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La clinica dell’attaccamento traumatico – Report dal seminario

Report del seminario "La clinica dell'attaccamento traumatico" con Benedetto Farina, tenutosi Sabato 24 e Domenica 25 Febbraio 2024

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 13 Mar. 2024

Il trauma e la dissociazione

Negli ultimi anni abbiamo visto un incremento di studi, formazioni e pubblicazioni sui temi del trauma e della dissociazione. Nonostante molto sia stato detto, scritto e fatto per meglio comprendere il trauma e i suoi effetti sulla salute mentale, c’è ancora molta confusione rispetto ai confini di ciò che è il trauma, per non parlare del concetto di dissociazione. Certo è una materia molto complessa e articolata, ed è difficile orientarsi in tanta complessità. 

In questo seminario di due giorni organizzato da AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) Aps, Benedetto Farina, clinico e ricercatore esperto in quest’ambito, ha cercato di mettere qualche punto fermo e rilanciare la riflessione proprio sui temi attorno ai quali l’Associazione si è costituita con l’obiettivo di portarne avanti lo studio approfondito e continuativo mettendo in rete esperti del settore.

Per molto tempo il trauma è stato identificato con singoli grandi eventi traumatici, come incidenti o catastrofi naturali, trascurando o rinnegando il trauma dello sviluppo che, ora i dati di ricerca lo confermano senza ombra di dubbio, rappresenta il maggior fattore di rischio per tutti i disturbi psichici.

Anche sul piano diagnostico c’è molta confusione: nel DSM-5 ci sono alcune diagnosi trauma-correlate, ma manca una visione dimensionale e gran parte del trauma dello sviluppo non trova specifica collocazione. 

Anche la definizione di memoria traumatica presenta delle incertezze, spesso identificata con singoli ricordi episodici autobiografici. Noi sappiamo, invece, da ciò che emerge dalla clinica ed è sostenuto dalle neuroscienze, che la maggior parte delle memorie che incide sul funzionamento post traumatico è rappresentata da memorie semantiche, memorie implicite relazionali, memorie somatiche: sono proprio queste a rappresentare la sfida maggiore nel lavoro clinico con i pazienti traumatizzati.

Anche sul tema della dissociazione vi è molta confusione: possiamo ormai vantare più di 100 anni di studi su questo tema, ma ancora non c’è un accordo su cosa intendiamo per dissociazione. Parliamo di un processo, di una difesa o di un sintomo? 

L’attaccamento traumatico

È un dato ormai innegabile che il maltrattamento infantile sia il maggior fattore di rischio per tutti i disturbi psichici. Ma perché? E cosa si intende per maltrattamento infantile? Tutte le definizioni di maltrattamento infantile indicano uno o entrambi i genitori come responsabili nella quasi totalità dei casi. Sembra un’ovvietà, ma ancora al giorno d’oggi c’è chi mette in discussione questo dato. 

La forma di maltrattamento più diffusa è rappresentata dal neglect (trascuratezza grave in infanzia), tanto che già Van der Kolk l’aveva definito il “big killer” poiché da solo risponde alla maggioranza delle forme di maltrattamento infantile. Ma, rilancia Farina, è possibile immaginare un abuso sessuale fisico o psicologico da parte dei genitori senza trascuratezza?

Dietro ogni abuso c’è neglect, poiché in qualsiasi forma di maltrattamento infantile i genitori non hanno fatto il loro lavoro, non hanno protetto il bambino. I dati indicano che anche in presenza di abuso attivo il fattore dirimente per lo sviluppo di psicopatologia è quanto i genitori siano stati o meno in grado di proteggere il bambino dall’evento avvenuto.

Siamo mammiferi e abbiamo bisogno di un caregiver per essere protetti e per svilupparci adeguatamente. 

Dalla relazione con il genitore, infatti, dipende lo sviluppo dei sistemi di regolazione, delle convinzioni fondamentali su di sé e sugli altri e della maggior parte delle funzioni mentali di alto livello. 

La mancanza o il parziale fallimento di questo importante compito costituisce una minaccia al corretto sviluppo e persino alla sopravvivenza. Costituisce dunque un trauma: un trauma dell’attaccamento.

Nel suo intervento Farina porta chiarezza su un altro punto molto importante: il concetto di attaccamento traumatico non è sovrapponibile a quello di attaccamento disorganizzato. L’attaccamento disorganizzato è un costrutto nato all’interno di una specifica procedura sperimentale. Non è una diagnosi clinica validata, ed è quindi improprio usarlo all’interno di un setting clinico e del ragionamento terapeutico.

Certamente un attaccamento disorganizzato precoce rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di psicopatologia, ma non ne è una causa diretta (Pehr Granqvist et. al., 2017).

D’altra parte gli studi sull’attaccamento disorganizzato sono indubbiamente preziosissimi e, cosa molto interessante, ciò che la letteratura evidenzia rispetto all’attaccamento disorganizzato (come descrivibile tramite la Strange Situation nel bambino e l’Adult Attachment Interview nell’adulto) è sovrapponibile alle manifestazioni psicopatologiche tipiche del trauma dello sviluppo.  

Come possiamo definire l’attaccamento traumatico?

Le evidenze cliniche e la ricerca scientifica mostrano una costellazione di sintomi e difficoltà specifiche in tutti i pazienti con sviluppo traumatico, indipendentemente dalle loro diagnosi:

  1. Disregolazione dell’arousal e disturbi somatici
  2. Disregolazioni emozionali e comportamentali
  3. Distacco / detachment, manifestazioni dissociative e disturbi della memoria
  4. Alterazioni dell’esperienza di sé (vuoto, frammentazione)
  5. Deficit o problemi metacognitivi
  6. Problemi relazionali 
  7. Convinzioni patogene di sé come sempre vulnerabili, senza speranza, impotenti, indegni, sfiduciati
  8. Vergogna o senso di colpa pervasivi

Sapere questo ha un enorme impatto sul trattamento: l’attaccamento traumatico non è una diagnosi ma con questi elementi possiamo fare un’ipotesi inferenziale di attaccamento traumatico che guiderà l’intervento clinico.

Benedetto Farina apre una prospettiva molto interessante e diversa a quella a cui la maggior parte di noi è abituata. Siamo abituati a diagnosticare un disturbo post-traumatico a partire dalla presenza accertata di esperienze traumatiche nella storia del paziente, mentre il concetto di attaccamento traumatico conduce a un ragionamento clinico inverso: anche in assenza di memorie episodiche relative a traumi dovremmo inferire un attaccamento traumatico per la presenza dei processi patogenetici e delle loro manifestazioni psicopatologiche indipendentemente dalla diagnosi del paziente. 

Così come in medicina ci sono diagnosi sindromiche, per cui possiamo diagnosticare una specifica patologia dalla presenza di una costellazione di sintomi ad essa correlati, allo stesso modo possiamo inferire un attaccamento traumatico dalla presenza di questi elementi. Se le due cose sono connesse fra loro, come in un cerchio, allora possiamo inferire una cosa dall’altra, senza che sia necessario rintracciare specifiche memorie episodiche, che peraltro sono spesso assenti dal momento che una consistente quota di maltrattamento infantile avviene in età molto precoce e molto spesso riguarda atti di omissione più che di commissione. 

Ciò che Farina propone è dunque un approccio inferenziale, sincronico e dimensionale, che aiuti ad impostare la terapia in modo più efficace ed appropriato per ridurre o aggirare gli ostacoli terapeutici che inevitabilmente occorrono con questi pazienti. 

L’attaccamento traumatico e la disintegrazione traumatica

Un altro tema, connesso al precedente, su cui Farina ingaggia i partecipanti al seminario, è il concetto di disintegrazione traumatica, ovvero il processo patogenetico che consiste nella perdita di integrazione a causa di esperienze avverse continuative, intesa sia come debolezza di tratto sia come stato (disregolazioni emotive e comportamentali,  breakdown  metacognitivi, flashback, ecc). 

Come dimostrano innumerevoli dati di ricerca, il maltrattamento infantile modella e danneggia la connettività funzionale e anatomica del cervello. Questo ha un grande impatto sulla regolazione emotiva, sulla capacità di riconoscere e gestire le situazioni rischiose, sulle abilità cognitive, sul sistema del reward, sulla cognizione sociale, sull’autocoscienza e sulla memoria autobiografica.

Le neuroscienze oggi forniscono solidità scientifica alle molte evidenze cliniche da tempo raccolte mostrando, nei pazienti con trauma di sviluppo, deficit strutturali e funzionali delle funzioni integrative.

Il corretto funzionamento mentale è dato dell’equilibrio fra la capacità di integrazione e quella di segregazione/differenziazione di informazioni e funzioni. La disintegrazione traumatica altera questo equilibrio, generando patologia.

Farina cita alcune fra le molte ricerche a sostegno dell’ipotesi che la disintegrazione delle funzioni mentali di alto livello e della regolazione dell’arousal, causata dall’attaccamento traumatico, porti alla costruzione di convinzioni patogene e schemi interpersonali disadattivi che a loro volta alimentano la disintegrazione e la disregolazione, in una relazione circolare.

Ripercorrendo brevemente le geniali intuizioni di Hughlings Jackson, Pierre Janet e Henry Ey, che riconducono la maggior parte dell’eziopatogenesi dei disturbi psichici a fallimenti nella capacità di integrazione della coscienza, Benedetto Farina approfondisce questo concetto, cercando di fare luce nella molta confusione che ancora regna quando si parla di dissociazione.

Per molti anni lui stesso, nel lavoro con Giovanni Liotti, ha inteso la dissociazione come mancanza d’integrazione, facendola coincidere con quello che Janet chiamava “desagregation” (Janet, 1898), ma, anche alla luce delle ricerche sempre più approfondite in ambito clinico e neuroscientifico, propone ora di distinguere almeno 3 distinti processi patogenetici:

  • La Dis-Integrazione Traumatica
  • Il Distacco
  • La Dissociazione

Sappiamo che fra gli studiosi della dissociazione non c’è accordo su ciò che si intende con questo termine, che viene utilizzato come una definizione ombrello che contiene talmente tanti fenomeni da essere troppo vaga e dunque poco utile dal punto di vista clinico: per intervenire efficacemente sui processi patogenetici in terapia è necessario infatti distinguerli.

Se, come dice Farina, pensiamo a tutto questo come fenomeni diversi allora i conti tornano.

La Disintegrazione Traumatica è un processo e indica il fallimento o l’interruzione delle funzioni mentali integrative di alto livello come la coscienza, la rappresentazione di sé (identità), il controllo esecutivo emozionale e comportamentale e la metacognizione. Conduce a differenti manifestazioni psicopatologiche a seconda della funzione mentale compromessa e si ritrova in tutti i quadri clinici, in maniera dimensionale.

Il Distacco è invece una difesa fisiologica, anche se non è sempre funzionale ed è diffusa in tutti disturbi psichici: diventa una strategia ricorrente, per cui disfunzionale, nei bambini maltrattati. Le difese di distacco, come la derealizzazione, la depersonalizzazione e l’anestesia emotiva sono reazioni comuni e normali, che servono a proteggersi dal dolore in condizioni di minaccia estrema e hanno basi neurofisiologiche molto diverse dagli altri processi. 

La Dissociazione propriamente detta, invece, coincide con il concetto di compartimentalizzazione ed è la secondaria riorganizzazione e ricomposizione di diverse strutture di personalità patologicamente non integrate. E’ ciò che Onno van der Hart, Ellert Nijenhuis e Kathy Steele hanno descritto in “Fantasmi nel Sé”, il loro fondamentale lavoro sulla dissociazione strutturale (Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K., 2006).

È il risultato della combinazione di due fattori: l’indebolimento dell’integrazione e l’essere esposti a esperienze d’attaccamento incoerenti e contraddittorie (la “paura senza sbocco” dell’attaccamento disorganizzato come descritto da Liotti, 2011).

Il fallimento dell’integrazione conduce alla dissociazione, ne rappresenta un fattore di rischio, ma non è la stessa cosa, pertanto posso avere disintegrazione traumatica senza dissociazione.

Perché è così importante questa distinzione?

Separare e riconoscere come fenomeni diversi questi tre concetti ha implicazioni importanti nella terapia, perché ognuno di essi implica differenti approcci terapeutici.

In un intreccio appassionante di vignette cliniche, dati di ricerca e riflessioni teoriche, in queste due intense giornate di lavoro Benedetto Farina ci ha coinvolti in un continuo confronto, ingaggiando i partecipanti in un dialogo stimolante e proficuo. 

Ha fornito un’illuminante panoramica sulla complessità del trauma e della dissociazione, evidenziando la necessità di approcci più chiari e differenziati per comprendere e affrontare queste tematiche in ambito clinico. Il lavoro di Farina ha mostrato l’importanza di integrare le evidenze cliniche con le scoperte delle neuroscienze per una comprensione più approfondita dei processi patogenetici sottostanti ai disturbi mentali legati al trauma, con l’intento di mettere nella nostra cassetta degli attrezzi di terapeuti strumenti sempre più efficaci per affrontare le sfide presentate dai pazienti con esperienze traumatiche. La sensazione che ci ha accompagnati alla fine di questa bella occasione è di aver messo un po’ d’ordine nella confusione e di aver potuto osservare il trauma e la dissociazione da una nuova prospettiva, incoraggiati ad una riflessione critica e stimolante.

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