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La Scala di Valutazione del Benessere (SVB) – Partecipa alla Ricerca!

 

 

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Con l’obiettivo di valutare il benessere Scarinci e Lorenzini hanno messo a punto la Scala di Valutazione del Benessere (SVB) (Lorenzini, Scarinci, 2013), già sottoposta a un primo studio di validazione.

Questa ulteriore ricerca ha l’obiettivo di verificare l’affidabilità e la validità della versione definitiva dello strumento.

 

Sempre più spesso viene rivolta ai professionisti della salute mentale una richiesta di aiuto per promuovere e incrementare il proprio benessere sia da persone che intrattengono una sofferenza psicopatologica ma che non si accontentano

della semplice risoluzione dei sintomi sia da persone che non presentano disagi specifici ma non sono pienamente soddisfatti

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del loro stare al mondo.

 

Numerose ricerche e le principali indicazioni fornite dalle neuroscienze attestano che gli ingredienti essenziali per il raggiungimento del benessere sono il bisogno di significato e di relazionalità, correlati ad una dimensione di trascendenza, di consapevolezza e di accettazione della propria condizione.

 

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Con l’obiettivo di valutare il benessere Scarinci e Lorenzini hanno messo a punto la Scala di Valutazione del Benessere (SVB) (Lorenzini, Scarinci, 2013), già sottoposta a un primo studio di validazione.

 

Questa ulteriore ricerca ha l’obiettivo di verificare l’affidabilità e la validità della versione definitiva dello strumento. A questo scopo la versione preliminare dello strumento è stata messa a confronto con Psychological Well-Being Scale di Carol Riff e altri strumenti capaci di identificare tipologia e severità della sofferenza psicologica.

 

Qui di seguito il questionario per chi desiderasse contribuire alla ricerca compilandolo in forma anonima.

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PARTECIPA  ALLA RICERCA!

Intervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne

Riconoscere le menzogne

Intervista a Mark Frank

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STATE OF MIND: Sono qui con il Dott. Mark Frank, sono un po’ nervosa e in ansia e non posso fare finta di essere rilassata perché è il più grande esperto nel rilevare le bugie, quindi… [sono fregata!]

DR. MARK FRANK: Hai appena mentito, Valentina!

SoM.: Oh no! … (è vero!) [in effetti passerò tutta l’intervista cercando di mostrami rilassata fallendo miseramente]

I nostri lettori sono principalmente psicologi e psicoterapeuti. Lei lavora molto con agenzie investigative, poliziotti, etc. Io credo però che le sue ricerche possano essere molto importanti anche nel campo della psicoterapia perché anche in psicoterapia è molto importante essere in grado di riconoscere le menzogne. Quindi, quale ritiene siano le implicazioni della sua ricerca nel campo della psicoterapia?

M. F.: Questa è davvero una bella domanda. Penso che il discorso si possa articolare su più livelli.

Un primo livello riguarda come i pazienti elaborano le informazioni che ricevono dal proprio psichiatra.

Molte problematiche emergono in caso di somministrazione di farmaci, quando i pazienti cercano di ottenere farmaci di cui magari non hanno bisogno, ma che vogliono assumere.

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Un altro aspetto ha a che fare con la necessità per lo psichiatra di riconoscere pazienti potenzialmente pericolosi e cercare di determinare se la minaccia sia reale o se la persona in realtà non sia veramente pericolosa o addirittura se porti con sé un’arma. A tal proposito ci sono numerose tecniche su cui fare affidamento e tecniche di osservazione che riguardano la comunicazione non verbale che vengono utilizzate proprio per identificare quali sono alcuni di questi fattori.

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Ritengo inoltre che gli psichiatri debbano riconoscere che non si limitano soltanto a leggere i comportamenti, ma che sono anche loro stessi generatori di comportamento. È possibile che lo psichiatra [ma leggi anche terapeuta] crei degli stili di comportamento che possano produrre in lui delle reazioni che potrebbero indurlo in errore nel valutare, per esempio, se con quel paziente sta realmente procedendo bene, se è davvero pericoloso o se è davvero a rischio suicidario… Tutte queste considerazioni, tenere a mente che non si è solamente dei lettori di comportamento, ma anche dei generatori di comportamento, permettono di rendere la conversazione più agevole…e quando ciò avviene e si costruisce un buon rapporto e si incomincia a parlare, si ottengono migliori informazioni e naturalmente lo psichiatra può effettuare una migliore valutazione.

Mark G. Frank - Comportamento e Inganno - Seminario
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SoM: Ha mai tenuto corsi di training per psichiatri o psicologi?

M.F.: In un certo qual modo sì. A volte nei gruppi per cui faccio formazione ci sono psicologi, psichiatri, forze dell’ordine, e altre figure professionali…quindi direi sì, in gruppi misti. Qualche anno fa mi è capitato, sì.

SoM.: Su cosa focalizzerebbe la formazione se dovesse aver come target degli psicologi? Gli argomenti trattati sarebbero gli stessi affrontati durante questi 2 giorni di seminario?

M.F.: I temi trattati non riguarderebbero più di tanto il tema della menzogna, bensì come i pazienti reagiscono a ciò che il terapeuta sta cercando di fare. Quando si suggerisce un determinato programma terapeutico, quanto sono aperti a ciò che viene proposto? O stanno rifiutando quanto viene loro proposto nonostante stiano dicendo “Ok, ci proverò”? Hanno realmente intenzione di provarci o lo stanno solamente dicendo per sbarazzarsi del terapeuta?

SoM: Eh sì, il problema della compliance al trattamento…

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M.F.: Un altro tema riguarda il fatto che i pazienti possono dare risposte vaghe che sembrano delle buona risposte; per esempio alla domanda “Come sta andando con i nuovi farmaci che Le ho prescritto?” possono rispondere “Oh, sì, bene”. Ok, ma quanto bene? Quanto male? C’è altro che vorremmo sapere? Bisogna essere pronti a fare ulteriori domande, ma ciò dipende da come il paziente dice “Sì, bene”, che ci indica se il paziente sta veramente bene, se ci sono dei problemi, se ha difficoltà a tenere il passo con il programma terapeutico, etc.

Quindi il lavoro si focalizzerebbe più sull’aiutare a prestare attenzione a come i pazienti reagiscono a ciò che cerchiamo di fare.

SoM: Beh, è molto interessante tutto ciò! Quali sono invece le Sue future linee di ricerca?

M.F.: Beh, in realtà ho in essere diverse linee di ricerca.

Una riguarda il cercare di capire come le persone giudicano l’inganno…buono o cattivo.

Un’altra linea di ricerca si occupa di comprendere che cosa effettivamente succede dal punto di vista comportamentale e in quale contesto.

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 Per esempio, se le persone si alzano e camminano intorno versus se stanno sedute versus altri possibili contesti…insomma, quali sono gli indizi comportamentali e quali sono i modi migliori per misurarli. Perché uno dei problemi che si riscontrano quando si conduce questo tipo di ricerche è che è necessario tantissimo tempo per effettuare una codifica FACS (Facial Action Coding System): a volte servono fino a due-tre ore per codificare un solo minuto di comportamento.

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Ora abbiamo a disposizione degli strumenti tecnologici, un software che legge alcuni elementi facciali e che stiamo cercando di perfezionare in modo da poterlo utilizzare come se fosse un codificatore indipendente che un giorno sarà in grado di fare codifiche complete. Ma c’è il rovescio della medaglia: qualora il software diventi aperto, sarà disponibile per tutti e le persone che non si prenderanno più del tempo per studiare come esattamente funziona il volto useranno il software e cominceranno a fare ogni sorta di insolite affermazioni sul viso e questo sarà un problema; ogni cosa ha i suoi pro e le sue conseguenze.

SoM: Se ripensa alla sua carriera di ricercatore, qual è stato il risultato più sorprendente che ha trovato? Qualcosa che proprio non si aspettava di trovare…

M.F.: Beh, una delle cose che stanno succedendo è che stiamo scoprendo che inganno e ostilità, che sono state fino ad ora due linee di ricerca separate, in realtà vanno un po’ insieme. Abbiamo visto che la ricerca sulle emozioni, in riferimento a cosa succede quando si mente, è molto importante riguardo al tema della violenza nel predire chi potrebbe diventare violento. Durante gli studi che stavamo conducendo ad un certo punto abbiamo visto che le persone quando mentivano a volte mostravano elementi quali disprezzo e disgusto… e non riuscivamo a spiegarci la presenza di questi due elementi perché in quegli studi il compito assegnato consisteva nel rubare a delle persone! Così abbiamo realizzato che parte si riferiva al mentire e parte aveva a che fare con l’ostilità, e così ora due linee di ricerca che prima ritenevo fossero separate – menzogna ed ostilità – sembrano invece far parte di processi simili. Questo è stato piuttosto eccezionale, il risultato più sorprendente!

Un’altra cosa sorprendente è che all’inizio dei nostri studi, ogni volta che indagavo il ruolo delle emozioni nell’inganno e riguardavo le videoregistrazioni, rimanevo inizialmente sempre deluso, pensavo: “mmm…non sembra esserci nulla!”. Poi riguardavo i video a rallentatore, frame by frame, e, oh mio Dio, c’era così tanto! Nell’ultimo studio abbiamo trovato qualcosa come…non ricordo precisamente i numeri…ma circa il 40% di emozioni negative che tradiscono un bugiardo, che durano meno di un secondo! Ecco perché è facile perderle, ma ora ovviamente dopo anni e anni a guardare filmati, dopo il training sulle micro-espressioni facciali e altro ancora, riesco a vederle molto più velocemente, ma ricordo nei primi anni novanta, con il Dr. Ekman, stoppavo i filmati e dicevo “mmm…non c’è niente”, poi cominciavo con la codifica e…”Oh mio Dio, wow!!

L’infelicità è nell’occhio dello spettatore. - Immagine: © Delphimages - Fotolia.com.
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SoM: Diversi studi mostrano che se si assume un’espressione emotiva con il volto, dopo un po’ di tempo si esperisce realmente quella emozione. Questo funziona solamente se l’espressione emotiva viene assunta correttamente? Voglio dire, se io fingo un sorriso, e quindi non muovo sia i muscoli della bocca che i muscoli degli occhi [come avviene invece nel sorriso autentico, dove il muscolo zigomatico maggiore dell’occhio si attiva involontariamente], ma solo quelli della bocca, non posso provare felicità, giusto?

M.F..: Esatto

SoM: Questo come può incidere sulla capacità di nascondere un’emozione con un’altra?

M.F.: Quello che intendi è se stai provando un’emozione…

SoM: Sì, e ne fingo un’altra esprimendola fisicamente in maniera corretta, cosa succede?

M.F.: Per esempio, sei arrabbiata ma sorridi per apparire felice, se assumi la posa emotiva in maniera corretta puoi sovrascrivere la rabbia? Non sono proprio sicuro di come la scienza si esprima su ciò, ma se dovessi dare la mia opinione direi di sì, ma non ne sono sicuro al 100%, questa è solo una mia speculazione.

SoM: Pensa che le persone possano imparare a mentire?  So che Lei non insegna a mentire…

M.F.: No, infatti. Noi siamo degli acchiappa-bugiardi, non dei creatori di bugiardi. Il mondo ne ha già tanti di bugiardi, non c’è bisogno di trovarne altri.

SoM: Ma è solo una questione di quanto gli altri sono bravi a riconoscere una bugia? Voglio dire, se la passo liscia è solo perché chi ho di fronte non è bravo a riconoscere gli indizi di menzogna?

M.F.: Le persone variano molto nella loro capacità di identificare le menzogne. Questo lo si vede molto nelle ricerche che facciamo dove si trovano persone che se la cavano così così e altre se la cavano meglio e questo fa salire la media del grado di accuratezza al 54%.

Per quanto riguarda i bugiardi, beh, tu puoi dire ad una persona che cosa fare, ma la domanda è: è in grado di farlo? Cioè, io posso dirti: “Valentina, non preoccuparti, rilassati!” e tu potresti dire: “Oh, ok!”, ma se fossimo in grado di farlo non avremmo bisogno degli psicologi! “Sono depresso”Dovresti essere felice!” “Ah, ok… Aspetta un attimo…DING!! Hey, sono felice, fantastico!”. La verità è che non possiamo fare così con le nostre emozioni! È come quando devi fare un’importante presentazione e il tuo amico ti dice di rilassarti…”Oh, ma dai, non ci avevo pensato!”. Ovvio che ci avevi pensato, ma non sei in grado di farlo! In particolare quando si mente ad altri esseri umani, il nostro cervello deve rispondere a tre dimensioni: persone, oggetti ed ambiente. Certo, potrei mostrarti delle schede con delle indicazioni, potresti allenarti nella tua camera davanti ad uno specchio, ma quando dovrai stare di fronte per la prima volta ad un altro essere umano che ti scruta? Questa è una cosa per la quale non si può fare pratica e ciò rende le cose più difficili. Però ci sono delle cose che si possono fare. Alcuni studi hanno mostrato che se insegni a certi soggetti alcuni dei criteri di funzionamento della memoria e si insegna loro a parlare in un certo modo, alcuni possono fare qualcosa per riuscire a nascondere le proprie bugie. Quindi alcuni possono essere addestrati, ma non tutti.

SoM: Cosa ne pensa delle serie tv Lie to me e Criminal Minds. Sono accurate?  

M.F.: Tutti gli show televisivi sono costituiti da un misto di fatti e fiction. Lie to me è il migliore del gruppo. Parte del lavoro è stato fatto con il Dr. Ekman visto che il protagonista principale è chiaramente ispirato al Dr. Ekman. Direi che è accurato per l’80%, il restante 20% è…beh…fantasia. Questo è un indice di accuratezza altissimo per uno show tv, gli altri di solito si attestano sul 30-40%. Certo il Dr. Ekman era il consulente scientifico dello show e sicuramente ciò ha contribuito a renderlo migliore. Però lo scopo è sempre quello di intrattenere il pubblico: il protagonista ha sempre ragione, fa le sue valutazioni in una frazione di secondo…nella vita reale non funziona così.

Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

SoM: Quanto le Sue abilità nel riconoscere la menzogna influenzano i Suoi rapporti con gli altri? Perché non credo che sia un’abilità che si può spegnere a comando…

 M.F.: mah, io tendo ad essere una persona molto fiduciosa. Se noto delle cose, tendo a dirmi che le ho male interpretate. Per esempio potrei pensare “Oh, Valentina mi ha mostrato paura quando mi ha detto che non ne stava provando, ma probabilmente è solo nervosa, sembra una persona così carina, probabilmente è sotto stress” e questo è qualcosa che influenza il processo di valutazione. Infatti ci sono due cose di cui hai bisogno: la prima è rilevare indizi, ma la seconda è interpretarli in maniera corretta perché nessun segno di per sé garantisce che la persona sta mentendo. Ci sono segnali che indicano che una persona ci sta pensando su due piedi, segnali che indicano che la persona sta richiamando alla memoria un fatto che non ha vissuto in prima persona, ci sono segnali che indicano che sta provando emozioni, ma ciò che si deve fare è interpretare perché quella persona sta provando quella emozione, perché ci devono pensare su per rispondere ad una domanda la cui risposta dovrebbe essere immediata come sapere qual è il loro nome…

SoM: Lei ha lavorato con Paul Ekman. Ha mai provando a mentirgli?

M.F.:  ahah, no! Ehehehe, sarebbe stato un grave errore!!!!

SoM: Le è piaciuta l’intervista?

M.F.: Intendi la tua intervista?

SoM: Sì

M.F.: Sì, moltissimo!

SoM: Mi sta mentendo?

M.F.: NO!

SoM: NO?! [Facendo sì con la testa, come i bugiardi che negano a parole, ma affermano inconsciamente con il proprio corpo]

M.F.: Ahahahaha! Avrei dovuto rispondere così!! Scusami!

SoM: Allora rifacciamo! Mi sta mentendo?

M.F.: Ehm…mmm…[ci pensa un po’ su] …[scuote la testa] …ehm …sì, sì

SoM: Ahahah ok!

M.F.: Sono molto stanco, ma hai fatto delle belle domande ed è stato molto piacevole.

 

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Il potere delle teorie naives: le influenze sul peso corporeo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le credenze delle persone su ciò che può essere dannoso per lo sviluppo di problemi legati al peso e, più in generale, di obesità,  influiscono in modo significativo sulle scelte alimentari di ogni giorno e, quindi, sul peso corporeo. 

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Una nuova ricerca messa a punto da Brent McFerran (Ross School of Business – University of Michigan) e Anirban Mukhopadhyay (Hong Kong University of Science and Technology) ha mostrato il potere delle credenze personali nell’influenzare il proprio comportamento alimentare e quindi la massa corporea (BMI).

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Il panorama scientifico di riferimento si rifà all’esigenza di comprendere e gestire il divagante fenomeno dell’obesità, ampiamente diffuso non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi. Lo studio, pubblicato in questi giorni su Psychological Science, ha inizialmente indagato le opinioni personali di ogni partecipante circa le cause primarie dell’obesità. Tra i fattori principali, i soggetti identificarono, nella maggior parte dei casi, un’alimentazione eccessiva e l’assenza di un adeguato esercizio fisico, seguiti, con un elevato distacco, da fattori genetici.

 

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Con l’obiettivo di approfondire i dato ottenuti, i due ricercatori intrapresero una serie di studi in cinque Paesi di tre contenti diversi. In Francia, Corea e Stati Uniti, i risultati confermarono il trend: la dieta e l’esercizio fisico vennero identificate come cause principali di problemi legati al peso. Inoltre, le persone che valutarono l’alimentazione quale causa primaria dell’obesità, avevano un peso corporeo (BMI) inferiore a quelli che sostennero invece l’ipotesi relativa all’esercizio fisico.

E soprattutto, queste credenze avevano l’effetto di incidere sul peso corporeo delle persone in modo largamente superiore ad altri fattori, tra cui lo status socio-economico, l’età, l’educazione, varie condizioni mediche e le abitudini di sonno. A partire da queste scoperte, i due ricercatori cercarono di testare l’ipotesi per cui il collegamento tra le credenze dei soggetti e l’indice di massa corporeo avesse a che fare con la quantità di cibo ingerito quotidianamente.

 

Uno studio su un campione di soggetti canadesi e cinesi,  infatti, mostrò le differenze  nelle abitudini alimentari tra coloro che consideravano la dieta come maggior responsabile di problemi di peso, o viceversa, quelli che valutarono il mancato esercizio fisico come principale fattore. Coloro che davano maggiore importanza all’attività fisica, mangiavano molto più cioccolato di quelli dell’altro gruppo.  Questi risultati mostrano, infatti, che le nostre credenze possano influenzare largamente le nostre scelte alimentari, e, quindi, la massa corporea.

Appare evidente che una possibile soluzione, all’interno di quest’ambito, potrebbe essere quella di agire sulle credenze delle persone al fine di modificare le loro scelte alimentare e controllare, di conseguenza, il problema del sovrappeso. Anziché concentrarsi sui comportamenti alimentari in sé, infatti, si dovrebbe dirigere l’attenzione verso ciò che le persone pensano, al fine di gestire in modo più efficace un’emergenza internazionale come l’obesità. 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Fenomenologia del giro nel parco

Fenomenologia del giro nel parco. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comFenomenologia del giro nel parco..Una mattina ero in auto con un amico psicoterapeuta di fresco e mi è squillato il cellulare. Era una mia anziana paziente molto ansiosa, che nei momenti di acuzie del disagio mi chiamava per sfogarsi.

In realtà le telefonate avevano semplicemente una funzione di contenimento, perché lei sapeva che i cambiamenti della terapia farmacologica li decidevamo solo durante i nostri incontri mensili e non al telefono.

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Il copione consisteva nel lasciare giustamente che si lamentasse, nel mostrare un atteggiamento empatico, infondendo un po’ di speranza e rimandando gli approfondimenti del caso all’incontro successivo. Quella mattina la signora era davvero inconsolabile e mi chiedeva in continuazione cosa avrebbe potuto fare per placare la propria angoscia.

Guardi signora, vada a fare un bel giro nel parco. Sì ha capito bene…un giro nel parco.

A queste mie parole pronunciate, lo giuro, senza aggressività (niente a che vedere, per intenderci, con i “vaffa” grilleschi), né menefreghismo, il mio collega psicoterapeuta è trasalito. La sua espressione faceva trasparire un pensiero del tipo “ma come, hai studiato quindici anni medicina, psichiatria e psicoterapia, e mi vieni fuori con un consiglio così, da uomo della strada?”.

Ho abbozzato una pietosa difesa sostenendo che il giro nel parco sarebbe potuto benissimo rientrare nelle attività piacevoli da inserire nella giornata, nell’ambito di una strategia psicoterapeutica cognitivo comportamentale, ma lui ha scosso la testa, infierendo un po’ sul proverbiale cinismo degli psichiatri. Da allora la battuta del giro nel parco è diventata un tormentone, che il mio amico ripete tutte le volte che mi vede parlare al telefono.

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D’altra parte che c’è di male in un bel giro in uno spazio verde? Aria aperta, sole, erba, laghetti con papere, qualcuno che fa jogging, il pensionato che porta a spasso il cane, etc. E tutto gratis!

Anche la letteratura internazionale conferma poi l’importanza dell’attività fisica, in particolare quella outdoor, nella cura dei disturbi ansioso-depressivi (Stanton e Reaburn, 2013).

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Qualche giorno fa avevo del tempo libero e mi sentivo un po’ turbato, così ho calzato le scarpe da ginnastica e mi sono autoprescritto un bel giro nel parco vicino a casa mia, anche per capire se ciò che avevo consigliato, ispirato dal buon senso, potesse in realtà avere una qualche valenza terapeutica.

Molteplici strade per la Cura dell' Ansia. - Immagine: © Mark Abercrombie - Fotolia.com
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Ho iniziato a camminare facendo dei lunghi respiri e cercando il più possibile di concentrarmi sui miei passi, come una volta mi avevano insegnato ad un corso di meditazione. Prima del quarto passo la mia attenzione è stata attirata dai due soggetti che mi venivano incontro, camminando abbracciati, barcollando un po’ e canticchiando. Entrambi di sesso maschile, sui quarant’anni, accento slavo, odore di vodka che si avvertiva da almeno cinque metri. Erano le quattro di un venerdì pomeriggio, orario insolito per una sbronza così clamorosa, a meno che non ci trovassimo in un racconto di Cechov.

Devo stare attento a consigliare il giro nel parco a pazienti con problemi di dipendenza, ho pensato, e ho proseguito verso il laghetto, una grande buca piena d’acqua marroncina, che pullulava di pescatori attrezzatissimi di canne, retini, lenze, galleggianti e esche ai gusti assortiti. Farei certamente meglio ad astenermi da certi giudizi, ma davvero fatico a capire come possa una persona passare il proprio tempo gettando un amo in una pozzanghera di città, per pescare dei poveri pesci prigionieri. Ho intervistato uno degli “sportivi” che mi ha raccontato che vengono usati degli ami speciali non dannosi per il pesce, che poi viene rigettato in acqua. E il sadico gioco ricomincia.

In preda alla tristezza, mi sono spinto verso la zona del laghetto colonizzato dalle papere e dagli anatroccoli, sperando in un effetto pet-therapy, che in realtà non si è fatto attendere. Sono stato assalito da un senso di tenerezza, di compassione e di bontà universale, finchè una vecchietta, evidentemente colpita dalla mia commozione, non ha pensato di raccontarmi la storia delle tartarughe con la testa rossa. Questi simpatici animaletti, che di solito vengono gettati nel lago da cittadini che vogliono sbarazzarsene, sono bestie carnivore che non disdegnano di divorare gli anatroccoli, di fronte alle madri papere impotenti. La signora stessa aveva assistito il giorno prima a un sanguinoso omicidio da parte di una tartaruga (ninja?). I miei occhi sono diventati lucidi e lo stomaco mi si è stretto in una morsa. Mai avrei pensato che il parco potesse serbarmi delle sorprese così crudeli. Mai, lo giuro!

Mi sono congedato frettolosamente dalla signora e ho ripreso il mio giro, sempre cercando di mantenere l’attenzione sul respiro e sui miei passi, ma l’immagine intrusiva dell’anatroccolo trascinato sott’acqua mi perseguitava.

 Per fortuna, pochi metri più in là, ho incontrato un gruppo di “quelli dei cani”, padroni molto orgogliosi di mostrare la propria bestiola, trattata spesso come un figlio, con tanto di vezzeggiativi come “amorino”, “tesorino”, “dolcezza” etc. La mia naturale attenzione per i diversi ed i freak mi ha portato a notare un grande cagnone nero a cui mancava una zampa anteriore. Il padrone, un simpatico balbuziente, l’aveva adottato al canile, scegliendolo proprio per la sua menomazione, che lo rendeva ben poco desiderabile ai più. Pieno di ammirazione per il coraggio e la generosità del padrone, mi sono slanciato verso l’animale per accarezzarlo, senza accorgermi che l’uomo, incespicando nella balbuzie,  stava cercando di dirmi qualcosa. Evidentemente voleva mettermi in guardia rispetto alle reazioni imprevedibili del proprio cane, che al mio avvicinamento ha infatti cercato di staccarmi una gamba, per una probabile legge del contrappasso di Madre Natura.

In preda ai sintomi di un attacco di panico, mi sono allontanato indietreggiando lentamente e nascondendomi dietro una siepe.

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Per calmarmi ho riportato l’attenzione sul respiro addominale, provando tra l’altro feroci sensi di colpa alla vista di un podista settantenne che correva a torso nudo, mostrando un addominale-tartaruga (senza la testa rossa questa volta) degno di Usain Bolt.

Si era fatta decisamente l’ora di rientrare a casa. Sulla via del ritorno sono passato di fronte a un’edicola e le locandine dei giornali locali titolavano “Pensionato scippato in un parco pubblico”.

Il giorno dopo la mia anziana paziente mi ha richiamato, in preda alla solita ansia.

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Signora si sdrai un po’ a letto e non si muova da li, mi raccomando. Vedrà che passa.

Come diceva il maestro Primum non nocere!

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BIBLIOGRAFIA:

L’adolescenza ai tempi della crisi

 

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.comGli adolescenti dovrebbero essere osservati come quadri preziosi in un museo: non troppo vicino da tralasciarne la figura d’insieme, non troppo lontano da perdere di vista i dettagli che rendono ognuno di loro unico e irripetibile. In entrambi i casi ne perderemmo la vera bellezza e il vero valore.

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Elena, non sto bene. Ho l’adolescenza”.  Uno dei miei primi colloqui allo sportello di ascolto di una scuola media è iniziato con questa frase.Ho l’adolescenza” mi ha detto Giada, 13 anni, proprio come se stesse parlando di una malattia, di un virus, di qualcosa che senza accorgersene ti investe, ti rifila dei sintomi e ti fa sentire a pezzi. “Passerà col tempo, speriamo!” ha poi detto Giada. Le ho risposto che sì, passerà, ma non perché esiste una medicina e neanche perché il tempo “guarisce tutte le ferite”, come dice uno dei più triti luoghi comuni. Passerà perché la vita è fatta di fasi che, come stagioni, preparano il terreno a quella successiva e permettono a nuovi frutti di maturare e a nuovi fiori di sbocciare.

Adolescenza: L'età degli Elefanti in Equilibrio Su un Filo. -Immagine: © tiero - Fotolia.com
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Ho sempre pensato che gli adolescenti fossero strani, contorti, francamente un po’ bizzarri. E, al tempo stesso, enigmatici, poliedrici, affascinanti; insomma, una sfida. Forse per questo ho deciso di lavorare con loro sin da prima di laurearmi. E, lavorando con loro, ascoltando le loro domande, accogliendo le loro provocazioni e i loro dubbi, dentro e fuori le mura scolastiche, ho scoperto che in realtà gli adolescenti sono davvero strani, contorti e francamente un po’ bizzarri ma che soprattutto sono spaventati a morte.

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Essere adolescenti ai tempi della crisi mondiale, fa davvero molta paura; una paura di un futuro lontano, sconosciuto, nebuloso, difficile da pensare se non addirittura impossibile. Le contraddizioni del mondo in cui viviamo, l’ambivalenza comunicativa dei grandi personaggi costruiti dai media, l’ambiguità della società liquida di cui parla Bauman, rendono impalpabili, fragili, liquidi anche i valori che la generazione degli adulti deve (o dovrebbe) trasmettere alle generazioni successive.

Essere adulti-educatori di adolescenti nel 2013 significa sentirsi fare dai ragazzi e dalle ragazze domande scomode come “perché devo studiare se non lavora neanche chi è laureato?” oppure “perché devo rispettare le regole se i vincenti sono proprio quelli che le hanno infrante?”. Domande irritanti, provocatorie e maledettamente legittime, necessarie, ragionevoli. Domande che ci parlano in maniera inequivocabile del senso di inadeguatezza degli adolescenti di oggi, “nativi digitali” multitasking come i loro smartphone ma fragili come carta velina.

Leggendo i dati dell’ Indagine Conoscitiva sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia condotta nel 2012 da Telefono Azzurro e Eurispes, emerge con chiarezza la sensazione di difficoltà vissuta dai giovani e giovanissimi, non più spettatori dietro le quinte della crisi economica vissuta dalle famiglie italiane ma ormai attori coinvolti dal dramma.

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Infatti, se nel 2010 un adolescente su tre riteneva che la crisi economica avesse colpito la propria famiglia (29%), oggi è uno su due (50,1%) a dichiararsi consapevole della difficile situazione economica vissuta a livello familiare. Inoltre, il 30,5% dei ragazzi si dice spesso o a volte preso dalla preoccupazione per i problemi di lavoro dei propri genitori. Anche la paura di non trovare lavoro da adulti è largamente diffusa, tanto che solo il 18,2% degli adolescenti dice di non averla.

La fotografia scattata da questi dati ritrae un adolescente deluso dal presente e spaventato, se non addirittura terrorizzato o peggio ancora disilluso e avvilito, da ciò che lo aspetta, da quel futuro, cioè, ciò che Miguel Benasayag e Ghérard Schmit definiscono, nel loro saggio “L’epoca delle passioni tristi” un “futuro-minaccia”: non più il “futuro-promessa” che hanno vissuto i loro genitori ai tempi della loro adolescenza, in cui la fatica, l’impegno, i sacrifici erano intrisi di speranza di essere un giorno ripagati da successo, soddisfazioni, possibilità.

Le Sorgenti del Male di _Zygmunt Bauman - Recensione
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D’altronde, anche essere adulti-educatori nel 2013 fa paura, perché nemmeno per noi le risposte sul futuro non sono così chiare e vincenti. Ma soprattutto perché sta a noi il compito oneroso di essere per gli adolescenti “profeti” del loro futuro e della loro crescita, visionari delle loro possibilità, sognatori della loro strada quando le loro facoltà creative e motivazionali sono intorpidite, prosciugate, paralizzate. Come sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet, aiutare gli adolescenti significa sostenerli nel credere che “in un tempo chiamato futuro” sarà possibile anche per loro la realizzazione del loro progetto, del loro valore, del loro talento.

Forse così l’adolescenza non sembra più una malattia ma una sfida avvincente, i suoi “sintomi” non una spiacevole presenza ma uno stimolo al miglioramento e il suo tempo non un tempo morto e sospeso, ma un tempo della ricerca e della progettazione del Sé.

Grazie, ci penso un po’ su” mi ha detto Giada alla fine del colloquio.

Ti sfidano apertamente, ti mettono in discussione e poi, sorprendentemente, ti ringraziano. Il valore pedagogico della crescita e dell’educazione sta proprio in questa delicata, fragile e giusta distanza: adulti non troppo lontani da far sentire gli adolescenti soli, inadeguati e un po’ strani, ma nemmeno troppo vicini da farli sentire dipendenti e incapaci. Un equilibrio instabile che deve essere insieme cercato, pattuito e negoziato.

Gli adolescenti dovrebbero infatti essere osservati come quadri preziosi in un museo: non troppo vicino da tralasciarne la figura d’insieme, non troppo lontano da perdere di vista i dettagli che rendono ognuno di loro unico e irripetibile. In entrambi i casi ne perderemmo la vera bellezza e il vero valore.

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 ADOLESCENTI –  SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Sociale – Gli essere umani sono pro-sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La resilienza risiede nel  fatto che gli esseri umani sono più che semplici esseri sociali, essi sono esseri ‘pro-sociali’. In altre parole, provano gioia non solo nel fare le cose con gli altri, ma nel fare le cose insieme e per gli altri.

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In che modo il tessuto sociale di una comunità o di una nazione influenza la sua capacità di affrontare le crisi e sviluppare le risorse per mantenere e migliorare la felicità delle persone in tempi difficili?

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Comunità e nazioni con reti e norme sociali di qualità e alti livelli di fiducia sociale rispondono alle crisi e ai mutamenti economici più felicemente e in modo più efficace. È quanto emerge da uno studio condotto da John Helliwell della University of British Columbia in Canada.

Questa ricerca suggerisce che la resilienza risieda nel  fatto che gli esseri umani sono più che semplici esseri sociali, essi sono esseri ‘pro-sociali’. In altre parole, provano gioia non solo nel fare le cose con gli altri, ma nel fare le cose insieme-e-per gli altri.

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Helliwell e il suo team hanno esaminato la felicità media nazionale nei paesi OCSE dopo la crisi finanziaria del 2008 e raggruppato i paesi secondo il loro livello di felicità:

– Il gruppo caratterizzato da un aumento di felicità include i paesi meno direttamente colpiti dalla crisi, con politiche sociali mirate a migliorare il benessere dei propri abitanti, ad esempio la Corea del Sud.

– Il gruppo con decremento di felicità comprende i paesi più colpiti dalla crisi, e

dalle successive ricadute nella zona euro. In questo gruppo, il capitale sociale e altre forme di supporto fondamentali per la felicità sono stati danneggiati durante la crisi.

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La fiducia sociale è un indicatore della qualità del capitale sociale di un paese, che aumenta direttamente la felicità dei suoi individui, ma permette anche un atterraggio più morbido di fronte a shock economici.

Secondo gli autori l’obiettivo centrale della politica pubblica dovrebbe essere quello di facilitare lo sviluppo di istituzioni in grado di valorizzare e “tirare fuori” il meglio dagli esseri umani – un punto di vista sviluppato da Elinor Ostrom, economista politica americana e la prima donna a vincere il Premio Nobel per l’economia.

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PSICOLOGIA SOCIALE – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  RAPPORTI INTERPERSONALI –

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Me and you and everyone we know – Recensione

Recensione del film

ME AND YOU AND EVERYBODY WE KNOW

di Miranda July

(2005)

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Me and you and everybody we know“Me and You and Everyone We Know”, film del 2005 scritto, diretto e interpretato da Miranda July, è una di quelle opere che arrivano con difficoltà al grande pubblico ma lasciano un segno profondo in coloro che hanno la fortuna di incontrarle sul proprio cammino di appassionati di cinema.

Se è vero che un buon film, per essere tale, deve generare un cambiamento nello spettatore tra l’ingresso in sala e l’uscita, “Me and You and Everyone We Know” è uno straordinario gioiello narrativo; la storia è semplice e coinvolge personaggi assai diversi tra loro, accomunati dal bisogno di entrare in relazione con qualcuno: il commesso di un negozio di scarpe appena lasciato dalla moglie, una cliente (Miranda July, personaggio principale) dalla personalità eterea, delicatamente artistica, e intorno altri soggetti che mossi da una condizione di solitudine o da un ingenuo desiderio di scoperta rivolgono lo sguardo alla vita che scorre accanto, tentando di entrarne a far parte.

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LA GRANDE BELLEZZA DI PAOLO SORRENTINO - RECENSIONE
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina

Così un bambino si ritrova in una chat a scambiare messaggi erotici con un personaggio adulto che verrà svelato alla fine, ma il suo parlare di cacca è un parlare da bimbo che come nel teatro dell’assurdo si incastra con le rappresentazioni oscene dell’altro, nella reciproca compensazione di una solitudine che può toccare con significati diversi ogni momento dell’esistenza.

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Così due adolescenti confuse tra pulsioni sessuali e slanci provocatori prendono di mira un omone impacciato, che presto assume l’iniziativa e libera le proprie fantasie scrivendole su fogli esposti alle finestre, ma il gioco non perde mai l’ironia, la purezza della scoperta.

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Il racconto centrale, quello che delinea le sfumature emotive degli attori in una struttura narrativa più approfondita, è il legame tra il commesso e la protagonista; nessuna introduzione formale, nessun pensiero, si vive unicamente la curiosità per un’emozione che spiazza e sorprende, ridefinisce i luoghi – geniale e poetica la passeggiata fino alla macchina parcheggiata, lungo un marciapiede che descrive la parabola di una vita insieme – e le possibilità creative. “Me” and “You” si legge sulle scarpe che la giovane donna ha comprato al negozio, mentre i suoi piedi si osservano, si avvicinano timidamente l’uno all’altro, e la videocamera riprende per farne un istante di amore senza parole. Entrambi i protagonisti, entrambe le scarpe che li contengono e li guidano, sono un dialogo fra dubbi e alternative, tentazione di abbandonarsi all’altro e difficoltà di accedere liberamente al corso spontaneo dell’esperienza.

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Ogni persona, ci comunica il film, è un costante tentativo di negoziare tra riflessioni assolute e particolari – mirabile la scena del pesce rosso dimenticato sul tetto di un’auto e destinato a morte certa non appena la velocità sarà ridotta o aumentata, immagine del nostro bisogno di esistere e al tempo stesso dell’imprevedibilità che condiziona tale bisogno – ogni strada è la ricerca di un “noi” da trovare fra coloro che incontriamo, che incrociamo talvolta per un solo istante osservandoli dal finestrino del viaggio.

Il bisogno di relazione non ha parole giuste o sbagliate, gesti appropriati o meno, non ha un copione da rispettare e quando cade vittima di un senso predefinito si snatura nel conformismo che impedisce di contattare l’essenza reale di ciò che viviamo; “Me and You and Everyone We Know” unisce figure normali e bizzarre, risolute e fragili, nel connubio fra passione per la vita e inconfessabile disperazione, dedicando a tutte loro il messaggio più autentico, nessuno è davvero solo se si apre allo sguardo dell’altro.

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Gioco d’azzardo: I fattori strutturali – PARTE II

Di Andrea Ferrari

 

I fattori strutturali nel gioco d’azzardo e le implicazioni comportamentali e legislative

PARTE II

Le slot-machines: fattori di rischio ed evoluzione della normativa

 

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GIOCO D'AZZARDO - PARTE II. - Immagine: © yvart - Fotolia.comElenchiamo ora le caratteristiche, di tipo strutturale, che contribuiscono a rendere le slot-machines il gioco d’azzardo maggiormente pericoloso: 

Lo sviluppo del gioco d’azzardo patologico avviene molto più rapidamente con le slot rispetto a qualsiasi altra tipologia di gioco (Breen & Zimmerman, 2005); la maggioranza delle persone che hanno una diagnosi di GAP giocano alle slot-machines.

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Alcuni di loro giocano solamente alle slot; il 70% dei giocatori patologici identifica nelle slot il loro problema principale, mentre l’80% dei pazienti che si rivolgono a programmi di trattamento per il gioco sono principalmente utilizzatori di slot-machines (Jackson, Thomas, Thomason, Holt& McCormack, 2000).

L’accessibilità: in Italia le slot-machines possono essere installate in qualsiasi esercizio pubblico che sia in possesso della licenza per la somministrazione di cibi e bevande (inclusi stabilimenti balneari), nonché nelle agenzie deputate alle scommesse in genere e nelle “sale giochi” (art. 86 e 88 del Testo Unico per le Leggi di Pubblica Sicurezza, T.U.L.P.S; http://www.aams.gov.it). Questa estrema flessibilità legislativa fa sì che le slot siano capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale

La loro modalità di funzionamento fa sì che l’azione del giocatore, mediante l’utilizzo di bottoni e leve, possa produrre una illusione di controllo, per il motivo che i “giochi attivi” solitamente sono più rinforzanti dei “giochi passivi” (Chòliz, 2006).

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Le slot-machines favoriscono l’insorgere di errori cognitivi come le quasi-vincite (Kassinove & Schare, 2001), caratteristica attivamente ricercata da parte dei costruttori, anche aggirando le leggi (Harrigan, 2008).

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Giocare alle slot produce un incremento dell’attivazione fisiologica (Coventry & Constable, 1999).

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Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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È possibile scommettere sia partendo da importi modesti, sia su importi molto elevati: in Italia il costo di una partita sulle slot-machines del tipo comma 6 è di 50 centesimi di Euro, fino ad un importo massimo di 1€. Questo potrebbe essere un fattore in grado di favorire la disponibilità a scommettere. Per quanto riguarda le Video-Lottery (apparecchi di gioco del tipo comma 6b), invece, il costo di una partita arriva fino a 10€, tanto che queste macchine accettano banconote.

Le slot-machines erogano le vincite in modo immediato, sia come contingenza visiva, sia in senso monetario; questo aspetto costituisce un rinforzo potentissimo nel mantenere il comportamento di gioco.

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Le slot-machines spesso accompagnano le vincite con stimoli di tipo uditivo e visivo. È stato osservato che questo accade anche quando la vincita risulta inferiore all’importo della puntata, generando un fenomeno definito come “perdita mascherata” (losses disguised as wins; Dixon et al., 2010)

Le slot utilizzano effetti sonori e musiche di sottofondo che sembrerebbero indurre stati emotivi piacevoli, rendendo la sessione di gioco più piacevole, facilitando un sentimento di “immersione” (Parke & Griffiths, 2006)

Il comportamento del giocatore diviene progressivamente più abitudinario e stereotipato man mano che passa dall’essere giocatore occasionale a giocatore regolare di slot-machines. I giocatori regolari di slot-machines mostrano di avere aspettative molto fisse riguardo alla profittabilità del gioco, tendono ad avere strategie di gioco rigide, ad esempio scommettendo la stessa cifra per tutta la durata del gioco, oppure cambiando la puntata in funzione del risultato, scommettendo di più dopo una vincita e meno dopo una perdita (DelFabbro & Winefield, 1999).

Alla luce dei fattori considerati, vediamo ora come si é evoluta in Italia la legislazione in materia di slot-machines (tipo comma 6a).

Evoluzione dell’articolo 110 comma 6 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza

Questo articolo ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, alle quali accenneremo brevemente, in quanto l’analisi della giurisprudenza esula dagli scopi di questo articolo.

È tuttavia interessante osservare l’evoluzione delle politiche sul tema della sicurezza del gioco d’azzardo, e in particolare ci interessa come si è evoluta la normativa sui fattori strutturali.

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Così l’articolo nel 1995: Appartengono altresì alla categoria dei giochi leciti quegli apparecchi distributori di prodotti alimentari di piccola oggettistica di modesto valore economico con annesso gioco di abilità o di trattenimento che, previa introduzione di una moneta o di un gettone, distribuiscono un prodotto ben visibile e che consentono, come incentivo per l’abilità o per il trattenimento offerto, anche la vincita di uno dei premi di modesto valore economico esposti nell’apparecchio stesso.

Quelle che il legislatore indicava come apparecchi distributori di prodotti alimentari in realtà erano slot-machines vere e proprie, grazie alle quali gli esercenti e i distributori degli apparati hanno ottenuto ingenti guadagni senza versare una lira di tasse, non essendo sulla carta apparecchiature per il gioco di azzardo.

Lo Stato, dopo aver tentato una timida ridefinizione nell’anno 2000, che ancora non prevedeva la possibilità di vincere in denaro, risponde in modo più deciso nel 2002 con una modifica della normativa, grazie alla quale si appropria di una parte dei guadagni e ridefinisce il funzionamento degli apparecchi (ora legali). Così l’articolo: Si considerano apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici da trattenimento o da gioco di abilità, come tali idonei per il gioco lecito, quelli che si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica, nei quali gli elementi di abilità o trattenimento sono preponderanti rispetto all’elemento aleatorio, il costo della partita non supera 50 centesimi di euro, la durata di ciascuna partita non è inferiore a dieci secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a venti volte il costo della singola partita, erogate dalla macchina subito dopo la sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche. In tal caso le vincite, computate dall’apparecchio e dal congegno, in modo non predeterminabile, su un ciclo complessivo di 7.000 partite, devono risultare non inferiori al 90 per cento delle somme giocate. In ogni caso tali apparecchi non possono riprodurre il gioco del poker o comunque anche in parte le sue regole fondamentali.

 Nel 2003 l’articolo viene nuovamente ritoccato, stavolta specificando la durata della partita, compresa tra sette e tredici secondi, mentre le vincite, computate su un ciclo di 14.000 partite devono risultare comunque non inferiori al 75% delle somme giocate.

Le ultime modifiche, introdotte dalla Finanziaria del 2008, prevedono un costo della partita di valore non superiore a 1 Euro, una durata minima di 4 secondi, mentre il valore massimo delle vincite è fissato in 100 Euro.

Per quanto riguarda la diffusione delle slot-machines, l’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato), ha sempre fornito la disciplina per gli esercizi commerciali che volessero dotarsi di macchine del tipo comma 6 Tulps. Inizialmente il disciplinare prevedeva che non potessero esservi esercizi pubblici  che contassero sulla presenza esclusiva di slot-machines, le quali non potevano essere presenti in numero superiore a quello di apparecchi di puro intrattenimento (videogiochi), appartenenti alla tipologia di cui al comma 7 dell’art. 110 Tulps. Inoltre non era possibile installare più di un apparecchio per ogni dieci metri quadrati di superficie del locale.

Questa norma viene rivista tramite decreto direttoriale AAMS del 18 Gennaio 2007, secondo il quale è ora possibile installare un macchinario da gioco ogni cinque metri quadrati, mentre il numero delle macchine comma 6 non può superare il doppio del numero delle macchine comma 7.

In seguito all’entrata in vigore del decreto direttoriale AAMS 22 gennaio 2010, introducente la nuova disciplina delle Video Lottery (VLT), ovvero macchine del tipo comma 6b, questo obbligo viene del tutto a meno, rendendo così possibile l’installazione esclusiva di macchine del tipo comma 6b all’interno di locali dedicati. Rimane ad oggi l’obbligo della compresenza delle macchine comma 7 con le macchine comma 6a (slot tradizionali).

Lo studio dei fattori strutturali permette di predisporre misure per il contenimento dei danni causati dal gioco d’azzardo, senza tirare in causa i fattori psicologici e individuali sulla cui prevenzione si hanno difficoltà oggettivamente più elevate. Nonostante questo, ci permettiamo di esprimere seri dubbi sulla volontà, da parte del legislatore, di realizzare una effettiva tutela della sicurezza del cittadino nei confronti del gioco, alla luce delle modifiche apportate negli anni al testo dell’articolo 110 TULPS, di stampo decisamente peggiorativo.

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GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – CONTROLLO – SOCIETA’ E ANTROPOLOGIA – SCIENZE COGNITIVE

 

BIBLIOGRAFIA

Non tutti i sorrisi sono uguali, e si vede! – Risposte automatiche e competenze sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Se i sorrisi genuini sono una forma di ricompensa sociale, le persone dovrebbero essere più propense ad anticipare la risposta a sorrisi genuini piuttosto che sorrisi gentili, relativamente meno gratificanti.

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Una nuova ricerca suggerisce che non tutti i sorrisi sono uguali e che le persone rispondono con il sorriso a sorrisi genuini ma non a quelli “di cortesia”. Questa differenza nella risposta può riflettere il valore sociale di ricompensa dei sorrisi genuini.

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
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Erin Heerey, una ricercatrice della Bangor University (UK), si è chiesta se il valore intrinseco di diversi segnali sociali, come i sorrisi, possa giocare un ruolo nel plasmare la nostra risposta a tali stimoli.

I sorrisi gentili, per esempio, di solito si verificano quando le norme socio-culturali impongono che sorridere è appropriato. I sorrisi genuini, invece, significano piacere sono spontanei e impegnano specifici muscoli facciali perioculari.

Se i sorrisi genuini sono una forma di ricompensa sociale, le persone dovrebbero essere più propense ad anticipare la risposta a sorrisi genuini piuttosto che sorrisi gentili, relativamente meno gratificanti.

Uno studio naturalistico ha mostrato che coppie di sconosciuti che si incontravano per la prima volta non solo si scambiavano sorrisi, ma rispondevano l’un l’altro con lo stesso tipo di sorriso, genuino o di cortesia. Inoltre gli scambi di sorrisi genuini erano più rapidi di quelli di sorrisi di cortesia, suggerendo che nel primo caso fosse possibile anticipare con sicurezza la risposta dell’altro.

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Studi di laboratorio hanno dato risultati simili, mostrando come anche in questo caso l’aspettarsi un sorriso genuino provocasse una risposta anticipata che impegnava i muscoli facciali del sorriso e che questo non accadeva nel caso in cui era atteso un sorriso di cortesia.

Questi risultati suggeriscono che i sorrisi genuini siano ricompense sociali preziose, in  accordo con ricerche precedenti che dimostrano che sorrisi genuini promuovono interazioni sociali positive. Per cui imparare ad anticiparli sarebbe una competenza sociale critica.

Uno degli aspetti innovativi della ricerca, dice Heerey, è la combinazione di osservazione naturalistica e di sperimentazione controllata, che le ha permesso di esplorare la ricchezza delle interazioni sociali della vita reale, offrendole la possibilità di indagare le possibili relazioni causali.

Heerey ritiene che questo approccio potrebbe avere importanti applicazioni nello sviluppo di interventi per le persone che trovano interazioni sociali difficili, come quelli con ansia sociale, l’autismo o la schizofrenia.

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 RAPPORTI INTERPERSONALI – ESPRESSIONI FACCIALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ruminazione: basta un poco di zucchero e la pillola va giù?

 

 

Basta un poco di zucchero. -Immagine: © tycoon101 - Fotolia.comAlcune ricerche dimostrano che l’assunzione di zucchero può limitare i consumi eccessivi causati dalla ruminazione rabbiosa, favorendo quindi un maggiore controllo dei comportamenti impulsivi.

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Evidenze scientifiche sostengono che per garantire un buon controllo dei nostri impulsi è  necessaria la disponibilità di risorse neuro-cognitive sufficienti (Gailliot  et al. 2007).  Le ricerche attribuiscono al glucosio un ruolo centrale nell’esercitare un controllo funzionale sui nostri comportamenti. 

Alcuni ricercatori (Denson et. al 2011) hanno condotto uno studio su 139 studenti volontari, presso un’università australiana di Psicologia, al fine di indagare le conseguenze della ruminazione rabbiosa sul consumo di risorse psicologiche (processi cognitivo-attentivi) e biologiche (glucosio).

Ruminare con Rabbia: Quanto ci costa?. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Inizialmente, è stato somministrato il test di Stroop a tutti partecipanti, per tracciare una baseline delle risorse cognitivo-attentive in condizione di controllo.  Successivamente, i soggetti sono stati suddivisi, in maniera casuale, in 2 gruppi: uno al quale veniva fornita una bevanda ad alta concentrazione di glucosio (condizione sperimentale); l’altro al quale veniva data una bevanda “placebo”, priva di zuccheri (condizione di controllo).

Dopo aver consumato la bevanda, i soggetti sono stati assegnati a due condizioni: (a) giudizio negativo/insulto dopo una prestazione e rievocazione dell’evento per 20 minuti (Ruminazione Rabbiosa), (b) giudizio negativo/insulto dopo una prestazione e successiva rievocazione di un evento neutro (Distrazione).

Infine, gli studenti sono stati sottoposti nuovamente al compito cognitivo-attentivo iniziale (Test di Stroop).

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I risultati dello studio hanno mostrato che:

• Tra gli studenti che assumevano il placebo, quelli che ruminavano avevano una prestazione peggiore al test di Stroop rispetto a quelli che non ruminavano.

• I soggetti che non avevano ruminato avevano una prestazione al compito sovrapponibile, a prescindere dall’assunzione di glucosio o di placebo

• Gli studenti che avevano ricevuto la bevanda al glucosio  e che poi avevano ruminato mostravano una performance migliore rispetto ai ruminatori che consumavano la bevanda placebo.

In conclusione, i risultati dello studio confermano che:

• La ruminazione rabbiosa riduce la prestazione su compiti che richiedono risorse cognitivo-attentive

• L’assunzione di glucosio sembra ripristinare i  livelli della sostanza, ridotti dalla ruminazione,  favorendo così una buona capacità di controllo cognitivo-attentivo.

Insomma, non basta solo un poco di zucchero per ingoiare la pillola, ma  certo una dolce bevanda può aiutarci a limitare lo spreco di risorse e a favorire un maggiore auto-controllo quando siamo arrabbiati!

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RIMUGINIO E RUMINAZIONE –  IMPULSIVITA’ – EFFETTO STROOP – STROOP EFFECT

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La REBT in Italia: tra Razionalismo e Costruttivismo – Parte prima.

La REBT in Italia: tra razionalismo e costruttivismo - Parte prima.Due caratteristiche principali hanno connotato fin dall’inizio il movimento REBT italiano: il contatto diretto con la fonte originaria e americana della teoria e pratica clinica REBT, ovvero l’Istituto Ellis di New York, e l’integrazione con il movimento costruttivista che negli stessi anni nasceva in Italia.

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Vale la pena tentare di raccontare la storia della diffusione in Italia della REBT (rational emotive behavioural therapy) e del suo integrarsi con la tradizione costruttivista così forte nel cognitivismo clinico italiano, o almeno di una sua parte, quella che si riconosce nella Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).

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Non si tratta di fare antiquariato; si tratta di apprendere come storicamente nella SITCC si sia sviluppata la pratica clinica. Ad esempio, uno degli aspetti più caratteristici del modo italiano di attuare la terapia cognitiva è l’uso massiccio del modello ABC, modello che, come si sa, nella sua forma cognitiva è invenzione di Albert Ellis.

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind
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Ebbene, credo che questa capillare diffusione dell’ABC sia un fatto italiano, dovuto proprio all’influenza della REBT e della preferenza che noi nutriamo per Ellis rispetto a Beck. Nei paesi dove invece prevale l’influenza della terapia cognitiva standard alla Beck, la CBT, non si fa uso dell’ABC. Raccontando questa storia capiremo come e perché nella SITCC accade che anche chi non si ispira agli aspetti più razionalistici della REBT faccia poi ampio uso dell’ABC.

Questa serie di articoli racconta e discute criticamente la storia della diffusione della REBT in Italia. Due caratteristiche principali hanno connotato fin dall’inizio il movimento REBT italiano: il contatto diretto con la fonte originaria e americana della teoria e pratica clinica REBT, ovvero l’Istituto Ellis di New York, e l’integrazione con il movimento costruttivista che negli stessi anni nasceva in Italia. La presenza simultanea di queste due caratteristiche in parte contradittorie dipese da due avvenimenti ben precisi.

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Il primo avvenimento fu che la REBT in Italia fu portata in Italia agli inizi degli anni ‘70 da Cesare De Silvestri (1926-2009), un clinico che aveva vissuto per l’intero decennio precedente negli USA e si era potuto formare frequentando con assiduità l’Istituto madre della terapia REBT a New York, a contatto diretto con Albert Ellis in persona. Da questa frequentazione forte e continua scaturì la possibilità di avere in Italia una conoscenza approfondita e una pratica clinica fedele della REBT (De Silvestri, 1981).

Il secondo avvenimento fu che, una volta traferitosi a Roma in quegli stessi anni ‘70, De Silvestri stabilì un intenso contatto amichevole e professionale con i due principali promotori della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC): Vittorio Guidano e Gianni Liotti. Il tipo di cognitivismo clinico teorizzato da Guidano e Liotti inseriva le tecniche cliniche comportamentali e cognitive in una cornice teorica più ampia che diventò nel tempo sempre più costruttivista ed evoluzionista.

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Il contatto tra De Silvestri, Guidano e Liotti permise che le componenti cognitive di questo modello integrato fossero soprattutto di scuola REBT e non CBT (acronimo che sta per cognitive behavioral therapy e che indica il cognitivismo più razionalista derivato dall’opera di Aaron T. Beck).

 Il contatto diretto permise lo sviluppo di alcune affinità teoriche e cliniche tra costruttivismo e REBT. Lo stesso Ellis sosteneva che nella REBT sono presenti componenti compatibili con il costruttivismo (Ellis, 1990). Al tempo stesso Guidano e Liotti adottarono il modello di analisi cognitiva denominato “ABC” da Ellis. Questa adozione non fu solo un evento tecnico e pratico, ma influenzò i modelli teorici costruttivisti ed evoluzionisti di Guidano e Liotti.

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Negli anni successivi questo modello misto di REBT e costruttivismo si contaminò ulteriormente con altre influenze: negli anni ’80 con il costruttivismo di George Kelly, da cui il cognitivismo italiano mutuò la tecnica di accertamento delle strutture cognitive denominata “laddering” e che fu inserita nell’ABC di Ellis (Lorenzini, Sassaroli, 1987) e con la teoria cognitiva degli scopi (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2002); negli anni ’90 con le credenze disfunzionali di scuola CBT (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006); e dal duemila in poi con i modelli di tipo metacognitivo (Dimaggio, Semerari, 2003; Caselli, 2013). A ognuna di queste contaminazioni sarà dedicato un articolo di questa serie. Il primo che pubblicheremo dopo questo sarà la descrizione dell’azione di De Silvestri in Italia negli anni ’70.

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

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RATIONAL-EMOTIVE BEHAVIOUR THERAPY – REBT – PSICOTERAPIA COGNITIVA – COSTRUTTIVISMO – TECNICA ABC (ELLIS)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ridistribuire i ruoli tradizionali in famiglia: implicazioni sul lavoro

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La ridistribuzione dei ruoli di caregiving all’interno della famiglia in senso meno tradizionale sembra accompagnarsi a un certo grado di disapprovazione sociale sul posto di lavoro.

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L’incapacità dei contesti di lavoro di rispondere con maggiore flessibilità alle esigenze di questi lavoratori “atipici” ne peggiora le condizioni lavorative sotto diversi aspetti.

La Famiglia Omosessuale in Italia tra Dogmi e Ricerca Scientifica. - Immagine:© dubova - Fotolia.com
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Nuovi studi mostrano che gli uomini della classe media che assumono ruoli non tradizionali nell’accudimento dei figli sono trattati peggio sul posto di lavoro, rispetto a quelli che si attengono maggiormente alle tradizionali norme di genere nella divisione dei ruoli in famiglia.

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 A vedersela ancora peggio però sono le donne senza figli e le madri che assumono ruoli non tradizionali all’interno della famiglia. 

I contesti di lavoro studiati sono stati due, uno a prevalenza femminile e uno a prevalenza maschile.

I risultati mostrano che le donne che hanno violato i ruoli di genere tradizionali non avendo figli, o non assumendo il ruolo di caregiver principale in famiglia, hanno un peggiore trattamento sul posto di lavoro rispetto alle donne che hanno assunto il ruolo principale nella cura dei figli.

Per quanto riguarda gli uomini, quelli che violano i ruoli di genere tradizionali, assumendo un ruolo attivo e partecipe nella cura dei figli e nella gestione delle incombenze familiari, ricevono un trattamento sul posto di lavoro peggiore dei colleghi senza figli o di quelli che se ne occupano meno, lasciando il ruolo di caregiver principale alla madre.

Nel complesso, gli studi mostrano che tutti i lavoratori che hanno violato le norme di genere tradizionali, hanno subito conseguenze sul posto di lavoro in termini di rispetto da parte dei colleghi, retribuzione e numero di promozioni, e questo indipendentemente dal numero di ore lavorative e dall’impegno messo nello svolgere i compiti lavorativi.

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Questi risultati suggeriscono che l’aderenza a ruoli di genere tradizionali all’interno della famiglia, cioè l’approvazione sociale,  è connessa al modo in cui si viene trattati sul posto di lavoro, più di quanto lo sia lo svolgere adeguatamente le proprie mansioni lavorative.

LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – FAMIGLIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ignoranza, meta-ignoranza e la frammentazione del sapere

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare.

 

A lezione di IgnoranzaConsigliato dalla Redazione

A lezione di Ignoranza

(…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Leadership negli sport di squadra: teorie e modelli sulla leadership #3

Leadership negli Sport di Squadra

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP – Parte 3

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

LEGGI: INTRODUZIONE – PARTE 1 

 

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP . - Immagine ©-Sergey-Nivens-FotoliaLa leadership è, quindi, un processo volto a influenzare o modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di altre persone [Hersey e Blanchard, 1988] e a partire da questa definizione molti autori hanno sviluppato modelli e teorie per individuare le caratteristiche essenziali che deve possedere una persone per assumere la posizione di leader.

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L’obiettivo è stato quello di comprendere cosa rende certe persone in grado di influenzare gli altri più di quanto sono influenzati essi stessi. Diverse teorie si sono susseguite nell’analisi di quest’argomento dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi e hanno portato alla nascita di modelli piuttosto differenti. E’ importante premettere come tuttora il dibattito sia completamente aperto in tutti gli ambiti e in special modo in quello sportivo dove la tematica in questione ha ricevuto attenzione solo recentemente.

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Uno di questi, e uno dei primi, tentativi è quello che si basa sulle teorie dei tratti.

Questo fondamento teorico ha portato alcuni psicologi a cercare di individuare, principalmente attraverso questionari come il Questionario dei 16 fattori di Cattel, alcune caratteristiche tipicamente comuni alla maggior parte dei leader. Il concetto alla base è l’idea che per essere leader siano necessarie alcune doti naturali identificate in specifici tratti di personalità. Appare, ed è, una posizione estremamente innatista che confina le possibilità di divenire un leader alle proprie caratteristiche naturali. Per questo motivo l’insieme dei modelli che si basano su questa idea sono stati etichettati come Teorie del grande uomo. Risulta sin troppo facile individuare i limiti di queste ricerche che, come nota Hollander [1985 ] nella sua rassegna sulla leadership, si limitano a considerare solo una categoria di fattori, quelli legati alle capacità del leader, escludendone altre importanti.

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L’inefficacia di questo modello, che in ambito sportivo ha retto sino all’inizio degli anni Ottanta, è stata verificata da uno studio di Stogdill [1974] su 150 ricerche appartenenti all’approccio del grande uomo, dalle quali si può facilmente notare come anche i tratti di personalità più ricorrenti presumibilmente associati alla posizione di leader non riescono, in realtà, a darne ragione.

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La consapevolezza del fallimento delle teorie del “grande uomo” ha portato alla necessità di individuare alternative. In particolare sono state percorse due diverse strade che hanno posto l’accento, l’una, sul comportamento del leader e, l’altra, sulle caratteristiche della situazione, più che su i tratti della personalità.

La prima ha sviluppato l’idea degli stili di leadership che rappresentano schemi comportamentali tipici della persone che rivestono lo status di leader e che possono essere finalizzati a diversi obiettivi e classificati in diverse categorie. In particolare Bales e Slater [1955] distinguono due diverse tipologie di leader definite da due funzioni ben distinte: la prima (leader socio-emozionale) si concentra sul mantenimento del morale del gruppo e di un clima sereno per tutti i membri, la seconda (leader centrato sul compito) si orienta al raggiungimento degli obiettivi per cui il gruppo è nato e quindi all’organizzazione e alla gestione del lavoro.

Come afferma Palmonari [in Arcuri, 1995] questi due orientamenti possono essere individuati nella stessa persona o possono esistere due leader legati a diverse funzioni. Questa distinzione è particolarmente importante in ambito sportivo dove la prestazione ottimale, intesa come compito della squadra, che può essere raggiunta attraverso il lavoro di un leader centrato sul compito non può prescindere da una soddisfazione intrinseca dei membri che la compongono e della quale si occupa un leader socio-emozionale, soprattutto in particolare situazioni (vedi sotto).

Anche in quest’ambito, pur non negando la possibilità che la medesima figura possa aderire a entrambi gli stili di leadership, si può osservare come l’ottimale rendimento della squadra richieda, nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza di più di un leader, proprio perché spesso uno solo non è in grado di ottimizzare le prestazioni e la soddisfazione della squadra in tutte le situazioni. Un’altra distinzione che fa sempre riferimento agli stili comportamentali del leader e che può facilmente essere ricondotta a quella appena presentata è stata elaborata da Lewin, Lippit e White [1939].  Anche secondo questa teoria possiamo osservare come le conseguenze del comportamento del leader determini conseguenze sostanzialmente a due livelli: quello della produttività e quello del morale del gruppo. Gli stili individuati da questi autori sono:

Stile autoritario: è un leader che tende a gestire con rigoroso controllo i membri del gruppo e le loro azioni, spesso senza dar loro possibilità di recriminare e generando così disgregazione e aggressività. Sicuramente questo comportamento risulta dannoso per il morale del gruppo ma in compenso favorisce oltremodo la produttività, per questo si può collegare a quello che Bales e Slater definiscono come leader centrato sul compito.

Stile democratico: il gruppo viene condotto in modo partecipativo, in cui ciascun membro ha la possibilità di intervenire e di sentire riconosciuto il proprio ruolo nel team. Questo tende a massimizzare la profondità della relazione tra i membri e il morale individuale. Anche la produttività risulta positiva anche se non ai livelli di quella determinata da uno stile autoritario. Questo stile di leadership potrebbe essere connesso all’idea di leader socio-emozionale di Bales e Slater in quanto si focalizza principalmente sul rapporto tra i componenti del gruppo.

Stile lassez-faire: il comportamento del leader è completamente disinteressato e ciò porta all’emersione dal gruppo di altri leader spontanei e ad una situazione caotica che tende comunque a disgregare le relazioni intragruppi. In questo modo, senza alcuna guida, la produttività non può che essere scadente e, d’altro lato, anche il morale del gruppo non è elevato e il rapporto tra i membri minimo; questo perché il leader fallisce in tutti i compiti associati alla posizione a cui è stato assegnato.

Secondo l’approccio che, al contrario delle teorie del “grande uomo”, si è focalizzato sulla rilevanza delle caratteristiche situazionali, il leader diventa colui in grado di svolgere determinate azioni (ottimali per il raggiungimento di un obiettivo), in determinate condizioni. In questo modo, non solo non esiste un leader tale per caratteristiche della personalità innate ma ogni situazione pone in rilievo una persona diversa come potenziale leader. Non viene riconosciuta quindi l’esistenza di un leader unico ma, anzi, i sostenitori di quest’approccio associano un leader diverso per ogni situazione. Per avvalorare quest’ipotesi Nixon e Carter [1949] sottopongono diverse coppie a tre compiti di diversa natura osservando come difficilmente la stessa persona assume il ruolo di leader in tutte le condizioni. Questo sistema di teorie, se ha il pregio di porre l’accento sull’importanza delle variabili che contraddistinguono la situazione, d’altra parte commette l’errore, come Hollander [1985] gli attribuisce, di esagerare dalla parte opposta alle teorie basate sui tratti non fermandosi a superarle ma arrivando a trascurare completamente le qualità individuali dei componenti del gruppo.

L’esagerazione di questo approccio è evidente anche in ambito sportivo. Presupponendo infatti che ogni situazione di gioco necessiti di una diversa figura di leader si arriverebbe ad analizzare una partita in quanto insieme di singole azioni perdendo di vista l’importanza dell’organizzazione generale della squadra e della persona che la gestisce.

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

INTRODUZIONE – PARTE 1 

LEGGI ANCHE:

PERSONALITA’  -TRATTI DI PERSONALITA’ – PSICOLOGIA DELLO SPORT – PSICOLOGIA SOCIALE

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La trappola della felicità di Russ Harris – Recensione

Recensione del libro

LA TRAPPOLA DELLA FELICITA’.

COME SMETTERE DI TORMENTARSI E TORNARE A VIVERE

di Russ Harris

Erickson

(2010)

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La trappola della felicità - HarrisIl libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

Fino a venti o trent’anni fa se qualcuno avesse parlato di “accettare un sintomo”, il sadico psicologo o psichiatra di turno avrebbe potuto pensare metaforicamente a una bella ascia terapeutica con cui tagliare via il disagio. Le terapie cognitivo comportamentali classiche e le terapie psicofarmacologica avevano più o meno questo obiettivo.

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Negli ultimi anni la parolina magica accettazione ha assunto, in ambito psicologico, il significato di accogliere e integrare anche i lati di noi che non ci piacciono, che ci fanno soffrire e che vorremmo eliminare.

Il libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT

La prima parte del libro si concentra sul relazionarsi diversamente ai propri pensieri, più che cercare di correggerli, in linea con i concetti di mindfullness, che a sua volta si ispira a un atteggiamento proprio delle religioni orientali, in particolare il buddismo.

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Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

L’autore si batte molto sul togliere valore al pensiero come capacità umana suprema, consigliando la “defusione” dai propri pensieri. Noi non siamo ciò che pensiamo, ma i pensieri sono prodotti del nostro cervello, che talvolta ostacolano l’agire in base ai nostri valori. Quindi viene consigliato di fare spazio dentro di sè ai pensieri disfunzionali e alle emozioni spiacevoli e di dargli il benvenuto (qualcosa del tipo “Prego pensieraccio si accomodi! Posso offrirle un caffettino?”), arrivando a ringraziare la propria mente, piuttosto che maledirla, per averli prodotti.

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Questo lasciare uno “spazio di respiro” al disagio ha la finalità di non permettere alla sofferenza di amplificarsi, ma di manifestarsi in modo naturale, per poi scomparire.

D’altra parte anche le emozioni piacevoli arrivano e passano, ma con quelle siamo solitamente più accoglienti.

Uno degli obiettivi è quello di coltivare il sé osservante, entità mentale non giudicante che di solito non riconosciamo, e che si contraddistingue dal sé pensante che ci induce spesso a lottare contro la realtà.

Ci sono molti esercizi utili per coltivarlo. Per esempio, mentre leggete questa recensione, cercate di osservarvi mentre la leggete e di essere consapevoli del fatto che vi state osservando.

La seconda parte dell’opera fa riferimento ai valori, cioè ai nostri desideri più profondi rispetto a come vorremmo essere e a come vogliamo rapportarci al mondo (ad esempio essere un partner affettuoso). I valori vanno distinti dagli obiettivi, che sono i risultati desiderati nella vita (ad esempio diventare ricchi, sposarsi etc.).

 Devo dire che l’utilizzo del termine valore in ambito psicoterapico mi ha colpito molto. La maggior parte dei sociologi e degli opinionisti impegnati accusa, spesso in modo condivisibile, la nostra società postmoderna di aver perso il sistema dei valori, che in altre epoche (o anche oggi in altri mondi) furono imposti dalle religioni o dalle ideologie. Nelle nostre vite così libere e, a tratti disorientate, connettersi con i propri valori può essere un modo per non perdersi. Una volta chiariti i propri valori, si può agire in base ad essi, perché come sottolinea l’autore non siamo padroni dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, ma delle nostre azioni eccome!

Il cambiamento, che ricordiamolo non è quasi mai piacevole o indolore, deriva secondo l’autore dall’allenarsi a rapportarsi diversamente ai propri pensieri e stati d’animo e a vivere guidati dai propri valori. Harris invita il lettore ad aspirare a una vita più piena e significativa, fornendo gli strumenti per uscire da una sorta di schiavitù dei propri lati oscuri, vere fabbriche di autoaccuse e di trappole paralizzanti.

Per rendere più autentico il racconto, l’autore narra le proprie difficoltà e resistenze nello scrivere il libro stesso e di come sia riuscito a vincere “il blocco dello scrivano” proprio grazie all’uso delle strategie illustrate nel volume. Più di così…

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND 

LEGGI ANCHE:

PSICOTERAPIA COGNITIVA – FARMACI – FARMACOLOGIA –  ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT – MINDFULNESS – ACCETTAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Come i social media riflettono e amplificano il narcisismo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Facebook è uno specchio e Twitter è un megafono: come i social media riflettono e amplificano il narcisismo. 

Gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO

Un team di ricercatori della University of Michigan ha studiato la relazione tra narcisismo e la quantità tempo speso a navigare sui social media e il numero di post giornalieri pubblicati su Facebook e Twitter, includendo la lettura di post e i commenti ad altri.

lInvidia-del-post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com
Articolo Consigliato: Facebook e l’invidia del post

I ricercatori hanno reclutato 486 studenti universitari. Tre quarti erano di sesso femminile con un età media di 19 anni. I partecipanti hanno risposto alle domande sul loro grado di utilizzo dei social media, e ricevuto una valutazione della personalità su diversi aspetti del narcisismo (esibizionismo, sfruttamento, superiorità, autorità e l’autosufficienza).

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Nella seconda parte dello studio, i ricercatori hanno chiesto a 93 adulti con una età media di 35 anni, di completare un sondaggio online.

I risultati dello studio indicano che gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

Tra i giovani studenti universitari, quelli con un più alto punteggio nelle scale del narcisismo hanno la tendenza a pubblicare più frequentemente su Twitter; tra la popolazione adulta invece i narcisisti spendono più tempo a pubblicare aggiornamenti di stato su Facebook.

Secondo Panek, autore dello studio, gli adulti, che hanno già formato il loro sé sociale, usano Facebook come uno specchio, curando la propria immagine e controllando come gli altri vi rispondono, per ottenerne l’approvazione. 

Gli studenti universitari invece scelgono il megafono di Twitter. Questo gli permette di sovrastimare l’importanza delle proprie opinioni, espresse su una vasta gamma di temi e in un vasto ambiente sociale.

Questo studio è tra i primi a confrontare il rapporto tra narcisismo e diversi tipi di mezzi di comunicazione sociale in diversi gruppi di età, anche se i ricercatori non sono stati in grado di determinare la direzione della causalità: se il narcisismo porti ad un maggiore uso dei social media, o se sia l’uso dei social media a favorire il narcisismo, o, ancora, se questo rapporto sia mediato da altri fattori. 

LEGGI:

 SOCIAL NETWORK – DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Mi stai mentendo? Mark Frank insegna a smascherare le bugie

Report dal seminario Comportamento e Inganno

Sabato 15 giugno e Domenica 16

Gorizia

LEGGI LA SCHEDA DELL’EVENTO

 

Mark G. Frank - Comportamento e Inganno - Seminario

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSION

Quanto siete bravi a riconoscere se qualcuno vi sta mentendo? Forse pensate di essere molto abili, ma la verità è che in media l’accuratezza della maggior parte delle persone nel riconoscere una bugia si aggira intorno al 54%: a tirare ad indovinare quasi ci si azzecca allo stesso modo!

Eppure capire se qualcuno non sta dicendo la verità è fondamentale in moltissime professioni (es. polizia, agenzie investigative, medici, psichiatri, psicologi…) e anche nella vita quotidiana ogni tanto non guasta.

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
Articolo consigliato:Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

Mark Frank, esperto mondiale nella comunicazione non verbale e nel riconoscimento delle menzogne, ha tenuto a Gorizia il seminario Comportamento e Inganno con lo scopo di affinare le capacità di osservazione dei partecipanti illustrando quei comportamenti scientificamente validati che segnalano le intenzioni dell’interlocutore, in particolare in relazione alla volontà di nascondere informazioni ed emozioni e di ingannare l’altro.

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Mark Frank è stato collega di Paul Ekman, noto psicologo e ricercatore a cui si è ispirata la celebre serie tv Lie to me. Ed infatti la parte teorica del seminario ha ripreso i contenuti del libro di Ekman I volti della Menzogna (Leggi: I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire), affrontando i temi del riconoscimento delle espressioni facciali e degli indizi comportamentali della verità e della menzogna.

La parte sicuramente più interessante (e divertente) è stata la visione di numerosi filmati, alcuni tratti dagli studi condotti da Mark Frank, altri tratti da interviste a personaggi anche famosi (da Mel Gibson a O.J. Simpson); i partecipanti dovevano valutare se i protagonisti stavano mentendo o meno oppure dovevano riconoscere l’emozione da loro provata. Inutile dirvi che i risultati alla prima visione erano piuttosto scarsi. Dopo il training sul riconoscimento delle micro-espressioni facciali, che consiste nell’imparare a riconoscere i movimenti facciali distintivi delle principali emozioni (paura, disgusto, disprezzo, gioia, tristezza, sorpresa, rabbia) i video venivano rivisti…e si apriva un mondo nuovo.

Al termine del training, infatti, i partecipanti riuscivano a cogliere emozioni prima passate assolutamente inosservate: per esempio, fugaci espressioni di paura sul volto di un marito addolorato per l’omicidio della moglie durante il suo appello ad aiutare la polizia a risolvere il caso (e indovinate alla fine chi era l’assassino?) oppure rapide espressioni di disgusto sul viso di un manager che stava parlando di etica nella propria azienda (e che è poi è stato arrestato per truffa nei confronti della società). Impressionante, vero? Lo è ancora di più rivedere i video a rallentatore, proprio come in una puntata di Lie to me, e vedere comparire in maniera distinta emozioni nascoste.

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

Gli indizi emotivi si esprimono tramite il volto e la voce (influenzandone tono, intensità e velocità nell’eloquio) e sono in contraddizione con il contesto o con il contenuto espresso; spesso sono micro-espressioni facciali, ovvero l’emozione tenuta nascosta dal soggetto sfugge per una brevissima frazione di secondo al suo controllo e fa capolino in maniera repentina sul suo volto. 

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Gli indizi cognitivi invece riguardano la memoria e lo sforzo mentale. Per quanto riguarda la memoria, i racconti inventati differiscono qualitativamente rispetto ai racconti veritieri: spesso hanno contenuti impossibili, sono scollegati rispetto al contesto e poco dettagliati; inoltre il soggetto ha difficoltà a muoversi agilmente nel racconto.

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Raccontare una bugia implica inoltre uno sforzo mentale notevole che può palesarsi attraverso la voce (il soggetto si contraddice, esita, commette errori nell’eloquio) oppure il corpo (i gesti illustratori si riducono, compaiono emblemi contradditori, gesti manipolatori e segnali di controllo).

Quando identificate questi segni rivelatori un campanello d’allarme dovrebbe risuonare nella vostra mente, ma non dovete dimenticare che l’incoerenza del comportamento verbale e non verbale non è mai indice assoluto di menzogna; infatti un segno rivelatore indica l’occultamento di un pensiero o di un’emozione. La domanda da porsi, pertanto, è come mai l’interlocutore sta facendo ciò?

Facial Expressions - © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Riconoscere un’emozione dal volto: giapponesi, americani e questioni di contesto.

Gli indizi dell’inganno sono molto più sottili e complessi e per valutare se la persona che vi sta di fronte vi sta raccontando una bugia o meno dovete interpretare i segnali osservati domandandovi quale sia la loro origine, approfondendo la questione con domande pertinenti per sviluppare il colloquio e raccogliere ulteriori informazioni. Mark Frank sottolinea come la ricerca dell’inganno dipenda molto proprio dalla qualità del colloquio condotto. Diventa fondamentale quindi creare un buon rapporto con l’interlocutore; instaurare una buona relazione è infatti il modo migliore per ottenere informazioni.

Indubbiamente Comportamento e inganno è stato un seminario interessantissimo e soprattutto utile per aumentare la probabilità di non farsi ingannare dagli altri in quanto ha fornito gli strumenti per riconoscere gli indizi dell’inganno e sfatare falsi miti su segni di menzogna che in realtà non sono assolutamente validi (es. la credenza che non guardare negli occhi sia indicativo del fatto che si sta mentendo).

Infatti la questione non riguarda tanto la capacità degli altri di farci fessi – perché chi mente dissemina una grandissima quantità di indizi senza accorgersene – , quanto la nostra incapacità nel rilevare tali indizi. Se il seminario ha il merito di migliorare le nostre abilità di detective, non può però influenzare in alcun modo gli altri fattori che fanno sì che a volte le menzogne ci sfuggano. A volte infatti non ci interessa sapere se l’altro ci sta mentendo e anzi, capita anche che vogliamo essere ingannati perché non siamo in grado di tollerare la verità, e in tali casi non c’è training sulla menzogna che tenga.

LEGGI:

ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSION –  LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

 CONGRESSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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