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Gioco d’azzardo: I fattori strutturali – PARTE II

Di Andrea Ferrari

 

I fattori strutturali nel gioco d’azzardo e le implicazioni comportamentali e legislative

PARTE II

Le slot-machines: fattori di rischio ed evoluzione della normativa

 

LEGGI ANCHE: PARTE I

GIOCO D'AZZARDO - PARTE II. - Immagine: © yvart - Fotolia.comElenchiamo ora le caratteristiche, di tipo strutturale, che contribuiscono a rendere le slot-machines il gioco d’azzardo maggiormente pericoloso: 

Lo sviluppo del gioco d’azzardo patologico avviene molto più rapidamente con le slot rispetto a qualsiasi altra tipologia di gioco (Breen & Zimmerman, 2005); la maggioranza delle persone che hanno una diagnosi di GAP giocano alle slot-machines.

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Alcuni di loro giocano solamente alle slot; il 70% dei giocatori patologici identifica nelle slot il loro problema principale, mentre l’80% dei pazienti che si rivolgono a programmi di trattamento per il gioco sono principalmente utilizzatori di slot-machines (Jackson, Thomas, Thomason, Holt& McCormack, 2000).

L’accessibilità: in Italia le slot-machines possono essere installate in qualsiasi esercizio pubblico che sia in possesso della licenza per la somministrazione di cibi e bevande (inclusi stabilimenti balneari), nonché nelle agenzie deputate alle scommesse in genere e nelle “sale giochi” (art. 86 e 88 del Testo Unico per le Leggi di Pubblica Sicurezza, T.U.L.P.S; http://www.aams.gov.it). Questa estrema flessibilità legislativa fa sì che le slot siano capillarmente diffuse su tutto il territorio nazionale

La loro modalità di funzionamento fa sì che l’azione del giocatore, mediante l’utilizzo di bottoni e leve, possa produrre una illusione di controllo, per il motivo che i “giochi attivi” solitamente sono più rinforzanti dei “giochi passivi” (Chòliz, 2006).

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Le slot-machines favoriscono l’insorgere di errori cognitivi come le quasi-vincite (Kassinove & Schare, 2001), caratteristica attivamente ricercata da parte dei costruttori, anche aggirando le leggi (Harrigan, 2008).

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Giocare alle slot produce un incremento dell’attivazione fisiologica (Coventry & Constable, 1999).

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Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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È possibile scommettere sia partendo da importi modesti, sia su importi molto elevati: in Italia il costo di una partita sulle slot-machines del tipo comma 6 è di 50 centesimi di Euro, fino ad un importo massimo di 1€. Questo potrebbe essere un fattore in grado di favorire la disponibilità a scommettere. Per quanto riguarda le Video-Lottery (apparecchi di gioco del tipo comma 6b), invece, il costo di una partita arriva fino a 10€, tanto che queste macchine accettano banconote.

Le slot-machines erogano le vincite in modo immediato, sia come contingenza visiva, sia in senso monetario; questo aspetto costituisce un rinforzo potentissimo nel mantenere il comportamento di gioco.

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Le slot-machines spesso accompagnano le vincite con stimoli di tipo uditivo e visivo. È stato osservato che questo accade anche quando la vincita risulta inferiore all’importo della puntata, generando un fenomeno definito come “perdita mascherata” (losses disguised as wins; Dixon et al., 2010)

Le slot utilizzano effetti sonori e musiche di sottofondo che sembrerebbero indurre stati emotivi piacevoli, rendendo la sessione di gioco più piacevole, facilitando un sentimento di “immersione” (Parke & Griffiths, 2006)

Il comportamento del giocatore diviene progressivamente più abitudinario e stereotipato man mano che passa dall’essere giocatore occasionale a giocatore regolare di slot-machines. I giocatori regolari di slot-machines mostrano di avere aspettative molto fisse riguardo alla profittabilità del gioco, tendono ad avere strategie di gioco rigide, ad esempio scommettendo la stessa cifra per tutta la durata del gioco, oppure cambiando la puntata in funzione del risultato, scommettendo di più dopo una vincita e meno dopo una perdita (DelFabbro & Winefield, 1999).

Alla luce dei fattori considerati, vediamo ora come si é evoluta in Italia la legislazione in materia di slot-machines (tipo comma 6a).

Evoluzione dell’articolo 110 comma 6 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza

Questo articolo ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, alle quali accenneremo brevemente, in quanto l’analisi della giurisprudenza esula dagli scopi di questo articolo.

È tuttavia interessante osservare l’evoluzione delle politiche sul tema della sicurezza del gioco d’azzardo, e in particolare ci interessa come si è evoluta la normativa sui fattori strutturali.

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Così l’articolo nel 1995: Appartengono altresì alla categoria dei giochi leciti quegli apparecchi distributori di prodotti alimentari di piccola oggettistica di modesto valore economico con annesso gioco di abilità o di trattenimento che, previa introduzione di una moneta o di un gettone, distribuiscono un prodotto ben visibile e che consentono, come incentivo per l’abilità o per il trattenimento offerto, anche la vincita di uno dei premi di modesto valore economico esposti nell’apparecchio stesso.

Quelle che il legislatore indicava come apparecchi distributori di prodotti alimentari in realtà erano slot-machines vere e proprie, grazie alle quali gli esercenti e i distributori degli apparati hanno ottenuto ingenti guadagni senza versare una lira di tasse, non essendo sulla carta apparecchiature per il gioco di azzardo.

Lo Stato, dopo aver tentato una timida ridefinizione nell’anno 2000, che ancora non prevedeva la possibilità di vincere in denaro, risponde in modo più deciso nel 2002 con una modifica della normativa, grazie alla quale si appropria di una parte dei guadagni e ridefinisce il funzionamento degli apparecchi (ora legali). Così l’articolo: Si considerano apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici da trattenimento o da gioco di abilità, come tali idonei per il gioco lecito, quelli che si attivano solo con l’introduzione di moneta metallica, nei quali gli elementi di abilità o trattenimento sono preponderanti rispetto all’elemento aleatorio, il costo della partita non supera 50 centesimi di euro, la durata di ciascuna partita non è inferiore a dieci secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a venti volte il costo della singola partita, erogate dalla macchina subito dopo la sua conclusione ed esclusivamente in monete metalliche. In tal caso le vincite, computate dall’apparecchio e dal congegno, in modo non predeterminabile, su un ciclo complessivo di 7.000 partite, devono risultare non inferiori al 90 per cento delle somme giocate. In ogni caso tali apparecchi non possono riprodurre il gioco del poker o comunque anche in parte le sue regole fondamentali.

 Nel 2003 l’articolo viene nuovamente ritoccato, stavolta specificando la durata della partita, compresa tra sette e tredici secondi, mentre le vincite, computate su un ciclo di 14.000 partite devono risultare comunque non inferiori al 75% delle somme giocate.

Le ultime modifiche, introdotte dalla Finanziaria del 2008, prevedono un costo della partita di valore non superiore a 1 Euro, una durata minima di 4 secondi, mentre il valore massimo delle vincite è fissato in 100 Euro.

Per quanto riguarda la diffusione delle slot-machines, l’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato), ha sempre fornito la disciplina per gli esercizi commerciali che volessero dotarsi di macchine del tipo comma 6 Tulps. Inizialmente il disciplinare prevedeva che non potessero esservi esercizi pubblici  che contassero sulla presenza esclusiva di slot-machines, le quali non potevano essere presenti in numero superiore a quello di apparecchi di puro intrattenimento (videogiochi), appartenenti alla tipologia di cui al comma 7 dell’art. 110 Tulps. Inoltre non era possibile installare più di un apparecchio per ogni dieci metri quadrati di superficie del locale.

Questa norma viene rivista tramite decreto direttoriale AAMS del 18 Gennaio 2007, secondo il quale è ora possibile installare un macchinario da gioco ogni cinque metri quadrati, mentre il numero delle macchine comma 6 non può superare il doppio del numero delle macchine comma 7.

In seguito all’entrata in vigore del decreto direttoriale AAMS 22 gennaio 2010, introducente la nuova disciplina delle Video Lottery (VLT), ovvero macchine del tipo comma 6b, questo obbligo viene del tutto a meno, rendendo così possibile l’installazione esclusiva di macchine del tipo comma 6b all’interno di locali dedicati. Rimane ad oggi l’obbligo della compresenza delle macchine comma 7 con le macchine comma 6a (slot tradizionali).

Lo studio dei fattori strutturali permette di predisporre misure per il contenimento dei danni causati dal gioco d’azzardo, senza tirare in causa i fattori psicologici e individuali sulla cui prevenzione si hanno difficoltà oggettivamente più elevate. Nonostante questo, ci permettiamo di esprimere seri dubbi sulla volontà, da parte del legislatore, di realizzare una effettiva tutela della sicurezza del cittadino nei confronti del gioco, alla luce delle modifiche apportate negli anni al testo dell’articolo 110 TULPS, di stampo decisamente peggiorativo.

LEGGI ANCHE: PARTE I

LEGGI ANCHE:

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – CONTROLLO – SOCIETA’ E ANTROPOLOGIA – SCIENZE COGNITIVE

 

BIBLIOGRAFIA

Non tutti i sorrisi sono uguali, e si vede! – Risposte automatiche e competenze sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Se i sorrisi genuini sono una forma di ricompensa sociale, le persone dovrebbero essere più propense ad anticipare la risposta a sorrisi genuini piuttosto che sorrisi gentili, relativamente meno gratificanti.

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Una nuova ricerca suggerisce che non tutti i sorrisi sono uguali e che le persone rispondono con il sorriso a sorrisi genuini ma non a quelli “di cortesia”. Questa differenza nella risposta può riflettere il valore sociale di ricompensa dei sorrisi genuini.

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
Articolo consigliato:Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

Erin Heerey, una ricercatrice della Bangor University (UK), si è chiesta se il valore intrinseco di diversi segnali sociali, come i sorrisi, possa giocare un ruolo nel plasmare la nostra risposta a tali stimoli.

I sorrisi gentili, per esempio, di solito si verificano quando le norme socio-culturali impongono che sorridere è appropriato. I sorrisi genuini, invece, significano piacere sono spontanei e impegnano specifici muscoli facciali perioculari.

Se i sorrisi genuini sono una forma di ricompensa sociale, le persone dovrebbero essere più propense ad anticipare la risposta a sorrisi genuini piuttosto che sorrisi gentili, relativamente meno gratificanti.

Uno studio naturalistico ha mostrato che coppie di sconosciuti che si incontravano per la prima volta non solo si scambiavano sorrisi, ma rispondevano l’un l’altro con lo stesso tipo di sorriso, genuino o di cortesia. Inoltre gli scambi di sorrisi genuini erano più rapidi di quelli di sorrisi di cortesia, suggerendo che nel primo caso fosse possibile anticipare con sicurezza la risposta dell’altro.

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Studi di laboratorio hanno dato risultati simili, mostrando come anche in questo caso l’aspettarsi un sorriso genuino provocasse una risposta anticipata che impegnava i muscoli facciali del sorriso e che questo non accadeva nel caso in cui era atteso un sorriso di cortesia.

Questi risultati suggeriscono che i sorrisi genuini siano ricompense sociali preziose, in  accordo con ricerche precedenti che dimostrano che sorrisi genuini promuovono interazioni sociali positive. Per cui imparare ad anticiparli sarebbe una competenza sociale critica.

Uno degli aspetti innovativi della ricerca, dice Heerey, è la combinazione di osservazione naturalistica e di sperimentazione controllata, che le ha permesso di esplorare la ricchezza delle interazioni sociali della vita reale, offrendole la possibilità di indagare le possibili relazioni causali.

Heerey ritiene che questo approccio potrebbe avere importanti applicazioni nello sviluppo di interventi per le persone che trovano interazioni sociali difficili, come quelli con ansia sociale, l’autismo o la schizofrenia.

LEGGI:

 RAPPORTI INTERPERSONALI – ESPRESSIONI FACCIALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ruminazione: basta un poco di zucchero e la pillola va giù?

 

 

Basta un poco di zucchero. -Immagine: © tycoon101 - Fotolia.comAlcune ricerche dimostrano che l’assunzione di zucchero può limitare i consumi eccessivi causati dalla ruminazione rabbiosa, favorendo quindi un maggiore controllo dei comportamenti impulsivi.

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Evidenze scientifiche sostengono che per garantire un buon controllo dei nostri impulsi è  necessaria la disponibilità di risorse neuro-cognitive sufficienti (Gailliot  et al. 2007).  Le ricerche attribuiscono al glucosio un ruolo centrale nell’esercitare un controllo funzionale sui nostri comportamenti. 

Alcuni ricercatori (Denson et. al 2011) hanno condotto uno studio su 139 studenti volontari, presso un’università australiana di Psicologia, al fine di indagare le conseguenze della ruminazione rabbiosa sul consumo di risorse psicologiche (processi cognitivo-attentivi) e biologiche (glucosio).

Ruminare con Rabbia: Quanto ci costa?. - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Ruminazione rabbiosa: quanto ci costa?

Inizialmente, è stato somministrato il test di Stroop a tutti partecipanti, per tracciare una baseline delle risorse cognitivo-attentive in condizione di controllo.  Successivamente, i soggetti sono stati suddivisi, in maniera casuale, in 2 gruppi: uno al quale veniva fornita una bevanda ad alta concentrazione di glucosio (condizione sperimentale); l’altro al quale veniva data una bevanda “placebo”, priva di zuccheri (condizione di controllo).

Dopo aver consumato la bevanda, i soggetti sono stati assegnati a due condizioni: (a) giudizio negativo/insulto dopo una prestazione e rievocazione dell’evento per 20 minuti (Ruminazione Rabbiosa), (b) giudizio negativo/insulto dopo una prestazione e successiva rievocazione di un evento neutro (Distrazione).

Infine, gli studenti sono stati sottoposti nuovamente al compito cognitivo-attentivo iniziale (Test di Stroop).

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I risultati dello studio hanno mostrato che:

• Tra gli studenti che assumevano il placebo, quelli che ruminavano avevano una prestazione peggiore al test di Stroop rispetto a quelli che non ruminavano.

• I soggetti che non avevano ruminato avevano una prestazione al compito sovrapponibile, a prescindere dall’assunzione di glucosio o di placebo

• Gli studenti che avevano ricevuto la bevanda al glucosio  e che poi avevano ruminato mostravano una performance migliore rispetto ai ruminatori che consumavano la bevanda placebo.

In conclusione, i risultati dello studio confermano che:

• La ruminazione rabbiosa riduce la prestazione su compiti che richiedono risorse cognitivo-attentive

• L’assunzione di glucosio sembra ripristinare i  livelli della sostanza, ridotti dalla ruminazione,  favorendo così una buona capacità di controllo cognitivo-attentivo.

Insomma, non basta solo un poco di zucchero per ingoiare la pillola, ma  certo una dolce bevanda può aiutarci a limitare lo spreco di risorse e a favorire un maggiore auto-controllo quando siamo arrabbiati!

 LEGGI ANCHE:

RIMUGINIO E RUMINAZIONE –  IMPULSIVITA’ – EFFETTO STROOP – STROOP EFFECT

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La REBT in Italia: tra Razionalismo e Costruttivismo – Parte prima.

La REBT in Italia: tra razionalismo e costruttivismo - Parte prima.Due caratteristiche principali hanno connotato fin dall’inizio il movimento REBT italiano: il contatto diretto con la fonte originaria e americana della teoria e pratica clinica REBT, ovvero l’Istituto Ellis di New York, e l’integrazione con il movimento costruttivista che negli stessi anni nasceva in Italia.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RATIONAL-EMOTIVE BEHAVIOUR THERAPY – REBT

Vale la pena tentare di raccontare la storia della diffusione in Italia della REBT (rational emotive behavioural therapy) e del suo integrarsi con la tradizione costruttivista così forte nel cognitivismo clinico italiano, o almeno di una sua parte, quella che si riconosce nella Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

Non si tratta di fare antiquariato; si tratta di apprendere come storicamente nella SITCC si sia sviluppata la pratica clinica. Ad esempio, uno degli aspetti più caratteristici del modo italiano di attuare la terapia cognitiva è l’uso massiccio del modello ABC, modello che, come si sa, nella sua forma cognitiva è invenzione di Albert Ellis.

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of Mind
Articolo consigliato: Albert Ellis Institute – Day 1 – Cronache da New York. – State of Mind

Ebbene, credo che questa capillare diffusione dell’ABC sia un fatto italiano, dovuto proprio all’influenza della REBT e della preferenza che noi nutriamo per Ellis rispetto a Beck. Nei paesi dove invece prevale l’influenza della terapia cognitiva standard alla Beck, la CBT, non si fa uso dell’ABC. Raccontando questa storia capiremo come e perché nella SITCC accade che anche chi non si ispira agli aspetti più razionalistici della REBT faccia poi ampio uso dell’ABC.

Questa serie di articoli racconta e discute criticamente la storia della diffusione della REBT in Italia. Due caratteristiche principali hanno connotato fin dall’inizio il movimento REBT italiano: il contatto diretto con la fonte originaria e americana della teoria e pratica clinica REBT, ovvero l’Istituto Ellis di New York, e l’integrazione con il movimento costruttivista che negli stessi anni nasceva in Italia. La presenza simultanea di queste due caratteristiche in parte contradittorie dipese da due avvenimenti ben precisi.

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Il primo avvenimento fu che la REBT in Italia fu portata in Italia agli inizi degli anni ‘70 da Cesare De Silvestri (1926-2009), un clinico che aveva vissuto per l’intero decennio precedente negli USA e si era potuto formare frequentando con assiduità l’Istituto madre della terapia REBT a New York, a contatto diretto con Albert Ellis in persona. Da questa frequentazione forte e continua scaturì la possibilità di avere in Italia una conoscenza approfondita e una pratica clinica fedele della REBT (De Silvestri, 1981).

Il secondo avvenimento fu che, una volta traferitosi a Roma in quegli stessi anni ‘70, De Silvestri stabilì un intenso contatto amichevole e professionale con i due principali promotori della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC): Vittorio Guidano e Gianni Liotti. Il tipo di cognitivismo clinico teorizzato da Guidano e Liotti inseriva le tecniche cliniche comportamentali e cognitive in una cornice teorica più ampia che diventò nel tempo sempre più costruttivista ed evoluzionista.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVO – EVOLUZIONISTA

Il contatto tra De Silvestri, Guidano e Liotti permise che le componenti cognitive di questo modello integrato fossero soprattutto di scuola REBT e non CBT (acronimo che sta per cognitive behavioral therapy e che indica il cognitivismo più razionalista derivato dall’opera di Aaron T. Beck).

 Il contatto diretto permise lo sviluppo di alcune affinità teoriche e cliniche tra costruttivismo e REBT. Lo stesso Ellis sosteneva che nella REBT sono presenti componenti compatibili con il costruttivismo (Ellis, 1990). Al tempo stesso Guidano e Liotti adottarono il modello di analisi cognitiva denominato “ABC” da Ellis. Questa adozione non fu solo un evento tecnico e pratico, ma influenzò i modelli teorici costruttivisti ed evoluzionisti di Guidano e Liotti.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: TECNICA ABC (ELLIS)

Negli anni successivi questo modello misto di REBT e costruttivismo si contaminò ulteriormente con altre influenze: negli anni ’80 con il costruttivismo di George Kelly, da cui il cognitivismo italiano mutuò la tecnica di accertamento delle strutture cognitive denominata “laddering” e che fu inserita nell’ABC di Ellis (Lorenzini, Sassaroli, 1987) e con la teoria cognitiva degli scopi (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2002); negli anni ’90 con le credenze disfunzionali di scuola CBT (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006); e dal duemila in poi con i modelli di tipo metacognitivo (Dimaggio, Semerari, 2003; Caselli, 2013). A ognuna di queste contaminazioni sarà dedicato un articolo di questa serie. Il primo che pubblicheremo dopo questo sarà la descrizione dell’azione di De Silvestri in Italia negli anni ’70.

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

LEGGI ANCHE:

RATIONAL-EMOTIVE BEHAVIOUR THERAPY – REBT – PSICOTERAPIA COGNITIVA – COSTRUTTIVISMO – TECNICA ABC (ELLIS)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ridistribuire i ruoli tradizionali in famiglia: implicazioni sul lavoro

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La ridistribuzione dei ruoli di caregiving all’interno della famiglia in senso meno tradizionale sembra accompagnarsi a un certo grado di disapprovazione sociale sul posto di lavoro.

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L’incapacità dei contesti di lavoro di rispondere con maggiore flessibilità alle esigenze di questi lavoratori “atipici” ne peggiora le condizioni lavorative sotto diversi aspetti.

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Nuovi studi mostrano che gli uomini della classe media che assumono ruoli non tradizionali nell’accudimento dei figli sono trattati peggio sul posto di lavoro, rispetto a quelli che si attengono maggiormente alle tradizionali norme di genere nella divisione dei ruoli in famiglia.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 A vedersela ancora peggio però sono le donne senza figli e le madri che assumono ruoli non tradizionali all’interno della famiglia. 

I contesti di lavoro studiati sono stati due, uno a prevalenza femminile e uno a prevalenza maschile.

I risultati mostrano che le donne che hanno violato i ruoli di genere tradizionali non avendo figli, o non assumendo il ruolo di caregiver principale in famiglia, hanno un peggiore trattamento sul posto di lavoro rispetto alle donne che hanno assunto il ruolo principale nella cura dei figli.

Per quanto riguarda gli uomini, quelli che violano i ruoli di genere tradizionali, assumendo un ruolo attivo e partecipe nella cura dei figli e nella gestione delle incombenze familiari, ricevono un trattamento sul posto di lavoro peggiore dei colleghi senza figli o di quelli che se ne occupano meno, lasciando il ruolo di caregiver principale alla madre.

Nel complesso, gli studi mostrano che tutti i lavoratori che hanno violato le norme di genere tradizionali, hanno subito conseguenze sul posto di lavoro in termini di rispetto da parte dei colleghi, retribuzione e numero di promozioni, e questo indipendentemente dal numero di ore lavorative e dall’impegno messo nello svolgere i compiti lavorativi.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Questi risultati suggeriscono che l’aderenza a ruoli di genere tradizionali all’interno della famiglia, cioè l’approvazione sociale,  è connessa al modo in cui si viene trattati sul posto di lavoro, più di quanto lo sia lo svolgere adeguatamente le proprie mansioni lavorative.

LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – FAMIGLIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ignoranza, meta-ignoranza e la frammentazione del sapere

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Oggi quasi tutti i ricercatori lavorano chiusi dentro le soffocanti pareti della specializzazione. Firestein ricorda che nel 2002 «sono stati archiviati nel mondo cinque esabyte di informazioni, cioè quanto basta a riempire la Biblioteca del Congresso Usa trentasettemila volte». Ma dal 2002 «questo dato è cresciuto di un milione di volte». Nessuno potrà mai dominare una tale massa di informazioni neppure nell’ambito della propria disciplina. Figuriamoci che cosa potrà sapere delle discipline altrui. Eppure le cose più interessanti (le scoperte) si fanno sulla frontiere tra scienze diverse. Una dotta ignoranza dovrebbe portare a questa consapevolezza. Se poi si vuole davvero scoprire qualcosa di rivoluzionario, serve la meta-ignoranza: sapere che può esserci qualcosa che ignoriamo di ignorare.

 

A lezione di IgnoranzaConsigliato dalla Redazione

A lezione di Ignoranza

(…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Leadership negli sport di squadra: teorie e modelli sulla leadership #3

Leadership negli Sport di Squadra

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP – Parte 3

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

LEGGI: INTRODUZIONE – PARTE 1 

 

TEORIE E MODELLI SULLA LEADERSHIP . - Immagine ©-Sergey-Nivens-FotoliaLa leadership è, quindi, un processo volto a influenzare o modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di altre persone [Hersey e Blanchard, 1988] e a partire da questa definizione molti autori hanno sviluppato modelli e teorie per individuare le caratteristiche essenziali che deve possedere una persone per assumere la posizione di leader.

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L’obiettivo è stato quello di comprendere cosa rende certe persone in grado di influenzare gli altri più di quanto sono influenzati essi stessi. Diverse teorie si sono susseguite nell’analisi di quest’argomento dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi e hanno portato alla nascita di modelli piuttosto differenti. E’ importante premettere come tuttora il dibattito sia completamente aperto in tutti gli ambiti e in special modo in quello sportivo dove la tematica in questione ha ricevuto attenzione solo recentemente.

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Uno di questi, e uno dei primi, tentativi è quello che si basa sulle teorie dei tratti.

Questo fondamento teorico ha portato alcuni psicologi a cercare di individuare, principalmente attraverso questionari come il Questionario dei 16 fattori di Cattel, alcune caratteristiche tipicamente comuni alla maggior parte dei leader. Il concetto alla base è l’idea che per essere leader siano necessarie alcune doti naturali identificate in specifici tratti di personalità. Appare, ed è, una posizione estremamente innatista che confina le possibilità di divenire un leader alle proprie caratteristiche naturali. Per questo motivo l’insieme dei modelli che si basano su questa idea sono stati etichettati come Teorie del grande uomo. Risulta sin troppo facile individuare i limiti di queste ricerche che, come nota Hollander [1985 ] nella sua rassegna sulla leadership, si limitano a considerare solo una categoria di fattori, quelli legati alle capacità del leader, escludendone altre importanti.

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L’inefficacia di questo modello, che in ambito sportivo ha retto sino all’inizio degli anni Ottanta, è stata verificata da uno studio di Stogdill [1974] su 150 ricerche appartenenti all’approccio del grande uomo, dalle quali si può facilmente notare come anche i tratti di personalità più ricorrenti presumibilmente associati alla posizione di leader non riescono, in realtà, a darne ragione.

Il Grande Capo - Locandina
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La consapevolezza del fallimento delle teorie del “grande uomo” ha portato alla necessità di individuare alternative. In particolare sono state percorse due diverse strade che hanno posto l’accento, l’una, sul comportamento del leader e, l’altra, sulle caratteristiche della situazione, più che su i tratti della personalità.

La prima ha sviluppato l’idea degli stili di leadership che rappresentano schemi comportamentali tipici della persone che rivestono lo status di leader e che possono essere finalizzati a diversi obiettivi e classificati in diverse categorie. In particolare Bales e Slater [1955] distinguono due diverse tipologie di leader definite da due funzioni ben distinte: la prima (leader socio-emozionale) si concentra sul mantenimento del morale del gruppo e di un clima sereno per tutti i membri, la seconda (leader centrato sul compito) si orienta al raggiungimento degli obiettivi per cui il gruppo è nato e quindi all’organizzazione e alla gestione del lavoro.

Come afferma Palmonari [in Arcuri, 1995] questi due orientamenti possono essere individuati nella stessa persona o possono esistere due leader legati a diverse funzioni. Questa distinzione è particolarmente importante in ambito sportivo dove la prestazione ottimale, intesa come compito della squadra, che può essere raggiunta attraverso il lavoro di un leader centrato sul compito non può prescindere da una soddisfazione intrinseca dei membri che la compongono e della quale si occupa un leader socio-emozionale, soprattutto in particolare situazioni (vedi sotto).

Anche in quest’ambito, pur non negando la possibilità che la medesima figura possa aderire a entrambi gli stili di leadership, si può osservare come l’ottimale rendimento della squadra richieda, nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza di più di un leader, proprio perché spesso uno solo non è in grado di ottimizzare le prestazioni e la soddisfazione della squadra in tutte le situazioni. Un’altra distinzione che fa sempre riferimento agli stili comportamentali del leader e che può facilmente essere ricondotta a quella appena presentata è stata elaborata da Lewin, Lippit e White [1939].  Anche secondo questa teoria possiamo osservare come le conseguenze del comportamento del leader determini conseguenze sostanzialmente a due livelli: quello della produttività e quello del morale del gruppo. Gli stili individuati da questi autori sono:

Stile autoritario: è un leader che tende a gestire con rigoroso controllo i membri del gruppo e le loro azioni, spesso senza dar loro possibilità di recriminare e generando così disgregazione e aggressività. Sicuramente questo comportamento risulta dannoso per il morale del gruppo ma in compenso favorisce oltremodo la produttività, per questo si può collegare a quello che Bales e Slater definiscono come leader centrato sul compito.

Stile democratico: il gruppo viene condotto in modo partecipativo, in cui ciascun membro ha la possibilità di intervenire e di sentire riconosciuto il proprio ruolo nel team. Questo tende a massimizzare la profondità della relazione tra i membri e il morale individuale. Anche la produttività risulta positiva anche se non ai livelli di quella determinata da uno stile autoritario. Questo stile di leadership potrebbe essere connesso all’idea di leader socio-emozionale di Bales e Slater in quanto si focalizza principalmente sul rapporto tra i componenti del gruppo.

Stile lassez-faire: il comportamento del leader è completamente disinteressato e ciò porta all’emersione dal gruppo di altri leader spontanei e ad una situazione caotica che tende comunque a disgregare le relazioni intragruppi. In questo modo, senza alcuna guida, la produttività non può che essere scadente e, d’altro lato, anche il morale del gruppo non è elevato e il rapporto tra i membri minimo; questo perché il leader fallisce in tutti i compiti associati alla posizione a cui è stato assegnato.

Secondo l’approccio che, al contrario delle teorie del “grande uomo”, si è focalizzato sulla rilevanza delle caratteristiche situazionali, il leader diventa colui in grado di svolgere determinate azioni (ottimali per il raggiungimento di un obiettivo), in determinate condizioni. In questo modo, non solo non esiste un leader tale per caratteristiche della personalità innate ma ogni situazione pone in rilievo una persona diversa come potenziale leader. Non viene riconosciuta quindi l’esistenza di un leader unico ma, anzi, i sostenitori di quest’approccio associano un leader diverso per ogni situazione. Per avvalorare quest’ipotesi Nixon e Carter [1949] sottopongono diverse coppie a tre compiti di diversa natura osservando come difficilmente la stessa persona assume il ruolo di leader in tutte le condizioni. Questo sistema di teorie, se ha il pregio di porre l’accento sull’importanza delle variabili che contraddistinguono la situazione, d’altra parte commette l’errore, come Hollander [1985] gli attribuisce, di esagerare dalla parte opposta alle teorie basate sui tratti non fermandosi a superarle ma arrivando a trascurare completamente le qualità individuali dei componenti del gruppo.

L’esagerazione di questo approccio è evidente anche in ambito sportivo. Presupponendo infatti che ogni situazione di gioco necessiti di una diversa figura di leader si arriverebbe ad analizzare una partita in quanto insieme di singole azioni perdendo di vista l’importanza dell’organizzazione generale della squadra e della persona che la gestisce.

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

INTRODUZIONE – PARTE 1 

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PERSONALITA’  -TRATTI DI PERSONALITA’ – PSICOLOGIA DELLO SPORT – PSICOLOGIA SOCIALE

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La trappola della felicità di Russ Harris – Recensione

Recensione del libro

LA TRAPPOLA DELLA FELICITA’.

COME SMETTERE DI TORMENTARSI E TORNARE A VIVERE

di Russ Harris

Erickson

(2010)

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La trappola della felicità - HarrisIl libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

Fino a venti o trent’anni fa se qualcuno avesse parlato di “accettare un sintomo”, il sadico psicologo o psichiatra di turno avrebbe potuto pensare metaforicamente a una bella ascia terapeutica con cui tagliare via il disagio. Le terapie cognitivo comportamentali classiche e le terapie psicofarmacologica avevano più o meno questo obiettivo.

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Negli ultimi anni la parolina magica accettazione ha assunto, in ambito psicologico, il significato di accogliere e integrare anche i lati di noi che non ci piacciono, che ci fanno soffrire e che vorremmo eliminare.

Il libro dello psicoterapeuta australiano Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT),  è un’opera divulgativa rivolta soprattutto ai pazienti o a coloro che vogliono migliorare il proprio stato interiore, ma anche agli operatori che non conoscono questo approccio innovativo alla gestione della sofferenza.

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La prima parte del libro si concentra sul relazionarsi diversamente ai propri pensieri, più che cercare di correggerli, in linea con i concetti di mindfullness, che a sua volta si ispira a un atteggiamento proprio delle religioni orientali, in particolare il buddismo.

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Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

L’autore si batte molto sul togliere valore al pensiero come capacità umana suprema, consigliando la “defusione” dai propri pensieri. Noi non siamo ciò che pensiamo, ma i pensieri sono prodotti del nostro cervello, che talvolta ostacolano l’agire in base ai nostri valori. Quindi viene consigliato di fare spazio dentro di sè ai pensieri disfunzionali e alle emozioni spiacevoli e di dargli il benvenuto (qualcosa del tipo “Prego pensieraccio si accomodi! Posso offrirle un caffettino?”), arrivando a ringraziare la propria mente, piuttosto che maledirla, per averli prodotti.

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Questo lasciare uno “spazio di respiro” al disagio ha la finalità di non permettere alla sofferenza di amplificarsi, ma di manifestarsi in modo naturale, per poi scomparire.

D’altra parte anche le emozioni piacevoli arrivano e passano, ma con quelle siamo solitamente più accoglienti.

Uno degli obiettivi è quello di coltivare il sé osservante, entità mentale non giudicante che di solito non riconosciamo, e che si contraddistingue dal sé pensante che ci induce spesso a lottare contro la realtà.

Ci sono molti esercizi utili per coltivarlo. Per esempio, mentre leggete questa recensione, cercate di osservarvi mentre la leggete e di essere consapevoli del fatto che vi state osservando.

La seconda parte dell’opera fa riferimento ai valori, cioè ai nostri desideri più profondi rispetto a come vorremmo essere e a come vogliamo rapportarci al mondo (ad esempio essere un partner affettuoso). I valori vanno distinti dagli obiettivi, che sono i risultati desiderati nella vita (ad esempio diventare ricchi, sposarsi etc.).

 Devo dire che l’utilizzo del termine valore in ambito psicoterapico mi ha colpito molto. La maggior parte dei sociologi e degli opinionisti impegnati accusa, spesso in modo condivisibile, la nostra società postmoderna di aver perso il sistema dei valori, che in altre epoche (o anche oggi in altri mondi) furono imposti dalle religioni o dalle ideologie. Nelle nostre vite così libere e, a tratti disorientate, connettersi con i propri valori può essere un modo per non perdersi. Una volta chiariti i propri valori, si può agire in base ad essi, perché come sottolinea l’autore non siamo padroni dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, ma delle nostre azioni eccome!

Il cambiamento, che ricordiamolo non è quasi mai piacevole o indolore, deriva secondo l’autore dall’allenarsi a rapportarsi diversamente ai propri pensieri e stati d’animo e a vivere guidati dai propri valori. Harris invita il lettore ad aspirare a una vita più piena e significativa, fornendo gli strumenti per uscire da una sorta di schiavitù dei propri lati oscuri, vere fabbriche di autoaccuse e di trappole paralizzanti.

Per rendere più autentico il racconto, l’autore narra le proprie difficoltà e resistenze nello scrivere il libro stesso e di come sia riuscito a vincere “il blocco dello scrivano” proprio grazie all’uso delle strategie illustrate nel volume. Più di così…

 

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BIBLIOGRAFIA: 

Come i social media riflettono e amplificano il narcisismo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Facebook è uno specchio e Twitter è un megafono: come i social media riflettono e amplificano il narcisismo. 

Gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

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Un team di ricercatori della University of Michigan ha studiato la relazione tra narcisismo e la quantità tempo speso a navigare sui social media e il numero di post giornalieri pubblicati su Facebook e Twitter, includendo la lettura di post e i commenti ad altri.

lInvidia-del-post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com
Articolo Consigliato: Facebook e l’invidia del post

I ricercatori hanno reclutato 486 studenti universitari. Tre quarti erano di sesso femminile con un età media di 19 anni. I partecipanti hanno risposto alle domande sul loro grado di utilizzo dei social media, e ricevuto una valutazione della personalità su diversi aspetti del narcisismo (esibizionismo, sfruttamento, superiorità, autorità e l’autosufficienza).

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Nella seconda parte dello studio, i ricercatori hanno chiesto a 93 adulti con una età media di 35 anni, di completare un sondaggio online.

I risultati dello studio indicano che gli studenti universitari e gli adulti utilizzano i social media in modo diverso per aumentare il loro ego e controllare la loro immagine sociale.

Tra i giovani studenti universitari, quelli con un più alto punteggio nelle scale del narcisismo hanno la tendenza a pubblicare più frequentemente su Twitter; tra la popolazione adulta invece i narcisisti spendono più tempo a pubblicare aggiornamenti di stato su Facebook.

Secondo Panek, autore dello studio, gli adulti, che hanno già formato il loro sé sociale, usano Facebook come uno specchio, curando la propria immagine e controllando come gli altri vi rispondono, per ottenerne l’approvazione. 

Gli studenti universitari invece scelgono il megafono di Twitter. Questo gli permette di sovrastimare l’importanza delle proprie opinioni, espresse su una vasta gamma di temi e in un vasto ambiente sociale.

Questo studio è tra i primi a confrontare il rapporto tra narcisismo e diversi tipi di mezzi di comunicazione sociale in diversi gruppi di età, anche se i ricercatori non sono stati in grado di determinare la direzione della causalità: se il narcisismo porti ad un maggiore uso dei social media, o se sia l’uso dei social media a favorire il narcisismo, o, ancora, se questo rapporto sia mediato da altri fattori. 

LEGGI:

 SOCIAL NETWORK – DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ – NARCISISMO

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Mi stai mentendo? Mark Frank insegna a smascherare le bugie

Report dal seminario Comportamento e Inganno

Sabato 15 giugno e Domenica 16

Gorizia

LEGGI LA SCHEDA DELL’EVENTO

 

Mark G. Frank - Comportamento e Inganno - Seminario

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

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Quanto siete bravi a riconoscere se qualcuno vi sta mentendo? Forse pensate di essere molto abili, ma la verità è che in media l’accuratezza della maggior parte delle persone nel riconoscere una bugia si aggira intorno al 54%: a tirare ad indovinare quasi ci si azzecca allo stesso modo!

Eppure capire se qualcuno non sta dicendo la verità è fondamentale in moltissime professioni (es. polizia, agenzie investigative, medici, psichiatri, psicologi…) e anche nella vita quotidiana ogni tanto non guasta.

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
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Mark Frank, esperto mondiale nella comunicazione non verbale e nel riconoscimento delle menzogne, ha tenuto a Gorizia il seminario Comportamento e Inganno con lo scopo di affinare le capacità di osservazione dei partecipanti illustrando quei comportamenti scientificamente validati che segnalano le intenzioni dell’interlocutore, in particolare in relazione alla volontà di nascondere informazioni ed emozioni e di ingannare l’altro.

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Mark Frank è stato collega di Paul Ekman, noto psicologo e ricercatore a cui si è ispirata la celebre serie tv Lie to me. Ed infatti la parte teorica del seminario ha ripreso i contenuti del libro di Ekman I volti della Menzogna (Leggi: I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire), affrontando i temi del riconoscimento delle espressioni facciali e degli indizi comportamentali della verità e della menzogna.

La parte sicuramente più interessante (e divertente) è stata la visione di numerosi filmati, alcuni tratti dagli studi condotti da Mark Frank, altri tratti da interviste a personaggi anche famosi (da Mel Gibson a O.J. Simpson); i partecipanti dovevano valutare se i protagonisti stavano mentendo o meno oppure dovevano riconoscere l’emozione da loro provata. Inutile dirvi che i risultati alla prima visione erano piuttosto scarsi. Dopo il training sul riconoscimento delle micro-espressioni facciali, che consiste nell’imparare a riconoscere i movimenti facciali distintivi delle principali emozioni (paura, disgusto, disprezzo, gioia, tristezza, sorpresa, rabbia) i video venivano rivisti…e si apriva un mondo nuovo.

Al termine del training, infatti, i partecipanti riuscivano a cogliere emozioni prima passate assolutamente inosservate: per esempio, fugaci espressioni di paura sul volto di un marito addolorato per l’omicidio della moglie durante il suo appello ad aiutare la polizia a risolvere il caso (e indovinate alla fine chi era l’assassino?) oppure rapide espressioni di disgusto sul viso di un manager che stava parlando di etica nella propria azienda (e che è poi è stato arrestato per truffa nei confronti della società). Impressionante, vero? Lo è ancora di più rivedere i video a rallentatore, proprio come in una puntata di Lie to me, e vedere comparire in maniera distinta emozioni nascoste.

L’abilità di smascherare una menzogna si basa sulla capacità di individuare non solo indizi emotivi, ma anche cognitivi e saperli interpretare nella maniera corretta.

Gli indizi emotivi si esprimono tramite il volto e la voce (influenzandone tono, intensità e velocità nell’eloquio) e sono in contraddizione con il contesto o con il contenuto espresso; spesso sono micro-espressioni facciali, ovvero l’emozione tenuta nascosta dal soggetto sfugge per una brevissima frazione di secondo al suo controllo e fa capolino in maniera repentina sul suo volto. 

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Gli indizi cognitivi invece riguardano la memoria e lo sforzo mentale. Per quanto riguarda la memoria, i racconti inventati differiscono qualitativamente rispetto ai racconti veritieri: spesso hanno contenuti impossibili, sono scollegati rispetto al contesto e poco dettagliati; inoltre il soggetto ha difficoltà a muoversi agilmente nel racconto.

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Raccontare una bugia implica inoltre uno sforzo mentale notevole che può palesarsi attraverso la voce (il soggetto si contraddice, esita, commette errori nell’eloquio) oppure il corpo (i gesti illustratori si riducono, compaiono emblemi contradditori, gesti manipolatori e segnali di controllo).

Quando identificate questi segni rivelatori un campanello d’allarme dovrebbe risuonare nella vostra mente, ma non dovete dimenticare che l’incoerenza del comportamento verbale e non verbale non è mai indice assoluto di menzogna; infatti un segno rivelatore indica l’occultamento di un pensiero o di un’emozione. La domanda da porsi, pertanto, è come mai l’interlocutore sta facendo ciò?

Facial Expressions - © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Riconoscere un’emozione dal volto: giapponesi, americani e questioni di contesto.

Gli indizi dell’inganno sono molto più sottili e complessi e per valutare se la persona che vi sta di fronte vi sta raccontando una bugia o meno dovete interpretare i segnali osservati domandandovi quale sia la loro origine, approfondendo la questione con domande pertinenti per sviluppare il colloquio e raccogliere ulteriori informazioni. Mark Frank sottolinea come la ricerca dell’inganno dipenda molto proprio dalla qualità del colloquio condotto. Diventa fondamentale quindi creare un buon rapporto con l’interlocutore; instaurare una buona relazione è infatti il modo migliore per ottenere informazioni.

Indubbiamente Comportamento e inganno è stato un seminario interessantissimo e soprattutto utile per aumentare la probabilità di non farsi ingannare dagli altri in quanto ha fornito gli strumenti per riconoscere gli indizi dell’inganno e sfatare falsi miti su segni di menzogna che in realtà non sono assolutamente validi (es. la credenza che non guardare negli occhi sia indicativo del fatto che si sta mentendo).

Infatti la questione non riguarda tanto la capacità degli altri di farci fessi – perché chi mente dissemina una grandissima quantità di indizi senza accorgersene – , quanto la nostra incapacità nel rilevare tali indizi. Se il seminario ha il merito di migliorare le nostre abilità di detective, non può però influenzare in alcun modo gli altri fattori che fanno sì che a volte le menzogne ci sfuggano. A volte infatti non ci interessa sapere se l’altro ci sta mentendo e anzi, capita anche che vogliamo essere ingannati perché non siamo in grado di tollerare la verità, e in tali casi non c’è training sulla menzogna che tenga.

LEGGI:

ESPRESSIONI FACCIALI – FACIAL EXPRESSION –  LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE – VOCE E COMUNICAZIONE PARAVERBALE

 CONGRESSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Ansia Sociale: la timidezza patologica. Partecipa alla Ricerca!

 

Il Dipartimento di Ricerca di Studi Cognitivi presenta:

Ansia Sociale: una forma patologica e dannosa di timidezza.

Ricerca su Ansia Sociale - Studi Cognitivi - © olly - Fotolia.com. - SLIDE

PARTECIPA ALLA RICERCA!

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Le motivazioni al suicidio – Psicologia

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I tentativi di suicidio sono stati raramente il risultato di impulsività, un grido d’aiuto, o la soluzione per risolvere un problema finanziario o pratico. Tra tutte le motivazioni per il suicidio due sembrano essere comuni a tutti i partecipanti: la disperazione e il dolore emotivo travolgente.

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Uno studio della University of British Columbia getta nuova luce sul motivo per cui le persone tentano il suicidio e fornisce la prima misura scientificamente testata per valutarne le motivazioni.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Tratti di Personalità & Suicidio

Pubblicato sulla rivista ufficiale della American Association of Suicidology, la ricerca fornisce a medici e ricercatori nuove importanti risorse da usare nel campo della prevenzione del suicidio, per migliorare i trattamenti, e ridurre la probabilità di recidive.

Lo studio, basato su 120 partecipanti che hanno recentemente tentato il suicidio, suggerisce che molte delle motivazioni che fino ad ora si è creduto giocassero un ruolo importanti nel suicidio in realtà sono relativamente rare. Ad esempio, i tentativi di suicidio sono stati raramente il risultato di impulsività, un grido d’aiuto, o la soluzione per risolvere un problema finanziario o pratico. Tra tutte le motivazioni per il suicidio due sembrano essere comuni a tutti i partecipanti: la disperazione e il dolore emotivo travolgente.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: IMPULSIVITA’

Lo studio rileva inoltre che i tentativi di suicidio che sono stati influenzati da fattori sociali, come la richiesta di aiuto o il tentativo di influenzare gli altri, si associano a una minore motivazione alla morte e vengono effettuati con una

maggiore possibilità di salvataggio. Al contrario, i tentativi di suicidio motivati ​​da fattori interni – come disperazione e di dolore insopportabile – rivelano un desiderio di morire più radicato.

The Inventory of Motivations for Suicide Attempts (IMSA), usato nello studio, è oggi lo strumento più preciso per valutare le motivazioni al suicidio.

Concentrarsi sulle motivazioni è un nuovo approccio nel campo della ricerca sul suicidio”, dice Klonsky, “fino ad ora l’attenzione si è concentrata in gran parte sul tipo di persone che tentano il suicidio – i dati demografici, la genetica – senza in realtà esplorarne le motivazioni; il nostro è il primo lavoro che fa questo in modo sistematico. Motivazioni diverse infatti richiedono diversi tipi di trattamenti e interventi di prevenzione.”

LEGGI:

SUICIDIO – IMPULSIVITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La solitudine dei numeri primi – Cinema & Psicoterapia #6

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #06

La solitudine dei numeri primi (2010)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

La Solitudine dei Numeri Primi. LocandinaIl senso di colpa di Mattia e il senso di inadeguatezza di Alice li accompagneranno. I due si incroceranno e si scopriranno affini, ma irreparabilmente divisi, come i numeri primi, separati da un numero pari, vicini, ma non abbastanza da toccarsi. 

Info:

La solitudine dei numeri primi.

Un film di Saverio Costanzo, con Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Martina Albano, Arianna Nastro, Tommaso Neri. Drammatico. Italia, Francia, Germania, 2010.

Trama 

Il film narra la storia di Alice e Mattia. Due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, segneranno le loro vite di adolescenti prima, giovani adulti poi.

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Lei, con un padre che nutre grandi aspettative, ha un incidente che le procura una menomazione del corpo lui, intelligentissimo con una sorella autistica, vive isolato.

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Un giorno per partecipare alla festa di compleanno di un compagno di classe, abbandona la sorella in un parco. Non la ritroverà più. Il senso di colpa di Mattia e il senso di inadeguatezza di Alice li accompagneranno. I due si incroceranno e si scopriranno affini, ma irreparabilmente divisi, come i numeri primi, separati da un numero pari, vicini, ma non abbastanza da toccarsi. 

Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett (2002). Locandina
Aricolo Consigliato: Il favoloso mondo di Amélie – Cinema & Psicoterapia #3

Motivi d’interesse: 

La sofferenza attraversa il corpo e la mente dei due protagonisti. La solitudine contraddistingue le loro vite. L’una legata al non sentirsi a posto, all’essere snobbata perché zoppa: l’autostima di Michela crolla e la necessità di controllare in qualche modo una realtà crudele la porta all’anoressia.

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L’altra determinata da una sorella autistica che gli fa sentire gli altri umilianti, prima e dal senso di colpa, poi. Mattia non ha interesse per le relazioni sociali e si rifugia nell’autolesionismo. 

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Quando i due si incontrano sembrano alla disperata ricerca di una possibilità diversa. Si confidano, rivelano all’altro il loro trauma. Si scambiano persino gesti affettuosi, ma non resistono insieme. Lui parte per il Nord Europa, lei conosce un medico e lo sposa. Alice non può avere figli, ciò che le chiede il marito, da tempo non ha più le mestruazioni. I due si separano, ancora una volta il corpo la tradisce e cade in depressione.

Le sembra di incontrare la sorella di Mattia, lo chiama e senza fornire spiegazioni gli chiede di tornare. Lui accetta e torna in Italia, ma Alice non riesce a raccontargli ciò che credeva di aver visto. I due passano del tempo insieme, si baciano. Alice è innamorata di Mattia, ma il muro di solitudine che li divide è lì e gli impedisce di essere ancora insieme, di costruire una relazione. Mattia riparte. 

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I temi che propone il film sono propri di tante pazienti con disturbi alimentari. L’attenzione centrata sul corpo, la vergogna e il senso di inadeguatezza, la sensazione di non essere a posto, la scarsa autostima, le aspettative eccessive delle figure d’attaccamento, il bisogno di controllo, l’impossibilità di costruire relazioni significative e il profondo senso di solitudine in cui ci si rifugia per evitare il rifiuto.

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Mattia percorre una via diversa per arrivare al senso di solitudine che sembrerebbe ontologico. Passa per l’umiliazione e il senso di colpa che lo rendono evitante, che lo allontanano dagli altri perché indegno, colpevole in senso altruistico.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’

Per entrambi la ricerca disperata e vana di avvicinarsi, di darsi una possibilità alternativa si infrange nella mancata elaborazione delle vicende traumatiche delle loro esistenze e nell’impossibilità di ordinarle attraverso significati più adattivi. 

Indicazioni per l’utilizzo: 

La narrazione offre la possibilità di confrontarsi su temi specifici con pazienti evitanti e con diagnosi di anoressia. Il film può essere utile a fini didattici.

Trailer:

 

LEGGI:

 AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE  –  DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE –  RECENSIONI – CINEMA – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Sul Narcisismo del Terapeuta. Recensione della favola del maestro e dell’allievo

 

Favola: Sul narcisismo del terapeuta

Da “Le fiabe dell’Africa Nera”

– Chi è il maestro e chi l’allievo –

RECENSIONE

 

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Favola: Chi è il maestro e chi l'allievo - Recensione.-Immagine: © aroas - Fotolia.com “Maestro, tutti conoscono le tue capacità straordinarie. Dunque a che pro farne mostra proprio in questa occasione? Lascia stare la leonessa così com’è!“.

 

Ciò che fiabe, favole, racconti popolari possono insegnarci non riguarda solo il percorso umano ed emotivo di coloro che chiedono il nostro aiuto, bensì anche la nostra esperienza di terapeuti alle prese con noi stessi, i nostri limiti e la figura talvolta ingombrante che per il bene della terapia e dei pazienti dobbiamo abbandonare. E’ questo il senso di una favola che arriva da molto lontano, molto vicino.

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Il Giovane Gambero - Recensione
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 Chi è il maestro e chi l’allievo –

 

Tempo fa tre maghi che si consideravano sapienti, fecero un viaggio insieme a un giovane alunno. Cammina cammina, un giorno passarono vicino allo scheletro di un animale le cui ossa erano sparpagliate sul terreno. Il primo mago affermò ben sicuro: “Si tratta dello scheletro d’una leonessa! Con il solo schioccare delle dita posso riformarne la figura per intero“. Detto fatto, a un suo cenno, la struttura ossea si ricompose perfettamente. Il secondo mago esclamò: “Solo io posso ricostruire integralmente il corpo di questa belva!” e mentre diceva ciò la leonessa riebbe la sua carne, la pelle, e i muscoli possenti. L’ultimo mago volle stravincere, e dichiaro: “Ebbene, in men che non si dica, io posso far ritornare in vita questo bestione!“. Impaurito l’allievo lo scongiurò: “Maestro, tutti conoscono le tue capacità straordinarie. Dunque a che pro farne mostra

proprio in questa occasione? Lascia stare la leonessa così com’è!“.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ -NARCISISMO

 

Ma costui, spinto da mania di grandezza, fece rivivere il felino che subito si gettò sui tre maghi, divorandoli in un sol boccone. Per sua fortuna, l’allievo ce la fece a salire su un albero, ponendosi così in salvo. Sazia e soddisfatta, la leonessa si allontanò, lasciando sul terreno i tre scheletri.

LEGGI:

 DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’ -NARCISISMO – IN TERAPIA

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Come ci ricordiamo i volti? Questione di differenze di genere

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Differenze di genere: secondo un nuovo studio che verrà prossimamente pubblicato su Psychological Science le donne sono in grado di ricordare meglio i volti rispetto agli uomini in parte perché direzionano e focalizzano lo sguardo in modo specifico su alcune caratteristiche del volto.

 

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Secondo gli autori il modo con cui velocemente orientiamo lo sguardo all’interno di un volto che stiamo visualizzando impatterebbe sulla possibilità di memorizzarlo e di riconoscerlo in un momento successivo.

 

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Procastinazione. Differenze Genere e Educazione. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.com
Articolo consigliato: Procastinazione. Differenze Genere e Educazione

 

Ai soggetti sperimentali sono stati mostrati allo schermo di un computer diversi volti: durante il processo di percezione visiva è stata utilizzata una tecnologia di eye-tracking per misurare e identificare gli specifici movimenti oculari.

Grazie a tale procedura quindi si è in grado di analizzare analiticamente la focalizzazione dello sguardo su diverse parti dei volti presentati (ad esempio, l’area degli occhi, del naso e della bocca). Ogni volto veniva presentato associato a un nome che soltanto in seguito è stato poi richiesto ai partecipanti di ricordare (a distanza di diverse ore o di quattro giorni).

 

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 Dai risultati è emerso che le donne fissavano per un tempo significativamente maggiore le caratteristiche del volto (naso, bocca e occhi) ma senza esserne pienamente consapevoli: cioè non si tratterebbe di una strategia messa in atto consapevolmente per ricordare i volti, ma di specificità di un processo percettivo tendenzialmente inconsapevole.

Lo studio quindi fornisce nuovi insights sui meccanismi alla base del recupero delle memorie episodiche in relazione alle differenze di genere.

 

LEGGI ANCHE:

GENDER STUDIES – MEMORIA – NEUROPSICOLOGIA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Post-doctoral Position – 2 years – Cognitive Neuroscience – Brescia

 

 

Post-doctoral Position (2 years) available at the Cognitive Neuroscience Section, The Saint John of God Clinical Research Centre (Brescia, Italy) (www.cognitiveneuroscience.it), to work on EEG correlates of multiple object perception. As part of a collaborative project, founded by a grant from the Italian Ministry of Health, between The Saint John of God Clinical Research Centre (Brescia, Italy) and the Center for Mind/Brain Sciences at the University of Trento (Trento, Italy), the project will aim at characterizing the behavioral and neural activity involved in multiple object perception in healthy aging and in different forms of cognitive decline (Alzheimer Disease and Mild Cognitive Impairment). The position will involve the recruitment and cognitive evaluation of normal and pathological elderly subjects, as well as the running of EEG experiments. Applicants must have a doctoral degree. Priority will be given to applicants having a strong background in neuropsychological assessment. Desirable qualifications include also previous research experience in psychophysiology and cognitive neuroscience. Ideal start date would be September 2013. Interested candidates should submit a CV, a supporting statement and the details of two referees to contact for recommendation letters if needed.

For further information or to submit an application please contact Dr. Debora Brignani ([email protected]).

Why Teenagers Need Peer Pressure

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Interessante articolo del Wall Street Journal riguardo alle ultime ricerche in campo neuroscientifico su adolescenti e peer pressure. 

Si sa che gli adolescenti sono più soggetti all’influenza sociale rispetto agli adulti e fino a poco tempo fa questo era imputato allo sviluppo cerebrale ancora in atto (in particolare dei lobi frontali). Nuovi studi invece pongono l’accento sulla gratificazione immediata derivante dal conformarsi al gruppo dei pari, più forte nei ragazzi che negli adulti. Da questi nuovi studi poi si può per induzione ipotizzare stili genitoriali che aiutino i figli a crescere con personalità in grado di prendere decisioni razionali e autonome.

 

New studies on peer pressure suggest that teens—who often seem to follow each other like lemmings—may do so because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, and not because teens are less capable of making rational decisions.

Why Teenagers Need Peer PressureConsigliato dalla Redazione

Why Teenagers Need Peer Pressure
New studies on peer pressure suggest that teens may follow the herd because their brains derive more pleasure from social acceptance than adult brains, not because teens are less capable of making rational decisions. (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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