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Storie di Terapie #25 – L’Uscita di Carlo Parte 2

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

-LEGGI L’INTRODUZIONE-

 

Storie di Terapie #25

 L’uscita di Carlo – Parte 2

Questa settimana la seconda parte del caso di Carlo.

LEGGI LA PRIMA PARTE 

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Storie di Terapie #25 - L'uscita di Carlo Parte II. - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.com • Disturbo distimico

• Disturbo evitante di personalità

• Suicidio

Alla lunga questo tentativo di essere sempre “come tu mi vuoi”  lo aveva trasformato in un individuo senza un suo baricentro, propri punti di vista, desideri o certezze. Antenne sensibilissime lo sintonizzavano sulle aspettative altrui, di cui si appropriava prima che le sue fossero anche solo abbozzate.

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Non dimenticherò facilmente il giorno in cui venne di corsa al mio studio, preceduto da una sconclusionata telefonata, per chiedermi una terapia. Era la prima volta che ammetteva un disagio personale, non nascondendosi dietro quello dei pazienti. Era febbraio, diluviava e il suo solito completo di velluto zuppo impregnava lo studio di odore di umido. La sua prima moglie lo aveva lasciato, stanca dei suoi innumerevoli tradimenti e, soprattutto, improvvisamente consapevole, dismessi gli occhiali dell’innamoramento, della sua pochezza. In quel periodo ebbi l’impressione  che sentisse effettivamente qualcosa e che quel dolore lo compattasse e gli donasse qualche istante di autenticità. Gli ingredienti che bollivano nel melmoso pentolone del dolore erano molti.

La tristezza per la perdita dell’oggetto d’amore era l’ingrediente più superficiale, ovvio e facile da esporre.

Il più consistente era la colpa per essere stato la causa dell’abbandono che, a mio avviso, richiamava  una colpa storica più profonda relativa alla morte della madre forse causata dalla sua gravidanza vietata dai medici. Lui accettò di buon grado questa mia interpretazione, ma penso fosse solo per compiacermi e che invece non l’abbia mai sentita reale. Tutto ciò che riguardava la madre era assolutamente assente dalla sua vita emotiva e costituiva solo un oggetto di speculazione teorica fredda, che lo aveva spinto anche ad interessarsi professionalmente di attaccamento, forse un modo per dire dell’importanza di quella perdita che non sentiva affatto.

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Ma l’ingrediente più abbondante che univa il tutto era la paura: Carlo era stato, per tutta l’esistenza, soprattutto spaventato. E’ la paura la chiave di lettura che meglio dava ragione delle sue scelte e costituiva il filo conduttore della sua vita.

La paura era poi accompagnata dalla vergogna per la paura stessa. Insistevo con lui perché desse un contenuto a questa fedele compagna, ma riusciva con difficoltà a precisare cosa temesse. La rappresentazione che sentiva più plausibile era la sconfitta umiliante, da parte di qualcuno più forte di lui, che lo batteva di fronte a tutti e lo cacciava via, prova questa di quanto in lui fosse attivo il sistema agonistico nonostante lo negasse in tutti i modi.

Sconfitto, umiliato e solo: questo era l’inferno da cui Carlo ha tentato per una vita di scappare. Durante l’adolescenza non si era fatto mancare un disturbo ossessivo compulsivo impegnativo che lo costringeva a ritirarsi in disparte per recitare lunghe formule rituali atte a garantirgli di aver fatto tutto secondo le regole e dunque di non avere colpe che gli avrebbero meritato l’ostracismo.

Storie di Terapia #10 - Le bugie di Filippo. Immagine: © Stephen Coburn - Fotolia.com
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Certamente Carlo rientrava nel gruppo degli psichiatri che scelgono questo mestiere per esorcizzare la paura della follia e per convincersi di essere sani, senza esserci mai riuscito del tutto. Inoltre, gli garantiva di vivere le vite degli altri non potendo farlo con la propria. Aveva una discreta formazione teorica e, come detto, un’ innata capacità di sintonizzarsi sull’altro. Il suo grande limite è sempre stato l’incapacità di essere consapevole di se stesso, aveva la stessa autoconsapevolezza di una panchina, anche di guardarsi dentro aveva paura.

La sua vita affettiva era stata sparpagliata. Facile all’innamoramento, aveva corteggiato moltissime donne, ma rifuggiva sistematicamente da relazioni profonde. Si raccontava, ma non agli altri, di temere il fallimento sessuale ma io credo temesse la delusione sul volto dell’altro alla scoperta della sua assenza.

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Carlo aveva l’impressione che nella sua esistenza ci fossero state due fratture, due discontinuità. La prima, più grave, era avvenuta nei primi anni dopo la brillante laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria, proprio al tempo in cui feci la sua conoscenza come geniale allievo. Fino a quel momento Carlo era stato una grande promessa: si presentava estroverso, traboccante di energie, altruista, allegro, sempre vincente senza desiderare di esserlo, ricercato e persino affascinante. Ma soprattutto, fino ad allora, si sentiva effettivamente tale, non solo appariva così, era convinto di esserlo veramente. Fu in quegli anni che iniziò lo scollamento tra l’immagine pubblica e il vissuto interiore, che forse solo oggi con il suicidio si è ricomposto. Abbiamo ragionato per ore con lui su quale possa essere stato il motivo di questa “dissecazione” (la prima delle due dissecazioni che hanno segnato la sua esistenza) tra immagine e interiorità che è stata la cifra della sua restante sopravvivenza dopo di allora. Gli eventi che più saltano agli occhi in quel periodo sono due: la rinuncia ad un innamoramento idealizzato e mai concretizzato e la fine del proprio matrimonio. Carlo sosteneva di aver sofferto moltissimo per questi due accadimenti, al punto di essersi anche ammalato fisicamente, eppure non ho mai creduto fossero decisivi. In fondo si trattava di perdite ed era ben attrezzato per gestirle con la dissociazione. Si aggiunga che la fine effettiva del matrimonio ha inaugurato poi un nuovo matrimonio e l’ormai insperata esperienza della paternità. Forse, per la prima volta, Carlo ha sperimentato la sicurezza nei legami affettivi minacciata solo dall’imprevedibile morte.

Quello che invece io ho ritenuto causa del vissuto di estraneità con se stesso, nonostante Carlo non fosse d’accordo, è un evento apparentemente positivo quale la nascita, in quel periodo, di un legame affettivo profondo e duraturo. Pur modificandosi nella forma, questo legame ha accompagnato Carlo fino all’odierno congedo. Ho sempre pensato che il motivo della prima sua frattura esistenziale fosse proprio stato questo rapporto che, essendo con una collega molto conosciuta e vicina alla famiglia, lo aveva portato a vivere nella menzogna  e a sentirsi falso e colpevole in ogni sua manifestazione. Era da quel primo rapporto sessuale trasgressivo e adulterino che aveva iniziato a non sentirsi più quello che gli altri credevano fosse e lui stesso aveva creduto essere fino a quel momento. Si trattava di una storia inammissibile, vergognosa, inconfessabile, contraria a tutto quanto professato da Carlo in termini ideali e perciò estremamente attraente e irrinunciabile.

 Iniziò a fare sistematicamente finta anche nei contesti più privati, dalla mattina alla sera. Fu allora che Carlo progressivamente rinunciò alla sua interezza, era talmente immerso nella menzogna che perse di vista la verità, la falsità si appropriò di lui come un processo inarrestabile ed irreversibile. A furia di ingannare gli altri confuse se stesso e perse il sentiero della sua promettente identità. Credo davvero che allora, non oggi, perdemmo una bella persona. Divenne rinunciatario e debole, non si sentiva più legittimato ad affermare ed imporre le sue idee, sentiva di doversi nascondere e tacere, il tradimento gli aveva tolto tutti i diritti. Come poteva affermare qualcosa da un pulpito così vergognosamente screditato? Più volte negli ultimi anni Carlo aveva pensato di fare outing, nella speranza di riconquistare così quel senso di autenticità dolorosamente perduto ma io lo sconsigliavo per due motivi. Intanto la falsità, indipendentemente dai motivi per cui era stata inizialmente adottata era ormai diventata l’abito sotto il quale, forse, non c’era più il giovane Carlo di belle speranze ma piuttosto il nulla. Non sapeva far altro che fingere e non poteva che continuare. Inoltre la rivelazione avrebbe cambiato anche la vita della sua amante, che non ne aveva alcuna intenzione. A proposito, credo che lei solo oggi, chinandosi a baciare sulla bocca Carlo adagiato sul raso azzurro che riveste l’interno della bara, abbia tirato un sospiro di sollievo che la ricompensa in parte del dolore di una vedovanza da vivere in silenzio, a dare e non a ricevere le condoglianze.

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Solo al  termine della sua esistenza Carlo intuiva quanto questa storia d’amore e di menzogna avesse deviato  il corso della sua vita e come la patina di inautenticità che avvolgeva tutto fosse il prezzo pagato per quella trasgressione inconfessabile mai perdonatasi.

La seconda frattura della sua vita c’era stata a cinquanta anni, anche questa a motivo di una dissecazione, ma più fisica. Era stata la carotide interna destra a dissecarsi improvvisamente, a monte della diramazione dell’arteria cerebrale media. Tutto era avvenuto in una manciata di secondi che avrebbero lasciato una traccia indelebile. Con accento da telecronista amava raccontare l’evento: “L’arteria carotide interna destra si collassa e si chiude. Il circolo di Willis tenta un compenso con l’arteria vertebrale posteriore ma non è in buone condizioni e non ce la fa. Tentativo lodevole ma fallito. I neuroni di un’ampia zona dell’emisfero destro annaspano senza ossigeno, inviano gli ultimi segnali e si tacciono per sempre”, precedendo di una decina d’anni l’odierno destino di tutti gli altri. Carlo passa nel volgere di pochi minuti dalla condizione di ottima salute, all’imminente rischio di morte che i medici indicano persino come la soluzione migliore, allo stato di handicappato, storpio, spastico o, come si dice oggi, diversamente abile.

Storie di Terapie #7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico. - Immagine: © Scott Maxwell - Fotolia.com
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Fu proprio dopo l’uscita dall’ospedale, quando finita la festa per il pericolo scampato si trattò di fare i conti con la nuova condizione di disabile, che Carlo mi chiese per la seconda volta un vero e proprio intervento terapeutico. Ora poteva permetterselo. La malattia per certi versi lo aveva migliorato. Con il danno subito gli sembrava di aver saldato le colpe che si portava appresso e iniziò a permettersi  piaceri, comodità e attenzioni che prima si negava. Inoltre il forzato rallentamento che aveva subito la sua attività permetteva un ritmo più umano, con beneficio anche delle persone che aveva intorno. La smaniosa maniacalità era nell’azione frenata dall’handicap sicuramente fisico, ma a suo dire anche mentale, che ne aveva ridotto l’efficienza di un buon 25%. Dall’autonomia coatta di cui andava fiero prima era stato sbalzato in una assoluta dipendenza, inizialmente per tutte le funzioni più elementari, ma poi comunque era rimasto incapace di vivere da solo. Questo aveva peggiorato alcuni aspetti del suo carattere. Era diventato invidioso e cattivo con chi stava bene e ancor più competitivo e sleale, quasi che a risarcimento del danno subito potesse permettersi tutto. La carogna che sapevo essere in lui non esitava più  a mostrarsi, malvagio a pieno diritto.

I mesi trascorsi nelle mani dei curanti avevano sviluppato ancora di più se possibile il meccanismo dissociativo: lasciava lì il corpo e se ne andava. La mente ronzava a vuoto, senza riuscire a mettere a fuoco che i dettagli insignificanti di un eterno presente senza passato, nè progettualità.

La paura di tutto, antica compagna in particolare dell’umiliazione, aveva trovato nuovi  convincenti argomenti. Se era stato colpevole un tempo nascere e poi tradire, ora era ulteriormente colpevole essere sopravvissuto appesantendo l’esistenza degli altri. Viveva nella fatica dell’affrontare la vita quotidiana e nel terrore che un altro ictus lo privasse della parola e delle capacità cognitive, ma non tanto da renderlo inconsapevole.

Anche il rapporto con me era diventato più difficile e sentivo la sua invidia e persino il suo odio velenoso, non mi perdonava la salute. Tante volte ha tentato di estorcermi la promessa di un mio intervento pietoso nel caso si fosse trovato in condizioni di non poter da solo porre fine alla sua esistenza. Avevo un bel da fare ad argomentare che l’indebolimento del corpo con la vecchiaia ci riguarda tutti e occorre farsene una ragione, scoprendo le positività di un’età senza più le apprensioni per il futuro. Carlo che aveva pensato alla vecchiaia e alla morte sin da ragazzo era in realtà del tutto smarrito. Mi meravigliavo moltissimo di come fosse impreparato alla vecchiaia, come un’ ex bella donna non tollerava la decadenza di quel corpo cui sembrava non avere dato alcuna importanza. Un conto erano le chiacchiere sulla vecchiaia quando si è forti e belli, altro la realtà di un corpo in degrado che diventa inutile e sgradevole. Sentiva che nessuno lo avrebbe cercato per come era ora, nè il suo corpo, nè la sua mente erano attraenti per gli altri. Chi aveva intorno restava in nome di ciò che era stato nel passato.

Anche lamentarsi di ciò lo riteneva ingiusto, chi si credeva di essere per non invecchiare, puzzare, essere compatito, accantonato e poi morire come tutti gli altri? Lo aveva sempre saputo, ci aveva tanto ragionato e scherzato sopra da sentirsi pronto. Invece al momento di fare sul serio si sentiva come una recluta al primo conflitto a fuoco, con la cacca nelle brache. Tra tutte le cose che non si perdonava la principale era la codardia e il suo correlato emotivo, la paura. In questo senso la disabilità rappresentava un vantaggio perché gli permetteva di esibire, attribuendole ad essa e dunque giustificandole, delle paure che lui sapeva bene esserci state sempre.

Soprattutto dopo l’ictus la nostra terapia era orientata più all’accettazione che al cambiamento. Nei primi anni avevamo lavorato a lungo sul suo senso di fragilità e sulla paura di affrontare il nuovo che lo spingeva a cercare qualcuno cui affidarsi. Dopo che l’ictus aveva drammaticamente accentuato questa percezione di sé mi sembrava una battaglia persa cercare di modificarla e ci concentrammo su una benevola accettazione dei propri limiti. Scrivemmo insieme un cartoncino che Carlo teneva in tasca e rileggeva ogni tanto con su scritto “sono un ometto meschino e non posso farci niente ma mi voglio bene lo stesso”. Un po’ funzionò ma non credo che alla prima parte ci abbia mai davvero creduto perchè in fondo era un fottuto narcisista che non si permetteva la normalità. Oscillava tra il disprezzo rabbioso nei suoi confronti e un abbattimento rassegnato in cui gli sembrava di essere completamente vuoto e privo di ogni pensiero ed emozione.

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 Rispolverando l’armamentario comportamentista, nei momenti di maggiore abulia e anedonia costruimmo delle liste di attività presumibilmente piacevoli e gli prescrissi di dedicarcisi perlomeno alcune ore ogni giorno. La maggiore difficoltà stava proprio nella compilazione della lista: tutto gli sembrava indifferente e accettava ogni mio suggerimento con l’aria di dire “se tu dici che questo è piacevole, mi fido”. Comunque finiva per essere la mia lista delle cose piacevoli e non la sua. L’unica cosa che sembrava piacergli effettivamente era la fruizione passiva di storie: leggere libri, ascoltare la radio o vedere film. Però, nel momento in cui vi si dedicava sentiva la colpa per l’improduttività e un’ incontenibile smania ad attivarsi, solo nei mesi più acuti della malattia si era concesso una vera pausa.

In quel periodo ovviamente la terapia fu interrotta ed io mantenni i contatti con lui come amico, andandolo a trovare nei vari luoghi di cura e riabilitazione. Ebbi la speranza che la regressione ad una fase di totale dipendenza dall’altro per tutte le funzioni più elementari potesse comportare una riscrittura positiva degli “internal working model” dell’attaccamento, considerata la dedizione e la dolcezza con cui la moglie si dedicò alle sue cure. Non accadde, il vecchio ebbe il predominio addirittura, nelle prime fasi acute, sviluppò un delirio molto strutturato in cui tutti i curanti erano una setta di sadici persecutori che facevano di tutto per procurargli dolori fisici ed emotivi. In questa fase fui costretto per la prima volta ad introdurre dei farmaci che furono dapprincipio neurolettici.

Dopo la dimissione, quando con il ritorno alla vita normale si infransero le illusioni di recupero ed il danno apparve in tutta la sua entità, comparvero le prime idee di morte e introdussi degli antidepressivi che incrementarono l’aspetto dissociativo.

Carlo sembrava assorto, come se  pensasse, in realtà era come incantato, assente. Per dirla in termini psicoanalitici ritirò progressivamente gli investimenti libidici dal mondo esterno, non  voleva vedere nessuno, i temi che lo appassionavano un tempo ora lo annoiavano, tutto gli sembrava già visto, ascoltato, ripetitivo, noioso, al contrario tutto quello che era nuovo lo spaventava e perciò lo rifuggiva. Galleggiava in precario equilibrio tra la Scilla della noia e la Cariddi della paura. Il ritiro dal lavoro peggiorò questa situazione come avevo previsto L’identità di un uomo si fonda spesso sugli aspetti professionali e questo era particolarmente vero per Carlo, che non si riconosceva altrimenti. In questo delicato passaggio fui così preoccupato per lui che, ritenendo ormai inefficace la nostra relazione terapeutica contaminatasi nel tempo di valenze amicali, lo inviai da una collega psicoanalista. Non entrò mai effettivamente in terapia con la collega, pur molto esperta, quello che gli rimase di questa esperienza fu il senso del mio abbandono. Del resto la categoria dell’abbandono era in lui ampia e così vorace da incorporare facilmente tutti gli eventi. Anche quest’altra terapia, della cui inefficacia mi teneva informato con aria rimproverante, fu esclusivamente un esercizio teorico. Proprio quello che temevo e volevo evitare inviandolo in un inconsueto, per lui, setting psicoanalitico. Era un paziente diligente e attivo, portava sogni  di cui proponeva acute interpretazioni, raccontava dettagliatamente i fatti della sua infanzia, ricostruiti dalle narrazioni degli altri che avevano sostituito i suoi ricordi diretti assolutamente inesistenti e, soprattutto, aveva rapidamente imparato a fare ciò che riteneva la psicoanalista si aspettasse da lui.

Alla luce dei fatti odierni mi sento in colpa per averlo spinto in quella avventura credo, infatti, che fu allora che si rese dolorosamente conto di non aver mai provato sentimenti, la sua immagine riflessa nello specchio non c’era, ciò causandogli una disperazione fredda, difficile da descrivere. Infatti, se fosse reale disperazione sarebbe essa stessa un’ emozione intensa, contraddicendo il motivo stesso della disperazione, cioè il non provare nulla. Invece c’è solo la dolorosa consapevolezza dell’assenza di ogni sentimento.

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Un sogno pose fine all’esperienza psicoanalitica: una flotta di Green Peace voleva raggiungere il relitto del Titanic per venderne i reperti trovati a bordo e finanziare così le missioni ecologiste in programma. Il relitto fu identificato a duecento metri di profondità, stranamente nel lago di Vico. Un battiscafo giallo, con a bordo Carlo, suo padre e i quattro Beatles si inabissò e raggiunse il relitto. I sei sub entrarono nuotando nei grandi saloni, nella stiva, nella sala macchine, cercando le casseforti dove erano conservati i preziosi dei passeggeri. Rimasto solo davanti alla porta blindata, Carlo riusciva ad aprirla in tempo per accorgersi che era completamente vuota, mentre la sua collega amante lo raggiungeva da dietro e gli strappava il respiratore. Si vedeva affogare mentre, da sotto, osservava le sagome dei quattro Beatles e del padre risalire in superficie lasciandolo solo.

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Non so quale interpretazione ne diede l’analista, io ritenni centrale il perdere l’ossigeno vitale per mano dell’amante.

Appena sveglio Carlo decise di interrompere il trattamento e, da allora, non fece più una vera e propria psicoterapia.

Con me ripristinò la originaria formula della supervisione, veniva quando ne aveva bisogno, mi parlava di un caso clinico che lo aveva turbato e lo preoccupava, o lo aveva divertito e lo voleva condividere con me.

Ricordo nitidamente gli ultimi tre di cui mi ha parlato. Il primo era un anziano banchiere che aveva perso la testa per la sua badante ucraina e, interdetto dai figli preoccupati per il capitale, aveva fatto perdere le sue tracce per vivere da clochard ad Amsterdam. La seconda era una donna di sessant’anni, con un passato da bella, che improvvisamente aveva avvertito la brevità del tempo rimasto, si era sottoposta a numerose operazioni di chirurgia estetica e, rinnovato il guardaroba, si era offerta con generosità e non pochi rischi a quanti fossero disposti a confermarle la sua desiderabilità: era una maschera dolorosa e grottesca del timore di invecchiare.

La terza era un’adolescente anoressica per la quale concordammo insieme il ricovero che tuttavia giunse troppo tardi. Questa morte riattivò i temi di inadeguatezza, anche professionale, che Carlo aveva sempre covato, l’impressione che aveva era di possedere una superficiale conoscenza di tutte le cose, anche quelle professionali e di riuscire a cavarsela solo mantenendo il discorso ad un livello assolutamente generico. Tale sensazione era particolarmente forte e imbarazzante soprattutto in ambito medico dove lui, a motivo della sua laurea qualcosa avrebbe dovuto pur sapere.

Storie di Terapia #18 - Marino il Ragazzo Prodigio. - Immagine: © kuco Fotolia.com
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Da tempo, ben prima dell’ictus, la morte costituiva per lui un’attrattiva, non come liberazione da chissà quale insopportabile sofferenza, quanto piuttosto come l’attesa conclusione di un’attività faticosa e noiosa. Dopo l’evento, l’attrazione era aumentata proporzionalmente all’incremento della fatica. di vivere la quotidianità, che andava dettagliatamente pensata per programmare i movimenti, prima che agita. Lo tratteneva la paura dell’ignoto, della responsabilità da prendersi nel decidere e il danno, soprattutto economico, che avrebbe comportato per i familiari la sua morte. L’abbraccio umido di Stefania che mi sussurra all’orecchio “hai fatto tutto il possibile” riattiva immediatamente i sensi di colpa che ero riuscito a tenere a freno ripercorrendo mentalmente la storia della nostra relazione.

Nessuno lo saprà mai perché né io né lui ne faremo mai parola ma, non più di venti giorni fa, Carlo mi cercò di nuovo chiedendomi per la seconda volta di fare terapia con me perché diceva di non farcela più. Non gli chiesi di cosa si trattasse perché anch’io non ce la facevo più a sentire i suoi inconcludenti lamenti. Di questo mi rimprovero segretamente, ma nessuno lo saprà mai.

Gli prescrissi una terapia farmacologica pesante dicendo che, a mio avviso, era l’unica strada. In effetti, è proprio con quei farmaci che ha trovato una soluzione che spero gli abbia restituito interezza e autenticità.

 

STORIE DI TERAPIE

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Suicidio? Dieci Buoni Motivi Per non Suicidarsi

 

Dieci Buoni Motivi Per non Suicidarsi. - Immagine: © jun.SU. - Fotolia.comAddolorato e colpito per un commento ad un caso clinico pubblicato su “State Of Mind” che sosteneva tale scritto potesse aggravare il rischio suicidario di persone sofferenti, cerco subito di fare ammenda elencando  buoni motivi per non suicidarsi.

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Ma credo siano soltanto un millesimo di quelli esistenti:

1. La possibilità di non riuscire nell’intento è elevata e ai guai precedenti si aggiungerebbero le lesioni permanenti riportate, un ulteriore esperienza di fallimento e  la vergogna di fronte agli altri.

2. Il suicidio è una soluzione definitiva a problemi transitori  che, se visti in una prospettiva temporale lunga potrebbero apparire banali.

Intervista a Mauruzio Pompili.
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3. Chi vi garantisce che non ci sia una vita successiva in cui continuare a  tribolare e in questo caso in eterno senza più la possibilità di scendere.

4. Il morire in sé, non lo sappiamo, ma potrebbe essere molto doloroso (ricordate il parto?).

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5. Non crediate di ferire coloro che lasciate in questa valle di lacrime, si riprenderanno prontamente e si spartiranno le vostre cose.

6. La maggior parte penserà un matto di meno.

7. Non potete sapere quante cose belle vi perdereste.

8. Succedono talmente tante cose e così impreviste che qui non ci si annoia mai e di là?

9. Ma davvero gli volete dare la soddisfazioni di esservi uccisi? Non fosse altro che per l’INPS…

10. E se per questo finiste all’Inferno? Non si può mai sapere.

11. Se avete deciso di sacrificare la vostra vita ma proprio non la trovate una causa migliore che vi iscriva nella storia? (potrei fornire suggerimenti…)

Cerchiamo piuttosto di godercela giorno per giorno che, come diceva De Andrè, la morte è già tanto attenta che non c’è nessun bisogno di darle una mano. E poi avete idee dell’infinità di cose che non avete mai provato e vi potrebbero piacere da morire (senza ironia): il menù è molto più vasto di ciò che avete assaggiato finora. Infine forse potreste sprecare energie in una cosa inutile: che ne sapete di quel doloretto a destra del fegato o di quella tossettina che non se ne vuole andare. Certo una cosa da nulla….

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SUICIDIO – TRIBOLAZIONI DI ROBERTO LORENZINI

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Prevenire il Declino Cognitivo con i Videogame

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Prevenire il Declino Cognitivo con i Videogame. Fredric Wolinsky ha studiato l’effetto del videogame “Road Tour” sulle funzioni esecutive.

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Con l’avanzare dell’età andiamo inevitabilmente incontro a un certo grado di declino cognitivo: secondo alcuni studi la perdita progressiva delle “funzioni esecutive” comincia al raggiungimento della mezza età, secondo altri studi invece il nostro declino cognitivo inizia già a 28 anni.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Prevenire il Declino Cognitivo: No Farmaci & No Esercizio Fisico!

Le funzioni esecutive stanno alla base della regolazione dei processi di pianificazione, controllo e coordinazione del sistema cognitivo e sono indispensabili nel problem solving di tutti i tipi, dalla soluzione di problemi matematici, all’acquisizione di abilità sociali; inoltre il deficit delle funzioni esecutive è specifico in alcune sindromi, come nell’autismo, nella dislessia, nell’ADHD, ma anche nella schizofrenia e nel disturbo della condotta.

Secondo uno studio condotto alla University of Iowa i tanto incriminati videogame rappresentano un utile strumento di prevenzione del declino cognitivo della mente. Fredric Wolinsky, autore dello studio e professore al UI College of Public Health, ha studiato proprio l’effetto di videogame chiamato “Road Tour” sulle funzioni esecutive di un ampio gruppo di pazienti. Il gruppo era composto da 681 soggetti sani, che sono stati suddivisi in 4 gruppi, ciascuno di questi suddiviso a sua volta per età (50-64 anni e over 65): il primo gruppo doveva risolvere un cruciverba computerizzato, mentre gli altri tre gruppi hanno giocato a “Road Tour”, in cui lo scopo del gioco è identificare un certo veicolo senza lasciarsi distrarre e confondere da altri stimoli che compaiono sullo schermo; l’obiettivo, naturalmente, è quello di aumentare la velocità e l’agilità mentale del giocatore nell’identificare il veicolo target.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: CYBERPSICOLOGIA

 

Durante l’esprimento il gioco comincia con una valutazione per determinare la velocità iniziale di elaborazione: I risultati indicano che i gruppi che hanno giocato almeno 10 ore, a casa o in laboratorio, hanno guadagnato almeno tre anni di miglioramento cognitivo al retest un anno dopo. Un gruppo che ha avuto una formazione aggiuntiva di 4 ore al gioco ha ottenuto risultati addirittura migliori, guadagnando 4 anni di migliorameno cognitivo.

Inoltre chi ha giocato a “Road Tour” ha ottenuto un punteggio di gran lunga migliore rispetto al gruppo “parole crociate” su test di concentrazione, agilità di spostamento da un compito mentale a un altro e la velocità con cui nuove informazioni vengono elaborate.

TECNOLOGIA E PSICOLOGIA

L’allenamento al videogame quindi non solo ha impedito il declino, ma ha anche velocizzato le funzioni esecutive.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

 INTELLIGENZA – TERZA ETA’ – CYBERPSICOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Skinhead: teste rasate, anfibi, bretelle, Oi!, ska music.

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO – FACOLTA’ DI PSICOLOGIA

David Ruben Barbaglia

Skinhead: teste rasate, anfibi, bretelle, Oi!, ska music.

La sottocultura più fraintesa degli ultimi quarant’anni

Tesi di Laurea Magistrale (Relatore: Dott. Tartaglia Stefano – Anno Accademico 2011/2012)  

SKINHEAD

Introduzione

 

“quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?”

Primo Levi

Come ricorda Shakespeare nell’Amleto, attraverso uno dei personaggi della tragedia, Polonio, “Ché l’abito, spesso, fa da spia all’uomo”; sottolineando come la prima impressione o l’aspetto esteriore delle persone sia la prima strategia umana per caratterizzare gli altri. Polonio aggiunge, nella serie di consigli rivolti al figlio Laerte, “non entrare in una lite, ma se ti ci dovessi trovare immischiato, conducila in modo che il tuo nemico debba star lui attento a te”. Il temperamento umano sembra rivolto alla supremazia, a un retaggio animalesco che ci costringe a vivere l’altro, in caso di conflitto, come il nemico da sconfiggere. Se le riflessioni riprese dalla tragedia inglese permettono un delineamento iniziale delle tematiche trattate nella ricerca che seguirà, dall’altra sono frutto anche di un pensiero popolare diffuso che spesso non rappresenta la realtà. Il detto popolare “l’abito non fa il monaco” riprende il pensiero di Polonio, stravolgendolo e ricordando che la prima impressione è spesso fallace. Umberto Eco sottolinea, in un breve saggio dell’inizio degli anni Settanta dal titolo “L’abito parla il monaco”: «Chi ha fatto la mano ai problemi attuali della semiologia non può più annodarsi la cravatta, la mattina davanti allo specchio, senza avere la netta sensazione di fare una scelta ideologica: o, almeno, di stendere un messaggio, in una lettera aperta ai passanti e a coloro che incontrerà durante la giornata»(Eco, 1972, p.7), tornando a delineare un percorso circolare dove l’abito può “non fare il monaco” o “far da spia all’uomo” ma comunque l’ “abito” che indossiamo in qualche modo comincerà a rappresentarci, o tenderà a trasformare il nostro modo di approcciarci al mondo. Dal momento che i codici legati ai vestiti, o più in generale all’ “abito”, esistono ma sono sovente deboli, cioè essi mutano velocemente ed è difficile stenderne i relativi ‘dizionari’, il codice và spesso costruito sul momento, nella situazione data, inferito dai messaggi stessi (Eco, 1972). Per codificare i messaggi che vengono mandati con gli “abiti” occorre prestare, in primo luogo, la massima attenzione alle coordinate spazio-temporali. Verrà usato il termine “abito” tra virgolette per definire non solo il vestiario ma per allargare il concetto alla descrizione della comunicazione non verbale che si può cogliere nell’incontro con l’Altro. In un contesto dove “non si può non comunicare”, come teorizzò Watzlawick (1967), limitare la lettura al solo vestiario è riduttivo e si allontana dall’interesse psicologico e sociologico della ricerca. Allargare il campo di ricerca agli atteggiamenti, al portamento, alla mimica, legati ad un vestiario particolare, rende l’oggetto di studio più completo. Un esempio è sicuramente il film diretto da Stanley Kubrick , Arancia Meccanica1, dove lo studio delle bande giovanili che in quegli anni crearono tensioni e paura a Londra, servì per estrapolare un modello di giovane violento che avesse una divisa caratteristica ma anche uno modus vivendi e operandi che potesse rappresentare l’”abito” del giovane violento prototipico degli anni Settanta. Il Drugo diventa, in questo modo, facilmente riconoscibile dagli altri, creando una sorta di reverenza e timore nei suoi confronti; dall’altra faccia della medaglia, indossato l’abito da Drugo, il ragazzo incarna e fa proprio lo stile di vita del giovane violento. La lettura del contesto sociale prevede, per correttezza, che si usi una logica circolare e non di causalità lineare, ormai superata nel campo della ricerca. L’oggetto A non influenza l’oggetto B in maniera univoca ma ne viene influenzato nel momento stesso in cui ne viene a contatto. Questa teoria, tratta dalla teoria dei sistemi (Bertalanffy, 1983), è fondamentale per analizzare un tema complesso. Se, da un parte, la regola è chiara per chi si immerga nel sociale con scopi di studio, dall’altra, l’approcciarsi alla “realtà sociale” costringe il ricercatore a semplificare alcuni eventi al fine di poterne dare una lettura che porti un senso. Per completare il concetto di “abito” è necessario analizzare anche il concetto di violenza, cioè i due temi presentati in incipit attraverso la tragedia shakespeariana. La tesi che presenteremo tratta della sottocultura skinhead. L’interesse nasce dalla percezione che esistano due mondi differenti, l’uno presentato dai mass-media e dall’immaginario comune, l’altro dall’incontro vis à vis con alcuni appartenenti alla sottocultura in esame. Soprattutto la figura del “naziskin”, fortemente presente nell’immaginario collettivo grazie ad una campagna mediatica martellante, è il rappresentante di un movimento sotto culturale, è l’unità che rappresenta un tutto, o è un’unità marginale, estrema, che è stata predestinata a diventare rappresentante di un tutto? L’interesse della ricerca è immergersi nel mondo Skinhead per cercare di riemergere con un’idea più chiara su cosa l’ “abito” skinhead rappresenti e su come tale “abito” conduca o sia rappresentativo di una realtà violenta e aggressiva.

La ricerca è frutto di un anno di interviste e partecipazione ad eventi della cultura Skinhead (concerti, manifestazioni, domeniche allo stadio, presentazioni di documenti o saggi da parte di ex esponenti del movimento, serate in birreria, etc.) ma è anche figlia di un percorso molto più ampio che vede gli autori della ricerca intrecciare il proprio percorso di vita con alcuni esponenti del movimento. L’interesse e lo stimolo per iniziare la ricerca nasce dalla sensazione che socialmente ci sia un fenomeno di etichettamento verso il movimento skinhead, che lo identifica come violento e razzista. L’impressione di partenza, rilevata nell’incontrare skinhead prima dell’inizio della ricerca, è che la violenza e il razzismo non fossero rappresentativi dell’intera categoria. Il lavoro di ricerca si è sviluppato in due lavori di tesi, uno dei quali è stato affrontato dal collega Marco Bertolino nell’elaborato “Are the kids united? Costruzione dell’identità nella sottocultura skinhead”. La ricerca qui presentata si pone come obiettivo la costruzione di una narrazione della nascita del movimento skinhead in Italia che cerchi di cogliere le sfumature e il complicato intreccio di fattori che compongono una forma sottoculturale specifica.

La tesi che segue è suddivisa in una parte teorica iniziale dove si analizza il concetto di cultura , di sottocultura, di stile, di devianza e il rapporto tra mass-media e sottoculture attraverso un’ottica sociologica e antropologica. Uno spazio particolare è riservato all’intervento della psicologia dinamica all’interno del dibattito sulla devianza.

In seguito è inserito un capitolo dedicato alla psicologia applicata ai contesti culturali e sottoculturali. Abbiamo scelto l’approccio della psicologia culturale, in particolare nelle figura di Jerome Bruner, come ramo della psicologia che meglio possa confrontarsi con una ricerca che indaghi un ambito culturale. Parallelamente, analizzando contesti sottoculturali dove l’identità dell’individuo viene plasmata e modificata anche grazie al rapporto con il gruppo dei pari, abbiamo analizzato brevemente il concetto di identità e il concetto di gruppo in psicologia.

Il terzo capitolo presenta la metodologia di ricerca. Vengono illustrati i motivi per cui si è scelto di adottare un approccio qualitativo di tipo etnografico, ad eccezione del lavoro di ricerca sui quotidiani che è di tipo quantitativo. In particolare viene sottolineata la necessità di adottare uno sguardo di tipo fenomenologico, dove lo studio dell’essere umano acquista senso solo se quest’ultimo viene osservato nel proprio tempo, in uno spazio preciso occupato dalla propria corporalità che è in relazione con persone e contesti. Si è cercato di sottolineare il profondo rispetto che è richiesto ad un ricercatore, nel momento in cui si appresta a studiare altri esseri umani, nel valutare e interpretare le scelte dell’altro. Il terzo paragrafo del capitolo è dedicato alla presentazione del lavoro di ricerca svolto per l’opera presentata.

Il quarto capitolo tratta le origini della sottocultura skinhead attraverso una ricerca bibliografica che permette di presentare il fenomeno nel suo nascere e svilupparsi in Inghilterra. La seconda parte del capitolo si focalizza sullo sviluppo delle tendenze razziste di destra da parte di una certa frangia del movimento e della loro diffusione dall’Inghilterra verso l’Europa continentale.

Il quinto capitolo racchiude lo studio e l’analisi del materiale raccolto tramite interviste biografiche somministrate ad esponenti del movimento skinhead.

Il sesto capitolo si focalizza sulle fonti secondarie: la presenza delle parole “skinhead” e “naziskin” negli articoli di quattro quotidiani nazionali e la musica skinhead, ossia un’analisi che confronta i testi delle canzoni prodotte da band facenti parte di diverse aree del movimento.

Il settimo capitolo apre la discussione per cercare, attraverso il materiale ricavato dalla ricerca, di sottolinearne i punti di incontro e di distacco tra le possibili fazioni all’interno del movimento e di osservare i fenomeni identitari intervenuti nella nascita della sottocultura esaminata. La discussione permetterà di confrontare il materiale teorico presentato nei primi due capitoli con le narrazioni ottenute tramite la raccolta delle fonti.

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ArmoniosaMente: Intervista a Gioacchino Pagliaro

 

ArmoniosaMente: Intervista a Gioacchino PagliaroArmoniosaMente prevede l’uso di tecniche meditative basate sui principi del modello Mente-Corpo, rivolto a gruppi di donne affette da tumore alla mammella.

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La prima volta che sono entrata nel reparto di Psicologia Clinica Ospedaliera del Dipartimento Oncologico dell’AUSL di Bologna sono subito rimasta colpita dall’attenzione per il dettaglio e dalla cura del contesto: la musicoterapia, l’aromaterapia, le immagini proiettate sulla pareti, il giardino zen, mi sono sentita accolta, l’ambiente caldo e rassicurante che trasmette tranquillità e sensazioni positive.

Ho pensato a come potesse sentirsi un paziente che arriva in quel reparto, un paziente spesso affaticato dal decorso della malattia, e ho pensato a quanto anche questa attenzione potesse far parte del prendere in carico e del processo di cura, e di come possa avere effetti positivi sul percorso di supporto e di benessere dell’individuo. Su questi temi e sul protocollo ArmoniosaMente mi sono confrontata con il Dott. Pagliaro direttore dell’Unità Operativa.

Il protocollo ArmoniosaMente è un progetto attivo dal 2003 che prevede l’utilizzo di tecniche meditative basate sui principi del modello Mente-Corpo, rivolto a gruppi di donne affette da tumore alla mammella con trattamento in corso.

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– INTERVISTA –

SoM: Ci racconta brevemente come viene strutturato il protocollo ArmoniosaMente, come vengono inviate e selezionate le pazienti, quanti incontri, quali gli obiettivi principali?

Il Tong Len ai Banchi di Partenza - Intervista al Dott. Pagliaro. - Immagine: © byheaven - Fotolia.com
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GP: ArmoniosaMente si basa su due aspetti che nel corso degli anni l’evidenza scientifica ha evidenziato come basilari nell’efficacia di ogni pratica inerente la salute: la corretta informazione sanitaria sugli stili di vita e le pratiche meditative. Il particolare disagio psicologico e psicopatologico della persona che si ammala di tumore, caratterizzato da senso di precarietà e vulnerabilità, ansia depressione e panico, fa emergere con chiarezza l’importanza che una corretta informazione possa svolgere nel creare una forte adesione del paziente alle cure mediche e nel dargli fiducia in quello che sta facendo. Per tale motivo il protocollo è stato denominato ArmoniosaMente in quanto ha l’obiettivo di agire sulla dimensione mentale offrendo alle pazienti una specifica informazione sanitaria e una pratica meditativa che consente di aiutare la mente a stimolare il potenziale di guarigione che ogni persona ha rendendo, così, le cure più efficaci.

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ArmoniosaMente nel caso del tumore alla mammella è rivolto a donne in cura che vengono raggruppate in gruppi di al massimo 15 pazienti, ognuno di questi gruppi partecipa a 11 incontri a cadenza settimanale della durate di 2 ore ciascuno. I primi 6 incontri riguardano la parte informativa sull’educazione alla salute e sul corretto stile di vita, e sono tenuti da tutti gli specialisti oncologi che il paziente incontra nel suo percorso di cura. Il primo incontro è tenuto dal senologo che si confronta con le pazienti nel presentare il suo ambito di competenza, il secondo incontro è tenuto dal chirurgo che presenta alle donne le varie tipologie di intervento chirurgico, il terzo dall’oncologo che illustra i tipi di trattamenti, il quarto dal radioterapista che presenta l’importanza di questo tipo di trattamenti, il quinto dal dietista dietologo che parlano dell’importanza dell’alimentazione nel pz oncologico, il sesto e ultimo incontro è condotto da un medico specialista dello sport che spiega l’importanza di una equilibrata attività motoria nel prevenire le ricadute nella malattia. In ognuno di questi incontri le pazienti hanno la possibilità di confrontarsi con lo specialista, di fare domande e di tornare a casa sentendo di avere maggiore consapevolezza e padronanza di quello che stanno e che dovranno affrontare. Nei restanti incontri vengono insegnati alle partecipanti alcune tecniche di meditazione e visualizzazione. In linea generale gli obiettivi che ci siamo proposti sono essenzialmente tre:

  1. Offrire alle pazienti una corretta informazione sul tumore alla mammella e sui trattamenti conseguenti;
  2. Insegnare a controllare le reazioni emotive per gestire al meglio lo stress;
  3. Sviluppare un atteggiamento mentale fiducioso nei confronti della cura, per mobilitare le risorse interne di guarigione.

 SoM: Quali sono le principali difficoltà che portano le donne a cui vengono insegnate le tecniche di meditazione, e in che modo lei cerca di risolverle?

GP: Le principali difficoltà sono legate ai timori tipici della malattia e al rischio delle ricadute e alla paura di morire, a cui si aggiunge lo stress legato alla specificità del percorso di cura. Il protocollo ArmoniosaMente grazie all’utilizzo della meditazione è un’ottima risposta perché oltre a fornire al gruppo di donne degli strumenti pratici da utilizzare per la gestione dello stress permette a loro anche di condividere le diverse esperienze nel percorso di cura, normalizzandone i vissuti.

SoM: Quali sono i benefici che con questa pratica lei ha potuto riscontrare nelle pazienti che hanno partecipato a questo progetto?

GP: I benefici del protocollo ArmoniosaMente sono facilmente descrivibili in quanto sono delle costanti che emergono da oltre 1200 pazienti che nel corso di questi anni lo hanno utilizzato e sono: gestione dello stress, trattamento dell’ ansia e della depressione, gestione della paura, aumentato senso di fiducia nelle terapie, atteggiamento di speranza ed una maggiore consapevolezza e capacità di affrontare le difficoltà. 

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La meditazione Tong Len e il paziente oncologico. - Immagine: © Rido - Fotolia.com
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SoM: Quali sono le evidenze scientifiche dell’efficacia della meditazione in oncologia?

GP: Le principali evidenze scientifiche che si sono verificate sull’efficacia della meditazione in oncologia oltre al trattamento dei disturbi psicologici psicopatologici sopracitati, che sono reattivi alla patologia tumorale, sono quelle di un azione di contenimento della nausea, della fatica, della stanchezza, del vomito come effetti collaterali di chemioterapia e radioterapia ed anche una importante azione di contenimento del dolore secondario alla patologia oncologica stessa.

SoM: Questo “protocollo” viene applicato solo in oncologia o ci sono altri campi di applicazione all’interno dell’AUSL di Bologna?

GP: Questo protocollo viene utilizzato anche in cardiologia e in neurologia con pazienti con fase iniziale di sclerosi e con fase iniziale di atassia.

Il protocollo di ArmoniosaMente è uno degli interventi più completi, ad oggi, nel campo della meditazione in oncologia ed attualmente viene insegnato attraverso uno specifico corso organizzato dell’Ausl di Bologna, sotto la supervisione del Dott. Pagliaro, in cui vengono formati sia medici che psicologi.

Rimane comunque importante sottolineare che tutti i pazienti in carico all’Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’ Ospedale Bellaria possono apprendere nel corso della presa in carico individuale tecniche di  meditativa e visualizzazione.

 

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MEDITAZIONE – MINDFULNESS – ACCETTAZIONE DELLA MALATTIA – ANSIA & DEPRESSIONE 

 

Saviano, la Coca e un Pizzico di Paranoia

 

Saviano, la Coca e un Pizzico di Paranoia
Roberto Saviano, Zero Zero Zero, Feltrinelli (2013). Copertina

Ho fatto l’errore di leggere il primo capitolo di sera, prima di andare a letto, tra l’altro a stomaco vuoto.

Si intitola Coca # 1 e rivela come il consumo della polvere bianca sia epidemico anche nel nostro Paese, elencando una lunga lista di insospettabili consumatori, ognuno mosso da motivazioni diverse, che non risparmia psicologi, medici di base, oncologi, ginecologi, parroci, infermieri, ebanisti, istruttori di equitazione, amministratori di condominio, etc.

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Circa due settimane fa ho comprato il nuovo libro di Saviano Zero Zero Zero (Feltrinelli, 2013), che ha come protagonista la cocaina e il suo mercato a livello internazionale.

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Ho fatto l’errore di leggere il primo capitolo di sera, prima di andare a letto, tra l’altro a stomaco vuoto.

Si intitola Coca # 1 e rivela come il consumo della polvere bianca sia epidemico anche nel nostro Paese, elencando una lunga lista di insospettabili consumatori, ognuno mosso da motivazioni diverse, che non risparmia psicologi, medici di base, oncologi, ginecologi, parroci, infermieri, ebanisti, istruttori di equitazione, amministratori di condominio, etc.

La cocaina, Freud e la lezione dei maestri. - Immagine: licenza Creative Commons, Autore: http://www.flickr.com/photos/ajourneyroundmyskull/
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Partendo dal presupposto che cerco di non andare alle riunioni di condominio, usufruendo di quella grande conquista della democrazia che è la delega al caposcala, ho subito pensato che la categoria degli amministratori di condominio fosse senz’altro una di quelle più a rischio; una persona normale non può di certo trascorrere cinque sere a settimana facendo da parafulmine alle proiezioni e alle frustrazioni di decine di famiglie, senza assumere qualcosa di veramente forte. Non sarebbe umano. Cullato da questa riflessione sociologica, ma turbato dal dubbio rispetto agli ebanisti e agli istruttori di equitazione, mi sono addormentato.

La mattina successiva ho preso l’autobus per andare al lavoro e ho cominciato a fissare l’autista chidendomi: avrà riposato bene stanotte? Avrà fatto gli straordinari? Non è che per caso si è fatto una pippatina, per non sentire i crampi della cervicale? Spaventato da questa ipotesi, sono sceso alla prima fermata e ho chiamato un taxi.

Il taxista sembrava un tipo silenzioso, non di quelli che ti chiamano Dotto’ e iniziano a parlare di calcio e di politica. Buon segno, ho pensato, e mi sono rilassato immergendomi nella lettura di un quotidiano. Al primo incrocio una vecchietta è passata col rosso e il taxista è esploso in un’invettiva pazzesca, con parole davvero irripetibili, non solo contro la vecchietta, ma anche contro la categoria degli anziani in genere, che dovrebbero stare tutti chiusi nei pensionati e nelle case di riposo.

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La reazione del tassinaro mi ha davvero colto di sorpresa, all’inizio sembrava così calmo! Ma non era finita lì. Un minuto dopo l’ha chiamato al cellulare un amico, che deve avergli raccontato una storiella molto divertente, perchè ha cominciato a ridere in modo sempre più sguaiato, arrivando a lacrimare e a dare delle botte tremende al volante, finchè non gli ho ordinato di fermarsi e sono sceso.

Vuoi vedere che Saviano aveva ragione? Questi stati emotivi amplificati non possono non nascondere un qualche candido segreto.

Sempre più insospettito, sono entrato in un bar e ho ordinato un caffè, domandandomi se non facesse parte di quei quintali di caffè trasportati sulle autostrade dai camionisti, che notoriamente usano la defaticante sostanza per tenersi svegli durante le interminabili notti in autostrada. Ho deciso di non mettere lo zucchero, perchè cominciavo ad avvertire una sorta di  repulsione verso le sostanze bianche, anche se in forma di granelli. In quel momento la mia attenzione è caduta su un baffo del barista, che mi pareva leggermente impolverato. Potrebbe essere zucchero a velo, ho pensato.

Sono buoni i bomboloni? Ho chiesto per chiarire il dubbio.

Magari potessi mangiarli…sono diabetico. Ha risposto il barista.

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Andiamo bene, cocainomane e pure diabetico. Sono andato un attimo alla toilette e, mentre mi lavavo le mani, mi sono specchiato. Ero più pallido del solito, con delle brutte occhiaie. Quando sono uscito per prendere la borsa, ho avuto l’impressione che si fosse leggermente spostata, rispetto a dove l’avevo lasciata. Vuoi vedere che un narcotrafficante ci ha infilato dentro un po’ di roba? Ho dato una rapida occhiata al bancone, dove due poliziotti sorseggiavano un cappuccino. Potrebbero essere stati loro, magari con la bamba recuperata nella retata di ieri notte. Probabilmente avevano bisogno di un pisquano come me da incastrare.

Tiziano Terzani.
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Sono uscito rapidamente dal bar e mi sono incamminato verso la clinica dove lavoro. Il portinaio mi ha salutato con una voce insolitamente nasale, e non ho pensato che avesse il raffreddore o che fosse allergico ai pollini primaverili, vista la stagione, ma che ieri sera avesse tirato.

Davanti al mio studio mi aspettava il solito informatore farmaceutico, tutto ben vestito e pettinato e con un sorriso Durbans a trentasei denti (non gli avevano neanche tolto quelli del giudizio). Nonostante Saviano non parli degli informatori farmaceutici nel suo capitolo, mi è venuto spontaneo chiedermi come diavolo fosse possibile essere così di buon umore alle otto e venti del mattino, per giunta in tempi di crisi.

L’ho pregato di attendermi un attimo. Sono entrato in studio e ho telefonato all’infermiera in guardiola, tormentato dal dubbio che anche lei avesse fatto uso di coca, visto che aveva fatto la notte.

Buongiorno dottore, mi dica. 

Ehm…buongiorno. Le dispiacerebbe portarmi un bicchiere d’acqua con dieci gocce di Serenase?

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DROGHE & ALLUCINOGENI –  DIPENDENZE –  LETTERATURA

Il favoloso mondo di Amélie – Cinema & Psicoterapia #3

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #03

Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain)(2001)

Proposte di visione e lettura (Coratti, Lorenzini, Scarinci, Segre, 2012)

Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett  (2001). Locandina
Il favoloso Mondo di Ameliè. Jean-Pierre Jeunett (2001). Locandina

La storia di vita di Amélie non l’ha facilitata nell’acquisire abilità sociali e l’evitamento delle relazioni diventa una strategia per non essere rifiutati.

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INFO:

Film scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet ed interpretato da Audrey Tautou e Mathieu Kassovitz. Commedia. Francia 2001.

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TRAMA:

Amélie cresce in una famiglia composta da un padre medico molto originale e una madre nevrotica che muore in giovane età per un incidente. Il clima familiare è freddo. Il padre scambia le sue manifestazioni affettive per anomalie cardiache, il suo batticuore nelle rare volte che gli si avvicina per tachicardia. La bambina vive isolata, non frequenta la scuola, con l’unica presenza della madre, finché viva. In questo contesto persino il pesce rosso tenta in continuazione il suicidio.

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Amélie, diventata una ragazza, si trasferisce a Parigi dove lavora come cameriera. Il giorno della morte di Lady Diana ritrova una scatoletta, che contiene dei giocattoli, dei piccoli ninnoli e varie cianfrusaglie. Si mette così alla ricerca del proprietario, di chi molti anni prima aveva nascosto quella piccola scatola dietro una piastrella del muro.

Lo trova, gli restituisce il “ricordo” e rimane talmente colpita dalla reazione dell’uomo che decide di dedicare il suo tempo a “rimettere a posto le cose” che non vanno nelle vite delle persone che le stanno vicino. 

 

Il Malato Immaginario. Locandina
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MOTIVI DI INTERESSE:

Amélie presenta un sé inadeguato, sollecita emozioni di pena e tenerezza. Procacci e Popolo (2003) illustrando la fenomenologia del disturbo evitante di personalità la descrivono così: “Questa ragazza è introversa, sensibile, attenta agli altri. Incapace di comunicare per imbarazzo e facilità alla vergogna, tende a fantasticare e a rimanere sola, limita i rapporti con gli altri allo stretto necessario”.

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In effetti la ragazza ha difficoltà ad avvicinare i suoi interlocutori e molte scene del film rimandano un senso di inadeguatezza e il timore di essere esclusa con il quale la protagonista si confronta. La storia di vita di Amélie non l’ha facilitata nell’acquisire abilità sociali e l’evitamento delle relazioni diventa una strategia per non essere rifiutati. La scena del bistrot dove lavora da cameriera e dove dopo una serie di peripezie senza esporsi riesce ad incontrare un ragazzo di cui si è invaghita, è esemplificativa del ciclo disfunzionale degli evitanti. Amélie, in presenza del ragazzo, si trincera dietro la vetrina, nega di essere la ragazza che l’ha cercato, evita di svelarsi in un impaccio crescente.

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L’attenzione in questi pazienti è centrata sugli stati interni che non vengono regolati, anzi temuti perché possono manifestare l’inadeguatezza e quindi attirare il giudizio negativo e il rifiuto. Naturalmente il deficit di monitoraggio e di decentramento generano il timore della perdita di controllo che aumenta la probabilità di suscitare negli altri reazioni negative. 

INDICAZIONI PER L’USO:

Il meraviglioso mondo di Amélie è indicato sia in fase di assessment che in fase di trattamento del disturbo evitante di personalità. Ottimo a fini didattici. 

 

LEGGI:

CINEMA – DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’uomo e l’ Empatia verso i Robot – Neuropsicologia

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Empatia: Le persone hanno attivazioni cerebrali simili nel momento in cui vedono atti di affetto o di violenza rivolti a robot e a persone in carne e ossa.

 

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Un recente studio condotto dai ricercatori della University of Duisburg Essen in Germania ha scoperto che le persone hanno attivazioni cerebrali simili nel momento in cui vedono atti di affetto o di violenza rivolti a robot e a persone in carne e ossa.

rassegna stampa
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In un primo studio 40 partecipanti hanno guardato un video in cui un robot a forma di dinosauro veniva coccolato o maltrattato; in relazione a tali stimoli sono state misurate le attivazioni fisiologiche, indagando parimenti le emozioni soggettivamente percepite dai soggetti.

I soggetti hanno riportato emozioni negative e un maggior arousal nel vedere video in cui il robot veniva maltrattato.

 

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Un secondo studio ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per indagare le attivazioni cerebrali dell’interazione uomo-robot. Ai soggetti sono state presentati video in cui un umano o un robot venivano trattati in modo affettivo oppure maltrattante.

 

Dai risultati è emerso che in entrambi i casi vi sarebbero pattern di attivazione cerebrale simili che coinvolgono il sistema limbico, anche se più intensi nella condizione di maltrattamento dell’umano.

 

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Se gran parte delle ricerche nell’ambito dell’interazione uomo-macchina e dell’affective computing si focalizzano sull’implementazione di modelli emotivi all’interno di computer e robot, minor attenzione è invece posta sulla percezione soggettiva che gli umani hanno di oggetti inanimati robotici e sulla reazione emotiva degli individui nei confronti di questi dispositivi.

LEGGI:

NEUROPSICOLOGIA  – EMPATIA –  VIOLENZA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Otello e le Aree del Cervello della Gelosia

 

Otello e le aree del cervello della gelosia

Oh guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro

Dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre.

Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte,

non ama la donna che lo tradisce:

ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta

e si strugge d’amore”

Iago ad Otello

 

Gelosia: molto attuale il tema della gelosia e degli agiti aggressivi che si possono compiere accecati dalla “follia d’amore”

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"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
Articolo consigliato: La gelosia: patologia o amore vero?

I quotidiani, i telegiornali i fatti di cronaca ci riportano spesso tragedie, episodi violenti e macabri il cui motore apparente è la gelosia, l’estrema gelosia l’ossessione d’amore o di dis-amore.

Dalla semplice scenata di gelosia allo stalking all’ossessione fino all’omicidio passionale in un continuum di follia, in un escalation senza fine.

Il profilo del geloso compulsivo si traccia immaginando un soggetto che vive in una realtà propria, un mondo parallelo costruito interamente su una rete di dubbi sulla possibile infedeltà del partner che pian piano da semplici sospetti si tramutano in un’irremovibile certezza dell’infedeltà anche senza reali e oggettivi motivi e situazioni di cui sospettare nel mondo “reale”.

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La gelosia è un sentimento complesso caratterizzato dalla percezione di una minaccia di perdita che include componenti affettive, comportamentali e cognitive. Tre sono le caratteristiche fondamentali del “geloso patologico”:

Crede che la relazione con l’amato sia l’unica cosa che abbia importanza nella propria vita;

Interpreta male l’innocenza dei comportamenti, dei pensieri e dei sentimenti dell’amato, leggendo tutto in una chiave di continua sospettosità;

Percepisce la potenziale perdita dell’amato come un evento assolutamente catastrofico per la propria vita

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 La frequenza dei fatti di cronaca, l’importanza sul piano sociale ed antropologico dei delitti passionali ha portato il mondo delle neuroscienze a chiedersi se esistono particolari aree cerebrali che si attivano nei gelosi patologici.

 I ricercatori dell’Università di Pisa hanno pubblicato sulla rivista Cns Spectrums i risultati di un loro studio in cui viene identificata una specifica area cerebrale responsabile dei comportamenti tipici dello stalker, e del “geloso patologico”: in particolare evidenziano come il cervello di chi fa della gelosia un’ ossessione sia programmato per assumere atteggiamenti impulsivi e fuori dal controllo razionale.

Sotto la guida di Donatella Marazziti, docente al Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa, i ricercatori hanno condotto uno studio i cui risultati ci evidenziano che le “origini” neuronali della “Sindrome di Otello” si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, area del cervello che sovraintende complessi processi cognitivi e affettivi, area per cui passa l’idea della persona amata e la catastrofica idea del suo abbandono.

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Abbiamo elaborato un modello teorico– spiega Donatella Marazziti- basato sull’osservazione clinica dei pazienti affetti da schizofrenia, alcolismo e morbo di Parkinson nei quali sono molto comuni le manifestazioni di gelosia delirante. L’indagine empirica delle basi neurali della gelosia è solo all’inizio e ulteriori studi sono necessari per chiarirne le radici biologiche“.

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Se infatti la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. La speranza– conclude Donatella Marazziti- è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti potenzialmente a rischio

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La gelosia – ha spiegato Marazziti – ha attirato a lungo sia l’interesse degli psichiatri, sia quello degli psicologi. E’ stata anche nascosta sotto classificazioni più ampie di problemi come la depressione, i disturbi ossessivo-compulsivi o la paranoia. La nostra ricerca dimostra che merita davvero di essere considerata una categoria a se stante – soprattutto nella sua forma estrema in cui provoca comportamenti terribili come lo stalking o porta le persone al suicidio o all’omicidio. Vorremmo essere in grado di comprenderla abbastanza bene per essere capaci di controllare le sue forme più estreme”.

Questo studio potrebbe aprire la strada a future ricerche, così da poter identificare precocemente soggetti a rischio, ma anche trovare una farmacoterapia possibile per il controllo di questi comportamenti impulsivi e drammatici.

È tutta colpa della luna,

quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti

(Otello)

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La Sudorazione nei Bambini: Indice di Aggresivita’?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I bambini dell’età di un anno che presentano minori livelli di sudorazione in risposta a situazioni ansiogene e spaventose mostrerebbero maggior aggressività verbale e fisica all’età di tre anni.

 

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La Vulnerabilità all'ansia del bambino. - Immagine: © deber73 - Fotolia.com
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In una ricerca pubblicata su Psychological Science è stato ipotizzato che i bambini aggressivi potrebbero esperire in modo meno intenso situazioni paurose rispetto ai loro pari meno aggressivi e dimostrare maggiori comportamenti aggressivi.

 

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I ricercatori hanno misurando i livelli di conduttanza cutanea dei bambini all’età di un anno in diverse condizioni ansiogene e di controllo; in uno studio longitudinale hanno poi raccolto dati  (basati su self-report delle madri) riguardo i loro comportamenti aggressivi all’età di tre anni.

I risultati dimostrano che i bambini di un anno con minori livelli di conduttanza cutanea nella condizione di controllo e nella condizione ansiogena erano poi più aggressivi fisicamente e verbalmente all’età di tre anni rispetto ai bambini con maggiori livelli di conduttanza cutanea.

 

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Altre variabili tra qui la percezione materna di aspetti temperamentali dei bambini non sono risultate altrettanto predittive dei comportamenti aggressivi a tre anni quanto il livello di conduttanza cutanea nelle situazioni ansiogene.

Attenzione però a non sbilanciarsi su implicazioni eccessivamente speculative e deterministiche su interventi mirati alla prevenzione dell’aggressività  in funzione dell’unico indice di conduttanza cutanea.

LEGGI:

ANSIA – PAURA – BAMBINI

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Realtà Virtuale: Nuove Frontiere della Terapia Cognitivo-Esperienziale

di Eugenia Andreoni, Giuseppe Acerra & Federica Rossi 

 

Realtà Virtuale: Nuone Frentiere della Terapia Cognitivo-Esperienziale. - Immagine: © violetkaipa - Fotolia.comLa realtà virtuale in psicoterapia consente di partecipare attivamente al riconoscimento e alla consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri.

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É noto come un film, un racconto per immagini, una foto abbiano, a differenza della parola, un impatto immediato e maggiore sulla nostra sfera emotiva, quindi sull’apprendimento. Quando si parla di realtà virtuale (VR) ci troviamo davanti a qualcosa di più:un ambiente tridimensionale generato dal computer, in cui i soggetti interagiscono tra loro e con l’ambiente, come se fossero realmente al suo interno (Riva, 2007).

La realtà virtuale è considerata una sofisticata interfaccia comunicativa, in cui l’utente sperimenta il ‘senso di presenza’: “l’esserci, cioè la sensazione di essere all’interno del mondo sintetico generato dal pc” (Riva, 2009). Secondo Antinucci (1998) “la realtà virtuale permette di conoscere il mondo mediante un apprendimento di tipo senso motorio, più naturale nell’essere umano, rispetto all’apprendimento di tipo simbolico- ricostruttivo, mediato dal linguaggio e dalla scrittura“. La storia di questo strumento in ambito medico ha inizio quando, nel 1989, Jaron Lanier coniò il termine ‘Virtual Reality’ e fondò la Prima Compagnia di Ricerca sulla realtà virtuale, la VPL Research. Nel giro di un paio di anni, l’utilizzo di questo mezzo fu esteso al campo della psicologia, e furono pubblicati i primi articoli delle ricerche sull’utilizzo della realtà virtuale all’interno dell’assessment e di protocolli di trattamento psicologici (Rothbaum et al. 1995; North, North & Coble, 1997).

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Una ricerca sulla banca dati EBSCO nella collezione ‘Psicologia e Scienze del Comportamento’ con la parola chiave ‘virtual reality’ riporta 2 articoli fino al 1990, 29 al 1995, 135 al 2000, 454 al 2005 e 859 a oggi.

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A proposito di concretezza, cosa intendiamo nello specifico parlando del mezzo realtà virtuale? La strumentazione base è costituita da un pc con software dedicato a scenari 3D al quale collegare:

  • un joy-pad;
  • un dispositivo di visualizzazione (casco o occhialini);
  • uno o più sensori di posizione e di movimento (tracker).

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Grazie a questi strumenti si può parlare di realtà virtuale immersiva, la quale permette al soggetto di provare un senso di assorbimento sensoriale nell’ambiente tridimensionale. La realtà virtuale consente pertanto di sperimentare un rilevante coinvolgimento grazie al ‘senso di presenza’ provato all’interno degli scenari virtuali, e costituito da:

  • proto presenza: possibilità di movimento corporeo e interazione;
  • presenza nucleare: percezione di un ambiente vivido;
  • presenza estesa: percezione di elementi significativi per il soggetto.

Le caratteristiche di funzionamento del mezzo possono essere assunte in tre punti:

  1. Il soggetto immerso nello scenario virtuale osserva fenomeni e comportamenti;
  2. Può intervenire con la propria azione all’interno della scena;
  3. Può osservare in loco gli effetti dei propri comportamenti e modificarli nuovamente, considerando via via le diverse conseguenze.

Così facendo possono ripetersi cicli di percezione e azione, ciascuno operante sul risultato dell’altro. La conoscenza e il cambiamento si ottengono dal fare esperienza nel qui e ora.

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La principale opportunità offerta dalla realtà virtuale all’interno di un percorso psicoterapico consiste, pertanto, nella possibilità di partecipare attivamente al riconoscimento e alla presa di consapevolezza di pensieri, emozioni e comportamenti propri, in situazione.

 È questo uno dei vantaggi della realtà virtuale, ma anche il punto di condivisione con la terapia cognitivo-comportamentale: la visione del paziente come attivo costruttore della propria esperienza, e quindi del cambiamento. Posti a confronto con i tradizionali protocolli terapeutici, gli interventi con ambienti virtuali mostrano numerosi punti a favore.

I vantaggi possono essere identificati in tre principali possibilità innovative:

  • lo psicoterapeuta può realizzare l’assessment in situazione con il paziente, costruendo la gerarchia degli stimoli ansiosi all’interno degli scenari virtuali, per poi pianificare ed effettuare programmi di desensibilizzazione, esponendo il soggetto all’interno di ambienti virtuali protetti (Riva, 2007, 2008).
  • Le diverse componenti dell’ambiente virtuale sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, così da consentirgli di stabilire, di volta in volta, quale grado di difficoltà presentare al paziente, in relazione alla valutazione di tempi e progressi.
  • Lo svolgimento delle attività in ambienti virtuali permette al terapeuta di trattare nell’immediato il disputing sulle credenze disfunzionali, più accessibili e vivide durante l’esposizione piuttosto che in un colloquio classico.
Psicoterapia Online- una nuova Modalità di Supporto. Intervista al Prof. Pim Cuijpers. - Immagine:© Uwe Annas - Fotolia.com
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Un limite può consistere nei tempi di attuazione dell’intervento, più lunghi, ma a favore di un apprendimento in profondità e quindi più a lungo termine.

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Differenti review e meta-analisi hanno considerato gli studi condotti su fobie specifiche, tra le quali, in particolare, la paura di volare, l’agorafobia, la paura di guidare, la claustrofobia, la paura dei ragni. Vi sono inoltre evidenze circa l’efficacia di questa metodologia nel trattare differenti disturbi psicologici (Wiederhold & Wiederhold, 2001; Parson & Rizzo, 2008) in particolare il Disturbo da Attacco di Panico con o senza agorafobia (Vincelli e Riva, 2002, 2007) e Disturbi del Comportamento Alimentare (Molinari e Riva, 2004).

I protocolli sperimentali e clinici stessi non possono prescindere dall’orientamento teorico, dalla relazione terapeutica che si instaura con il paziente, e dalle necessità del paziente  stesso. Allo stato dell’arte, la realtà virtuale in  psicologia clinica non è quindi considerata una terapia a sé stante, ma uno strumento utile, capace di mediare tra lo studio del terapeuta e il mondo reale (Riva, 2007).

 

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TECNOLOGIA & PSICOLOGIA – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – CYBERPSICOLOGIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA – DISPUTING

 

APPROFONDIMENTO:

 

BIBLIOGRAFIA:

Curare le Ossessioni: Estasi di un Delitto (1955) – Recensione

 

– Recensione –

ESTASI DI UN DELITTO

di Luis Bunuel (1955)

Curare le Ossessioni: un Suggerimento dal Cinema

 

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Estasi di un Delitto - RecensioneIl film “Estasi di un delitto” (1955) del messicano Luis Bunuel è un intrigante viaggio nel mondo delle ossessioni e della fantasia, anzi di una fantasia in particolare, quella di commettere omicidi.

Il protagonista, prima bambino poi adulto all’interno della trama, è convinto di avere una vocazione omicida e si attribuisce la responsabilità della morte di numerose donne conosciute nel corso della vita, al punto da presentarsi davanti ad un commissario confessando i delitti.

Il corpo dell’opera è costituito dal flashback con cui Alessandro ripercorre la propria storia, le relazioni vissute e gli accadimenti che hanno condotto chi ha incrociato la sua strada ad incontrare una sorte tragica. La prima vittima è la sua balia, che dopo aver inventato una storia in cui attribuisce poteri malefici ad un carillon con cui Alessandro è impegnato a giocare, muore accidentalmente nel corso di una rivolta popolare.

Da quel momento il protagonista si persuade che il carillon determini una spirale di istinti violenti incontrollabili; le fantasie aggressive sembrano sistematicamente realizzarsi poiché le donne cui sono rivolte trovano la morte nei modi più diversi, mentre cercano di fuggire da Alessandro o poco dopo essersene separate. La deposizione si conclude con un nulla di fatto, Alessandro non è ovviamente incriminabile per gli omicidi che ha solo immaginato di compiere.

Estasi di un delitto” tratta con vena estrema e surreale il tema di come affrontare fantasie apparentemente inaccettabili, e per questa ragione rappresenta un interessante spunto di riflessione nell’approccio con le più comuni problematiche ossessive.

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Abbiamo davvero il potere di provocare ciò che immaginiamo oppure, più semplicemente, le cose accadono e dobbiamo gestirne le conseguenze? Un soggetto perseguitato dal dubbio di poter fare del male agli altri si troverebbe in grave difficoltà se le sue fantasie si traducessero in eventi reali a causa di trame accidentali, come avviene in “Estasi di un delitto“. Avrebbe la conferma di ciò che temeva.

Un Segno Invisibile e Mio Recensione
Articolo consigliato: Un Segno Invisibile e Mio Beat, 2011

Tuttavia la nostra esperienza concreta è molto diversa; da un lato le probabilità che una situazione catastrofica si verifichi sono estremamente basse, dall’altro il tentativo della nostra mente di prevedere gli eventi per potersi meglio adattare ad essi si scontra con l’impossibilità di eliminare l’incertezza, l’imprevedibilità.

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Su questo punto i pensieri ossessivi si trovano davanti alla scelta più importante: posso rinunciare al controllo e ai rituali accettando che esista una remota possibilità che l’evento temuto si verifichi, e dicendomi che quella possibilità non è comunque legata alle mie azioni?

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Il contenuto delle paure più grandi – la malattia di una persona cara, un incidente in cui possiamo rimanere coinvolti – può tradursi in realtà ma non perché lo abbiamo immaginato, può prendere forma ma non come esito della nostra negligenza nel prevenirlo.

Il sentimento di responsabilità, così presente nelle credenze dei pazienti ossessivi, può ridursi attraverso il contatto con le proprie fantasie e allenandosi a immaginare qualunque genere di scenario, per poi verificare e percepire che quell’attività mentale non ha alcun potere deterministico.

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 Ispirandoci all’idea narrativa di “Estasi di un delitto“, la fantasia più catastrofica rimane nulla più di una fantasia, al pari di ogni altro esercizio di immaginazione che venga invece vissuto come più accettabile. Siamo tutti capaci di fare del male quando lasciamo scorrere liberamente i nostri pensieri angosciati, ma solo passando all’azione diventiamo colpevoli. Tra il pensiero e l’azione esiste la volontà, confine solido e strutturato che ci permette di orientare la nostra esperienza.

 

LEGGI:

OSSESSIONI – DISTURBO OSSESSIVO – COMPULSIVO – OCDCREDENZE – BELIEFS

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna

 

Il Perfezionismo e la Vergogna nella Società Post-Moderna. - Immagine:© olly - Fotolia.comIn questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente.

Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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Identità individuale e ambiente sono in relazione diretta, essendo il soggetto un sistema aperto auto ed etero-organizzato. Dove cercare i legami di questa diretta relazione? Nelle storie soggettive ma oggi, più che in passato, anche nelle pagine di giornali, nei programmi televisivi, nei talk-show, nei social network. Questi sono spazi e contenitori dell’Io in cui si accresce l’identità e si disegnano scenari relazionali complessi.

I nuovi contenitori dell’Io della post-modernità sono plastici e malleabili, sempre pronti a metamorfosi e inconsistenti definizioni di sé e dell’altro. Sono specchi di se stessi, da cui tanto più ci cerchiamo di allontanare, tanto più veniamo catturati, come immobilizzati dall’allettante conferma di un nuovi possibili Sé.

Le Sorgenti del Male di _Zygmunt Bauman - Recensione
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In questi spazi è concesso di citare emozioni solo apparentemente esperite o vissute senza una reale elaborazione delle stesse:  colpa, rabbia, vergogna,  paura,  gioia vengono annebbiate, talvolta esibite, estremizzate fino a diventare desiderabili, mitizzate, o vissute in solitudine più che in una relazione reale con l’altro.

La narrativa e l’emotività vengono sostituite da slogan e immagini, che tendono a immobilizzare il soggetto nell’apparenza offerta, talvolta volutamente manipolata per mostrare di sé qualcosa che l’altro possa cogliere, spesso nell’ottica di un’immagine ideale e perfetta.

In questi comportamenti appaiono potenti meccanismi di stallo e rigidità: se da una parte c’è il desiderio di raccontarsi, d’altro canto risulta difficile, nel tempo, abbandonare i comportamenti che invece di favorire l’espressione reale di sé,  allontanano il soggetto dalle relazioni vissute sulla pelle e con emotività e sensazioni. Questi spazi sono potenti contenitori di proiezione e idealizzazione, in cui l’Io si declina e cerca di muoversi in un eterno presente.

Sembra che la perfezione possa oggi essere cercata attraverso meccanismi e spazi in cui risulta potente il peso del giudizio (meglio se esterno che interno), della vergogna più che la colpa, del timore dell’umiliazione più che del danno.

Proprio la vergogna avrebbe lo scopo di proteggere il soggetto dallo sviluppo di un’identità grandiosa oltre che avere una funzione di auto-miglioramento e di protezione del sé (vergogna-pudore).

Ma dove è finito tutto questo? Sembra infatti che nel post-moderno neanche la vergogna abbia più lo stesso potere funzionale e che l’individuo tenda a ricercare una fuga dall’espressione di questa stessa. Che cosa accade in una società in cui neanche la vergogna ha più la stessa funzione e in cui spesso essa viene celata o negata? Viviamo forse in una società “s-vergognata”?

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Nancy McWilliams affronta il problema dell’educazione dell’Io nella società moderna e le ricadute sullo sviluppo dei disturbi della personalità e delle psicopatologie caratterizzati da quadri di perfezionismo: “nelle famiglie vecchio stampo che generavano figli ossessivo-compulsivi il controllo si esprimeva in termini moralistici e colpevolizzanti…veniva così offerto attivamente un modello di moralizzazione. (…) l’autocontrollo e il differimento della gratificazione venivano idealizzati mentre (…) molte famiglie che oggi sono organizzate sul controllo favoriscono i modelli ossessivi attraverso il sentimento di vergogna e non inducendo sensi di colpa” (p. 312-313).

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Secondo McWilliams sono queste le emozioni e le dinamiche che sovente si celano sotto patologie come DCA, tossicodipendenze, nuove sindromi di dipendenza, in cui l’emozione schiacciante è la vergogna coperta da identità grandiose di tipo perfezionistico e narcisista.

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Queste sono anche dette “sindromi da vergogna”  (Kaufman, 1989). Kimura Bin (1992) le definisce “patologie dell’immediatezza”. Stanghellini (2009, p.311-314) parla di “personalità liquida” rispetto ad alcune patologie, tra cui i DCA. Questi sono disturbi della coscienza di sé che rispondono ad una condizione esistenziale post-moderna in cui l’Io è “privo di organizzazione narrativa”; i vissuti “galleggiano nel mare della coscienza” senza organizzarsi attorno ad un Io-narrativo coerente.

Cosa ci dicono queste patologie rispetto alla cultura post-moderna e allo sviluppo dell’identità?

Società post-moderna e Crisi dell’identità

Bauman, con il concetto di “mondo liquido” e “identità liquida” espressi in varie opere tra cui Vita Liquida (2006), spiega come la Vita Liquida” sia una vita che corre più del tempo, in cui sono persi i valori costituzionali che salvaguardano la relazionalità, l’identità, l’esperire emotivamente. È una vita che si spreme in una società del consumo e dell’incertezza, appunto “liquida” (Bauman, 2003).

Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo - Immagine: Creative commons License © DonkeyHotey
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Vita liquida non solo per lo strutturarsi e muoversi attraverso logiche di instabilità e scambio anche nelle relazioni umane (“cosa mi dai tu in cambio di ciò che ti do io?”), ma anche per il veloce bruciarsi degli equilibri, degli obiettivi, della coerenza personale che dovrebbero rafforzarsi nelle esperienze quotidiane. Una società che è contenitore liquido ospita un Io altrettanto liquido, privo di salde colonne interne e flessibile alla malleabilità degli eventi.

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E come rispondere a questo incalzare in cui il soggetto passa velocemente da attivo a passivo, da controllante a controllato, da agente a spettatore? In molti modi, in primo luogo con un controllo perfezionistico, con un continuo mettersi avanti agli eventi stessi, anticipando in modo competitivo e maniacale l’agito dell’altro, cercando di eludere l’instabilità che ci circonda, ovvero rafforzandosi in senso grandioso, fino, talvolta, a strutturarsi in senso patologico. Stanghellini (2011) parla di nuovi modelli di costituzione dell’identità: “Questa nuova forma di identità segna il passaggio dall’ identità sostanziale (io sono x) e progettuale (io sarò x), all’identità flessibile (io faccio x).”.

La soluzione del soggetto in questa società può anche essere quella di scegliere contenitori che possano dare sollievo al senso di smarrimento, in cui lo sguardo dell’altro, anche di sfuggita, possa compensare il bisogno di riconoscimento, di conferma, di rimando. Ne sono esempio i social network. Queste modalità comportamentali potrebbero consentire di esorcizzare il timore di essere s-vergognati da chi ci circonda, o di cedere a paura e sensazioni di inadeguatezza.

Il consumo, in ultimo, caratteristica anch’essa di questa post-modernità, diviene consumo di oggetto sintetico e meccanico, lenitivo contro la sensazione di “non poter godere appieno e immediatamente”.

Mai come ora l’oggetto è simbolo concreto di qualcosa che si è rotto all’interno del soggetto, nelle faglie di un’identità fragile e perennemente a rischio di frammentazione. E l’oggetto, non solo tossico e patologico ma anche consumistico (telefonini, pc, televisori, etc.), risponde oltre che alla logica della velocità a quella dell’ “instantaneità” che caratterizza la società contemporanea (Muscelli, Stanghellini, 2012), consumandosi in un “eterno presente.

Anche sul piano relazionale la dipendenza dall’altro può essere così sostituita dalla dipendenza da un oggetto che possa favorire un veloce adattamento alle richieste della società.

In questa dimensione della temporalità può crescere un uomo iperefficiente, autoreferenziale, forte, indipendente, pratico, centrato sul presente, sul fare tutto subito e sull’apparire invece che sull’essere e sentire emotivamente. Questo uomo rischia di perdere la capacità di attendere, di godere del cambiamento e dell’inaspettato, di procrastinare il desiderio.

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E tutti coloro che non riescono ad adeguarsi alla società e ai suoi meccanismi? Che non riescono a lenire la frustrazione e la vergogna con gli strumenti del mondo liquido e da questo stesso si sentono schiacciati? Questi rischiano di sentirsi outsiders perennemente in bilico, a contatto con sentimenti di profonda inadeguatezza e perdita di speranza, come raccontato dalla cronaca nera degli ultimi mesi e dalla crescente tendenza al suicidio in risposta a frustrazioni di vita.

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Kaës parla della nostra cultura come “cultura del pericolo, ma anche della prodezza” in cui “Superarsi, darsi un gran da fare (nel lavoro, nell’aver successo o nella droga, ma anche nelle formazioni del narcisismo di morte) sono un valore negativo la cui base comune è l’eroicizzazione della morte” (Kaës, 2005).

Le Basi Psicologiche dell’Etica #1: Le Ricerche di Jonathan Haidt
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Stanghellini (2011) ci dice “In questa forma depressiva, dunque, si manifesta una diversa identificazione traumatica: l’identificazione può essere con la vittima: l’Altro è il colpevole. L’ago della colpa punta verso l’esterno. Non c’è assunzione di colpa. Piuttosto, prevalgono emozioni quali la rabbia e la vergogna, che sfociano, appunto, in un vissuto persecutorio. In alternativa, ci si sente come qualcuno che assiste impotente agli eventi, alla loro ineluttabile insensatezza. Ci si identifica con il ruolo dello spettatore il quale, disperatamente o cinicamente, osserva il caos del mondo. (…) Non c’è spazio per la speranza, o per la redenzione, o per il pentimento – che potrebbero orientare l’esistenza verso il futuro.”.

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In questo processo di  “eroicizzazione della morte” e di perdita “dell’esistenza verso il futuro” è possibile pensare si celi da una parte una potente difficoltà dell’uomo moderno a gestire la frustrazione e la vergogna, dall’altra la tensione verso un perfezionismo irraggiungibile e per questo doloroso a priori.

LEGGI:

SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  PERFEZIONISMO – CONTROLLO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Vedere la Felicità in Espressioni Ambigue Riduce l’ Aggressività

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.

 

Facial Expressions - © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: Riconoscere un’emozione dal volto: giapponesi, americani e questioni di contesto.

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato la relazione tra il riconoscimento emotivo in espressioni facciali ambigue e la presenza di pensieri e comportamenti aggressivi in un campione di adolescenti considerati ad alto rischio di atti aggressivi e in un campione di controllo.

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Favorire il riconoscimento della gioia in espressioni ambigue (inducendolo a livello sperimentale) avrebbe portato ad una diminuzione dei punteggi self-report di rabbia percepita e aggressività in entrambi i gruppi coinvolti nello studio.

Lo stratagemma sperimentale usato per promuovere l’inferenza di emozioni positive è molto semplice: dopo avere chiesto di riconoscere espressioni volutamente ambigue scegliendo tra due possibili risposte, gli sperimentatori comunicavano ai soggetti sperimentali che in realtà i volti appena visti esprimevano gioia.

Dallo studio è emerso che i soggetti che erano stati indotti a pensare che i volti ambigui esprimevano gioia e non rabbia riportavano in misura minore pensieri di aggressività, e nei giorni successivi una minore incidenza di comportamenti aggressivi.

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Secondo i ricercatori dunque i meccanismi di processamento ed elaborazione di stimoli emotigeni giocherebbero un ruolo chiave nell’insorgenza e nel mantenimento dei comportamenti aggressivi. 

LEGGI:

VIOLENZA – ESPRESSIONI FACCIALI

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicodinamica della Leadership e della Followership ne Il Grande Capo di Lars von Trier

Maria Chiara Pizzorno e Chiara Ghislieri.

 

PFF – Psicologia Film Festival

Psicodinamica della Leadership e della Followership

ne Il Grande Capo di Lars von Trier

 

VEDI L’EVENTO CORRELATO

Recensione: Il Grande Capo di Lars Von Trier
“Il Grande Capo” di Lars Von Trier (2006). Locandina Cinematografica.

Il film Il Grande Capo, di Lars Von Trier, si configura come una sintesi delle forme estreme (eccessive, caricaturali, grottesche) delle dinamiche di potere nella vita organizzativa illustrando, in particolare, le conformazioni collusive che si possono innescare quando gli elementi narcisistici prendono il sopravvento.

Proviamo a rileggere alcuni aspetti del film, sulla base di questa prima riflessione, con riferimento a tre nuclei tematici principali.

ARTICOLI SU: CINEMA

 

Essere o non essere il (Grande) Capo?

A differenza dei collaboratori di Ravn, gli spettatori scoprono subito, dalla trama, che in realtà il Grande Capo è Ravn stesso. Il nucleo drammatico di Ravn, nonché suo principale meccanismo di difesa, è la scissione di sé in una parte buona, che custodisce e ostenta, e una cattiva che nega e proietta sul Grande Capo, un personaggio di sua invenzione.

A essere proiettati all’esterno sono i desideri e sentimenti che generano emozioni insopportabilmente dolorose nel Sé, oppure quegli aspetti del Sé che non ci si autorizza ad esprimere. Nel caso di Ravn ad essere proiettati all’esterno sono principalmente i lati oscuri del potere.

Ciò che manca a Ravn è l’essenza della buona leadership che si fonda sull’equilibrio nel potere, inteso come capacità di bilanciare vulnerabilità e onnipotenza. Se l’espressione del primo aspetto (vulnerabilità) lo pone in una relazione di vicinanza con i sei anziani, gli garantisce la loro adesione e il loro “amore”, il secondo aspetto potrebbe comportare il rischio di far saltare la relazione: Ravn sceglie dunque di indulgere nella rappresentazione della vulnerabilità che arriva poi a condividere con i collaboratori nel momento in cui “crea” il Grande Capo, al quale affida la dimensione dell’onnipotenza, declinata come prevaricazione.

Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema? - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
Articolo consigliato: Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema?

Il Grande Capo è la quintessenza delle perversioni del potere: ne illustra la dimensione più prepotentemente se-duttiva (nelle relazioni con le collaboratrici); ne esprime la connotazione dispotica ed intransigente; ne declina anche la componente di imprevedibilità e irascibilità.

Sono tutti aspetti, questi, che Ravn considera al contempo inaccettabili (inesprimibili) e desiderabili: proiettandoli all’esterno, sul Grande Capo, li allontana da sé (gestendone così l’inaccettabilità) ma ne mantiene il controllo (nutrendo il desiderio), visto che il Grande Capo è una sua creazione. Sarà quando il controllo sul Grande Capo verrà meno che Ravn si troverà ad invidiare la sua stessa creatura.

Fuggendo dalla propria Ombra e proiettandola sul Grande Capo, Ravn può conservarsi nella posizione della vittima innocente; può giocare da masochista avendo trovato chi fa la parte del sadico; può riservarsi il ruolo de “l’orsacchiotto” a cui è “impossibile non voler bene”, avendo dirottato tutta l’aggressività dei follower sul Grande Capo.

Ravn oscilla tra la fantasia di essere un Dio e quella di essere un pupazzo, e ciò che in fin dei conti sembra essergli precluso è l’intersoggettività, l’incontro con se stesso e con l’altro come centri di esistenza equivalenti (Benjamin, 1995). Egli, dunque, è catturato nell’immagine infantile che coltiva di sé, come essere buono e perfetto: la sua vita affettiva, affogata in un sentimentalismo esasperato e vuoto, è pregna di narcisismo infantile (molti sono i richiami al mondo dell’infanzia, nel film).

Il bisogno di vicinanza (di adesione), da parte dei sei anziani, non può essere messo in discussione, deve essere protetto, poiché essi sono il “pubblico” di cui Ravn ha bisogno per compensare le sue insicurezze (Kets de Vries, 1993). Allo stesso modo non può essere messo in discussione il bisogno di guadagnare denaro alle spalle dei sei anziani stessi, incompatibile però con il primo e più viscerale bisogno: ecco dunque la necessità della messa in scena.

Ma la rappresentazione non potrebbe realizzarsi se ad essa non partecipassero attivamente anche i collaboratori: Ravn può simulare la virtù grazie alla complicità dei collaboratori, grazie al loro desiderio di trovare e vedere quella virtù, perché sono tutti conniventi nel riprodurre la convenzione di ciò che è “buono”.

 

Non c’è capo senza coda

E, infatti, la complicità di collaboratori (la loro collusione) mantiene in vita e dà forma al potere del capo. Nel momento in cui manovra i suoi collaboratori per compiacere i propri bisogni narcisistici, Ravn compiace i loro. Si tratta pur sempre di un gioco a due, come spiega Kets de Vries ne L’organizzazione irrazionale (1999, pp. 114-115): “è la collusione narcisistica […] la persona in posizione subordinata dice: ‘Non posso funzionare senza la tua assistenza. Non posso farlo da solo’”.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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I sei anziani si affidano totalmente a Ravn, al “grande orsacchiotto”, mentre si prestano ai soprusi del Grande Capo. La leadership di Ravn può dunque rappresentare la risposta adeguata allo stile di followership adottato dai sei anziani, perchè “gli individui che hanno bisogno di ammirazione e di plauso e che si trovano in posizione dominante saranno ben felici di ricambiare, facendo da controparte a questa attitudine servile. E gli inviti a seguirli – ‘tutte le preoccupazioni avranno fine se rimarrai accanto a me’ – sono accolte con entusiasmo dal dipendente” (ibidem).

È l’intonazione alla dipendenza a pervadere la vita organizzativa inscenata nel film, così come ritma la canzoncina: “Chi ci consolerà? Ravn. E chi ci abbraccerà? Ravn. Chi ci proteggerà? Ravn…”.

Ravn accudisce, sostiene e abbraccia è la reincarnazione “della madre di narcisismo primordiale, la madre che non conosce né limiti né condizioni, che sa soddisfare tutti i bisogni fondendoli in uno solo” (Gabriel, 1997, p. 246).

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Ma pur essendo Ravn il dispensatore di coccole, i sei anziani si sono a lungo contesi l’amore del Grande Capo, il grande assente, che rispondeva a pieno alle fantasie di essere follower di un capo onnipotente (Gabriel e Hirshhorn, 1999), un “padreterno” che decide, impone e punisce ma anche protegge (Quaglino, 2004). E quando Kristoffer passa da recitare la parte del Grande Capo a immedesimarsi in esso, sperimenta come sia impossibile “impersonare” il ruolo senza essere risucchiati dal vortice del potere, senza venirne sedotti e voler sedurre.

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Fare il capo… “dà alla testa”

Il Disturbo Narcisistico di Personalità, Intervista al Prof. Vittorio Lingiardi. - Immagine: Narcissus by Caravaggio (Galleria Nazionale d'Arte Antica, Rome)
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Essere cattivi è il desiderio e la paura sia di Ravn sia di Kristoffer; essere amati, allo stesso modo, è l’obiettivo che entrambi arrivano a condividere. Possiamo a questo punto ammettere l’affinità tra Kristoffer e Ravn, camuffata da quella strana combinazione di asprezze e finta-bonarietà di entrambi. Kristoffer è la perfetta controfigura di Ravn, non foss’altro perché ricorre, lui pure, alla “sostituzione”, alla creazione di un suo Grande Capo.

Il film illustra la complessità del controllo del potere: Kristoffer perde spesso il controllo del suo “personaggio”, ad esempio quando reagisce alle minacce dei collaboratori, svilendoli; ma anche Ravn perderà il controllo del Grande Capo, il quale non cederà la sua parte a comando, non smetterà di interpretare il ruolo quando gli verrà chiesto.

Soprattutto Ravn perderà il controllo del Grande Capo quando questi, trasformandosi in “superorsacchiotto”, prenderà il suo posto nel cuore dei collaboratori. Perché Kristoffer stesso, alla fine, sperimenterà il potere che dà alla testa, quello al quale non si riesce a rinunciare: il potere di “avere dei follower”, specchi sfaccettati capaci di amplificare l’immagine di sé, in una eco continua.

È così che, dopo la confessione di Ravn (e la punizione e il perdono), il film non si chiude con “e vissero felici e contenti”: Kristoffer infatti non è così propenso a cedere la parte del Grande Capo dopo averla a lungo interpretata. Una volta riguadagnata la scena tergiversa, decide di non firmare, ma è sufficiente una citazione del suo idolo, Gambini, da parte del Signor Finnur per fargli cambiare idea: l’attore vende la società e i sei anziani fanno le valige.

La conclusione recita, amaramente, come si resti imprigionati nello specchio di Narciso e come l’accesso a una vita autentica sia precluso, tanto a Ravn quanto a Kristoffer, e a tutti i sei anziani che, ancora una volta, sono rimasti fermi, in attesa, quasi certamente, di un altro Grande Capo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (1995). Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo erotico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
  • Gabriel, Y. (1997). L’incontro con Dio. Tr.it. in Quaglino, G. P. (1999) (a cura di).
  • Gabriel, Y., Hirschhorn, L. (1999). Leaders and followers. In Y. Gabriel (1999), Organizations in Depht. Sage, London.
  • Kets de Vries, M.F.R. (1993). Leader, giullari e impostori.Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
  • Kets de Vries, M.F.R. (1999). L’organizzazione irrazionale. La dimensione nascosta dei comportamenti organizzativi. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
  • Quaglino, G.P. (2004). La vita organizzativa. Difese, collusioni e ostilità nelle relazioni di lavoro. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Integrare l’Esperienza nella Coscienza. Dal Congresso di Venezia

Report dal Congresso

Nuove frontiere nella cura del trauma

Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei

Disturbi Traumatici Complessi

20-22 aprile 2013, Venezia

 

Nuove Frontiere nella cura del traumaCoscienza: La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici, grazie agli interventi di Liotti, Tagliavini e Farina.

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La seconda giornata del convegno di Venezia, si rivela densissima di riferimenti teorici sul modello di riferimento, grazie agli interventi di Gianni Liotti, Giovanni Tagliavini e Benedetto Farina.

Organizzatori del convegno e ferventi sostenitori della psicotraumatologia in Italia, introducono tre temi fondamentali che arricchiscono la cornice teorica che guida le giornate: il Dott. Liotti introduce il tema della dissociazione, come sintomo principale del cosiddetto “trauma complesso”, collocandolo in un modello di sviluppo psicopatologico dell’individuo in una prospettiva evoluzionista; segue il Dott. Tagliavini spiegandoci l’affascinante modello di Porges, la teoria Polivagale, e il concetto di neurocezione nell’ambito della fisiologia. Chiude, infine, Benedetto Farina, che raccoglie ricerche e riferimenti teorici a favore dell’ipotesi fondante il modello di riferimento: la dissociazione come effetto del fallimento dei processi “integrativi” della coscienza.

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Janina Fisher PhD - Clinical Psychologist
Articolo Consigliato: Intervista a Janina Fisher – La Psicoterapia è più un gioco che un lavoro

Il modello proposto da Liotti, e già decritto in precedenti contributi sull’argomento, offre sempre sfumature interessanti e una chiave di lettura “omnicomprensiva” dei comportamenti umani. Nel modello evoluzionista il sistema difensivo umano, descritto nella prima giornata da Janina, viene collocato all’interno del più “evoluto” – presente solo nei mammiferi – sistema di attaccamento, necessario a garantire protezione e conforto a seguito di un’esperienza traumatica. Sarebbe proprio il fallimento di questo secondo sistema a determinare lo sviluppo di psicopatologia in età adulta. Il legame di attaccamento con una figura di riferimento costituisce per l’uomo un secondo e definitivo livello di elaborazione del concetto“pericolo scampato!”. Una figura di attaccamento immobile (still face), spaventata (frightened) o spaventante (frithening) a sua volta, determinerà nel bambino una sensazione di “paura senza sbocco”, lasciando il sistema difensivo per sempre attivo (trauma complesso).

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Il sistema di difesa lavora però “scollegato” dalle funzioni mentali superiori della coscienza (Fonagy, 2008) e dunque i processi di integrazione della coscienza risultano inibiti: questo il principale meccanismo alla base dei sintomi dissociativi in pazienti traumatizzati.

 I comportamenti contraddittori e apparentemente incongrui, derivanti da questa mancata integrazione, emergeranno soprattutto all’interno delle relazioni affettive, proprio perché queste sono state in passato contemporaneamente fonte di terrore e di protezione:  qui si colloca l’idea di dissociazione come “dis-integrazione funzionale” descritto dal Dott. Farina nel suo intervento (Farina, Liotti, 2011).

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Da Janet (1901) al più moderno Russel Meares (2005), l’idea dominante è che le funzione di integrazione tra diversi processi mentali sia costruita nel tempo, contemporaneamente alla crescita e allo sviluppo delle cortecce associative, nelle quali si va ad imprimere la memoria procedurale legata agli eventi. Se nel corso dello sviluppo si è esposti a particolari eventi traumatici o a situazioni di prolungato neglect affettivo, i circuiti neurali delle cortecce associative risulteranno alterati e non più in grado di controllare l’arousal.

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Gli effetti principali di questa dis-integrazione sono riconducibili a due categorie principali di sintomi (Brown 2006; Holmes, 2005): sintomi di “distacco” (detachment) e sintomi di “compartimentalizzazione”. I primi implicano un distacco da sé e dalla realtà (depersonalizzazione, derealizzazione, déja vù, numbing), i secondi riguardano la separazione di funzioni mentali normalmente integrate tra loro (amnesie dissociative, disturbi somatoformi da conversione, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie, personalità multiple).

La dis-integrazione è dunque l’effetto diretto del dolore emotivo e non un meccanismo di difesa dal dolore stesso!

 

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ESPERIENZE TRAUMATICHE – PSICOTERAPIA COGNITIVO EVOLUZIONISTA – ATTACCAMENTO – DISSOCIAZIONE – NEUROSCIENZE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Teoria Polivagale: Fisiologia della Paura – Report dal Congresso.

 

Report dal Congresso

Nuove frontiere nella cura del trauma

Approcci Integrativi e Centrati sul Corpo per la cura dei

Disturbi Traumatici Complessi

20-22 aprile 2013, Venezia

 

Nuove Frontiere nella cura del traumaEcco la solida base neurobiologica che cercavamo. Tagliavini ci illumina a tal proposito descrivendo la meravigliosa Teoria Polivagale di Porges.

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La paura senza sbocco, così come tutti gli altri comportamenti difensivi descritti, ha precisi correlati viscerali che attivano la “modalità di funzionamento” adatta ad ogni situazione e Giovanni Tagliavini ci illumina a tal proposito descrivendo la meravigliosa Teoria Polivagale di Porges.

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Studioso della fisiologia umana, Porges getta luce sui meccanismi primordiali delle nostre reazioni ad uno stimolo, interno o esterno, attraverso la descrizione delle due branche principali del nostro sistema nervoso autonomo (SNA): il SNA simpatico, attivato da adrenalina e noradrenalina, responsabile delle nostre risposte di attacco e fuga e quello parasimpatico, attivato da acetilcolina e responsabile delle risposte “rest and digest”, di calma cioè e mantenimento dell’energia corporea. Secondo il modello (Porges 2007), la componente parasimpatica sarebbe poi ulteriormente divisa in due parti: una attiva in condizioni di sufficiente “sicurezza” (branca del vago-ventrale) che produce uno stato di immobilità senza paura o risposte di interazione e ricerca di aiuto nell’ambiente (attaccamento), l’altra capace di rispondere al solo “pericolo di vita” (branca vago-dorsale), producendo un crollo del tono vagale, ipotonia muscolare (“morte apparente”) e catalessia. Quest’ultima reazione è la più evolutivamente antica e l’uomo lo condivide con i rettili.

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Nuove Frontiere nella cura del trauma
Articolo Consigliato: Nuove Frontiere nella Cura del Trauma – Report dal Congresso di Venezia.

Il meccanismo che decide la pericolosità degli stimoli ambientali e dunque quali delle tre reazioni vada messa in campo si chiama neurocezione, un rilevamento cioè del pericolo senza percezione, né consapevolezza.

Dal punto di vista psicopatologico, è interessante osservare come queste reazioni avvengano soprattutto a fronte di stimoli interni – es: sensazione di essere in pericolo in una relazione –  o di stimoli “trigger” che attivano delle memorie nel corpo di eventi traumatici passati, ma come sempre producano lo stesso lavoro del nostro SN autonomo: sicurezza (vago-ventrale), pericolo (simpatico), minaccia di vita (vago dorsale). Quest’ultima risposta è molto frequente nell’uomo di fronte a traumi gravi quali violenze, abusi fisici, incidenti, catastrofi, e sarebbe responsabile della sensazione di impotenza vissuta sul corpo durante l’evento traumatico: terrore e immobilità, impossibilità a reagire.

Ma cosa succede quando si vive una paura così intensa senza poter fare il benché minimo movimento?

A queste ultime reazioni fisiologiche sono riconducibili i più  frequenti sintomi dissociativi.

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Sebbene il nostro sistema autonomo funzioni appunto “in autonomia”, l’esperienza vissuta viene sottoposta successivamente ad una valutazione più consapevole e il risultato può essere emotivamente devastante. L’idea centrale della psicoterapia sensomotoria è appunto di osservare i segnali di attivazione o disattivazione del sistema nervoso autonomo, con l’obiettivo di monitorare il livello di sicurezza percepito nella relazione terapeutica e lavorare su una sempre maggiore attivazione del sistema vago ventrale, che è quello che permette di allargare la “finestra di tolleranza” di cui ci ha parlato Janina Fisher.

 Importantissime le considerazioni di Porges sulla psicoterapia e sul ruolo del terapeuta:

“Le terapie spesso comunicano ai clienti che il loro corpo non si sta comportando adeguatamente. I clienti si sentono dire che devono essere diversi, che devono cambiare. In questo modo la terapia in se

stessa diventa qualcosa di estremamente giudicante per l’individuo, e quando ci sentiamo giudicati di base siamo in uno degli stati difensivi, quindi non in sicurezza. “

“[…] non esiste “la risposta cattiva”. Ci sono solo risposte adattive. Il punto fondamentale è che il nostro sistema nervoso sta cercando di fare la cosa giusta e dobbiamo rispettare ciò che fa.” (S.W. Porges)

 

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NEUROSCIENZE – TRAUMA & ESPERIENZE TRAUMATICHE – COGNITIVISMO EVOLUZIONISTA – DISSOCIAZIONE 

 

APPROFONDIMENTO: 

 

BIBLIOGRAFIA:

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