Non è un mistero che anche la psicoterapia cognitivo-comportamentale sta andando incontro a quei fenomeni di frammentazione che già hanno colpito gli altri orientamenti psicoterapeutici, principalmente quello dinamico o psicoanalitico, e che si sperava risparmiassero il paradigma cognitivo.
Ebbene si, ci siamo cascati anche noi. Per una ventina d’anni ci siamo goduti il nostro successo mite ed eccentrico, a cui si aggiungeva a tratti qualche ingenua arroganza scientista: siamo noi la psicoterapia scientificamente corretta! È questa la frase con cui noi terapeuti cognitivi volevamo liquidare la concorrenza. Ora però il gioco si sta complicando anche per noi.
Tutto è iniziato con la cosiddetta “terza ondata”, i nuovi sviluppi del cognitivismo clinico al volgere del millennio o poco prima, essendo stati il comportamentismo la prima e la terapia cognitivo-comportamentale la seconda. Inizialmente non sembrava che si andasse incontro a una frammentazione. Si assisteva semmai a nuovi sviluppi, per la verità un po’ disomogenei tra loro. Nuovi sviluppi che in realtà erano anche un ritorno al passato, a quella radice comportamentista troppo trascurata. Naturalmente questa riscoperta non si presentò come trito neo-comportamentismo. Il tutto fu riconcettualizzato, e il ritorno alle tecniche comportamentali implicava una concezione diversa dell’attività mentale. Non più solo manipolazione esplicita di pensieri come nella seconda ondata, quella cognitiva, ma anche gestione e regolazione complessa, al tempo stesso intuitiva, cognitiva e metacognitiva, del comportamento quotidiano.
Un altro sviluppo erano la cosiddetta mindfulness e l’addestramento attenzionale (attentive training) della terapia metacognitiva di Adrian Wells, una particolare modalità dello stato attentivo, in cui il soggetto pensante concentra il massimo dell’attenzione su ciò che accade nella sua mente, cercando però di non emettere mai giudizi e/o valutazioni (nemmeno positive), trarre conclusioni, elaborare inferenze, tentare previsioni (anche in questo caso, nemmeno positive). Insomma, Il lavorio logico e predittivo tipico della mente razionale andava minimizzato.
Poi si sentì parlare della self-compassion di Paul Gilbert traducibile inelegantemente con il termine di auto-compassione, o un po’ meglio con compassione rivolta a se stessi. Come molti i concetti di terza ondata, la self-compassion è un ibrido che comprende sia un contenuto che una disposizione mentale. Si tratta di una condizione di comprensione e accettazione verso se stessi che in qualche modo è il rovescio di quel pensiero negativo che è il nocciolo degli stati di sofferenza mentale.
Poi c’è la metacognizione. Secondo Semerari e i suoi collaboratori del Terzo Centro e in in seguito Dimaggio la metacognizione è l’insieme delle abilità che ci consentono di attribuire e riconoscere la presenza di stati mentali (es. emozioni, pensieri, desideri, bisogni, intenzioni) in noi stesso e negli altri. Questa complessa operazione avviene valutando le espressioni facciali, gli stati somatici, i comportamenti e le azioni ma anche i pensieri espressi verbalmente. È soltanto grazie a questo riconoscimento che diventa possibile riflettere e ragionare su questi stessi stati mentali, nostri e altrui, e diventa possibile utilizzare tali conoscenze per prendere delle decisioni, risolvere i problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare efficacemente i propri desideri e scopi con gli altri.
Infine c’è l’accettazione, teorizzata da Steven Hayes (ACT acceptance and commitment therapy). Anch’egli è un terapeuta neo-comportamentale, e anch’ egli raccomanda l’efficacia dell’intervento di accettazione delle emozioni. Anche in questo caso c’è un ribaltamento dell’assetto cognitivo razionalistico. Non si tratta più modificare un bel nulla, ma di accettare. Ciò che produce sofferenza non è il contenuto cognitivo in sé, ma il ritenerlo inopportuno, “strano”, diverso dal normale. Basta invece normalizzarlo per vedere calare l’ansia a livelli più ragionevoli. Insomma, accettare l’ansia la fa diminuire. L’intervento di accettazione alla Hayes parte dal presupposto che la sofferenza mentale non sia determinata dai contenuti disfunzionali, ma da una valutazione (ancora una volta metacognitiva) di rifiuto e non accettazione dei propri stati mentali. Anche in questo caso l’accettazione corrisponde ad una nuova attitudine avalutativa, e quindi siamo ancora una volta dalle parti della mindfulness, oltre che della metacognizione.
Questa breve disanima ci fa capire che, malgrado quanto abbiamo scritto a inizio articolo, il panorama appare frammentato ma non del tutto disomogeneo. Ci sono alcuni temi ricorrenti: la metacognizione, l’accettazione, l’attivazione comportamentale.
Tutte queste nuove proposte, sebbene in parte disomogenee, promuovono un’attitudine mentale opposta a quella che si esercita in una seduta di psicoterapia cognitiva. L’obiettivo è un atteggiamento mentale che tenta di eliminare ogni valutazione logico-deduttiva dei contenuti cognitivi della sofferenza mentale. Al suo posto troviamo una posizione osservativa in cui la mente si lascia riempire di stati percettivi e riduce anche le operazioni mentali attive a una stato di passività percettiva. Quindi non vi è una completa disomogeneità scientifica. Eppure, dal punto di vita organizzativo e sociologico, questi nuovi sviluppi mostrano un quadro di frammentazione.
I vari studiosi si vanno separando, fondano nuove società, fanno i loro congressi, e lanciano nuovi giornali dedicati esclusivamente al loro pensiero. Insomma le nuove proposte vanno configurandosi non come novità all’interno del paradigma cognitivo ma ognuna di loro si pone come un nuovo paradigma. Si parlano sempre di meno tra loro. Fino alla fine degli anni zero era possibile incontrare e sentire Hayes o Wells ai congressi cognitivi internazionali, oggi li puoi ascoltare solo se vai ai congressi delle rispettive società che hanno fondato.
Lo scenario non è d’integrazione, ma di competizione tra differenti paradigmi. Forse è giusto, forse questo scenario darwiniano è quello più naturale e produttivo. Oppure no, forse stiamo sbagliando, ci stiamo chiudendo in una sterile contrapposizione tra chiese isolate che inaridisce il dibattitto e blocca lo scambio d’idee. Forse avremmo sentito il bisogno di un periodo di confronto più lungo, anche più duro ma meno chiuso e più fertile tra persone e tra modelli diversi, prima di assistere a questo isolarsi di ciascuno in piccoli ambiti autoconfermativi, in cui è più facile raccontarsi da soli che si è i più bravi, che tutto torna, che gli altri si stanno sbagliando e che il mondo dovrà capire che siamo i più forti.
Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero