione” che richiede un’analisi critica in cui invece è attivo il sistema 2. Questa seconda fase è quella che richiede più fatica per cui è la prima a cedere quando si lavora in situazioni di stanchezza o di stress. Paradossalmente, liberi dalla voce critica del sistema 2, si può sperimentare una sensazione di fluidità ed efficacia mista a gratificazione per la propria bravura, che è simile alla sensazione di essere particolarmente bravi a guidare che si ha sotto l’effetto dell’alcol che peggiora in realtà la performance, ma ancor di più la capacità critica verso la performance stessa con un saldo positivo in termini di autoefficacia e dei conti per spese di riparazione della vettura. Un terapeuta stanco commette più errori e contemporaneamente si sente più bravo.
La riflessione su cosa pensiamo e su come pensiamo è oggetto del dibattito che si sta sviluppando di recente tra i cognitivisti.
Wells (2012) rileva come la tendenza a preoccuparsi eccessivamente, a ruminare, a focalizzare l’attenzione sulla minaccia e a far fronte al problema per mezzo dell’evitamento cognitivo possano interferire con il normale processo di adattamento psicologico e condurre a un pensiero costantemente orientato al pericolo e, quindi, al mantenersi dei sintomi (sindrome cognitiva-attentiva).
L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012). Questa modalità può essere riportata all’eccessivo controllo del sistema 2.
Alla disattivazione del sistema 2 fa riscontro una modalità di pensiero che troviamo in alcuni disturbi gravi di personalità (schizotipici, schizoidi, paranoici) o psicotici in cui l’over-inclusion, l’inclusione in una classe di elementi che “intuitivamente” possono presentare caratteristiche analoghe determina un grave distacco dal principio di realtà. Questi processi possono essere riportati all’eccessiva attivazione del sistema 1 e alla contestuale inattività del sistema 2.
In forme non patologiche questi processi possono interessare il terapeuta durante il trattamento e comportare impasse, difficoltà, insuccessi e fallimenti. Ciò che accomuna questi bias del terapeuta è lo stesso che ritroviamo alla base di molte patologie e cioè la difficoltà a mettere in discussione le proprie idee e cambiarle.
L’associazione delle idee
Somiglianza, contiguità e causalità sono le tre leggi che Hume pose alla base dell’associazione delle idee. La memoria associativa combina le idee in associazioni consapevoli e inconsapevoli. Sappiamo che le nostre emozioni e i nostri comportamenti possono essere innescati da eventi di cui spesso siamo inconsapevoli.
Una parte importante del lavoro terapeutico ha, infatti, come obiettivo il miglioramento dell’autoriflessività, monitorare pensieri emozioni e comportamenti per portarli alla consapevolezza.
Alcuni esperimenti dimostrano che se, per esempio, si è sensibilizzati a pensare alla vecchiaia si tende ad agire come vecchi, così come comportarsi da vecchi rafforza il pensiero della vecchiaia. I nessi reciproci sono frequenti nella rete associativa ”mettono in relazione il passato con il presente e creano aspettative sul futuro”. (Kahneman, 2013).
Allo stesso modo potremmo dire che un terapeuta che percepisca il paziente come irrimediabilmente malato e non veda in lui risorse positive, ma solo deficit e sintomi, attiverà un fattore di mantenimento e cronicizzazione.
In termini causali, altresì, gli stimoli cui siamo sottoposti hanno un peso notevole nelle decisioni, il sistema 1 fornisce impressioni che possono trasformarsi in convinzioni che guidano scelte e azioni. Migliorare le capacità di mastery consente di individuare le cause dei nostri stati emotivi ricorsivi e disadattivi e di intervenire sugli stati interni da cui sono generati, correggendo bias associativi che potrebbero farci credere che sono gli eventi a determinare l’intensità e la durata delle nostre emozioni. Anche il disputing empirico, logico e pragmatico è una tecnica molto utile allo scopo.
Fluidità cognitiva
La fluidità cognitiva si contrappone alla tensione cognitiva determinata da un problema che chiama all’opera il sistema 2. Quando tutto scorre, le cose vanno bene, il tutto è facile siamo sul sistema 1.
Possiamo però avere delle illusioni, non solo ottiche, ma di memoria e di pensiero. Vari esperimenti hanno dimostrato come siano possibili in uno stato di fluidità cognitiva le illusioni (Kahneman, 2013). Un primo elemento che entra in gioco è l’impressione di familiarità, qualcosa già visto in precedenza, con qualità di déjà vu, ci dà maggiore fluidità. Inoltre se qualcosa rende più facile i meccanismi associativi, tenderà a condurre il soggetto a credenze viziate da errori. La frequente ripetizione di un’affermazione diventa, per esempio, una verità, la familiarità dell’espressione la rende vera.
Gli studi sulle illusioni di verità ci indicano anche che riducendo la tensione cognitiva possiamo rendere più vere alcune affermazioni, ma anche che la mobilitazione del sistema 2, più analitico, porta una modalità più impegnativa ma anche più funzionale in alcuni casi rispetto al sistema intuitivo.
Poiché tutto porta a concludere che il lavoro migliore si faccia quando sono attivi e cooperativi entrambi i sistemi 1 e 2 ce la potremmo cavare dicendo che bisogna essere a un tempo intuitivi, creativi e critici, ma questo è un auspicio difficile da tradurre in pratica e allora è più facile distinguere i due momenti. Il tempo della seduta è quello dell’immersione nella relazione con il paziente, della creatività immediata e della fluidità, mentre il tempo della revisione critica e della progettazione delle mosse successive è quello tra una seduta e l’altra magari con l’aiuto di un supervisore che funge da “sistema 2 esterno”.
Un ruolo importante sulla fluidità cognitiva, sulla creatività e le intuizioni di coerenza lo svolge anche l’umore positivo.
Si crea dunque un circolo virtuoso positivo per cui con un paziente con cui stiamo bene lavoriamo meglio e questo ce lo fa sentire sempre più gradevole. Ciò può portare progressivamente ad abbassare il livello di supervisione del sistema 2 incorrendo in errori senza assolutamente avvedersene. Ovviamente si dà anche il caso inverso con quei pazienti che non si ha voglia di trattare.
In sostanza la funzione principale del sistema 1 è quella di garantire regolarità agli avvenimenti che ci perturbano, cioè costruire schemi d’idee associative che rappresentano la struttura degli eventi della nostra vita. Previsioni e aspettative guidano così il nostro agire e determinano relazioni causali tra gli eventi.
Il sistema 1 ci fa risparmiare tempo e fatica perché salta alle conclusioni. Se le conclusioni tendono a essere corrette il costo di un errore può essere sopportato, ma se la posta in gioco è alta e la situazione incerta meglio avvalersi del sistema 2. Il primo tende a credere, ”quello che si vede è l’unica cosa che c’è”, per dirla con Kahneman, il secondo a dubitare e considerare le informazioni in modo sistematico e analitico. Il sistema 1, quindi, influenza anche le decisioni più razionali.
Esso fornisce valutazioni di base per l’adattamento. Valuta se le situazioni sono positive o negative e dal punto di vista evolutivo tutto ciò è estremamente importante. Calcola somiglianze e differenze, nessi causali, disponibilità, prototipi. Valuta in base ad una scala d’intensità che è applicata a dimensioni diverse e calcola più di quanto sarebbe necessario generando risposte rapide (euristiche) a domande difficili senza richiamare il sistema 2 che in alcune circostanze per pigrizia avvalla la risposta euristica.
Insomma il sistema 1 è sì un po’ approssimativo ma per questo molto rapido e spesso la rapidità è più importante dell’assoluta precisione, talaltra è l’inverso. L’affetto, l’umore e le emozioni determinano le valutazioni del sistema 1 con il bene placido del sistema 2 che assume per così dire un atteggiamento accomodante. Per questo spesso è necessario andare a cercare “quello che non c’è” perché questa ricerca potrebbe aprirci prospettive diverse e fornirci elementi che possano aiutare a prendere decisioni più razionali. Un po’ come quando si è innamorati, si vedono solo le caratteristiche positive della persona che stiamo frequentando. A quel punto dovremmo chiederci cosa c’è che non va in questa persona, qual è la sua “ombra”, quali sono le sue caratteristiche negative? E con il paziente cosa non ho visto, cosa non ho considerato, cosa mi potrebbe sfuggire?
D’altronde, se avessimo sempre attivo quel criticone del sistema 2 quale partner supererebbe lo screening iniziale meticoloso? non ci innamoreremmo e la specie si estinguerebbe.
Nei prossimi articoli saranno analizzati gli ulteriori contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia
Altri articoli sull’argomento:
- 1- Il pensiero consapevole e il pensiero automatico – Il top down e il bottom up in psicoterapia – Pubblicato su State of Mind il 09.01.2020
- 2- Pensiero consapevole e automatico – I contributi di Kahneman – Pubblicato su State of Mind il 20.01.2020
- 3- Pensiero consapevole e automatico – I bias che influenzano il terapeuta – Pubblicato su State of Mind il 21.01.2020
- 4- Pensiero consapevole e pensiero automatico – Intuizione e bias in psicoterapia – Pubblicato su State of Mind il 22.01.2020
- 5 – Pensiero consapevole e pensiero automatico – La scelta del cambiamento in psicoterapia – Pubblicato su State of Mind il 23.01.2020
- 6 – Pensiero consapevole e pensiero automatico – Il Framing – Pubblicato su State of Mind il 24.01.2020.