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Il pensiero consapevole e il pensiero automatico – Il top down e il bottom up in psicoterapia

Per produrre il cambiamento occorre agire sia sul pensiero consavole, i processi alti, sia sul pensiero automatico, i processi bassi, tramite l'integrazione

Di Antonio Scarinci, Roberto Lorenzini, Marika Ferri, Stefania Borghetti

Pubblicato il 09 Gen. 2020

Aggiornato il 24 Gen. 2020 11:10

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento che verranno pubblicati su State of Mind nei prossimi giorni

 

Introduzione

I termini top down e bottom up sono utilizzati sempre più di frequente per indicare il pensiero consapevole, esecutivo, volontario, dichiarativo in contrapposizione a quello automatico, emotivamente carico, associativo, determinato da sensazioni corporee, difficilmente controllabile volontariamente. Da una parte il pensiero razionale, dall’altra il pensiero esperienziale, sensitivo-corporeo, intuitivo. Questi secondi sono contenuti presenti solo in modo parziale alla coscienza e in questo senso coincidono in parte con il termine inconscio impiegato come aggettivo, sono processi che non sono elaborati al livello superiore, evoluzionisticamente più recente del cervello, rimanendo sul livello arcaico o intermedio e solo attraverso la ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale i tre livelli, possono arrivare alla consapevolezza (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017).

La contrapposizione dialettica che proporremo di ricomporre in una sintesi superiore si riproduce naturalmente anche quando si tratta di intervenire, tra chi considera interventi più efficaci quelli che operano sul pensiero razionale, e chi invece pensa che sia necessario toccare ciò che, utilizzando un’espressione di moda è incarnato, quel pensiero determinato da esperienze attivate da sensazioni corporee.

Sono elencati dai fautori dell’una e dell’altra posizione rischi e vantaggi che s’incontrerebbero nel privilegiare un intervento a scapito dell’altro.

Chi preferisce il top down sostiene che preferendo interventi bottom up la ‘componente artigianale’ (Sassaroli, Ruggiero, 2016) possa diventare prevalente rinunciando a ricercare gli aspetti più scientifici, più riproducibili, così da far ricorso alle abilità personali di terapeuti esperti più che a interventi programmati secondo progetti che si avvalgono della corretta e condivisa formulazione del caso. Conseguentemente se i processi fossero complessi e non replicabili anche la ricerca non riuscirebbe a evidenziare dati di efficacia su cui costruire miglioramenti progressivi. Si arriverebbe a una trasmissione sapienziale da maestro ad allievo che non farebbe progredire la psicoterapia. Inoltre, dal punto di vista clinico i processi top down sembrerebbero più promettenti, relativamente all’efficacia, degli altri interventi. Tra chi propende per questa posizione, si riconosce, comunque, che

I termini top down e bottom up sono sicuramente molto limitati e limitanti e finiscono per separare processi largamente sovrapposti. A volte, tuttavia, davanti ad alcuni rischi e possibili derive, può essere utile distinguerli e attribuire a essi e alla loro interazione un peso scientifico specifico, riconoscibile e operazionalizzabile (Sassaroli, Ruggiero, 2016).

D’altra parte, Mancini (comunicazione in mailinglist SITCC) non riconosce la suddivisione perché fa riferimento a una bipartizione mente cervello inaccettabile. Si tratta di processi solo apparentemente opposti, ma in realtà fra loro ricorsivamente interconnessi.

Per chi è più favorevole al bottom up la conoscenza tacita, implicita e i processi che ne derivano sono difficilmente accessibili se non con tecniche che agiscono sul comportamento o sull’esperienza sensitiva-corporea.

Alcuni contenuti di pensiero possono essere meno soggetti al controllo esecutivo e cosciente e avere un carattere intrusivo, presentarsi alla mente improvvisamente e avere la natura di automatismi. I nostri modi di reagire mentalmente alle situazioni difficili possono realizzarsi con l’automaticità delle abitudini radicate. Questi automatismi sono accompagnati da una marcatura somatica con percezioni e sensazioni che riguardano il livello bottom-up dell’elaborazione.

Traumi ed esperienze di vita avverse, determinano alterazioni del normale funzionamento del sistema nervoso bloccando la normale elaborazione dell’esperienza e i processi che attivano diverse componenti, sensoriale, cognitiva, emozionale, semantica, corporea, diventano disfunzionali.

La compromissione del normale funzionamento psicologico comporta conseguentemente una difficoltà a elaborare e integrare in modo unitario e coerente le successive esperienze, determinando nei casi più gravi una disorganizzazione delle funzioni integrative della coscienza (Janet, 2016; van der Hart et al., 2011; van der Kolk, 2015).

Il malfunzionamento delle attività mentali superiori non permette di affrontare le difficoltà del paziente attraverso interventi top down e richiede l’applicazione di approcci e tecniche definite bottom up che agiscono sulle funzioni mentali evolutivamente più arcaiche (Liotti, Farina, 2011).

Ciò che emerge, comunque, dal dibattito teorico, e dall’esperienza clinica è che per produrre il cambiamento occorre agire sia sui processi alti, sia sui processi bassi, integrando strategia e tecniche, anche se la via dell’integrazione è ancora tutta da percorrere.

Un contributo a questo dibattito giunge anche da Kahneman (2013) che propone la distinzione tra pensiero veloce e pensiero lento occupandosi del giudizio, del processo decisionale e degli errori sistematici che si commettono in condizioni d’incertezza.

Alcune riflessioni a proposito del pensiero veloce e del pensiero lento

In molti disturbi psicopatologici si trovano bias che riguardano soprattutto quello che lo psicologo israeliano definisce sistema 1 o pensiero veloce. Decisioni dettate da preferenze intuitive contravvengono spesso le regole della scelta razionale, secondo la Prospect Theory il pensiero veloce opera automaticamente con un’elaborazione continua della memoria associativa e senza controllo volontario. Questa concettualizzazione sembrerebbe analoga a ciò che s’intende in letteratura per livello bottom up.

Il sistema 2 (pensiero lento) indirizza invece l’attenzione verso attività complesse e impegnative. Questo sistema è razionale. Le operazioni automatiche del sistema 1 (impressioni e sensazioni) generano idee complesse ma solo il sistema 2 elabora pensieri in serie ordinate di stadi, quindi opera al livello top down.

Le funzioni dei due sistemi secondo l’autore sono distinte, ma possono essere interconnesse.

Alcuni esempi che riguardano il pensiero veloce e il pensiero lento possono farci capire come l’interconnessione possa portare in alcune particolari situazioni a trasformare bias ed euristiche in decisioni razionali e scelte ponderate rispetto alle conseguenze, in altri termini a trasformare pensieri automatici negativi e idee irrazionali in modo da riportare l’attivazione fisiologica a essi correlata all’interno della finestra di tolleranza (Porges, 2016) che consente di regolare gli stati emotivi in modo funzionale.

Con il pensiero veloce ci orientiamo verso un rumore improvviso, leggiamo i segnali stradali, comprendiamo una frase semplice di nostro figlio. Il pensiero lento ci fa concentrare l’attenzione sulla voce del nostro partner che ci parla, cercare nella memoria per riconoscere un paesaggio, parcheggiare la macchina, controllare la logica di un’argomentazione.

Nel sistema 2 entrano in gioco in misura preminente i processi, attenzione, memoria, pensiero, nel sistema 1 sono preponderanti sensazioni e percezioni.

L’interazione tra i due sistemi è determinata dall’attività dell’uno che fornisce stimoli per l’altro. Quando il sistema 1 non riesce a rispondere come avviene di solito, chiede aiuto al sistema 2 che interviene per rimuovere l’impasse, correggere l’errore o, se volete, l’invalidazione del pensiero veloce. I due sistemi operano con il minimo sforzo e in modo efficiente.

Il funzionamento normale consente di fare previsioni appropriate al sistema 1 in situazioni conosciute, ma in condizioni d’incertezza è più probabile che commetta errori sistematici che spesso possono generare sofferenza.

D’altra parte, le illusioni percettive o cognitive dimostrano come sia impossibile spegnere il sistema 1 ma è altresì necessario considerare che sarebbe disadattivo mettere in discussione il nostro pensiero intuitivo. Ciò determinerebbe comunque errori di altro genere. Un giusto compromesso dovrebbe portarci a riconoscere i frame dove si può annidare l’errore, cercare di evitarlo, soprattutto quando l’errore è tanto grave da mettere in discussione l’ordine del sistema e soprattutto imparare da esso per portare la conoscenza a un livello superiore.

Il sistema 1 e il sistema 2 toccano sia i contenuti sia i processi mentali e possono determinare un buon adattamento o disfunzioni patologiche nei pazienti ed errori o manovre appropriate nei terapeuti. E’ proprio su questi ultimi che vogliamo porre l’attenzione  riprendendo un argomento di cui c’eravamo già occupati.

In un sistema autorganizzato il sé connette e rielabora l’esperienza attraverso processi autoreferenziali. L’errore rappresenta una perturbazione che attiva una costruzione che rimuove l’omeostasi e all’interno di una teoria critica cerca di andare oltre ciò che appare per individuare livelli più elevati di conoscenza. L’errore rendendo impossibile la coerenza dell’esperienza muove il sistema verso la modifica o l’abbandono del paradigma, riorganizzando i significati su modalità funzionali e che contemplano l’errore stesso come possibilità evolutiva. (Lorenzini, Scarinci, 2013).

Il contributo delle neuroscienze

Sul cervello si sono succedute molte teorie: dualistiche (Cartesio), meccanicistiche (De la Mettrie), riflessologiche (Pavlov), della localizzazione delle funzioni, dell’architettura modulare (Fodor), del connessionismo e delle teorie motorie (Weiner) che non hanno ancora dato risultati definitivi sui fenomeni psichici, nonostante nuovi metodi e nuovi strumenti d’indagine ci hanno messo di recente nelle condizioni di avere a disposizione informazioni molto approfondite e specifiche, valide e affidabili.

Le neuroscienze, comunque, al momento non sono ancora in grado di fornire dati sui meccanismi interni del cervello tali da poterne spiegare il funzionamento. E’ possibile attendersi dalla ricerca sviluppi interessanti, anche se negli ultimi tempi prevale un certo scoramento rispetto ai risultati fin qui raggiunti e, parallelamente al numero notevole di ricerche condotte, aumentano le critiche riguardo all’impostazione teorica e metodologica di questi studi. In un recente interessante articolo Piattelli Palmerini (2015), dopo aver intervistato alcuni neuroscienziati di fama internazionale, conclude evidenziando

che sono tutt’altro che trascurabili le numerose correlazioni stabilite, grazie alle sofisticate tecniche di brain imaging e all’analisi di patologie, tra specifiche attività cognitive e specifiche regioni cerebrali. Si tratta di preziose e interessanti correlazioni, ma sono solo correlazioni. Perché una certa area cerebrale sia connessa, poniamo, alla presa di decisione, mentre una diversa area è connessa, poniamo, alla sintassi, per ora, nessuno ce lo può dire. Per capire cosa succeda entro tali aree, e perché vi succedano cose diverse, dobbiamo aspettare qualche rivoluzione scientifica, simile alla scoperta della struttura del DNA e poi del codice genetico.

Attualmente le neuroscienze rischiano di scambiare correlazioni con rapporti causali e di analizzare il funzionamento della mente riducendola al funzionamento cerebrale operando un riduzionismo a livello sub personale inutile per la psicologia e la psicopatologia.

Seguendo alcune indicazioni che emergono comunque dal dibattito in corso, potremmo condividere con Edelman (2006) che l’esperienza e l’apprendimento sono fondamentali per l’adattamento e sono paralleli al mutamento organico ed evolutivo.

Le funzioni cerebrali si formano secondo un processo interattivo e selettivo continuo. L’esperienza sensoriale è riconosciuta, classificata e categorizzata dal sistema nervoso che costruisce mappe del mondo. L’esperienza modifica il cervello, in particolare le aree interessate dai processi sopra descritti, con la possibilità che quelle esperienze generino informazioni (contenuti) archiviati in memoria che riemergono in presenza di eventi che richiamano strutture e processi preposti all’elaborazione delle risposte affettivo-emotive. Damasio (1994) descrive questo meccanismo della vita mentale che presuppone un forte legame tra somatico e mentale introducendo il concetto di marcatore somatico.

In definitiva, stando alle conoscenze attuali sembrerebbe possibile affermare che stati mentali e stati fisici sono complementari e i primi sono emergenti e interconnessi ricorsivamente con i secondi.

L’interessante è capire come alcune attivazioni del pensiero veloce, livello bottom up e del pensiero lento, livello top down possano manifestarsi e con quali conseguenze in terapia. Seguiamo alcune tracce lasciate da Kahneman (2013).

 

I contributi di Kahneman alla comprensione delle conseguenze di alcune attivazioni del pensiero lento e del pensiero veloce in psicoterapia saranno argomento dei prossimi articoli.

 

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