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Pensiero consapevole e pensiero automatico – Intuizione e bias in psicoterapia

Il pensiero veloce ci fa percepire il mondo ordinato, coerente, con l’illusione di previsione e controllo, il pensiero lento attiva elementi di correzione.

Di Antonio Scarinci, Roberto Lorenzini, Marika Ferri, Stefania Borghetti

Pubblicato il 22 Gen. 2020

Aggiornato il 24 Gen. 2020 11:10

Il pensiero intuitivo può essere distorto e quindi va corretto per eliminare bias, che saranno comunque ineludibili, ma più piccoli e d’altra parte senza intuizioni predittive, non vi sarebbero informazioni da raccogliere. Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni.

Il presente contributo è il quarto di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

 

I giudizi intuitivi

Chi non ha mai espresso un giudizio con sicurezza basandosi su un’intuizione?

Spesso anche in campo clinico i giudizi sono un mix d’intuizione e analisi. Antonio non è riuscito a superare eventi critici nella sua vita. Oggi deve affrontare un grave lutto. Riuscirà a elaborarlo? Una percentuale di colleghi propenderebbe per una risposta negativa inerendo causalmente il fatto che Antonio non è riuscito, con non riuscirà a farlo.

Naturalmente i fattori che potrebbero influenzare il risultato sono molti. Un elemento di correzione attivato dal sistema 2 potrebbe essere la percentuale di persone che elaborano un lutto in maniera adattiva. Questa percentuale determina la probabilità a priori che Antonio elabori il lutto. In questo caso la probabilità a priori è quella che riguarda l’intera popolazione cui Antonio appartiene e che in genere nella quasi totalità dei casi elabora i lutti e prosegue a vivere.

La predizione intuitiva, non regressiva, può essere distorta e quindi va corretta per eliminare bias di sovrastima e sottostima del valore. Gli errori saranno comunque ineludibili, ma saranno più piccoli e d’altra parte le predizioni vanno collegate alle prove, ma senza intuizioni predittive, senza pre-comprensione, come direbbe Gadamer (2000) non vi sarebbero informazioni da raccogliere.

Questo è ciò che facciamo durante la fase di assessment, in cui formuliamo ipotesi via via che raccogliamo i dati sul paziente, ipotesi che devono restare sempre aperte a successive verifiche e falsificazioni. Anche le aspettative sul paziente vanno controllate, giacché possono determinare il successo o il fallimento del trattamento. Intuire che il paziente ha uno ‘spazio prossimale’ di miglioramento molto limitato con un’attribuzione errata può comportare un insuccesso terapeutico, ma anche immaginare margini di cambiamento troppo ampi può portare allo stesso risultato.

La fallacia della narrazione

Nello sforzo di comprendere il mondo, le storie esplicative si snodano sui pochi eventi accaduti e non sui molti che hanno avuto luogo.

Questo vale per la narrazione che il terapeuta si fa sul paziente ma anche per la narrazione che il paziente fa di sé a se stesso (auto immagine) e agli altri (immagine sociale). Ciò è tanto vero che si può arrivare a dire che la terapia ha come scopo la modificazione della narrazione che il paziente ha di se stesso.

Andiamo alla ricerca di cause, eventi salienti che si possano associare a effetti. Inclinazioni e caratteristiche di personalità vanno, ad esempio, a definire l’intero comportamento di una persona e ‘l’effetto alone’ ci porta a basare il giudizio estendendo una caratteristica specifica a tutte le altre qualità.

Un paziente che ha subito un ricovero in SPDC sarà più grave di uno che non abbia subito ricoveri; se un paziente ha difficoltà d’interazione, mi aspetto che sia evitante e avverta una sensazione d’inadeguatezza; il paziente che valuto come dotato di buone risorse susciterà maggiori aspettative di miglioramento e viceversa.

Si costruisce spesso la migliore narrazione con le informazioni limitate che si hanno a disposizione, ignorando la nostra ignoranza. Meno dati vincolanti si hanno più la nostra fantasia è libera di creare a piacimento.

L’illusione di sapere, altresì, determina ‘il bias del senno del poi’ che costruisce ciò che è accaduto con le informazioni che si hanno a disposizione al tempo T1 ma che non erano state previste al tempo T0 e fa sì che si dimentichino le credenze e le predizioni originarie.

Non si valuta in sostanza il processo decisionale ma ex-post il risultato negativo o positivo. Nei resoconti degli storici tutto torna perfettamente e sembra che le cose non potessero andare che nel modo in cui sono andate, gli stessi chiamati a fare previsioni hanno la lungimiranza di una talpa miope con la congiuntivite.

Inoltre, i meccanismi del sistema 1 ci fanno percepire il mondo più ordinato e coerente di quello che è, con l’illusione di prevederlo e controllarlo ci rassicuriamo di fronte all’incertezza dell’esistenza. Le sorprese, però, non mancano e gli eventi che in modo casuale si affacciano nella vita sono spesso imprevisti e imprevedibili come testimoniano le molte storie di cui i pazienti ci fanno partecipi durante il percorso di cura.

L’illusione di validità

Con poche prove riusciamo a costruire con i sistemi 1 e 2 delle buone narrazioni cui crediamo perché sono condivise magari da persone cui vogliamo bene o riteniamo fonti autorevoli e affidabili.

Nella ricostruzione delle storie evolutive dei pazienti quante volte sentiamo dire ‘si è fatto sempre così’, ‘il nonno ci ha trasmesso queste convinzioni che ci sono servite per affrontare il mondo’.

Un altro elemento che determina l’illusione di validità è l’abilità e la competenza: ‘Se l’ha detto lui…’. Quando la fonte è ritenuta e certificata (dalla comunità professionale o scientifica ad esempio) competente le valutazioni sono credute affidabili, almeno fino a prova contraria.

La sicumera con cui si è certi di alcune previsioni è determinata in larga parte dalla sicurezza soggettiva ed espelle il caso da qualsiasi spiegazione.

Insomma siamo tendenzialmente creduloni e presuntuosi.

La realtà, però, è complessa e difficile da capire e le semplificazioni riduzionistiche possono essere di aiuto, anche se si rivelano a distanza illusorie.

Spesso la sicurezza con la quale affrontiamo un problema si rivela poco accurata, mentre l’insicurezza può essere più informativa, in sostanza bisogna essere prudenti nel fare previsioni, se ne possono fare a breve termine, mentre più complesse e difficili sono quelle a lungo termine e soprattutto occorre sempre tenere in considerazione la validità in termini di probabilità.

Gli psicologi clinici fanno buone predizioni a breve termine, durante la seduta terapeutica, ma non riescono a fare previsioni a lungo termine. E’ necessario perciò prendere in considerazione i limiti della propria competenza, feed-back a distanza di anni non è possibile averli e il futuro del paziente è sconosciuto e imprevedibile.

Come possiamo ritenere di aver operato correttamente? Su quali parametri possiamo misurare non la guarigione ma almeno il miglioramento? Sulla diminuzione dei segni e dei sintomi o sulla scomparsa degli stessi? Sulla qualità della vita? Sulla soddisfazione? Per quanto tempo dovrebbe mantenersi la remissione dei sintomi o uno stato di benessere?

Non dimentichiamoci che noi siamo soltanto un piccolo evento nella vita del paziente e che le cose accadono perché accadono.

La supervisione

La visione esterna può portare ad aggiustamenti della visione interna. L’attenzione su indizi trascurati, dati e informazioni sulla classe in cui rientra il caso, altre prove che può farci rilevare un supervisore, ci permettono di fare aggiustamenti appropriati sugli scenari che si sono messi a punto.

L’ottimistica sicurezza della visione interna può essere mitigata nel considerare ciò che potrebbe andare storto o sfuggirci.

Il bias ottimistico ci porta a persistere indipendentemente dagli ostacoli e a scartare una visione esterna e l’hybris può farci credere di essere superiori alla maggior parte degli altri individui nelle qualità che entrano in gioco nel caso specifico (Kahneman, 2013).

Il bias dell’ottimismo può essere spiegato in parte con il wishful thinking e in parte con il principio del vedere ciò che c’è, tipico del sistema 1. Non consideriamo le probabilità a priori, ci concentriamo sul nostro obiettivo, teniamo in considerazione solo la nostra influenza e trascuriamo le variabili esterne in un’illusione di controllo che ci rende troppo sicuri di ciò che crediamo.

Una valutazione adeguata dell’incertezza è una pietra angolare della razionalità contro l’ottimismo intriso di sicumera.

Il ricorso a una buona supervisione consente la costruzione di punti di vista plurimi sia in relazione all’approccio terapeutico verso il problema, sia rispetto alle implicazioni personali che si manifestano nella relazione; è fondamentale per incrementare la consapevolezza degli schemi di sé come persona e come psicoterapeuta che influenzano nel bene o nel male la concettualizzazione del caso.

 

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