Stile Cognitivo Depressogeno: Aiutare le Madri per Proteggere i Figli
Di Dario Catania
Lo stile cognitivo depressogeno è un marker della depressione per cui l’associazione tra stile cognitivo delle madri e dei figli, riflette l’associazione tra depressione materna e depressione della prole.
Inoltre, lo stile cognitivo depressogeno materno è stato associato con il medesimo stile cognitivo nella prole, indipendentemente dalla presenza di depressione materna.
La depressione è una delle patologie psichiatriche più frequenti e una delle principali cause di disabilità al mondo. Nella XX edizione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, organizzata il 10 ottobre dello scorso anno dalla World Federation for Mental Health, la Depressione è stata definita “una crisi globale”.
I Disturbi Depressivi colpiscono infatti più di 350 milioni di persone, di tutte le età e in ogni comunità, rappresentando uno dei principali responsabili del carico globale di malattia; nonostante esistano trattamenti efficaci per questi disturbi, in alcuni paesi meno del 10% delle persone affette riceve cure adeguate. Nei Paesi sviluppati l’attuale crisi economica ha generato un aumento della disoccupazione, dei debiti, del senso di insicurezza; ciò ha provocato un aumento di incidenza di questi disturbi.
La Depressione è oggi considerata una patologia multifattoriale caratterizzata da una vulnerabilità che limita significativamente le capacità di padroneggiare stati problematici, spesso associati ad esperienze di vita avverse o stressanti.
Evitare il verificarsi di eventi avversi e situazioni stressanti che possono funzionare da eventi scatenanti è di fatto impossibile ed è per questo che la prevenzione primaria dei disturbi depressivi deve orientarsi in altra direzione; una potrebbe essere l’intervento sui processi cognitivi di attribuzione di significati ed interpretazioni negative ad eventi avversi e situazioni stressanti che possono presentarsi nella vita di ciascuno.
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Come è noto da tempo, la teoria cognitiva di Beck sulla depressione suggerisce che alla base dei disturbi depressivi vi sia la presenza di un sistema di credenze negative riferite a se stessi, al mondo e al futuro.
Ulteriori osservazioni hanno evidenziato l’importanza di alcuni bias cognitivi come ad esempio un’attenzione selettiva per gli stimoli negativi, riscontrata spesso in soggetti con vulnerabilità ai disturbi dell’umore o depressi. Altri studi si sono soffermati sulle modalità con cui gli individui attribuiscono un significato agli eventi, tentando di definire un possibile stile attribuzionale nei pazienti con vulnerabilità alla depressione o con diagnosi conclamata del disturbo.
I risultati concordano sul fatto che lo stile esplicativo degli eventi negativi utilizzato dai pazienti depressi è di tipo interno-stabile-globale, ossia caratterizzato dalla combinazione di alcune dimensioni in quelle che sono le tipiche credenze dei pazienti e riportate nelle seguenti proposizioni:
– “la causa dell’evento negativo dipende da me e non dagli altri o dall’ambiente” (interno);
– “anche gli altri eventi negativi che mi sono già capitati o i possibili eventi negativi futuri, dipendevano o dipenderanno certamente da me” (stabile);
– “questo mio modo di essere e di affrontare gli eventi, influenza tutti i principali aspetti della mia vita” (globale)
Questo stile attribuzionale disfunzionale è stato definito da diversi autori come stile cognitivo depressogeno. Diverse ricerche hanno dimostrato che soggetti con vulnerabilità alla depressione presentano uno stile cognitivo depressogeno preesistente, ossia uno stile attribuzionale interno-stabile-globale, che favorisce l’insorgenza della depressione e contribuisce al mantenimento dei sintomi. Lo stile cognitivo depressogeno, per tali ragioni, rappresenta uno dei principali obiettivi terapeutici della psicoterapia cognitivo-comportamentale della depressione.
Uno stile cognitivo depressogeno può essere determinato sia da fattori genetici e sia da fattori ambientali; le correlazioni tra questo stile attribuzionale disfunzionale e un particolare pattern genetico sono esigue, per cui si ritiene che sia soprattutto l’ambiente a poter influenzare lo strutturarsi di questo stile esplicativo.
In particolare uno stile cognitivo negativo o depressogeno può svilupparsi attraverso le spiegazioni di eventi fornite dai caregiver, particolarmente dalle madri. Diversi studi hanno suggerito che il feedback negativo e critico materno è associato alla comparsa di uno stile cognitivo depressogeno nella prole. Lo stile cognitivo materno potrebbe fornire un modello per il bambino da imitare: l’osservazione delle inferenze che le proprie madri fanno su se stesse e sugli eventi di vita, diventano per i bambini gli elementi su cui costruire il proprio stile attribuzionale.
Esistono alcune obiezioni teoriche a quanto appena detto, poiché è possibile che una madre non esprima sempre in modo sufficientemente chiaro nei suoi comportamenti le credenze negative su di sé, anzi talvolta può tentare, con alcuni atteggiamenti, di dissimularle. In secondo luogo è possibile che il bambino utilizzi delle attribuzioni della madre per giungere a conclusioni diametralmente opposte; ad esempio se la madre fa una attribuzione esterna alle sue disgrazie, incolpando il figlio, il bambino può imparare sia ad essere critico con se stesso (attribuzione interna), sia ad esserlo con la madre (attribuzione esterna).
Bisogna inoltre riflettere sulla magnitudo dei dati: un’associazione statistica tra due fenomeni, in questo caso lo stile cognitivo depressogeno delle madri e quello dei rispettivi figli, permette di affermare che le 2 variabili possono, con una certa regolarità, corrispondere, anche se ciò non vale sempre. Esistono situazioni in cui lo stile cognitivo delle madri non influenza i bambini, probabilmente per l’intervento di fattori genetici, ambientali o di personalità non ancora sufficientemente studiati. A questo proposito e a sostegno di quanto detto, esistono studi che non sono riusciti a trovare alcuna correlazione.
L’incongruenza di questi risultati è probabilmente dovuta al fatto che tali ricerche erano tutte di tipo cross-sectional, ossia in grado di fotografare la situazione attuale senza effettuare analisi longitudinali nel tempo, oppure effettuati su campioni numericamente molto esigui e limitati all’infanzia e alla prima adolescenza.
Infine non è chiaro se l’associazione tra stile cognitivo materno e della prole è indipendente dalla depressione materna, ossia se una madre senza depressione con uno stile cognitivo depressogeno può influenzare la comparsa dello stesso stile cognitivo nei figli.
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Nello studio condotto da Rebecca Pearson e collaboratori, pubblicato sullo scorso numero di Aprile dell’American Journal of Psychiatry, si è cercato di chiarire l’associazione tra stile cognitivo materno, misurato durante la gravidanza, e stile cognitivo della rispettiva prole, misurato 18 anni più tardi. La ricerca ha coinvolto una popolazione di oltre 4000 famiglie, già reclutate in uno studio longitudinale effettuato nel Regno Unito (ALSPACK), agli inizi degli anni 90.
Lo stile cognitivo della prole è stato valutato con la versione ridotta della CSQ (Cognitive Style Questionnaire) somministrato al diciottesimo anno di vita. Il CSQ nella versione ridotta presenta 8 ipotetiche situazioni di vita; ai partecipanti viene richiesto di immaginarsi in quella situazione e di pensare alle reazioni legate agli eventi e di attribuire un punteggio legato alle dimensioni precedentemente illustrate (punteggi più elevati correlano con uno stile cognitivo negativo). Lo stile cognitivo materno durante la gravidanza è stato valutato in diciottesima settimana di gestazione utilizzando alcuni item della Dysfunctional Attitudes Scale. Per valutare la presenza di un disturbo depressivo nelle madri e nei figli di 18 anni sono stati utilizzati rispettivamente la Edinburgh Postnatal Depression Scale, per le madri, e la Clinical Interview Schedule–Revised, per i figli.
L’analisi dei numerosi dati ottenuti ha mostrato che un aumento di una deviazione standard nel punteggio relativo allo stile cognitivo depressogeno materno durante la gravidanza era significativamente associato ad un incremento medio di 0,1 deviazioni standard nel punteggio relativo allo stile cognitivo depressogeno della prole, all’età di 18 anni; ciò dimostra un’associazione positiva tra stili cognitivi depressogeni delle madri e quelli dei rispettivi figli.
Il risultato è rimasto invariato anche dopo aver corretto i dati rispetto alla presenza di depressione nelle madri e nei figli; l’associazione tra stile cognitivo delle madri e della rispettiva prole spiega il 21% dei casi in cui si riscontra un’associazione positiva tra depressione materna e depressione dei figli.
In altre parole lo stile cognitivo depressogeno è un marker della depressione per cui l’associazione tra stile cognitivo delle madri e dei figli, riflette l’associazione tra depressione materna e depressione della prole. Inoltre, lo stile cognitivo depressogeno materno è stato associato con il medesimo stile cognitivo nella prole, indipendentemente dalla presenza di depressione materna. Quest’ultimo risultato permette di ipotizzare che un intervento effettuato sullo stile cognitivo negativo di madri non depresse può rappresentare un potenziale obiettivo per la prevenzione di una possibile futura depressione dei figli in età adulta.
Gli autori dell’articolo suggeriscono due possibili strategie che potrebbero impedire la trasmissione di stili cognitivi disfunzionali. Una prima, potrebbe essere quella di modificare lo stile cognitivo depressogeno delle madri con interventi di tipo psicoterapeutico; la terapia cognitiva è stata progettata per modificare gli stili cognitivi, e l’evidenza suggerisce che ha una duratura influenza positiva sullo stile cognitivo.
Altri interventi potrebbero essere indirizzati a prevenire la possibile trasmissione dello stile cognitivo negativo tra madre e figlio, modificando il tipo d’interazione tra i due. Per esempio interventi di video feedback possono aiutare a modulare comportamenti e atteggiamenti che esprimono tale stile cognitivo disfunzionale: una madre che si sente sempre criticata può percepire che — e agire come se — suo figlio fosse critico verso di lei; d’altro canto i bambini a cui vengono attribuiti pensieri negativi e critici possono arrivare a credere di essere persone negative o sbagliate. In questi casi, gli interventi potrebbero essere indirizzati verso il miglioramento della consapevolezza della madre dei processi mentali del bambino. Ad esempio, focalizzando l’attenzione di una madre dal monitoraggio dei propri stati mentali al monitoraggio degli stati mentali del bambino, si può favorire una sintonia e una interazione più appropriata alle esigenze del bambino.
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Uno dei punti di forza dello studio è sicuramente la numerosità del campione e il follow-up a 18 anni eseguito sui figli; uno dei limiti, sicuramente il fatto che lo stile cognitivo nelle madri e nei figli è stato effettuato utilizzando strumenti diversi anche se sufficientemente validati. Lo studio certamente non risponde ad alcune domande che rimangono ancora aperte: lo stile cognitivo materno si mantiene stabile per tutta la vita del bambino? C’è un periodo nello sviluppo del bambino in cui il rischio di una trasmissione dello stile cognitivo negativo è più probabile? Una correlazione tra 2 variabili non è in grado di stabilire un rapporto di causa-effetto tra loro, pur dimostrando la tendenza del variare di una in funzione dell’altra; come già detto, questo significa che tra lo stile cognitivo negativo di madri e figli esiste un qualche legame diretto o indiretto, anche se non si può affermare che il primo determini il secondo. Perché alcuni bambini non vengono influenzati dallo stile attribuzionale delle loro madri? Quali sono i fattori di protezione che impediscono alla prole di apprendere questi stili cognitivi?
Lo studio della Pearson, come già detto, non risolve tutti i quesiti lasciando ampio spazio ad ulteriori interessanti ricerche, tuttavia i risultati suggeriscono un possibile percorso preventivo dei Disturbi dell’Umore, la cui efficacia, anche se ancora non dimostrata, sembra davvero promettente.
Gli adulti più anziani possono avere difficoltà nel ricordare gli eventi di tutti i giorni perché sarebbe disfunzionale il processo di segmentazione dell’esperienza continua in eventi discreti.
Alcuni problemi di memoria comunemente riscontrati possono derivare da una incapacità di segmentare la vita quotidiana in esperienze discrete, secondo un nuovo studio pubblicato su Psychological Science.
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Lo studio suggerisce che i problemi di elaborazione degli eventi quotidiani possono essere il risultato di un’atrofia senile di una porzione del cervello chiamata lobo temporale mediale (MTL).
I ricercatori hanno ipotizzato che gli adulti più anziani possono avere difficoltà nel ricordare gli eventi di tutti i giorni perché sarebbe disfunzionale il processo di segmentazione dell’esperienza continua in eventi discreti.
Nello studio, ai soggetti sono stati presentati brevi filmati di persone impegnate in attività quotidiane, come ad esempio una donna che fa la prima colazione o un uomo che costruisce una nave con i Lego. E’ stato quindi richiesto di dividere il filmato in singoli blocchi, premendo un pulsante ogni volta che ritenevano stesse terminando un’attività e iniziandone un’altra.
In seguito, è stato chiesto loro di ricordare ciò che era accaduto nei filmati e ed è stata effettuata una risonanza magnetica strutturale (MRI) sul cervello dei soggetti coinvolti.
Secondo lo studio i soggetti con minori prestazioni mnestiche presentavano atrofia del Lobo temporale mediale e prestazioni deficitarie nella segmentazione discreta degli eventi quotidiani.
Ricerche future potrebbero ulteriormente approfondire questo interessante legame tra la percezione degli eventi e la memoria.
Raffaello Cortina Editore ha acquisito i diritti per la traduzione italiana del DSM-5, nuova edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, appena pubblicato negli Stati Uniti.
L’uscita è prevista nei primi mesi del 2014.
Questa nuova edizione del DSM-5, usata da clinici e ricercatori per diagnosticare e classificare i disturbi mentali, è il prodotto di più di 10 anni di sforzi da parte di esperti internazionali specializzati nel campo della salute mentale. Questo manuale, che crea un linguaggio comune per i clinici coinvolti nella diagnosi dei disturbi mentali, include concisi e specifici criteri che vogliono facilitare un’oggettiva valutazione dei sintomi in una varietà di setting clinici.
Successivamente verranno tradotte le pubblicazioni correlate:
– Desk Reference to the Diagnostic Criteria from DSM-5
– The Pocket Guide to the DSM-5 Diagnostic Exam
– DSM-5 Guidebook
– DSM-5 Self-Exam Questions
– DSM-5 Clinical Cases
– DSM-5 Handbook of Differential Diagnosis
– Study Guide to DSM-5
Una parte di fondamentale importanza del colloquio psicologico è la sua conclusione riguardo alla quale il terapeuta deve prendere appropriati provvedimenti. È importante che lo psicologo tenga sotto controllo lo scorrere del tempo, senza però apparire distratto, e inizi ad avviare le procedure di conclusione qualche minuto prima della fine effettiva della sessione.
In questi minuti deve ricapitolare ciò che è stato detto nel corso del colloquio, la definizione del problema e degli obiettivi raggiunti tramite la negoziazione, riprendere e riassumere il problema di cui si stava parlando, dare eventuali compiti a casa ed accertarsi che siano stati capiti con chiarezza, chiarire quali sono i punti che devono essere ancora affrontati e fissare l’incontro successivo.
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Al termine del primo colloquio non si deve sperare di aver risolto tutto, è già un ottimo obiettivo raggiunto che il cliente abbia maggior confidenza con sé stesso e abbia accettato l’idea di avere parte della responsabilità del proprio problema.
Spesso i clienti tendono a prolungare il colloquio oltre il tempo prestabilito presentando nuove informazioni, di solito le più sconvolgenti, verso o oltre la fine del tempo. Il counselor deve impedire queste situazioni portando alla conclusione il colloquio senza concedere ulteriore tempo e rinviare tutte queste discussioni alle sessioni successive.
Quando il cliente è un gruppo o una famiglia le sedute sono più lunghe ed è necessario prendersi più tempo per la conclusione.
Il counselor lascia la parola a ciascuno dei clienti perché possa esporre le proprie riflessioni finali e dopo di ché riassume i punti ancora irrisolti e quelli in cui si è trovata una base d’accordo su cui lavorare.
In questi casi è fondamentale attenersi alle regole e non soffermarsi con nessuno dei membri della famiglia.
Disturbo da Attacchi di Panico: Il ruolo della Terapia di Mantenimento
Una terapia di Mantenimento (M-CBT) applicata in seguito alla CBT in fase acuta per il Disturbo di Panico con Agorafobia (DP/A), permette di mantenere i risultati ottenuti con la CBT fino a 21 mesi dalla fine del trattamento, previene le ricadute e riduce la compromissione del funzionamento sociale e lavorativo in pazienti che avevano precedentemente risposto alla CBT in fase acuta.
Il disturbo da Attacchi di Panico è molto diffuso tra la popolazione generale e comporta un alto grado di severità clinica, un alto rischio di cronicizzazione e di disabilità, elevati costi sociosanitari e una globale riduzione della qualità della vita di chi ne è affetto.
Nel Disturbo da Attacchi di Panico è ampiamente dimostrata l’efficacia sperimentale della terapia Cognitivo-Comportamentale (Telch et al., 1993; Roth & Fonagy, 1996; Bakker et al., 1998; Craske, 1997; Murphy et al. 1998; Goldberg, 1998; Arnz, 2002; Ost et al., 2004) dove le tecniche di esposizione agli stimoli somatici temuti (ad esempio tachicardia o difficoltà a respirare) o alle situazioni evitate (ad esempio prendere la metro o il treno) vengono aggiunte a quelle della terapia cognitiva standard (psicoeducazione sul disturbo, ristrutturazione cognitiva delle interpretazioni catastrofiche come ad esempio “potrei morire o impazzire”, rilassamento muscolare progressivo e tecniche di respirazione).
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Tali trattamenti sono efficaci anche se effettuati in setting di gruppo (Telch et al., 1993; Evans et al.,1991; Galassi et al., 2007; Cosentino et al., 2008) e su pazienti resistenti ai trattamenti farmacologici (Held at al., 2003), tanto da essere considerati dalle principali linee guida internazionali fra i trattamenti elettivi di prima scelta per il Disturbo di Panico (APA,1998; OMS, 2000).
Tuttavia al momento non risulta ben chiaro come, perché e in quali casi gli esiti della Terapia Cognitivo-Comportamentale sono mantenuti a lungo termine. Anche se tali risultati hanno messo in evidenza che il trattamento CBT è risultato efficace anche in presenza di comorbidità con un altro disturbo, tale risultato può non essere è mantenuto a lungo termine. Al momento ci sono pochi studi che si sono concentrati sull’analisi delle variabili coinvolte nelle ricadute nel Disturbo di Panico che tra l’altro presentano dei risultati tra loro contrastanti (per approfondimenti: Heldt et al, 2003; Dow et al., 2007; Brown et al. 1995). Come è possibile allora far si che gli esiti della terapia siano mantenuti oltre 12 mesi dalla fine del trattamento?
Un recente studio fornisce una risposta. White et al. (2013) hanno messo in evidenza che una terapia di Mantenimento (M-CBT) applicata in seguito alla CBT in fase acuta per il Disturbo di Panico con Agorafobia (DP/A), permette di mantenere i risultati ottenuti con la CBT fino a 21 mesi dalla fine del trattamento, previene le ricadute e riduce la compromissione del funzionamento sociale e lavorativo in pazienti che avevano precedentemente risposto alla CBT in fase acuta.
Nello studio sono stati esaminati 256 pazienti che per tutta la durata dello studio non hanno assunto terapia farmacologica o effettuato psicoterapie concomitanti.
Di questi sono stati poi selezionati 157 pazienti, che hanno risposto alla CBT in fase acuta e che erano disponibili per la ricerca. I pazienti sono poi stati successivamente assegnati ad una delle due condizioni dello studio: M-CBT o solo condizione di valutazione (gruppo di controllo).
La terapia di mantenimento (M-CBT) è consistita in 9 sessioni individuali di terapia a cadenza mensile della durata di 45-60 minuti, durante i quali i terapeuti addestrati al protocollo M-CBT (Spiegel & Baker, 1999) hanno incoraggiato i pazienti a continuare ad applicare le tecniche di gestione dei sintomi appresi durante la CBT in fase acuta, hanno loro insegnato strategie per la prevenzione delle ricadute e migliorato le loro capacità di gestione dello stress. Per i pazienti che avevano sintomi residui sia somatici che di evitamento agorafobico i terapeuti hanno in aggiunta continuato il lavoro di ristrutturazione cognitiva e di esposizione enterocettiva e/o in vivo.
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Questi dati sono importanti per le implicazioni cliniche e di ricerca, nonché per l’efficacia a lungo termine della CBT per il DP/A poiché i risultati hanno messo in evidenza che il gruppo trattato con M-CBT aveva minori tassi di ricaduta rispetto a quello di controllo.
Tuttavia sono necessarie ulteriori ricerche per isolare la presenza di eventuali altri fattori che possono aver contribuito in maniera non specifica al mantenimento dei risultati raggiunti; inoltre sarebbe opportuno valutare longitudinalmente la durata della M-CBT oltre i 21 mesi dalla fine del trattamento.
Nel frattempo è dunque possibile affermare che una terapia cognitivo-comportamentale unita ad una terapia di mantenimento sia al momento la terapia d’elezione per la cura del Disturbo di Panico con Agorafobia.
American Psichiatric Association (APA) (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Revised, 4th edn, Washington, DC: American Psychiatric Association.
Secondo gli studiosi, l’esercizio renderebbe conto soltanto di un terzo delle differenze prestazionali nella musica e negli scacchi. E dunque cosa fa il resto della differenza? Sulla base della letteratura I ricercatori fanno riferimento all’intelligenza, all’età di inizio dell’attività e alla funzionalità della memoria di lavoro in quanto fattori in grado di discriminare tra prestazioni buone e ottime.
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Una nuova ricerca della Michigan State University ha scoperto che anche una gran quantità di pratica ed esercizio non basta a spiegare perchè le persone raggiungono diversi livelli di expertise e prestazioni ottimali.
Anche da osservazioni comuni è noto che alcune persone raggiungono ottimi livelli di performance senza grandi sforzi in termini di esercizio, mentre altri falliscono nonostante molta pratica.
I ricercatori hanno analizzato 14 studi effettuati su giocatori di scacchi e musicisti, con l’obiettivo di capire quanto la pratica e l’esercizio effettivamente potesse fare la differenza in termini di performance.
Secondo gli studiosi, l’esercizio renderebbe conto soltanto di un terzo delle differenze prestazionali nella musica e negli scacchi. E dunque cosa fa il resto della differenza?
Sulla base della letteratura I ricercatori fanno riferimento all’intelligenza, all’età di inizio dell’attività e alla funzionalità della memoria di lavoro in quanto fattori in grado di discriminare tra prestazioni buone e ottime.
(1) Institute of Communication and Behaviour “Giampaolo Fabris” IULM University, via Carlo Bo, 8, 20143 Milan – Italy
(2) Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche Università degli Studi di Milano, via Conservatorio, 7, 20123 Milan – Italy
Abstract.
Sometimes scholars complain that students and lay public are not able to watch an artistic exhibit displayed in a museum of fine arts. Watching is a learned skill that is neither innate nor spontaneous. Onlookers would benefit from a method that may enhance their visual skills. The goal of this paper is to assess whether a model based on visual-perceptual priming, a kind of implicit memory, may improve the methodology of looking. In this work we also present some preliminary results of a new promising approach consisting in analysing subjects’ brain signals collected by an EEG-based device during the verification phase of the performed experiment.
Keywords.
Education, Implicit Memory, Learning, Museum Visitor, Museum of Fine Arts, Museum Studies, Priming, Lay Public, EEG, Brain Computer Interface, BCI device.
We all look at the same things, yet see different things.
Claude Monet
The structure of the forthcoming paper is divided into three main parts. The first part provides an introduction to visual skills and visual literacy in order to select the major features required. A few methodologies used in the museum environment to improve observational skills are outlined. The second part investigates what is priming and why priming may be useful in the museum environment. Finally, we discuss how visual-perceptual priming may enhance the museum experience. The purpose of this paper is to focus on visual-perceptual priming as a means to promote visual skills development.
1. Visual Literacy and Visual Skills
Visual Literacy, as first devised by John Debes (one of the most important figures in the history of the International Visual Literacy Association), refers to:
A group of vision-competencies a human being can develop by seeing and at the same time having and integrating other sensory experiences. The development of these competencies is fundamental to normal human learning. When developed, they enable a visually literate person to discriminate and interpret the visible actions, objects, symbols, natural or man-made, that he encounters in his environment. Through the creative use of these competencies, he is able to communicate with others. Through the appreciative use of these competencies, he is able to comprehend and enjoy the masterworks of visual communication. (Debes, 1969)
Sinatra (1986) states that Visual Literacy is “the active reconstruction of past visual experience with incoming visual messages to obtain meaning” (p. 5). He stresses the learner role in creating recognition.
Visual Literacy, according to Wileman (1993), is “the ability to read, interpret, and understand information presented in pictorial or graphic images” (p. 114). Visual Thinking is “the ability to turn information of all types into pictures, graphics, or forms that help communicate the information” (p. 114). Visual Literacy is “the learned ability to interpret visual messages accurately and to create such messages” (Heinich et Al., 1999, p. 64).
Kleinman and Dwyer (1999) analyse specific visual skills effects to facilitate learning. For instance, the use of colour graphics in instructional modules, as opposed to black and white graphics, improve learning.
Visual skills are not to be confused with vision, colour vision, disease, and various anomalies. Visual perceptual motor skills and ocular motor skills are the main visual skills categories. These skills are developed after birth. Visual perceptual motor skills process visual information and affect eye/body movements. They encompass abilities such as visual memory, visual-spatial (e.g., mapping locations), visual analysis (e.g., discriminating), visual-motor coordination, visual-auditory integration (e.g., matching sound and image), and visualization. Ocular motor skills involve eye movements control and focus control.
Rueschoff and Swart (1969) single out the major visual skills that children should develop by means of educational program:
the ability to see the individual art elements and application of principle;
the ability to see the art elements and principles, as applied, within the context of the image or environment;
the ability to assign meaning to the elements and principles within the context of the thing seen;
the ability to see conflicts between and among the elements and principles, and to understand the inherent meaning;
the ability to separate subject matter from content.
Lay public should develop or foster these visual skills. Rountree, Wong and Hannah (2002) are correct when they explain that learning to look involves developing the skill of Visual Literacy. Namely, the modality of looking at objects and understanding the effect of what we see. Beholders should learn to set aside personal and cultural preconceptions and to share the meaning of visual forms “at some level of universality” (DeLong, 1987, p. 3).
1. 1.1 Learning to Look. Gathering Meanings through Observation
Michael Baxandall in the introduction of Patterns of intention: on the historical explanation of picture (Baxandall, 1986) explains how we look at an artwork:
When scanning a picture we get a first general sense of a whole very quickly, but this is imprecise; and since vision is clearest and sharpest on the foveal axis of vision, we move the eye over the picture, scanning it with a succession of rapid fixation. The gait of the eye, in fact changes in the course of inspecting the object. At first, while we are getting our bearing, it moves not only more quickly, but more widely; presently it settles down to movements at a rate of something like four or five a second and shifts of something like three to five degrees – this offering the overlap of effective vision that enables coherence of registration.
A work of art is composed by visual clues employed to express its meaning. How can we achieve this meaning? How does the artist set the scene or sketch out his characters in order to “create” this meaning?
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Some strategies for helping people to develop Visual Literacy in looking at subject matter (objects and incidents represented) and expressive content (combined effect of subject matter and visual form) of different forms of visual art are here considered.
Taylor (1981) investigates how to approach drawings, paintings, graphic arts, sculptures, and architecture. He begins the artwork analysis describing what is represented through different visual forms. He picks over composition as a dominant contributor to the expressive content of a painting.
He discriminates lines (e.g., vertical, horizontal, and diagonal), shapes, colours (hue, saturation, and value), symmetry, objects arrangement, proportion, and space. He stresses that the choice of material and technique is paired with the artwork character. In order to improve the understanding of an artwork, Taylor compares different artworks representing the same subject but using different expressive contents.
Museum educators often adopt the inquiry-method in order to explore an exhibit with the lay public.
GRAM (Grand Rapids Art Museum) staff has provided a methodology based on a inquiry-based tour of the museum (2011). They stress the importance of encouraging the development of viewers oral and written communication skills in relation to Visual Arts. GRAM docents are trained to exploit specific questioning techniques in the course of the tour. Such questionnaires aims at encouraging students response. After a periods of time spent observing an exhibit, students are asked to answer some questions, suggested by teachers, such as: What is going on in this picture? What is the mood of this image? How do you feel about having to spend time with this artwork? Has your first impression changed now that you have spent time with it? All these questions are followed by another question: What do you see that makes you say that? This question, as stated by GRAM practitioners, helps people beginning to look at an image separate from their own past life experiences and to find evidence for their response within the artwork itself.
The inquiry-based method is used to analyse the formal elements (shape/composition, line, colour, pattern/texture, light, subject/function, and interpretation) as well. The interpretation level, for example, is examined through questions like: Why do you think the artist created this work? Do you feel certain emotions associated with each artwork? What effect do you think the artist’s time period had on his work?
Knowing about the artist’s education, partnerships and ideas about art, GRAM staff uphold, may help the viewer to see a work from a new perspective and to catch novel meanings. The artist weltanschauung is a key part of the artwork meaning.
Another guideline, developed by the National Park Service (http://www.nps.gov/museum/), specifically designed for students, is based on four basic steps. The Close observationof the visual elements – first part of this method – begins with broad open-ended questions (e.g., What do you see?). subsequently people focus on details (e.g., How would you describe the clothing?), sometimes it is possible to identify artistic processes and materials. Preliminary analysis is composed by simple analytic questions that will deepen viewer understanding of a work of art. Each question is followed by another question: How can you tell? This question chain pushes students to seek answers in the work of art rather than veering off into speculation. Research is the third step required to comprehend artworks (additional information on the historical, political, economical, and social artist’s environment). Lastly, interpretation involves assembling observation details, analyses, and information gathered about an art object in order to understand the exhibit meaning. The analyses is completed by comparing exhibits. A sample query is: How are these sculpture similar or dissimilar?
The guidelines aim at enhancing visual literacy, sharpening viewer observation, and learning to express what the viewer sees.
Angela Lawler and Susan Wood (2011) select five steps that allow learning to look at art. Students first observe artworks in silence. Eventually, they take time to describe the artwork objectively. The third step analyzes contents, such as colour (e.g., What colours are important in this work? How would this work change if different colours were used? What associations/symbolic meanings might the colours in this work have?), balance (e.g., Is this image symmetrical, asymmetrical? Does the image lie within the frame, or appear to go beyond the edges?), space (e.g., How is our eye drawn through/across this work of art? Are there vanishing points? If so, do these imaginary lines draw our attention to a particular place in the work?), line (e.g., Are the lines the same throughout the work? Identify types of lines and where they are found in the work), value (e.g., Are there parts in this work emphasized by light? If so, can we identify that source?), technique (e.g., Can you see the brushstrokes? Are they thick? Smooth or heavy? Are the brushstrokes the same thickness throughout the work? Do the brushstrokes flow in the same direction throughout the work? Did the artist use slow, meticulous strokes, or paint them on quickly?). The forth step tries to interpret the works of art exploiting what students know and have seen. Finally, students make a critical judgment of the artwork. Judging art requires fair and logical consideration. Angela Lawler and Susan Wood recommend to take time, because reading art is a slow, thoughtful, and exciting process of discovery.
As we have seen, comparing and asking questions are the main methods used to analyze exhibits. In our opinion, an inquiry-style personal response approach to communicate artwork meaning can be useful in an adult (lay public) museum tour as well.
Shall we use other methodologies of looking in order to achieve the same goal? We would like to tackle this topic from a different point of view. The next section introduces the psychological phenomenon called priming that can be used to foster visual skills.
2. What is Priming?
The exposure to a visual-perceptual, semantic, or conceptual stimulus influences response to a later stimulus. Consider this case. A person reads a list of words including the word apple. Subsequently the person is asked to complete a word starting with ap. The probability that he/she will answer apple is increased because the word was previously primed. Therefore, if a stimulus is primed, later experiences of this stimulus will be processed more quickly and precisely by the brain.
Priming is a kind of implicit memory (a sort of tacit memory that is not consciously retrieved or observed). While performance of episodic memory based on explicit tasks initially improves with age and declines in advancing age, priming remains relatively stable from age 3 to 80. As stated by Wiggs and Martin (1998), perceptual priming is impervious to long retention intervals, stimulus attribute alterations (e.g., size) attentional manipulations (e.g., dividing attention), and developmental changes, all of which affect episodic memory.
It is useful to outline a taxonomy of different kinds of priming. Researchers have made a distinction between conceptual priming and perceptual priming. Tasks that involve analysis of stimulus meaning engage conceptual processes. Tasks that entail analysis of perceptual form trigger perceptual processes.
Repetition priming facilitates performance based on prior encounter with the same stimulus.Although the majority of research on perceptual repetition priming has been in the visual domain, repetition priming has also been examined in auditory domain.
Visual perceptual priming is defined by enhanced processing of previously seen visual material, relative to novel visual material. The response in terms of speed and accuracy is improved.
Semantic priming refers to an improvement in speed or accuracy to respond to a stimulus when it is preceded by a semantically related stimulus (e.g., table-chair) as McNamara (2005) states. Pure semantically related stimuli either share semantic features or belong to a common category. In associative priming, the target is associated with the prime but not necessarily related by means of semantic features. Dog is an associative prime for cat, since the words are closely associated and appear frequently together.
In affective priming,responses to a target stimulus (e.g., happiness) are faster when the stimulus is preceded by a prime stimulus with the same affective value (e.g., sun) than when the prime stimulus has a different value (e.g., war).
Positive and negative priming refer to cases in which priming affects the speed of processing.Negative priming, discovered by Dalrymple-Alford and Budayr (1966) in the contest of the Stroop effect, is an side-effect: it lowers the speed to slower than unprimed levels processing a stimulus that was previously presented but was not attended. A positive prime speeds up processing.
Subliminal priming has been extensively investigated by Marcel (1983 a, b). He reported a series of experiments from which he obtained robust priming effects in the absence of perception of the prime. He concluded that priming proceeds automatically and associatively without any necessity for awareness.
In structural priming speakers tend to repeat the structure of a sentence heard or spoken previously – even when the sentences differ in lexical and message-level content. The phenomenon has been study extensively by Boch and her colleagues (Bock and Griffin, 2000).
Finally, it must be considered that priming may be effected in other modalities (e.g., auditory, haptic).
2.1 Visual-Perceptual Priming
Wiggs and Martin (1998) review the literature as to the main visual-perceptual priming experiments. They stress that perceptual priming is sensitive to changes in physical appearance only in some instances. In general, stimulus attribute alterations – such as colour, pattern, luminance, contrast, location, left-right reflection, and size – do not influence priming. At the same time, perceptual priming can be attenuated when stimuli are changed so as to affect the ability to identify stimulus form. Specifically, it is not affected by relatively small changes in orientation (i.e., rotations in depth up to 67°) but is eliminated by large changes in orientation (i.e., rotations in depth > 80°). Furthermore, the phenomenon is diminished with changes in an object’s exemplar (e.g., a different picture of the same-named object), and with changes in a word’s typography from study to test. These results suggest that physical attributes essential to the representation of object form –such as line elements of drawings, or written word form (e.g., print typography of letters) – do influence perceptual priming.
Finally, “the degree of attention devoted to encoding typically does not affect the magnitude of priming. Thus, when attention is divided during encoding, priming is no different than when attention is focus” (Wiggs and Martin, 1998, p. 228).
3. How to Improve the Methodology with Visual-Perceptual Repetition Priming
The purpose of the present research is to develop a priming-based model that takes into account the most relevant experimental and physiological findings and applies them to the museum environment.
Students and lay public are often unskilled visual onlookers. They do not know that an image or an artistic object may be read just as a book. They lack a proper education. To help them an education well-founded in visual language and communication is needed (Nuel, 1984). There are various ways to achieve such a goal. In this paper we focused on psychologically based techniques – priming is the most promising one.
The ability to analyze the artwork formal qualities, as we mentioned previously, is intrinsic to complete understanding of the art-making process. Therefore people need to develop or improve visual skills. Besides, museum visitors should learn a methodology, based on the knowledge of the main features contained in an artwork, to approach and comprehend an artistic object. In order to achieve these aims we have chosen to analyze and apply priming to museum environment. This phenomenon, as we described earlier, possesses some interesting characteristics: perceptual priming effects are long-lasting in normal adults and amnesic patients, priming remains relatively stable from age 3 to 80, the degree of attention devoted to encoding typically does not affect the magnitude of priming, and finally this phenomenon seems to be independent of cultural background.
Our aim is to trigger visitors visual skills showing visual stimuli related to artworks (colours, lines, shapes, and so forth). Here is a streamlined example of a tentative priming-oriented method so as to develop artwork-related visual skills.
In the experiment we also adopted an innovative approach consisting in supporting results also with subjects’ EEG data acquired during the final test in which participants were asked to answer some questions about the experience. EEG has been chosen for its temporal resolution, because we aim to measure if and when, answering to the questions, participants present variation in EEG signals, due to stimuli recognition, frustration and change in attention levels.
3.1 Setups
The aim is to implement either technological devices and educational resources (wall and caption texts, booklet) based on priming process. Each artworks expressive content, described previously by art historians and museum practitioners, would be proposed as visual stimulus for a short period of time to the lay public, before the encounter with the real work of art. The comparison of visual stimuli possessed by different masterpieces that depict the same subject matter, as underlined by Taylor, would help understanding better the work of arts expressive contents.
The experimental setup takes advantage of visual-perceptual repetition priming. It is based on a museum tour (Pinacoteca Ambrosiana – Milan, Italy) where participants singularly watch prime stimuli on a screen under the supervision of researchers. On the whole, the experiment require three statistically sampled groups of subjects: prime stimuli group, neutral stimuli group, and control group. Ten stimuli are showed within a controlled period of time. Subsequently the participants visit the museum without any restrictions. At the end of their tour, the participants are asked to answer some questions about the masterpieces chosen for the experiment in order to check if the prime stimuli (e.g., colour) helped them remembering the artworks main features (target). A control group of the same number of people tour the museum without any previous visual stimuli and another group is exposed to neutral stimuli. When taking the final test, all the groups of subjects have been submitted also to their EEG signal measure (Niedermeyer and Silva, 2004). To avoid influence in anxiety of participants, we chose to use a Brain Computer Interface (BCI) devices (Allison et Al., 2007) to collect EEG signals. BCI devices are a simplification of the medical EEG equipment and currently several kind of low-cost, non-invasive BCI could be chosen for our research objective. We collected EEG data using a Neurosky MindwaveTM BCI device, used in several commercial and research applications, consisting of a headset with an arm equipped with a single dry sensor acquiring brain signals from the forehead of the user at a sample rate of 512 Hz, transmitted via bluetooth to a host computer. Compared to other BCIs, such as, for example, Emotiv EpocTM, the Mindwave BCI results more comfortable for users, both for the easiness of positioning the device on the scalp, and because it uses a dry sensor instead of wet ones. Moreover brain functions interesting our work, are related to the premotor frontal cortex area, that is the area on which the MindwaveTM sensor is positioned. In fact, the signals from the frontal lobes are linked to higher states of consciousness. Another advantage, convincing us about using MindwaveTM, consists in the wireless communication between the BCI device and the computer during the collection of data, making comfortable wearing the BCI during the experiments.
BCIs collect several cerebral rhythms grouped by frequency. For our purpose, we concentrate on alpha, beta, theta and gamma band. In fact, activity in the alpha band (7 Hz – 14 Hz) is usually related to relaxed awareness, meditation, contemplation, etc. Beta band (14 Hz – 30 Hz) is associated to active thinking, active attention, focus on the outside world or solving concrete problems. Theta band (4 Hz – 7 Hz) is related to emotional stress (frustration & disappointment). Finally, activity in gamma band (30 Hz – 80 Hz) is considered to be related to cognitive processes involving different populations of neurons, and to the processing of multi-sensorial signals.
As to the kind of stimuli, ten prime stimuli are selected. In general the prime stimuli are related to the artistic features of the artworks located in the gallery (e.g., colour, technique, style, iconography, shapes, brushstroke, and line specific of) while the neutral ones are unrelated to the artistic features of the works of art selected. In this experiment, portions of colours, have been select from five artworks positioned in Pinacoteca Ambrosiana. In order to select the colours we followed some criteria: the colour extent, the colour saturation and value, and the repetition of the hue in the Pinacoteca collection.
Procedure. At the onset, participants read the instructions they will then paraphrase back to the experimenter. After a practice trial, participants are asked whether they have any doubts as to what they have to do. The prime group watches a session of 5 prime stimuli (colours: red, green, blue, brown, and white) related to 5 paintings features, alternated with neutral prime stimuli (objects in black and white not depicted in paintings: luggage, phone, baby’s bottle, vacuum cleaner, and headband) for a short period of time (1 minute circa). The neutral stimuli group watches a trail composed by 10 stimuli unrelated to paintings (objects pictures in black and white such as sunglasses) for a short period of time (1 minute circa). A control group visits the museum without any previous visual stimulus.
The prime stimuli alert the visitor’s brain and help remembering better the colours represented in the paintings.
After the museum exhibition tour, participants complete a questionnaire about the five selected features of the corresponding artworks and wear Mindwave in order to collect EEG signals.
3.2 Results
Developing and training visual skills using priming is the goal of the present research. As previously mentioned, priming has interesting features, such as long-lasting effects, stability despite age, imperviousness to attention degree, and independence of cultural background, that can be exploited in museum environment. Future detailed experiments will better test how much such elementary psychological process may help museum practitioners to improve visitors’ visual skills.
Concerning data collected by EEG signals, to analyze the presence of differences in the brain activity during the final questions session, among the three groups, we calculated, using MATLABTM, the average Power Spectral Distribution (PSD)(Priestley, 1991) in the alpha, beta, theta and gamma wave bands (Niedermeyer and Silva, 2004; Bear, Connors and Paradiso, 2007) for all the users. PSD, in fact, describes how the power of a signal is distributed with frequency, and therefore the average values in each band can give useful information on the overall behaviour of the brain activity eventually induced by the visual stimuli. For our experiments, we calculated PSD using the Welch’s method(Welch, 1967) with Hamming window function(overlap 50%, segment length 64) (Oppenheim and Schafer, 1989) and to compensate the different data ranges for each user, due to personal variability, we have computed for each user data the ratio between the average power in each band and the average power in the frequencies interval between 0 Hz and 80 Hz.17 Finally, we have computed an average of these ratios in each band. From an analysis of these plot, it appears that in subjects who received the visual stimuli there is an increase in the attention level (Beta and Gamma bands, related to active thinking and attention). On the contrary, Theta brainwaves decrease, showing that participants did not feel frustration or disappointment.
Participants who did not receive any visual stimuli show results similar to those subjects who received a neutral one. In these cases, Beta and Gamma bands decrease, compared to the first group, while we registered an increasing of Theta band.
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We also calculated the average band power in beta, Gamma, Theta and Alpha bands for the three groups of participants.
For subjects who received the visual stimuli, Gamma and Beta bands revealed an average band power significantly greater than participants who did not receive a stimulus and to whom received a neutral one. On the contrary, Alpha band, related to meditation and contemplation, and Theta band, corresponding to frustration, decrease for the first group, compared to the other two.
Of course, the application of EEG signal analysis to this kind of experiment is a challenge and we are aware that the presented experimental setups are not based on a specific task. This can affect the analysis of activity in the analyzed bands, often considered and studied in well-defined task-based experiments. We are currently considering other experimental setups, based also on ERPs, in order to investigate the actual appropriateness of the beta/alpha ratio as an index of attention in EEG based experiments on visual prime.
4. Conclusions and future works
Developing and training visual skills using priming is the goal of the present research. As previously mentioned, priming has interesting features, such as long-lasting effects, stability despite age, imperviousness to attention degree, and independence of cultural background, that can be exploited in museum environment. In this paper we presented encouraging results obtained submitting individuals to a museum tour where participants singularly watch prime stimuli on a screen under a researcher’s supervision.
While participants were answering to the final questions, we also registered their EEG signals using a non-invasive BCI device. The presented preliminary results shows that, compared to subjects who did not received specific stimuli, in participants who received the visual stimuli, we registered an increasing of the attention level corresponding to questions related to the engagement of memory due to the visual stimuli. Also beta and gamma bands, related to active thinking and attention, presented a regular track on the same questions. Theta brainwaves did not show frustration symptoms and, correspondently, alpha values, also related to meditation and contemplation, confirmed the relaxed attention state of subjects.
On one hand this new approach promises future improvement in exploring priming mechanisms, while, on the other hand, results represent just a preliminary step in improve EEG use for our research aims. Future works will have mainly the objective to individuate measures more significant for our aims. We also will have to perform more experiments to validate this innovative approach, representing, at the same time, a great opportunity and a challenge.
Future experiments will test how much such elementary psychological process may help museum practitioners to improve visitors’ visual skills.
Acknowledgments
We thank Riccardo Manzotti who helped us during this work. We also thank Daniele Marini and Davide Gadia for their suggestion on signal processing and analysis methods.
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Storie di Terapie #26 – Paul
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso
I pazienti per i quali si prova maggiore simpatia non sempre sono quelli che vengono curati meglio. Credo che ciò dipenda da due fattori, da un lato si vuole evitare di procurargli possibili sofferenze e dunque non si affrontano passaggi che potrebbero essere dolorosi, dall’altro la simpatia si fonda spesso su un comune sentire, sul fatto di vedere le cose del mondo e la vita in modo simile.
Ora, però, poiché è proprio quel modo di vedere le cose che causa al paziente sofferenza, siamo nei guai: se il terapeuta adotta la stessa prospettiva per guardare la realtà, non gli sarà facile aiutare il paziente ad assumere una distanza critica. Lo slancio nell’impegno e il furore terapeutico che si prova in questi casi non basta a compensare questi due bias di fondo.
La prova di questa mia curiosa simpatia nei confronti di Paul è dimostrata da vari fatti. Durante la prima parte della terapia, che fu interrotta improvvisamente per una mia malattia, si era arrivati ad un debito di Paul nei miei confronti di oltre sessanta sedute, da saldare quando avrebbe trovato un lavoro stabile.
Considerato che le sedute, proprio per motivi economici, erano state piuttosto rare si trattava, all’incirca, di un periodo di due anni in cui ho visto Paul senza pagamento. Nonostante questo non provavo emozioni negative nei suoi confronti e, quando mi ha ricercato, sono stato ben contento di continuare a vederlo. Mi ricordavo solo vagamente del debito e fui molto positivamente colpito dal fatto che fu lui a ricordarmelo, senza tuttavia saldarlo, permanendo la situazione di disoccupazione.
Quarant’anni, decisamente ben piantato, occhi e capelli nero corvini, l’aspetto forte di un guerrigliero sudamericano del primo novecento, uguale lo slancio ideale, raffinato e quasi snob nell’eloquio, esibiva un’ eleganza naturale che lo assimilava alla grande casata degli industriali dell’auto, come lui torinesi.
Torino era la sua città d’origine dove, in un collegio di gesuiti, aveva messo le basi della propria formazione.
La madre insegnante al liceo e pianista di conservatorio, il padre prestigioso professore universitario di filosofia teoretica in alcune università cattoliche. Sul fatto che Paul avrebbe avuto una formazione umanistica classica non vi era alcun dubbio e nemmeno sulla scelta della facoltà universitaria, che sarebbe stata filosofia. Il margine di scelta che restava a lui riguardava il settore filosofico in cui specializzarsi per raggiungere, possibilmente giovanissimo, la cattedra di professore ordinario.
Probabilmente, se non avesse avuto talento, avrebbe precocemente deluso le enormi aspettative dei genitori e si sarebbe organizzato un’ esistenza propria. Invece era bravo e dalle elementari conquistò il posto di primo della classe che non avrebbe più abbandonato. Le aspettative degli altri lo spingevano ad essere bravo e la sua bravura rafforzava le aspettative altrui. Guardandolo mi veniva in mente il verso di Faber dedicato al suonatore Jones che recita: “ e poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare”.
Quando lo incontrai per la prima volta a Paul piaceva molto lasciarsi ascoltare. Aveva preso in parte le distanze dal modello familiare e, in parte, vi aveva aderito perfettamente. Era un brillante ricercatore volontario all’università, si occupava di filosofia morale, ma da una prospettiva rigorosamente atea e aspramente anticlericale. Era dichiaratamente di sinistra con tutte le conseguenze estetico- comportamentali del caso. Fumava la pipa, vestiva malissimo, beveva troppo e girava con una vecchia moto. Il problema che lo portava in terapia era la sua totale incapacità a opporre anche il più piccolo rifiuto alle richieste degli altri.
Nel suo incondizionato accondiscendere si era talmente specializzato che le persone che gli erano più vicine non dovevano neppure formulare delle richieste perché lui le preveniva sistematicamente. Nel suo modo di porsi era implicito un sottotitolo del tipo “servitevi di me” che si trova sui cestini della spazzatura della capitale.
Anche la considerazione di se stesso non si discostava molto da quella dei suddetti cestini e mi accorsi che, questo modo di esistere, si riproponeva anche nella relazione terapeutica: nonostante lo invitassi a sperimentare qualche piccolo rifiuto alle richieste altrui, quando avevo bisogno di fare uno spostamento per miei problemi di agenda il primo che chiamavo era lui. Paul naturalmente acconsentiva ed io lo rinforzavo con mille ringraziamenti per la sua encomiabile disponibilità. A fatti smentivo quello che ci dicevamo a parole. Ci ridemmo sopra e mi ripromisi intimamente di disciplinarmi di più.
Se il comportamento mite e arrendevole era sempre presente, raggiungeva dei vertici di purezza assoluta con Anna, la madre, e Olga, la fidanzata. Nei loro confronti appariva perfino grottesco.
Era autista e fattorino di Anna che aveva rinunciato alla patente dopo il trasferimento da Torino a Roma. Il padre, spesso all’estero per lavoro, aveva comprato una Smart a Paul con lo specifico mandato di accompagnare la madre a scuola, a fare la spesa e alle lezioni private di pianoforte. Paul trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi nei supermercati sottobraccio alla madre o ad aspettarla in auto di fronte al portone dove lei saliva ad impartire lezioni di piano.
Qualsiasi piccolo sussurrato accenno di malcontento di Paul veniva stroncato dalla madre con una frase capace di gettarlo nello sconforto assoluto e che, in varie varianti, suonava pressappoco così: “ non sei più il mio Paul di un tempo, non ti riconosco più”. Sentire questa frase e gettarsi alla scoperta del significato che per lui aveva, tale da giustificare panico e sconforto, fu per me un tutt’uno.
Deludere la persona amata poteva comportare l’interruzione del legame per sua colpa e l’idea che sarebbe stato responsabile della sofferenza inconsolabile della madre e, forse, della sua morte. Era la colpa l’esperienza che Paul riteneva intollerabile, non la solitudine. Tuttavia lo sgomento maggiore consisteva nel senso di perdita dell’identità. Se non era più il Paul che sua madre conosceva, allora chi era? Non aveva nessun altra identità e si sentiva perduto. Aveva l’impressione fisica di scomparire. La posta in palio era ben più importante del legame e riguardava la propria soggettività, l’esistenza stessa. Con Olga c’era, invece, in primo piano il legame. Lei rappresentava l’intero universo dei suoi legami significativi.
Il trasferimento a Roma quando aveva sedici anni lo aveva privato di tutte le amicizie dell’infanzia e lo aveva reso il “torinese di buona famiglia con la puzza sotto al naso” in mezzo ai gruppi adolescenziali della capitale. Paul aveva reagito concentrandosi ancora di più nello studio, nel quale aveva successo. Ciò lo rendeva ancora più antipatico agli altri e incrementava l’isolamento, dapprima subìto e infine cercato. Appena sbarcato all’Università conobbe Olga e l’avvinghio reciproco fu immediato. Lei fuori sede, di nobile famiglia pugliese, aveva alle spalle una storia di violenze e abusi familiari che la spingeva verso la manifesta mitezza di Paul. Lui era attratto dalla capacità di lei di pretendere da tutti un risarcimento per le sue traversie. I due vivevano in tale simbiosi che i pochi amici rimasti li chiamavano Polga.
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Per rappresentare le regole fondamentali della relazione basta un aneddoto. Olga sin dai primi contatti sessuali, aveva squalificato Paul confrontandolo con il suo partner precedente, descritto come una inesauribile macchina per il sesso. Considerando Paul inadeguato a penetrarla, pretendeva di essere masturbata e leccata fino ad ottenere almeno un paio di orgasmi. Poi Paul era libero di andare in bagno a masturbarsi, ma non doveva tornare a dormire nel letto comune perché il suo russare la disturbava. Non avendo avuto mai altre partner, Paul si era convinto della sua inadeguatezza ed era persino riconoscente con Olga che perlomeno gli concedeva quelle pratiche. La situazione si trascinava più o meno così da quando si era iscritto all’Università, ma tutto precipitò quando Paul realizzò il suo sogno di andare a vivere da solo.
La presenza dell’altro costituiva un faticosissimo costante lavoro di lettura dei bisogni altrui ed un gran darsi da fare per assecondarli. Questo lavorio cessava soltanto quando si trovava da solo. Ciò non era del tutto vero ma quasi, infatti anche nei momenti di solitudine anticipava gli eventi futuri e immaginava cosa avrebbe fatto per soddisfare gli altri. Dalla vita da solo si aspettava comunque un grande sollievo.
I genitori decisero di acquistargli un piccolo ma confortevole appartamento, senza coinvolgerlo nella scelta e senza intestarglielo perché “non si sa mai le sciocchezze che può fare un giovane” e dunque è bene proteggerlo da se stesso. Aveva casa ma non era effettivamente sua. Mamma Anna lo arredò minuziosamente utilizzando i mobili di Torino che non entravano nella casa di Roma, più piccola. Naturalmente Paul non fece altro che ringraziare i genitori per la sollecitudine dimostrata, aveva immaginato un’altra cosa ma non osò dirlo.
Non aveva neppure terminato di traslocare tutte le sue cose che Olga, sconvolta dall’ennesima litigata con il padre, si presentò con una grande valigia comunicandogli che d’ora in poi avrebbe vissuto con lui cosa che, ovviamente, non poteva che colmarlo di gioia, essendo la sua donna. Non erano passate due settimane dal possesso delle chiavi di casa che Paul dovette accomodarsi nel divano dell’ingresso, separato da due porte dalla camera da letto, a protezione del delicato sonno di Olga.
Fu in questo periodo che ebbe inizio l’epico scontro tra Anna e Olga per il possesso di Paul. Tutti i più triti luoghi comuni della rivalità tra suocera e nuora vennero messi in scena negli allestimenti più roboanti, quasi quotidianamente. A differenza di Paul, le due contendenti non erano affatto anassertive e la vivacità degli scontri comportò nei soli primi tre mesi l’intervento delle forze dell’ordine allertate dai vicini per ben due volte. La situazione sarebbe stata pesante per chiunque ma per il povero Paul, messo nel ruolo di novello Paride, era assolutamente intollerabile. Aveva di fronte le due persone da cui era più dipendente per il mantenimento della propria identità e loro gli chiedevano continuamente di sconfessare una delle due.
Il sogno della vita da solo stava naufragando, le richieste degli altri non erano state fermate dalla porta blindata e dalla serratura europea e invadevano ogni metro quadrato della casa e ogni istante della sua giornata. A questo punto comparvero i sintomi: drastico peggioramento nell’impegno universitario, fino alla rinuncia ad un concorso per ricercatore strutturato in cui aveva qualche possibilità, violente crisi di rabbia con atteggiamenti pantoclastici verso i mobili della casa, risvegli notturni durante i quali si chiudeva in cucina da solo, mangiava e beveva a dismisura fino a sentirsi male.
Una notte in cui aveva esagerato più del solito gli capitò di vomitare; da quel momento, vomitare dopo le abbuffate notturne divenne un comportamento abituale del quale si vergognava moltissimo, sentendolo appartenere più ad un’adolescente segaligna e anoressica che al personaggio intellettuale, pacato e saggio che si era costruito.
Le due fiere avversarie nel frattempo avevano interrotto i rapporti diplomatici e comunicavano esclusivamente tramite Paul ambasciatore, non senza pene, delle reciproche dichiarazioni di guerra. A lui si limitavano a chiedere di interrompere definitivamente i rapporti con l’altra e di considerarla morta per sempre.
Da parte mia, non comprendendo evidentemente la profondità dell’angoscia di Paul ,veniva il suggerimento di accontentarle, sì, ma entrambe. Mi sentivo come Massimo Troisi nel film “Ricomincio da tre” quando sussurra all’orecchio di Robertino, bravo figlio di famiglia al servizio della madre, la frase “scappa”. Ma sarebbe come suggerire ad un tetraplegico la cui casa sta bruciando di alzarsi e fuggire. Non poteva farcela, ero io a doverlo portare fuori e c’era fin troppa gente a dargli buoni consigli, ciò non faceva che aumentare il suo senso di inadeguatezza e di conseguenza la dipendenza dall’altro. Non va dimenticato che in fatto di logica e razionalità Paul non era secondo a nessuno.
Quando rividi Paul, dopo la fase acuta della mia malattia, la situazione era sostanzialmente immutata, semmai più cronicizzata, al di là di ogni consapevolezza. Paul e Olga vivevano insieme. Durante tutto il giorno lui era l’autista di lei, che aveva smesso di guidare e il suo servitore per ogni capriccio. Olga e Anna non si parlavano da tre anni e lui, ogni martedì sera, andava a cena dai suoi dove recitava la parte del bravo figliolo e tra loro rispolveravano il dialetto torinese per sciacquarsi la bocca dalla melma romana. Il concorso universitario non c’era ancora stato e si barcamenava con saltuari lavoretti.
Tutto quello che faceva sapeva farlo con grande competenza e discreto successo e, in linea teorica, rappresentava anche ciò che davvero voleva fare, ma solo da un punto di vista strettamente teorico; suonava solo perché lo sapeva fare e gli piaceva farsi ascoltare e non è facile, a quarant’anni, buttare il flauto alle ortiche e ricominciare un’altra vita soprattutto perché, dopo un’esistenza intera di induzione esterna dei desideri, non si sa davvero più quali siano i propri e se ci siano.
Paul viveva “il dramma del camerino svaligiato”: chiamo così il vissuto dell’attore impegnato nei panni di un personaggio a lui poco gradito, ma che ormai conosce molto bene e sa recitare con grande successo, al quale comunicano che il suo camerino è stato svaligiato e tutte le sue cose rubate. Il dilemma sta nel rimanere in un ruolo non suo che tuttavia ben conosce o spogliarsi di tale ruolo per rimanere senza niente.
Ad un certo punto dell’esistenza occorre anche valutare realisticamente ciò che si può davvero cambiare ed accontentarsi, eventualmente, di trovare il miglior adattamento possibile ad una situazione non completamente modificabile. Forse a Paul sarebbe piaciuta una vita da motociclista on the road, ma questo ormai doveva rimandarlo alla prossima occasione. E poi, come stabilire cosa avrebbe voluto un ipotetico Paul privo di condizionamenti: è una condizione che non è data a nessuno ed è sciocco chiederselo.
I meccanismi che lo facevano soffrire nel presente e che potevano essere ragionevolmente limati erano due: l’impossibilità percepita da lui di opporre un rifiuto alle aspettative altrui, da cui poi si sentiva imprigionato e che gli procurava una rabbia incontenibile, e la colpa con conseguenti comportamenti riparatori.
Tale impossibilità era connessa ad un’ immagine di sé dipendente dall’altro e viceversa: in particolare con Olga, si trattava di modificare la percezione che aveva di lei come fragile e assolutamente bisognosa di aiuto nelle normali attività quotidiane. Era completamente assorbito dall’assistenza di Olga, con il risultato di renderla effettivamente un’invalida insoddisfatta di sé e di provare rabbia verso lei per le limitazioni alla sua autonomia. Alla rabbia seguiva la colpa e una maggiore dedizione compensativa.
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Fu grazie al pensiero che accondiscendere sempre alle richieste di Olga faceva direttamente del male a lei e danneggiava la vita di coppia, accumulando reciproci rancori, che Paul iniziò a dire i primi timidi no. Fortunatamente questi furono rinforzati da Olga che gli disse di sentirsi finalmente al fianco di un uomo forte. Da un punto di vista comportamentale concordarono delle aeree della vita familiare completamente a gestione di Olga e, inoltre, che Paul sarebbe stato per proprio conto un certo numero di ore ogni giorno fuori casa a lavorare o a divertirsi senza preoccuparsi di organizzare la vita di lei.
Paul si comprò un cane che aveva desiderato fin da piccolo e riversò su di lui la smania di accudimento; con il cane stava bene perché non si sentiva continuamente sotto esame. Le abbuffate e le sbronze notturne furono sostituite da un pranzo settimanale in un ristorante accuratamente scelto in cui invitare un amico. La sua cura nello scegliere le pietanze e i vini, insieme alla abitudine che aveva di annotarsi su un notes le idee che gli venivano, crearono una voce per lui vantaggiosa: tra i ristoratori del centro si iniziò a credere che fosse un valutatore della guida Michelin o del Gambero Rosso.
A volte invece degli amici invitava il padre, scoprendo entrambi il piacere di stare insieme senza la mediazione di Anna. Ciò pose fine alle cene rituali a casa dei genitori e incredibilmente Olga non lo sventolò come una sua vittoria nella guerra contro la suocera. Deduco che anche nei miei confronti Paul avesse imparato a mantenere degli spazi riservati per sé, vivendo gli altri come meno soffocanti: infatti, tre mesi dopo il primo pranzo al ristorante, Paul mi annunciò che avevano sospeso le pratiche avviate per l’adozione perché Olga era incinta. Io invece ero rimasto alle seghe solitarie in bagno. Qualcosa non tornava, ma andava bene così! Le nuove spese che l’arrivo di un figlio comportavano suggerirono l’interruzione della terapia. Resto in attesa che lui, o l’erede, saldino il debito della prima terapia.
Secondo una nuova ricerca la memoria di lavoro può funzionare meglio a seguito di un training di mindfulness. Lo studio pubblicato su Psychological Science ha dimostrato che due sole settimane di protocollo mindfulness-based stress reduction (MBSR) avrebbero un effetto benefico sulla funzionalità della working memory con la mediazione di una riduzione del mind-wandering.
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Per capire se un training di mindfulness potesse migliorare le performance di memoria di lavoro 48 studenti universitari sono stati assegnati in modo randomizzato a un corso di practica mindfulness oppure a un corso di nutrizione.
Dai risultati è emerso che il gruppo sottoposto alla pratica di mindfulness ha presentanto un miglioramento significativo – rispetto al gruppo di controllo- sia nei test di comprensione del testo che di working memory, con una minore quota di mind-wandering durante la prestazione.
Sembrerebbe dunque che la mindfulness sia in grado di ridurre il fenomeni di mind- wandering e conseguentemente le capacità della memoria di lavoro e di comprensione di un testo scritto.
L’autore racconta come è nato questo libro, quali aspettative e bisogni spera di soddisfare, quali sono le sue finalità e le sue caratteristiche.
il colloquio cognitivo incoraggia il paziente ad apprendere tre abilità fondamentali: riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva, ovvero tra quello che si sente e quello che si pensa, mettere in discussione la validità di questi pensieri ed elaborarne di nuovi, più veri e soprattutto più utili per fronteggiare le situazioni problematiche.
Gruppi Settari e Sequestro della Mente: Quale Reato Scatta?
PSICHE E LEGGE #8
Rubrica a cura dell’ Avv. Selene Pascasi
Quando la mente criminale “scrive” il processo penale.
Sette e “sequestro” della mente. Quale reato scatta?
Psiche e Legge#8: La questione dei gruppi settari costituisce il caso più emblematico in seno al quale germogliano, di frequente, i semi di una distorta relazione tra gli inevitabili legittimi condizionamenti psichici, e quelli illeciti, frutto di un meditato intento delittuoso.
In chiusura della scorsa rubrica, dedicata alla tematica dell’alienazione mentale, ho accennato al fenomeno delle sette, riservandomi di tornare sull’argomento. Ne parleremo oggi.
La questione dei gruppi settari costituisce il caso più emblematico in seno al quale germogliano, di frequente, i semi di una distorta relazione tra gli inevitabili legittimi condizionamenti psichici, e quelli illeciti, frutto di un meditato intento delittuoso.
Così – consci del fatto che solo nella seconda eventualità sarà configurabile un reato a carico di chi, consapevolmente e per finalità di vantaggio, abbia in qualche maniera “sequestrato” l’altrui libertà di autodeterminazione – sarà interessante spendere qualche rilievo in ordine alle tecniche adottate, nella pratica, per “dirottare” a proprio vantaggio le scelte (solo apparentemente libere) dell’“adepto”.
V’è anche da ricordare come, a prescindere dal dato comune della manipolazione psicologica volta a strumentalizzare la vittima fino a distruggerne l’identità psichica, sussiste una decisa distinzione tra setta e satanismo criminale. In particolare, se la comunità settaria si stringe attorno ad un capo, ad un soggetto fisico che detta orientamenti di pensiero ed abitudini, nell’altra ipotesi, i soggiogati non permeano i loro comportamenti sulla base di quanto “desiderato” dal leader, orientandosi invero su quanto “imposto” dal credo satanico, praticato mediante sacrileghi rituali.
Ad ogni modo, tornando ad occuparci del gruppo settario, è agevole osservare come il classico approccio alla vittima si delinei agli occhi degli inquirenti, sulla base dei caratteri peculiari del reato di circonvenzione di incapaci, sul quale ci siamo già soffermati. Chiave di volta delle vicende, alquanto similari, sottoposte all’attenzione dei giudici, è difatti quell’aurea di infinita bontà e dolcezza che – prima facie – caratterizza ogni dominatore psichico che, individuato il perfetto adepto, ne carpirà debolezze e lati oscuri del vissuto, che sarà abile del farsi confidare.
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Informazioni delicate e preziose, dunque, che, a tempo debito, userà come arma di ricatto per ottenere la contropartita ad una sorta di protezione omertosa della verità, o, peggio, di amichevole sostegno e complicità a passate “malefatte”. Tale condizione di inferiorità provocata dell’adepto, sarà decisiva per lederne ogni certezza e renderlo bisognevole di supporto, se del caso anche dietro corresponsione di denaro o trasferimenti immobiliari, resi a titolo di “gratitudine” per il “bene” ricevuto.
Quanto alle modalità attuative del crimine, se inizialmente si parlò del cd. lavaggio del cervello (brainwashing, dal cinese hsi nao, inerente le tecniche di purificazione mentale rivolte ai detenuti), fu solo in un secondo step, che al fenomeno in esame venne riservata un’interpretazione prettamente scientifica, stante la catalogazione della vittima di manipolazione quale soggetto sofferente del disturbo psichiatrico denominato, nel DSM IV, come “disturbo dissociativo atipico300.15”.
L’ostacolo maggiore che si presenta in occasione di denunciati “sequestri della mente”, però, è un altro. Leggere la problematica esclusivamente dal punto di vista del condizionamento mentale dell’adepto-persona offesa dal reato, recherà in se imprescindibili, e talora insuperabili ostacoli probatori, primo fra tutti, quello della sua attendibilità.
La suggestione mentale in cui ormai versa la vittima, troppo a lungo incastrata in un vissuto imposto dal leader, è tale da farle percepire quella realtà plasmata come una realtà desiderata. Si palesano, così, gli scogli frapposti ad un vaglio giudiziale, teso a far luce sulla perpetrazione di crimini a danno degli adepti che, vittime inconsapevoli del reato, tenderanno – nel riferire gli accadimenti – ad inquadrarli alla stregua di fatti ordinari, finendo per negare di aver subito coercizioni psichiche.
Contegno processuale, quello descritto, che sarà fonte di logiche perplessità circa l’attendibilità della persona offesa la quale, respingendo ella stessa la veste di vittima del delitto, indurrà il giudice a disporre indagini sulla sua sanità mentale. Ciò premesso, e codice alla mano, preme chiedersi: a prescindere dalla richiamata figura di circonvenzione d’incapaci, quali altri reati sono sostenibili in giudizio, a danno degli adepti? Il pensiero corre alla figura prevista dall’art. 661 c.p., che “punisce l’agire di chi pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di “abusare della credulità popolare”.
È’ noto, tuttavia, come un tal crimine – legato alla propaganda di credenze prive di base scientifica (comunemente definite cialtronerie, espressamente vietate da specifiche disposizioni) – resterebbe perpetrato solo nel caso in cui dalla condotta abusante possa derivare “un turbamento dell’ordine pubblico”. Sovvengono, allora, a chiudere il cerchio circa la tutela frammentariamente delineata dal Codice vigente, pregiati studi effettuati in materia (Strano, Manuale di criminologia clinica, See, Firenze, 2003), in base ai quali è consentito distinguere, nell’ambito dei fenomeni settari, due grandi fasce di delitti: quelli posti in essere dal leader della comunità a danno dei sottoposti (truffe, lesioni provocate in occasione di sacrifici e rituali macabri, sequestro di persona, induzione al suicidio, abusi sessuali, omicidi) e quelli perpetrati dagli stessi adepti, nei confronti di terzi (violazione dell’obbligo di assistenza del familiare, casi di abbandono, pedofilia, profanazioni cimiteriali, maltrattamenti di animali, danneggiamenti di chiese).
Si consenta di richiamare, ancora, la tesi del dott. Strano, che sollecita e calca l’esigenza di procedere ad un accurato studio del clima psicologico strutturatosi all’interno della setta, che sia focalizzato anche sugli aspetti antropologici ed organizzativi dei gruppi, e teso a comprendere l’ambito in cui si origina il reato, ovvero quali siano gli aspetti psicosociali che possano aver favorito l’avvicinamento degli adepti a tale particolare realtà.
Realtà ricca di rischi per la società. Basterà, del resto, riportare alla memoria il pensiero del sociologo Gustave Le Bon, che ben aveva notato come i soggetti radunati in folle tendano a mortificare le proprie individualità e potenzialità psichiche, uniformandosi al gruppo, e divenendo parte di una specie di unica mente collettiva. Ed è noto quanto possa divenire pericoloso il branco, specie se controllato da un discutibile leader.
Suggestione di massa, dunque. Suggestione di massa, peraltro, provocata da spiccate personalità, prive di scrupoli e assetate di denaro, autrici di progetti precipuamente volti ad ottenere strategici consensi da parte dell’adepto. Questi, e mille altri gli aspetti sui quali verte il fenomeno delle sette, tematica decisamente ampia, e certamente non “contenibile” nell’odierna rubrica. L’intento, tuttavia, spero in parte riuscito, è stato quello di lanciare messaggi, spunti di riflessioni su aspetti che – seppur apparentemente estranei alla professione legale – sono ad essa profondamente legati, laddove si auspica che l’esame delle dinamiche sottese ai gruppi settari, e l’individuazione degli interessi patrimoniali su cui si muovono, possano suggerire all’operatore del diritto, le soluzioni più corrette da adottare nell’ottica di offrire un’adeguata risposta sanzionatoria alle accennate condotte criminose.
Cinema & Psicoterapia #4 – Changeling (2008). E’ un’ottima testimonianza dei metodi violenti che venivano utilizzati per la cura dei malati mentali e non solo.
Un film di Clint Eastwood, con Angelina Jolie, John Malkovich, Jeffrey Donovan, Colm Feore, Jason Butler Harner. Drammatico. USA 2008.
TRAMA:
Changeling racconta una storia vera. Nel 1928 a Los Angeles Christine Collins, una giovane donna, vive con il figlio avuto da un uomo che l’ha abbandonata. Una mattina per recarsi al lavoro lascia a casa il giudizioso figlio Walter. Al ritorno non lo trova in casa, è scomparso e di lui si è persa ogni traccia. Dopo qualche mese la polizia, che non gode di buona reputazione, sembra aver ritrovato il bambino, ma quando riporta Walter a sua madre, Christine si rende conto che quello non è suo figlio.
Christine Collins dovrà condurre una dura battaglia contro l’arroganza di una polizia corrotta che ha necessità di dimostrare all’opinione pubblica la propria efficacia. Sarà addirittura internata in manicomio, su richiesta del capitano che si occupa del caso, ma senza mai arrendersi e con l’aiuto del reverendo Guistav Briegleb riuscirà ad ottenere giustizia, anche se scoprirà una drammatica verità: il figlio forse è stato ucciso, insieme ad altri bambini, da un serial killer.
Changeling propone la lotta dell’individuo contro il potere corrotto e il sistema di controllo sociale che considera le persone come oggetti.
Leggi la Rubrica: Cinema & Psicoterapia a cura di Antonio Scarinci.
Le autorità di polizia decidono senza una proposta medica di internare Christine attribuendole disturbi mentali che l’avrebbero spinta a non riconoscere nel sedicente Walter il proprio figlio. I medici dell’ospedale psichiatrico si dimostrano conniventi e assumono la custodia di tutte quelle donne internate con il codice 12, pazienti il cui ricovero è stato chiesto dalla polizia. Tra le degenti c’è una prostituta che si è ribellata alle violenze di un suo cliente poliziotto e la moglie maltrattata e abusata di un’altro poliziotto che ha osato denunciarlo. La limitazione della libertà e la custodia in manicomio era una prassi ricorrente che veniva utilizzata per escludere chi non godeva dei diritti in maniera piena (donne, emarginati, neri, ecc.). Alcune scene del film mostrano il trattamento disumano che veniva riservato ai degenti e soprattutto le modalità con le quali l’istituzione riusciva a produrre la malattia mentale in soggetti normali.
Il racconto man mano che si snoda suscita indignazione, quella indignazione che ha permesso di chiudere i manicomi e di mantenere alta l’attenzione nei confronti del rispetto della dignità umana. Il caso giudiziario, ai limiti dell’incredibile, noto come Wineville Chicken Coop Murders trasformò le leggi della California in materia di poteri della polizia.
In alcuni casi la rabbia, il dolore e la forza di chi coraggiosamente si oppone alla sopraffazione del potere e alle zone d’ombra del sistema delle regole, messe impietosamente a nudo nella scena del colloquio in manicomio tra la protagonista e il direttore sanitario, psichiatra, riescono a creare il cambiamento.
INDICAZIONE PER L’UTILIZZO:
Changeling è un’ottima testimonianza dei metodi violenti che venivano utilizzati per la cura dei malati mentali e non solo. Ripropone e rappresenta l’idea custodialistica e repressiva, mirata al controllo sociale della psichiatria.
Sono sempre più numerosi i genitori e le neo mamme della nostra era che ogni giorno aggiornano il loro blog, pagina Facebook, account Twitter con informazioni, foto, curiosità, dettagli della gravidanza o maternità, aggiornamenti orari anche indiscriminati, di ciò che stanno facendo loro o i loro piccoli.
In America e non solo è stato coniato il termine oversharenting da “overshare“ e “parenting“ proprio per indicare la tendenza dei genitori di condividere online la vita dei loro bimbi, spesso in modo inappropriato e, spesso quando questi ancora non sono nati. I social network, Facebook in particolare, per alcune mamme sono uno svago, un divertimento, uno strumento di condivisione delle gioie e difficoltà della fase della gravidanza ma anche della maternità; per altre ancora i blog hanno aperto le opportunità di scambio per creare e reinventarsi nuove attività lavorative. Tuttavia, non si può nascondere come sia ormai riconosciuta l’esistenza di una dipendenza da internet per cui certe mamme non potrebbero fare a meno di aggiornare quotidianamente il proprio (o quello del loro baby) status di Facebook per mantenere alto l’interesse altrui su di loro o, forse perché no, “ alimentare “ il narcisismo insito nella personalità.
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Ci potremmo chiedere che interesse potrebbero avere gli altri nel sapere qual è il primo giorno in cui il nostro bimbo ha assaggiato la frutta o quanto ha pianto nelle prime notti, ma non si può nemmeno nascondere che la maternità porti inevitabilmente ad isolarsi in una nuova dimensione e adeguarsi a ritmi giorno-notte faticosi e deprimenti. Forse potremmo pensare che il non condividere rientrerebbe nell’etica del dovere della cura di sé rimandando alle virtù di riservatezza, dignità, modestia (Allen, 2011). Noi abbiamo l’obbligo di proteggere la nostra come l’altrui riservatezza, tanto più se si tratta di quella dei nostri figli?
La maternità e dipendenza dai social network potrebbero avere a che fare con il narcisismo? Il narcisismo sociale potremmo dire sia divenuta una categoria sociale del nostro quotidiano non più solo una struttura patologica di personalità come un tempo. Il narcisismo adolescenziale, lungi dall’essere stigmatizzato con un’accezione negativa come qualche anno fa, è all’ordine del giorno; sarebbero proprio le accezioni narcisistiche che ci trattengono dal crescere, dall’invecchiare, diventare brutti o accettare di buon grado trasformazioni del nostro corpo anche transitorie. Già una ricerca condotta da alcuni studenti dell’Università della Georgia relativamente ad un gruppo di individui con profili su Facebook ha concluso che il numero di amici , i wallpost e i “mi piace“ pubblicati sulle pagine degli account Facebook potrebbero riconfermare una maggiore predisposizione alla personalità narcisista rispetto ad altri profili (Buffardi & Campbell, 2008).
In tal senso, i narcisisti on line, come nella vita reale, avrebbero relazioni più numerose ma meno intime e una tendenza a pubblicare foto personali glamour, quasi di “auto promozione” della loro bellezza e fisicità rispetto a foto istantanee.
Si potrebbe, dunque, ipotizzare che i genitori che tendono all’overshare della vita dei loro bambini potrebbero avere una spiccata predisposizione a tratti narcisisti di personalità? Di certo le mamme moderne tendono sempre più a sperimentare la maternità ed, in seguito, la gravidanza in età più avanzata verso i 40 anni, interpretandolo come un successo personale di cui essere orgogliose. Tra le mamme over 30, spesso, i cambiamenti fisiologici del corpo per la gravidanza sono investiti di nuovi significati e dunque, pubblicare e condividere online e su Facebook le foto del proprio corpo dopo il parto o le immagini del proprio bimbo come un successo, “che cosa sono stata capace di generare pur restando fisicamente perfetta e immutata”, potrebbero essere tutti spunti di riflessione interessanti.
Il concetto del lavoro si è evoluto in maniera significativa nel corso del tempo: da un’accezione tipicamente negativa, in cui si attribuiva al lavoro il significato di fatica e sofferenza, oggi il lavoro non ha più quella funzione totalizzante propria della generazione passata.
Oggi il lavoro copre un decimo della nostra vita, ma continua a pretendere un ruolo centrale, di cui ci si rende conto soprattutto nel momento in cui lo si perde, e si è costretti a rimanere inattivi per un tempo indefinito.
Il lavoro è strettamente connesso al concetto di identità sociale, ovvero l’insieme di caratteristiche e di sentimenti che l’individuo prova e si attribuisce nel considerare la propria appartenenza a gruppi sociali.
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Il lavoro è diventato un biglietto da visita con cui presentarsi, con cui ricevere un’approvazione sociale, sentirsi capace di fare qualcosa che gli altri apprezzano permette alla persona di avere considerazione di se è induce a mettere in atto dei comportamenti responsabili ed equilibrati.
Il lavoro può servire a misurare dimensioni diverse: per alcuni il reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto realizzarsi. Per altri infine opportunità di contatti sociali o di condividere valori. E’ facile comprendere come l’evento disoccupazione, di per se fortemente negativo per la persona mette a rischio i bisogni fondamentali di sopravvivenza.
Nel 1938 gli psicologi Philipp Eisemberg e Paul F. Lazarsfeld individuarono tre fasi per descrivere la reazione del disoccupato:
1) Incredulità: alla persona sembra impossibile che possa essergli successa una cosa del genere e si dice che comunque ne verrà fuori;
2) Pessimismo: dopo vari tentativi che non portano a trovare un altro lavoro si porta a pensare che forse non si riuscirà;
3) Rassegnazione: iniziano a comparire sintomi depressivi, quali ripiegamento su se stessi e perdita di speranza, per cui si pensa che non se verrà mai fuori.
Le conseguenze psicologiche sul piano della perdita del lavoro sonno innumerevoli amplificate dalle caratteristiche di personalità, e dei tratti nevrotici del soggetto. Generalmente si osservano alterazioni del ritmo sonno-veglia, insonnia, alterazioni dell’appetito, mancanza di autostima, senso di fallimento. Il decorso della sintomatologia è fluttuante, inizialmente la persona che perde il lavoro è motivato dalla ricerca di cercare un altro posto, mano a mano che prende consapevolezza che questa possibilità viene a meno subentrano sentimenti di pessimismo e abbattimento. La persona tende ad isolarsi dagli amici, dal contesto sociale perché prova vergogna, avverte un senso di inadeguatezza, di perdite delle proprie sicurezze.
Inoltre emerge l’ansia e preoccupazione legate alle situazione di instabilità, in cui il disoccupato viene a trovarsi, rafforzata dall’attuale crisi economica che può costringere una persona a periodi di inattività lavorativa anche duratura.
E’ quindi basilare comprendere e fare un’analisi sociologica di come il lavoro si sia evoluto nel corso del tempo e di come oggi vada ad ostacolare troppo sulla sfera dell’identità lavorativa. L’obiettivo da raggiungere è quello di portare l’accettazione di questo momento di vita, senza negarlo e di evitarlo di fronteggiarlo, ma ricorrendo a strategie comportamentali di coping.
Dolore Muscolo – Scheletrico Persistente e Kinesiophobia
Gli aspetti fisici, psicologici e cognitivo-comportamentali, e quelli sociali nella Medicina Riabilitativa sono stati ormai riconosciuti come elementi chiave nell’ottica dell’ International Classification of Functioning, Disability and Health (World Health Organization, Ginevra 2001), classificazione accettata quale standard internazionale per misurare Salute e Disabilità e base scientifica per la comprensione e lo studio delle condizioni, delle cause e delle conseguenze correlabili.
La misurazione in ambito biologico e anatomo-fisiologico, intesa come un processo che permette di assegnare significato al risultato di ogni valutazione (si può ad esempio misurare la qualità con cui un soggetto compie determinati movimenti o la forza di una particolare abilità motoria), è un significato numerico che permette di compiere logiche deduzioni diagnostiche e prognostiche, con immediate ricadute terapeutiche per il riabilitatore, che può così ampliare il suo ventaglio di risposte d’intervento curativo e migliorare la propria capacità di progettazione riabilitativa. Tali dati devono opportunamente fondersi con le valutazioni cliniche e psico-metriche, per delineare un più completo quadro bio-psico-sociale del paziente.
Superato l’approccio meccanicistico della nocicezione, si è compreso dai numerosi studi (soprattutto sul dolore cronico) presenti in letteratura che la percezione del dolore non è direttamente correlabile a specifiche lesioni strutturali, che ricevere una menomazione non necessariamente coincide con l’essere disabili e che grande influenza sulla manifestazione di malattia e’ rivestita da fattori individuali, psicologici, culturali e socio-economici.
A partire dal modello biopsicosociale proposto da Waddell, è possibile effettuare una spiegazione concettuale adeguata alla realtà clinica della disabilità, permettendo la sintesi delle diverse dimensioni della salute a livello biologico, psicologico e sociale. I fattori psicologici e cognitivo comportamentali assumono un ruolo indiscutibilmente rilevante nella comprensione della malattia e nella cura dei pazienti.
Prendendo ad esempio uno studio svedese condotto dall’Università di Gothenburg su 84 pazienti che avevano subito un intervento di erniectomia al disco lombare, i dati mostrano il peso negativo e rilevante in tali pazienti della paura, che risulta avere un ruolo centrale nella spiegazione e nella comprensione del dolore muscoloscheletrico persistente.
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In precedenti ricerche, sono stati utilizzati tre termini per descrivere la paura in relazione al dolore: paura dolore-correlata, paura del movimento e kinesiophobia. Paura dolore-correlata e’ un termine ampio e generale che contiene tutti i tipi di timore correlati al dolore (Crombez et al. 1999).
La paura del movimento o di ri-lesionarsi, viene descritta come “una paura specifica del movimento e dell’attività fisica che viene ( erroneamente) interpretata come causa di ri-lesionamento” (Vlaeyen et al. 1995). Nelle situazioni più estreme di paura del movimento, viene usata l’espressione kinesiophobia ( Kori et al. 1990).
La kinesiophobia assume un ruolo rilevante e negativo nella riabilitazione dei pazienti con dolore alla parte lombare della schiena, ed un’alta prevalenza di kinesiophobia e’ stata rilevata nei pazienti con dolore lombare persistente (Picavet et al. 2002, Lundberg et al. 2004). Se gli esercizi di riabilitazione e attività fisica sono una parte cruciale del programma post chirurgico di cura, la kinesiophobia e’ probabilmente un fattore che impedisce gravemente il recupero.
Nello studio dell’Università di Gothenburg su 84 pazienti sottoposti a erniectomia, la metà di essi per un periodo di tempo variabile dai 10 ai 34 mesi dopo l’intervento, risultavano soffrire di kinesiophobia. Tali pazienti risultavano maggiormente disabili, accusavano maggior dolore, tendevano maggiormente a pensieri catastrofici, presentavano maggiori sintomi depressivi, una bassa autoefficacia e risultavano avere punteggi peggiori alla scala HRQoL, Qualità della Vita in Relazione alla Salute (Health Related Quality of Life, basata sulla scala europea EQ-5D European quality of Life, Rabin e De Charro, 2001).
Dopo la erniectomia, il dolore alle gambe risultava frequentemente ridotto, ma quasi la metà dei pazienti continuavano a soffrire di kinesiophobia. Una possibile spiegazione a questo poteva essere che la paura del dolore tende a resistere, nonostante la componente sensoriale fosse stata fisiologicamente guarita. Kinesiophobia, depressione, catastrofizzazione ed autoefficacia appaiono collegati inestricabilmente alla paura del dolore: tali fattori psicologici disfunzionali non venivano influenzati minimamente dalla riuscita dell’intervento dal punto di vista anatomico.
I pazienti con alto livello di kinesiophobia, tendono anche ad avere più sintomi depressivi: Arpino et al. (2004) suggerirono che la depressione è un fattore indipendente di predizione d’insuccesso dopo intervento di erniectomia, e che prevenire la kinesiophobia poteva ridurre notevolmente la sintomatologia depressiva.
Da tali dati si evince che i pazienti con un alto punteggio di kinesiophobia presentano quadri più disfunzionali, e che questo fattore debba essere considerato nei processi di riabilitazione, e studiato ulteriormente come fattore di rischio non trascurabile da parte della Medicina Ortopedica e Riabilitativa.
Starà Respirando? Neomamme e Disturbo Ossessivo Compulsivo
Neomamme: Occuparsi di un neonato non è facile nè dal punto di vista pratico nè emotivo. La sua sopravvivenza sembra dipendere solo dalle cure materne.
Soprattutto se si tratta di un primo figlio, la mente delle neomamme è attraversata da continui dubbi. Attraversiamo quindi la giornata tipo di una giovane donna alla prese col suo cucciolo.
La giornata inizia con un bel bagnetto rilassante, rilassante forse per lui perchè tu mamma impieghi buona parte del tempo a controllare la temperatura dell’acqua col termometro a forma di adorabile paperella e inizi la ginnastica “dell’apri-chiudi” il rubinetto perchè se in ospedale ti hanno detto che la temperatura ideale deve essere compresa tra i 37 e i 38 gradi e ricordi ancora le lezioni di fisica del liceo, sai che garantire questa costante non è certo un gioco da ragazzi. Per fortuna il bagno dura poco (dovrebbe durare poco), non più di 10 minuti c’è scritto sul vademecum del buon genitore, per evitare che il piccolo si raffreddi e così a solo un minuto dal gong ti accorgi, presa com’eri a osservare quel dannato termometro galleggiante, che la creatura ha pensato di allietare il momento con un po’ di cromoterapia e l’acqua, prima limpida, ha assunto ora un color giallo paglierino.
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Superato anche il secondo doveroso bagnetto, infilato il body, non senza la preoccupazione di avergli irrimediabilmente compromesso la colonna vertebrale, è il momento della poppata e cosa c’è di più dolce e rilassante che tenere stretti a sè il proprio bambino e un cronometro? Già perchè di tutti quel lungo discorso dell’ostetrica sull’allattamento a richiesta, le uniche parole che ti restano impresse sono “circa dieci/quindici minuti per parte” ma tu mamma che ambisci alla perfezione tramuti il suggerimento in “12,5 minuti per parte”.
Superato anche questo strazio arriva finalmente il momento di metterlo a nanna ed ecco affiorare il dilemma che ti accompagnerà fino a che il piccolo non avrà compiuto l’anno, momento in cui, secondo gli esperti, il rischio di SIDS (Sindrome della Morte Improvvisa del Lattante) diminuisce significativamente: pancia in sù o pancia in giù? In ospedale è molto probabile che ti abbiano raccomandato la prima posizione ma poi la pediatra di famiglia ti ha consigliato anche la posizione prona per fortificare i muscoli del collo ed evitare quell’effetto testa piatta che lo renderà vittima di bullismo a scuola. Qualunque cosa deciderai, impiegare il tempo in cui tuo figlio dorme per riposare è pura utopia. Il rumore dell’aspirapolvere non coprirà quella vocina nella testa che ti invita ad andare a controllare ad intervalli regolari se il tuo bambino sta ancora respirando e peggio ancora se ti sei dotata di una ricetrasmittente perchè dopo esserti avvicinata e aver sentito un suono simile ad un respiro, ti toccherà comunque andare a verificare che non si tratti di un’interferenza. Del resto se parli ad una madre di morte “improvvisa” il monitoraggio continuo non può che sembrare la scelta più ragionevole.
A questo punto però chiedersi se si è impazziti è l’interrogativo che vi preoccupa meno ma anche quello a cui le ricercatrici della Northwestern School of Medicine hanno voluto dar risposta attraverso il primo studio longitudinale su larga scala volto ad indagare la presenza di sintomi ossessivo-compulsivi nel periodo del post partum.
Sono infatti ossessioni tutti quei pensieri ripetitivi dal contenuto negativo che vi riempono la testa (“starà respirando?”) e sono compulsioni le azioni che mettete in atto per tentare di frenarli, come il continuo andare a verificare che il bambino non si sia scordato di respirare negli utimi 5 minuti che l’avete perso di vista.
I risultati di questa interessante ricerca evidenziano la presenza di tali sintomi nell’11% delle neomamme a due settimane e a sei mesi di vita del figlio rispetto ad una percentuale più ridotta (tra il 2 e il 3%) nella popolazione generale.
Di solito tali sintomi sono temporanei e indotti dai cambiamenti ormonali a cui sono soggette le neomamme ma se tali pensieri e comportamenti perdono la caratteristica di essere funzionali alle primissime cure del neonato e cominciano a compromettere la normale gestione quotidiana del bebè, il rapporto con il papà nonchè la salute mentale della stessa mamma allora si potrebbe essere in presenza di un reale disturbo di natura psicologica.
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Il campione di donne è stato reclutato durante la degenza in ospedale e sono stati loro proposti test di screening per ansia, depressione e DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo) prima a due settimane dal parto e, in seguito, dopo sei mesi. I risultati dello screening a sei mesi evidenziano una riduzione della sintomatologia tipica del DOC ma anche la sua comparsa in donne che non ne avevano fatto esperienza a sole due settimane dal parto. Le autrici sostengono a tal proposito che più tardi si manifestano tali sintomi meno è probabile che si tratti delle suddette risposte ormonali e adattive. Tale evidenza, unita al fatto che ben il 70% di donne con sintomi del DOC presentasse anche sintomi depressivi, induce a ritenere che tale condizione psicologica abbia delle caratteristiche tipiche che diversificano la depressione post partum da un episodio depressivo maggiore.
Il rischio di disturbi psicologici veri e propri sembrerebbe mantenersi fino all’anno di vita, periodo oltre il quale una più facile e condivisa gestione del figlio contribuiscono forse a sollevare le madri da un eccessivo senso di responsabilità per le sorti della creatura.
Quindi care mamme tenete duro, in fondo un anno passa in fretta, giusto il tempo di cambiare circa 1825 pannolini.
È abbastanza risaputo il legame tra emozioni positive e stato di salute fisica, ma poco si sa di quale sia effettivamente il meccanismo sottostante tale relazione. Kok e colleghi, in uno studio longitudinale pubblicato recentemente su Psychological Science, hanno ipotizzato una spirale di positività che attribuisce un ruolo di mediazione alle percezioni che le persone hanno delle loro connessioni sociali.
Questo studio intendeva verificare attraverso una misura oggettiva di salute fisica, ovvero il tono vagale, l’effetto reale delle emozioni positive sul corpo e, in particolare, di quelle legate alle connessioni sociali positive con gli altri. Il nervo vago infatti è una componente del sistema nervoso parasimpatico che regola il battito cardiaco in risposta a segnali di sicurezza e di interesse.
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Un tono vagale basso, ad esempio, è connesso a elevati stati infiammatori, a un maggiore rischio di infarto miocardico e a una diminuita probabilità di sopravvivenza dopo un’insufficienza cardiaca. Alcuni ricercatori hanno già mostrato la natura bidirezionale del rapporto tra emozioni positive e salute fisica. Da un lato le emozioni positive influiscono sul battito cardiaco aumentando il tono vagale. Dall’altro quest’ultimo è associato ad una maggiore abilità di regolazione delle proprie emozioni e a livelli più elevati di emozionalità positiva.
Per quanto riguarda le connessioni sociali, diversi studi già dimostrano come esse siano fortemente correlate all’esperienza di emozioni positive e ad un minor rischio di mortalità e morbilità. Inoltre, sembra esserci un legame reciproco tra tono vagale e percezione di relazioni sociali positive, quali quelle caratterizzate da maggiori comportamenti prosociali e da una maggiore vicinanza sociale.
L’ipotesi degli autori quindi è che il tono vagale, attraverso la sua associazione con i processi di regolazione emotiva, supporti l’abilità degli individui di autogenerare emozioni positive, che a loro volta promuovono connessioni sociali positive, le quali producono un migliore stato di salute, misurabile attraverso l’indice obiettivo del tono vagale.
I 65 partecipanti, per la maggior parte donne, sono stati assegnati in modo causale ad un gruppo di meditazione definita di “amore-amorevolezza” o ad un gruppo in lista di attesa come condizione di controllo. Il training di pratica meditativa consisteva di una sessione a settimana per sei settimane di focus su sentimenti di amore, compassione e benevolenza verso se stessi e gli altri.
È stato chiesto ai partecipanti di dedicarsi giornalmente alla pratica e di registrare la quantità di tempo spesa in tale attività, valutando tra 20 tipi di emozioni quelle maggiormente presenti. Inoltre, i soggetti dovevano riportare il grado in cui si erano sentiti in connessione con l’altro durante le principali interazioni della giornata. Infine, è stata misurata la variabilità del battito cardiaco, misura della responsività del nervo vago, prima (baseline) e dopo il training.
Gli individui con un tono vagale migliore all’inizio del training erano anche quelli che mostravano maggiori cambiamenti in termini di emozioni positive. I soggetti assegnati alla condizione sperimentale riportavano maggiori cambiamenti in termini positivi sia per quanto riguarda le emozioni che per quanto riguarda le relazioni sociali.
Tuttavia, si è visto che la semplice meditazione non basta per determinare un miglioramento del tono vagale. Il cambiamento avveniva solo nei “meditatori” che sperimentavano una maggiore connessione durante le relazioni sociali!
Perciò, concludendo, provare sentimenti positivi e di connessione nei confronti degli altri attorno a noi giova anche a noi stessi non solo in termini emotivi ma anche di salute fisica. Meditate gente!
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo: “Lo Stato dell’Arte” – Assisi 09-12 Maggio 2013
Reportage dall’incontro:
Terzo Meeting dello Specialized Interest Group dell’EABCT, Assisi, 09-12 maggio 2013. Sponsorizzato dalla Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC).
Terza edizione del Meeting sul Disturbo Ossessivo Compulsivo: sono stati presentati una ventina di lavori eterogenei tra loro; dalla neurobiologia, alle funzioni cognitive, fino a nuove forme di terapia, con prove di efficacia.
Il disturbo ossessivo-compulsivo è una grave forma di disturbo psichiatrico, conosciuto dalla notte dei tempi e narrato nella letteratura e nella poesia da secoli.
Infatti, si presenta con una sintomatologia piuttosto invalidante per il soggetto che ne è affetto e per la famiglia nella quale è inserito, dove attiva una serie di meccanismi relazionali ed emotivi patogeni e “perversi” che rinforzano la patologia in atto. Tuttavia tale disturbo è sempre stato considerato piuttosto resistente alle viarie forme di terapia conosciute. Fino a non molto tempo fa, infatti, le informazioni scientifiche che si avevano sui meccanismi eziopatogenetici, di mantenimento e di intervento terapeutico di tipo psicoterapico e farmacologico apparivano scarse.
Nell’ultimo periodo, invece, le conoscenze relative a questo tipo di quadro clinico sembrano delinearsi in maniera più chiara, anche grazie a ricercatori e a clinici di orientamento cognitivo-comportamentale.
E’ da rintracciare in questo quadro di riferimento scientifico il senso del lavoro di collaborazione e confronto tra gli autori (con formazioni differenti e provenienti da vari paesi – come Spagna, Inghilterra, Svizzera, Israele e Canada) che si sono incontrati per la terza edizione del Meeting sul Disturbo Ossessivo Compulsivo , che si è tenuto pochi giorni fa ad Assisi. In questa sede sono stati presentati una ventina di lavori eterogenei tra loro; dalla neurobiologia, alle funzioni cognitive, fino a nuove forme di terapia, con prove di efficacia.
Il lavoro di Belloch, Carrio, Cabedo, Lopez, Gil sembra dimostrare la validità della realtà virtuale come una nuova forma di terapia per la riduzione dell’ansia e del disgusto, con la possibilità di applicare l’esposizione con prevenzione della risposta (E/RP) a situazioni generalizzate della vita del paziente.
La presentazione di Dar, invece, sottolinea l’impatto dello scarso monitoraggio e della consapevolezza nei soggetti con alte tendenze o-c, non solo delle loro azioni, ma anche, dei loro pensieri ed emozioni e dell’importanza della terapia cognitiva nel fornire abilità, nella differenziazione di questi stati interni.
In linea con tale lavoro Lazarov, Dar, Liberman e Wardinon evidenziano nei soggetti con altra tendenze o-c un minor accesso agli stati emotivi; questi soggetti, infatti, evidenzierebbero una scarsa abilità nel sentire e sperimentare le emozioni, rispetto alle capacità di ragionamento emotivo.
Davey, Meeten, Barners e Dash affrontano il tema di come il fenomeno dei pensieri intrusivi contribuisce ad influenzare i beliefs; quali il senso di responsabilità (IR), l’intolleranza all’incertezza (UI) e alla fusione-pensiero azione (TAF), e di come un intervento centrato su questi, possa essere utile per alleviare i sintomi ansiosi.
L’articolo di Cosentino, D’Olimpio, Gragnani, Capobianco, Tenore, Basile e Mancini tratta di come la propensione al disgusto e il senso di colpa siano correlati ad alti punteggi nelle scale dei test per la diagnosi del DOC.
Hagen, Hansen, Joa e Larsen indagano la prevalenza e le caratteristiche cliniche di pazienti che rispondono alla diagnosi DOC, durante il primo episodio psicotico evidenziando che è significativa la comorbilità di una diagnosi di DOC in pazienti al primo episodio psicotico.
Nel lavoro di Ottavini, Mancini, Petrocchi, Medea e Couyoumdjian si approfondiscono le correlazioni anatomiche e fisiologiche tra il costrutto di disgusto morale, in soggetti con o senza tendenze ossessive, concludendo come il senso di disgusto morale in soggetti DOC abbia una componente anatomo-fisiologica.
La presentazione di Anholt, propone un nuovo modello di concettualizzazione del DOC, inspirato all’approccio ecologico di Gibson’s (1979) che implica importanti e complessi aspetti di percezione ed elaborazione degli stimoli .
Il lavoro di Havnen, Hovland, Haug, Hansen e Kvale approfondisce la relazione tra le funzioni esecutive e i disturbi del sonno, fenomeno questo presente nel 50 % (Hovland et al., 2012) dei pazienti DOC. I risultati, sembrano confermare l’importanza dell’integrità delle funzioni esecutive per la comprensione dei meccanismi correlati ai disturbi nel sonno in questo tipo di pazienti.
Huppert e Weizel descrivono i motivi per i quali l’effetto placebo non sarebbe presente in soggetti affetti da DOC, confrontato con un gruppo altre tipologie di disturbi di ansia, come la fobia specifica, suggerendo così quali siano le possibili implicazioni cliniche.
Due Italiani, Basile e Mancini, raccolgono una serie di studi presenti in letteratura sull’applicazione di tecniche di neuroimaging alla ricerca dei meccanismi neurobiologici, per comprendere processi come la propensione alla colpa, la sensibilità al disgusto e la scarsa capacità di inibire e controllare comportamenti volontari in soggetti DOC. Il lavoro suggerisce e sottolinea l’importanza del substrato neurobiologico ed in particolare di aree legate al circuito fronto-parietale per comprendere i meccanismi di questo quadro clinico.
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La presentazione di Brezinka apre l’area relativa all’applicazione delle terapia cognitivo-comportamentale (CBT) nell’infanzia e nell’adolescenza, tramite la pubblicazione scientifica ed al mercato di un gioco di auto aiuto al computer “Ricky and Spider” come supporto nel trattamento con E/RP per i bambini tra i 6 e i 12 anni.
L’utilità di utilizzare la CBT in età pediatrica, emerge anche dal lavoro di Torp e Skarphedinsson, i quali presentano un lavoro che supporta l’efficacia di un protocollo manualizzato di terapia cognitivo-comportamentale (E/RP combinata con la CBT familiare), della durata di 13 settimane, come intervento per bambini e adolescenti affetti da DOC.
Diversamente il gruppo composto da Haug, Havenen, Hansen, Bless, Hugdahl e Kvale, basandosi sulle similarità e differenze tra pensieri intrusivi e allucinazioni uditive, propongono la messa in atto di un training attentivo per iPod/iPhone come possibilità di trattamento aggiuntivo al protocollo E/RP. I risultati sembrano promettenti.
Van den Hout e Toffolo indagano il noto fenomeno dell’incertezza in soggetti sani con bassa e alta propensione al DOC e notano che, esponendo i soggetti a stimoli ambigui, non sembrano emergere differenze di errori di riconoscimento tra i gruppi. Tuttavia, i soggetti con propensione al DOC, mostrano maggiori tempi di fissazioni in risposta ad una “particolarità di uno stimolo” e questo sembra poter essere un fattore di rischio per sviluppare un DOC.
Il lavoro di Doron e Szepsenwol approfondisce una riflessione sui temi ossessivo-compulsivi legati alle relazioni sentimentali ed amorose. Le conclusioni che emergono sono che i dubbi ossessivi e le neutralizzazioni mentali relative alle relazioni possono promuovere altri dubbi e comportamenti di neutralizzazione e viceversa. Questo può essere una spirale di rimuginio e forte stress, se non approda ad un psicoterapia specialistica, importante come intervento preventivo anche nella dissoluzione delle relazioni intraprese dal soggetto.
A questo lavoro si accosta quello del gruppo di O’Connor, Goulet e Koszegi, i quali approfondiscono come la sopravvalutazione delle possibilità e la scarsa fiducia nei propri sensi, generi il “dubbio” in soggetti con DOC.
Kalantroff, Henik e Anholt descrivono come i soggetti DOC presentino deficit di “task control” e come questo possa avere implicazioni sui processi cognitivi presenti in questa tipologia di pazienti.
Pozza, Coradeschi e Dèttore affrontano il tema relativo all’influenza di come i beliefs disfunzionali moderino l’influenza negativa della comorbilità di depressione maggiore, all’interno di un gruppo di trattamento comportamentale per pazienti DOC. Dai risultati emerge, come le variabili dell’intolleranza dell’incertezza e la sovrastima del pericolo, siano fattori di mantenimento del disturbo, tuttavia, tali fattori cognitivi non sembrano moderare l’influenza negativa della comorblità con la depressione, per quanto attiene agli effetti del trattamento.
Il lavoro di Roncero, Belloch, Perpina, Fornés e Garcia-Solano analizza il rapporto tra pensieri intrusivi nell’anoressia nervosa e le ossessioni del DOC, evidenziando come entrambi presentino similarità relativamente alla frequenza di “intrusioni mentali”. Pertanto, i soggetti affetti da DOC presenterebbero punteggi più alti relativamente alle modalità di valutazione, eleborazione e nelle strategie di regolazione e controllo.
Carraresi, Bulli, Melli e Stopani indagano la relazione tra la propensione al disgusto, il senso di colpa e il fenomeno della “mental contamination”. Dai risultati sembrerebbe emergere che il costrutto di “metal contamination” giocasse un ruolo di mediatore tra gli aspetti di propensione al disgusto, la colpa ed i sintomi o-c (il senso di sentirsi contaminati ed i rituali di lavaggio), pur in assenza di un contatto con gli stimoli attivanti.
La presentazione di Linkovski, Kalanthroff, Anholt e Henik approfondisce un tema presente in letteratura quale quello del rapporto tra processi di memoria e i comportamenti di controllo concludendo così che i controlli ripetuti, tipici di alcuni DOC, causino disturbi della memoria.
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Infine, il gruppo composto da Hansen, Kvale, Havnen, Haug, Prescott e Riise presenta un lavoro in cui, diversamente dai tipici lavori nei quali erano stati riscontrati scarsi cambiamenti utilizzando l’E/RP in un settimo di gruppo, si conclude che un intervento intensivo di terapia di gruppo, sembra essere una forma promettente di terapia, come possibilità per i pazienti di offrire e ricevere vicendevolmente informazioni e supporto, con un risparmio considerevole sui costi economici.
Nel complesso, l’evento è stato ricchissimo di contributi e di spunti provenienti da autori diversi che, tuttavia, hanno condiviso e condividono ogni giorno la sfida di una più approfondita comprensione di questo disturbo e lo sforzo di sperimentare e promuovere nel mondo linee di ricerca e di intervento terapeutico inspirate all’approccio cognitivo-comportamentale.