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Gioco d’Azzardo in Italia: tra contributo al PIL & Epidemia Sociale

di Andrea Ferrari, psicologo tirocinante post-lauream, Modena

 

Gioco d’Azzardo in Italia: tra contributo al PIL & Epidemia Sociale. - Immagine: © kraevski - Fotolia.comGioco d’Azzardo in Italia – Identikit del giocatore d’azzardo patologico: maschio, vive nel centro-sud, diplomato, utilizzatore di alcol e di tabacco.

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Il gioco d’azzardo, come fenomeno economico, ha conosciuto una crescita significativa a livello mondiale. Nel nostro Paese, questa crescita è stata in particolar modo marcata: secondo le stime ufficiali, si ritiene che l’industria del gioco contribuisca per il 4% al Prodotto Interno Lordo (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, 2011). Soltanto riferendosi al biennio 2008-2010, si è rilevato un incremento del 30% nei consumi.

Nonostante i problemi di dipendenza da gioco d’azzardo siano conosciuti e trattati da decenni (nel 1980 la prima inclusione nel DSM-III; APA, 1980), nel nostro Paese solo negli ultimi anni sono saliti alla ribalta delle cronache e si è assistito ad un frettoloso, e tuttora incompleto, adeguamento da parte dei Servizi per le Dipendenze (SerD).

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Tutt’oggi, non sono state intraprese ricerche epidemiologiche su larga scala. Questa lacuna è stata in parte colmata dall’articolo di Bastiani e colleghi, (2013), che hanno rielaborato dati ottenuti dalla ricerca IPSAD-Italia 2007-08 (Italian Population Survey on Alcohol and Other Drugs) curata dal CNR. La ricerca consisteva in una serie di questionari (in forma anonima) inviati per posta ai soggetti appartenenti al campione, allo scopo di ottenere informazioni relative a dati socio-demografici, all‘utilizzo di droghe legali o illegali, e infine sui comportamenti di gioco d’azzardo.

Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
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In base ai risultati proviamo a delineare un identikit del giocatore d’azzardo patologico: è prevalentemente maschio (86.4%), vive nelle regioni centro-meridionali, ha un diploma di scuola media superiore, spesso fa abbondante uso di alcol (56.4% a rischio di alcolismo) e di tabacco (34.6% forti fumatori).

I ricercatori hanno stimato una prevalenza di problematiche da gioco d’azzardo nel 2.3% della popolazione giovane (15-24 anni) e del 2.2% della popolazione adulta (25-64 anni). Se consideriamo anche coloro che presentano problemi lievi (6.9% nei giovani vs 5.8% negli adulti) concludiamo che quasi un italiano su 10 ha qualche problema con il gioco.

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Nazione % Gioco problematico (adulti) % Gioco Patologico (adulti)
Canada (Huang & Boyer, 2007)

2.65%

1.92%

Germania (Sassen et al., 2011)

1.1%

0.3%

Italia (Bastiani et al., 2013)

5.8%

2.2%

Norvegia (Lund & Nordlund, 2003)

1.4%

 
Svizzera (Brodbeck, Duerrenberger & Znoj, 2009)

0.5%

0.2%

UK (Gambling Commission, 2010)

1.8%

0.7%

USA (Kessler et al., 2008)

2.3%

0.6%

Nonostante alcuni limiti dello studio, tra cui il basso tasso di risposta dei partecipanti e la mancanza di dati storici, in Italia le problematiche di gioco d’azzardo sembrano essere superiori rispetto ad altri paesi occidentali (vedi Tabella). Pur non potendo formulare una connessione causale, gli Autori puntano il dito sul sensibile sviluppo dell’industria del gioco, conseguentemente ad un decennio di cambiamenti nelle policy legislative: si è passati da un approccio strettamente contenitivo ad un approccio iper-liberalizzatorio.

 In particolare, in seguito al d.l. 39/2009 (il cosiddetto Decreto Abruzzo) si è allargata ulteriormente l’offerta di giochi, giustificandola come misura di solidarietà per le famiglie terremotate. Questo, secondo gli Autori, potrebbe avere avuto l’effetto di rinforzare l’idea che il gioco d’azzardo presenta aspetti di utilità sociale, favorendo sempre più lo sviluppo di una “cultura” del gioco d’azzardo.

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È risaputo che, tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl’italiani nell’arte d’inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi (Fruttero & Lucentini, 1985).

Ma alla luce di questi dati, è necessario cominciare a mettere in discussione le policy sul gioco, nella speranza che non si arrivi ad una vera propria epidemia di gioco d’azzardo.

 

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GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO – DIPENDENZE – CRONACA & ATTUALITA’ – PSICOLOGIA SOCIALE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Help me get down! La Rockstar e la paura di volare

 

Paura di volare: Brandon Flowers, frontman dei The Killers, in “Why Do I Keep Counting?” descrive i pensieri che lo travolgono a bordo di un aeroplano.

 

Help me get down! La Rockstar e la paura di volare . Immagine: Costanza Prinetti 2013

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Per il cantante di una band famosa a livello planetario, che vende dischi e compie tour in tutto il globo, avere una spiccata fobia per il volo è senza dubbio una condizione non troppo favorevole.

Lo sa bene Brandon Flowers, frontman della band americana The Killers, che nella canzone “Why Do I Keep Counting?” descrive, in una sorta di stream of consciousness, i pensieri che lo travolgono nel momento in cui si trova a bordo di un aeroplano e che sfociano nell’incalzante ritornello/preghiera (“Help me get down, I can make it, help me get down!”).

In un’intervista leggiamo che la paura di volare di  Flowers, sembra avere origine da due episodi che l’hanno traumatizzato durante viaggi aerei, uno in cui assistette alla morte di una passeggera e l’altro in cui si trovò ad attraversare un tornado.

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L’origine di questa fobia specifica può infatti essere “innescata” da differenti elementi: la percezione dell’aereo come un luogo stretto e angusto e senza vie di fuga, le sollecitazioni e i rumori che caratterizzano le fasi di decollo e di atterraggio, percepiti come sinistri e preoccupanti, (“…so many unusual sounds, I got to get my feet on the ground!”), eventuali turbolenze o altre situazioni traumatiche e spiacevoli avvenute durante il volo, oppure, in determinati casi, può essere sufficiente aver letto o ascoltato racconti e aneddoti negativi riguardanti il viaggiare in aereo (anche senza averci mai messo piede) che costituiscono terreno fertile e alimentano la costruzione di fantasie catastrofiche.

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Non sempre, tuttavia, l’insorgenza della paura di volare è legata a “qualcosa di brutto” accaduto durante il volo, alcuni passeggeri raccontano di essere stati colti da crisi di ansia, nonostante il volo procedesse con la massima tranquillità.

La paura di volare (detta anche aerofobia, aviofobia, o in inglese fear of flying) può colpire indistintamente persone di qualsiasi età, area di provenienza geografica, classe sociale, livello di istruzione o conto in banca.

Essa rappresenta una fobia relativamente nuova e in progressivo aumento, anche a seguito del successo delle compagnie low cost che hanno reso maggiormente fruibile la possibilità di spostarsi con l’aereo.

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Si stima che circa la metà dei passeggeri europei e italiani vivano il volo come un’esperienza negativa.

Le manifestazioni  e i livelli di ansia sono molteplici e diversi da passeggero a passeggero e possono andare da apprensione e stato di continua allerta durante il volo, a forte senso di sconforto e angoscia, che caratterizzano anche le ore o i giorni che precedono il viaggio (ansia anticipatoria), fino a vero e proprio terrore scatenato da pensieri e immagini funeste che riguardano il volo e che impediscono, di fatto, di salire a bordo dell’aereo.

Tornando alla nostra rockstar leggiamo come la sua fobia, si intrecci con la paura legata alla combinazione di numeri 621, (rappresenta la data del suo compleanno, il 21 giugno, in inglese 6/21), e che risale a quando, da ragazzino, una tavola Ouija (quelle utilizzate per “contattare” le anime dei defunti nelle sedute spiritiche) gli “predisse” che sarebbe morto il giorno del suo compleanno. In merito a ciò Flowers accenna a quanto fu complicato quando si ritrovò a dover compiere un volo transoceanico per giungere da Las Vegas al famoso festival di Glastonbury (UK) proprio nel giorno del suo compleanno!

In questo caso la fobia del volo può essere stata rafforzata dal cosiddetto “pensiero magico”, una sorta di deriva di tipo scaramantico/superstizioso, che stabilisce un collegamento virtuale tra elementi in realtà ben distinti tra loro (il proprio compleanno e il prendere l’aereo) e dal legame con un altro tipo di paura, che spesso soggiace a quella di volare, ovvero quella della morte e dell’impotenza di fronte all’ineluttibilità di quest’ultima (“And if all  our days are numbered, Then why do I keep counting?”).

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Tipicamente, infatti, nonostante l’aerofobia sia legata a una particolare situazione, può essere accompagnata da numerose altre paure sottostanti, tra cui quella per l’altezza, la claustrofobia, la fobia sociale, l’agorafobia, e la già citata fobia della morte.

 Considerati i diversi “trigger” che possono far scattare la fobia, possiamo quindi chiederci cosa realmente determini la paura. Di primo impatto saremmo tutti tentati di rispondere “Che l’aereo cada!”, in realtà solo una parte dei passeggeri riportano questo timore, un’altra parte di essi, tra cui Flowers, affermano che l’aspetto per loro più tremendo è il timore di perdere il controllo della situazione e di non riuscire a gestire le emozioni e le sensazioni che proveranno durante il volo, con la conseguente possibilità di sentirsi male (attacco di panico).

Appare perciò evidente che, come afferma Flowers, “The trouble is my head”, ovvero la fobia, più che avere a che fare con il proprio oggetto terrifico, riguarda la testa del soggetto, o meglio alcuni meccanismi di pensiero che le persone ansiose adottano per affrontare i problemi e che in realtà finiscono per ostacolarle ulteriormente.

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Alcune modalità di pensiero disfunzionali più frequentemente implicate nei disturbi fobici sono il mood congruity effect, ovvero la sensibilità e vulnerabilità al tema della minaccia, l’emotional reasoning, che può condurre a interpretare in chiave emotiva ansiogena anche segnali neutri e innocui, il pensiero catastrofico, che porta a creare previsioni e immagini mentali funeste e drammatiche (“I took one last good look around…”),  la necessità di un continuo e totale controllo, con conseguente aumento del livello di ansia e di apprensione non appena qualcosa sfugge al nostro monitoraggio, l’intolleranza all’incertezza nei confronti degli eventi, che si lega ai dubbi e al rimuginio riguardo alle potenziali difficoltà della vita (“If I only knew the answer, If I change my way of living, And if I pave my streets with good times, Will the mountain keep on giving?”) al proprio valore personale, alla fiducia in sé, al proprio senso di responsabilità e alla capacità di raggiungere obiettivi di vita particolarmente significativi (“Am I strong enough to be the one? Will I live to have some children?…”).

Abbiamo perciò capito che nella fobia del volo, così come nelle altre manifestazioni fobiche, può avvenire un vero e proprio spostamento del focus attentivo dal reale problema verso un oggetto specifico esterno a noi (in questo caso “volare”). Ciò rende cognitivamente ed emotivamente più “economico” e meno complesso fronteggiare i problemi che provocano ansia (ad esempio attraverso le condotte di evitamento), di quanto non sarebbe affrontare le emozioni che derivano da incertezze e fragilità che hanno direttamente a che fare con il nostro mondo interiore  e che ci possono mettere a rischio di un maggior carico di frustrazione e di una drastica diminuzione del senso di autoefficacia.

 

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 PAURA – MUSICA – CRONACA & ATTUALITA’ – CREDENZE – BELIEFS  

 

SITOGRAFIA: (grazie a Denise di www.thekillersitalia.com)

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness e Inflessibilità Psicologica: quali Tratti di Personalità?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il costrutto di mindfulness è risultato essere associato negativamente alla dimensione di Nevroticismo e positivamente a quella Coscienziosità, mentre l’inflessibilità psicologica presentava relazioni di polarità opposta con questi tratti.

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Un interessante studio pubblicato su Personality and Individual Differences (Latzman & Masuda, 2013) indaga la relazione tra mindfulness, inflessibilità psicologica e tratti di personalità.

MIndfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno - Immagine: © Mark Abercrombie - Fotolia.com -
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Con “mindfulness” si intende un processo di regolazione che àncora l’esperienza attentiva al momento presente.

L’inflessibilità psicologica si riferisce ad una tendenza a reazioni psicologiche rigide di fronte agli eventi che si concretizza perlopiù in comportamenti di evitamento che conducono ad un ridotto funzionamento nella vita quotidiana.

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Questi due costrutti, correlati ma distinti, influiscono sul modo in cui le persone reagiscono ai propri stati interni e all’ambiente esterno. Diversi studi, inoltre, hanno già evidenziato come mindfulness e inflessibilità siano associate, rispettivamente in senso negativo e positivo, a diverse forme di psicopatologia, quali ansia, depressione e distress psicologico generico.

Questo studio intendeva esaminare contemporaneamente entrambi gli aspetti di mindfulness e inflessibilità psicologica nel contesto delle dimensioni di personalità del Big Five, approfondendo così il background concettuale che connota questi costrutti tutto sommato recenti e aiutando a svelare processi comuni sottostanti la psicopatologia.

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Ad un gruppo di 429 partecipanti tra i 17 e i 57 anni sono state somministrate tre misure self-report: il Mindfulness Attention Awareness Scale (MAAS), l’Acceptance and Action Questionnaire (AAQ-II) e il Big Five Inventory (BFI). Quest’ultimo individua 5 dimensioni di personalità: Nevroticismo (tendenza a percepire elevati livelli di distress ed emotività negativa), Coscienziosità (abilità di controllo degli impulsi e attenzione al dettaglio), Estroversione (orientamento all’approccio energico), Apertura (apertura mentale, originalità) e Piacevolezza (tendenza prosociale verso gli altri).

Entrambi i costrutti di mindfulness e inflessibilità psicologica hanno presentato una correlazione simile, ma in direzione opposta, con le dimensioni di personalità valutate. In particolare, il costrutto di mindfulness è risultato essere associato negativamente alla dimensione di Nevroticismo e positivamente a quella Coscienziosità, mentre l’inflessibilità psicologica presentava relazioni di polarità opposta con questi tratti.

Inoltre, considerando tutte le dimensioni di personalità, il maggior contributo nel predire la mindfulness è fornito da alta Coscienziosità e basso Nevroticismo, mentre per l’inflessibilità si fa riferimento soprattutto al Nevroticismo. Quindi, l’inflessibilità psicologica sembra riflettere in qualche modo una generale tendenza a sperimentare distress ed emozioni negative unitamente ad una diminuita abilità di controllo degli impulsi.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Al contrario, la mindfulness mostra una forte correlazione con una consapevolezza orientata al momento presente e connotata da bassi livelli di impulsività e da una minore tendenza all’emotività negativa. Concludendo, nonostante mindfulness e inflessibilità rappresentino due aspetti correlati, questo studio evidenzia come esse abbiano relazioni differenti con i diversi tratti di personalità.

Questi risultati sottolineano l’importanza di considerare i tratti di personalità nell’indagine delle associazioni tra mindfulness, inflessibilità e outcome di salute psicofisica. Studi futuri quindi dovrebbero approfondire il tipo di relazione che intercorre tra queste variabili e quale sia il contributo fornito di ciascuna di esse, separatamente e interattivamente, nel predire lo stato di benessere psicologico e fisico delle persone.

LEGGI:

MINDIFULNESS –  PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Tribolazioni di Roberto Lorenzini – Bibliografia

Tribolazioni di Roberto Lorenzini

 

 

 

State of Mind - New LogoBIBLIOGRAFIA:

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Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #7

 

Il Colloquio Psicologico:

Come Agire nel Primo Colloquio– Parte 7

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5 – PARTE 6

 

Colloquio Psicologico: Come agire nel Primo Colloquio #7. - Immagine: © peshkova - Fotolia.comCOME GESTIRE LA DIVERSITÀ

Queste differenze possono creare una sorta di antipatia di fondo tra psicologo e paziente che mina profondamente il buon esito del colloquio.

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 “Il guerriero della luce legge questi messaggi in tanti uomini e tante donne che conosce. Non si lascia mai ingannare dalle apparenze, e fa di tutto per rimanere in silenzio quando tentano di impressionarlo. Ma coglie l’occasione per correggere le proprie mancanze, giacché gli uomini sono sempre un ottimo specchio.

Un guerriero approfitta di qualsiasi opportunità per imparare.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.26]

 

Nell’analisi dei principi di base si è fatto cenno all’importanza di conoscere sé stessi e gli atri. Questo perché può capitare che il paziente sia una persona molto diversa dallo psicologo per cultura, stato socioeconomico, genere o appartenenza di gruppo. Davanti a queste situazioni il terapeuta deve essere in grado di non reificare il paziente, e cioè, di non attribuirgli caratteristiche tipiche del suo gruppo di appartenenza senza che siano state direttamente individuate, e deve cercare di accettarlo che vuol dire anche avere gli strumenti conoscitivi per farlo. Quindi il modo migliore per affrontare queste differenze è cercare di capirle mostrando, in tutta onestà, la propria ignoranza riguardo a determinate usanze o credenze di una cultura diversa dalla propria e cercando di apprenderle attraverso il paziente.

Il silenzio in terapia. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Questo può anche enfatizzare la nostra disponibilità d’ascolto, ma se il paziente mostra fastidio a questi tipi di interventi conviene rimandare l’approfondimento di questi argomenti a colloqui successivi e intanto informarsi privatamente, anche attraverso qualche lettura, sui temi in questione.

A volte le differenze tra terapeuta e paziente si trovano su altri livelli, in alcuni casi facilmente individuabili (ad esempio in rigidi valori morali), e in altri meno. Queste differenze possono creare una sorta di antipatia di fondo tra psicologo e paziente che mina profondamente il buon esito del colloquio. In questi casi il primo compito del terapeuta è, ancora una volta, cercare di capire quali sono le fonti di questo sentimento di allontanamento e cercare di superarlo, magari anche attraverso la collaborazione e il consiglio di qualche collega.

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Se ciò non si realizza l’unica soluzione rimasta e quella di pensare all’invio del paziente ad un collega. In tal caso, il terapeuta deve comunque preoccuparsi che il paziente non risenta di quest’esperienza preparandolo per tempo, cercando di instaurare una certa fiducia che gli permetta di capire che tutto è fatto per il suo bene e, quindi, evitare sensazioni di rabbia, tradimento e impotenza innanzi al proprio disturbo.

 

LA TERAPIA DI COPPIA E FAMILIARE

Quando il paziente non è uno solo è necessario prendere certi accorgimenti.

Al momento della preparazione del colloquio è necessario avere a disposizione una stanza piuttosto grande, confortevole e sobria. Ci può essere un tavolo che aiuta nei primi colloqui perché è visto come un elemento di copertura e protettivo e, oltre a ciò, permette, in sessioni future, di essere tolto variando il setting. Devono essere disposte più sedie del necessario e prestare estrema attenzione a come si dispongono i membri del gruppo o della famiglia.

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Al momento delle presentazioni è necessario indugiare lo sguardo allo stesso modo su tutti i membri della famiglia e non mostrare alcun segno di preferenza. Bisogna presentare subito le regole di base vale a dire: 1) ognuno ha il diritto e avrà la possibilità di dire il proprio parere senza essere interrotto e 2) nessuno può parlare in vece di altri. 

Nel corso del colloquio familiare si assisterà facilmente a un processo di colpevolizzazione reciproca da parte dei presenti. Lo psicologo deve cercare di mostrare (anche attraverso travestimenti metaforici) come i loro problemi non emergano da un’unica persona, ma che ognuno di loro possiede una propria percentuale di responsabilità.

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Quest’idea può essere trasmessa ai soggetti sottolineando affermazioni che legano i comportamenti di una persona ad emozioni dell’altra e affermazioni che mettono in evidenza la relazione tra modelli di comunicazione tra i membri della famiglia e i problemi lamentati. Far comprendere la responsabilità reciproca è il primo passo, necessario per poter affrontare in comune i problemi.

A volte il percorso verso questa consapevolezza è arduo e passa attraverso molte discussioni (che solitamente si muovono su un sentiero estremamente astratto) che devono essere sedate dal terapeuta. Nei casi in cui una persona parli troppo lo psicologo deve placarla ricordando le regole di base, se parla poco bisogna cercare di invitarla a dire la propria per avere un quadro più completo della situazione, ma senza insistere. Bisogna anche saper prevedere e resistere ai tentativi di seduzione da parte dei membri della famiglia, nascondendo eventuali preferenze o simpatie. Quando si tengono colloqui privati con membri della famiglia è importante trasmettere un senso di sicurezza e riservatezza a chi sta di fronte e non rivelare nulla di ciò che viene detto.

La triangolazione all'interno della famiglia.
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“Tuttavia gli capita di incontrare uomini che lo incitano a intervenire in lotte che non gli appartengono, su campi di battaglia che non conosce, o che non gli interessano. Questi vogliono coinvolgere il guerriero della luce in sfide che sono importanti solo per loro. 

[…]

In quei momenti egli sorride, dimostrando il suo amore, ma non accetta la provocazione.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.120]

Quando al colloquio familiare ci sono degli assenti conviene chiederne il motivo agli altri membri della famiglia. Se lo ignorano si può telefonare all’assente, e se  rifiutano è meglio insistere. Nella telefonata bisogna cercare di comprendere i motivi dell’assenza e cogliere eventuali giustificazioni che lasciano presagire la presenza nelle sedute successive. Per incentivare queste scelte è bene chiarire che il suo contributo è fondamentale per il buon esisto della terapia, per garanzia di lealtà nei suoi confronti e perché il terapeuta è molto interessato alle cose che può dire. Se tutte queste strategie di persuasione falliscono il colloquio può essere comunque portato avanti con i rimanenti cercando di stimolare la loro immedesimazione nella prospettiva della persona assente.

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Il primo colloquio, e molti dei successivi, può coinvolgere diversi membri della famiglia, bambini compresi. In generale si tende a evitare di convocare bambini di età inferiore ai 5 anni a meno che non siano un punto centrale del problema. Dai 5 agli 11 anni i bambini vengono spesso convocati, almeno nella prima seduta, ma non vengono trattenuti per tutto il tempo. In tal caso è importante non dare l’idea che siano stati allontanati perché hanno fatto qualcosa di sbagliato. Bambini di età superiore agli 11 anni vengono normalmente convocati per tutta la durata della seduta.

In ogni caso i principi di base del colloquio con più persone (famiglie o gruppi) sono esattamente gli stessi della terapia individuale.

LEGGI:  

 IN TERAPIA – FAMIGLIA – PSICOTERAPIA SISTEMICO – RELAZIONALE

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Intervista a Sue Johnson: Il Tango nella Terapia di Coppia

Genitori & Figli: Aiutare Troppo può essere Dannoso?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un comportamento eccessivamente coinvolto da parte dei genitori nei confronti del figlio (definito  “helicopter parenting”) può rivelarsi inaspettatamente controproducente per i figli in termini di soddisfazione personale.

È facile pensare che maggiore aiuto diamo agli altri, maggiore sarà anche il beneficio che essi ne trarranno. Gli studi sulle diverse modalità di accudimento genitoriale, però,  hanno messo in discussione questa ipotesi, evidenziando quali sono i “costi” di un atteggiamento parentale troppo coinvolto.

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A tal proposito,  due importanti studi hanno mostrato che un comportamento eccessivamente coinvolto da parte dei genitori nei confronti del figlio (definito  “helicopter parenting”) possa rivelarsi inaspettatamente controproducente per i figli in termini di soddisfazione personale.

Vademecum per i neo - papà. Immagine - © drubig-photo - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Vademecum per i giovani papà

Nel primo, la sociologa Laura T. Hamilton (University of California) ci mostra che tanto più soldi i genitori spendono per il college dei propri figli, tanto peggiori saranno i loro risultati in termini di guadagno.

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Il secondo, invece, pubblicato da Holly H. Shiffrin  (University of Mary Washington) evidenzia che tanto più i genitori si impegnano nell’offrire aiuto per lo svolgimento dei compiti scolastici e nel direzionare la scelta del college, tanto minore risulta la  soddisfazione personale dei figli riguardo le loro vite.

Come spiegare questi risultati? La risposta sembra far riferimento al sentimento di responsabilità percepito dal ricevente: condotte parentali di questo tipo, incentrate a dare sostegno al figlio, potrebbero provocare una riduzione del senso di responsabilità delle proprie azioni, e, quindi, anche dei propri successi.

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 Una ricerca americana del 2011 ha rivelato come questo fenomeno risulti estendibile anche ad altri ambiti, relativi, ad esempio, al rapporto con il partner, con i colleghi o con gli amici. Lo studio in esame si è servito di un campione randomizzato di donne americane, attente alla salute e alla forma fisica, alle quali venne chiesto di valutare quanto il loro partner condividesse i loro obiettivi di benessere fisico. I risultati confermarono il trend  ipotizzato: le donne che consideravano il coniuge utile ai loro obiettivi di salute diventavano meno motivate nel raggiungere questi scopi e spendevano meno tempo nel perseguirli.

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Questi risultati evidenziano l’importanza di saper offrire aiuto quando necessario, e  di lasciare l’altro libero di esprimere il proprio bisogno di competenza. I genitori, allora, dovrebbero rispondere in modo flessibile alle richieste del figlio, dando supporto senza prevaricare i suoi sforzi di realizzazione. Insomma, aiutare l’altro, ma non troppo. E fortunatamente, questa competenza sembra essere scritta nelle capacità umane.

Uno studio, infatti, coordinato da Michael J. Parks, mostra come un passante sia in grado di sapere quando intervenire in una rissa, in modo da offrire aiuto nel momento in cui è maggiormente necessario. Un’altra  ricerca del 2007 ha cercato di valutare in  che modo variava la motivazione nel perseguire obiettivi personali al variare dell’atteggiamento del partner nei propri confronti.  Di fronte ad un comportamento ricettivo ma non controllante, il soggetto era più autonomo e capace a portare avanti la realizzazione dei propri progetti.

In conclusione,  il nostro aiuto, per essere efficace, dovrebbe essere calibrato con il bisogno di realizzazione dell’altro, offerto solo se necessario ed in grado di completare gli sforzi dell’altra persona, in modo da non essere percepito come controllante ed intrusivo. 

LEGGI:

ACCUDIMENTO – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbi di Personalità & Schizofrenia – Report del Seminario

 

Di Carmelo la Mela

Scuola Cognitiva di Firenze 

Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva

 

Sabato 11 maggio a Firenze c’era il sole.

 

Dal Seminario:

Disturbi di Personalità & Schizofrenia

 

 

Seminario 11 Maggio 2013, Firenze – Disturbi di Personalità & Schizofrenia

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

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C’era una bell’aria sabato scorso a Firenze, finalmente un bel sole che invitava a stare fuori, andare al mare o fare un bel giro in moto o un po’ di cicaleccio seduti ad un bar con gli amici. Circa 150 persone hanno preferito venire a sentir parlare di terapia cognitiva della schizofrenia e dei disturbi di personalità.

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Perversione? Parafilia? Non lo so, so che era una bella sensazione vedere una sala piena di giovani ed ancora più bello vedere che sono rimasti tutti fino alla fine della giornata. Certo, il menu della giornata ed i  cuochi erano di primo livello: Paul Lysaker, Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo, Roberto Lorenzini , Giovanni Ruggiero e Sandra Sassaroli che parlavano di “Nuove acquisizioni della terapia cognitiva per la schizofrenia e i disturbi di personalità” presentando i  rispettivi modelli, di Terapia Metacognitiva Interpersonale i primi, ed un nuovo modello proposto dal gruppo di Studi Cognitivi per la terapia dei pazienti difficili chiamato LIBET. Il sottoscritto ha coordinato i lavori e partecipato alla tavola rotonda sui disturbi di personalità.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
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Il presupposto di partenza era chiaro: la terapia cognitiva funziona, è supportata da solidi dati di efficacia forniti da ricerche controllate, la sua azione terapeutica viene studiata anche con ricerche di neuroimaging  (Goldapple, 2004) che ne chiariscono la specificità dei meccanismi d’azione.

E anche le conseguenze erano implicitamente chiare: per certi pazienti affetti da alcune patologie tipicamente ben descritte in letteratura, è deontologicamente corretto applicare il protocollo terapeutico di CBT standard così come descritto in molti testi, anche in italiano, e come viene insegnato nelle nostre scuole. La CBT che funziona è questa, stop, le contaminazioni teoriche più o meno affascinanti hanno un alto  prezzo in termini di affidabilità dei risultati.

Questa premessa ci è servita per mettere meglio a fuoco il tema del nostro convegno, cosa si fa coi pazienti difficili? Quei pazienti che vengono usualmente nei nostri ambulatori, con doppie diagnosi, con tratti o disturbi di personalità associati a sintomi di asse I, con modalità relazionali tali da mettere in difficoltà fin dall’inizio l’alleanza terapeutica.

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Un paziente che non sai mai come prendere, che non offre un punto di partenza oppure ne offre troppi, per cui la terapia diventa una serie di prime visite sempre con un problema nuovo. Le relazioni presentate hanno proposto 2 modelli di intervento con questi pazienti difficili, il primo, da una prospettiva metacognitiva, il secondo, presentato da Sassaroli, rappresenta una cornice teorica originale che integra gli aspetti tipici del cognitivismo standard per la comprensione del funzionamento attuale del disturbo, con elementi della storia evolutiva del paziente per una concettualizzazione che permette di comprendere i limiti e la vulnerabilità dell’assetto personologico, dando così senso allo scompenso sintomatico.

Un primo elemento da sottolineare è che le due prospettive  si muovono entrambe  in  grande coerenza teorica  con il modello CBT, si tratta realmente di modelli di intervento per  pazienti che la CBT standard droppa, quindi propongono strumenti terapeutici nuovi ma in sintonia con la “casa madre”. Tranquilli però, non si tratta né di nuove ondate (la quarta? la terza bis?) né di risacche autoreferenziali, ma di uno sforzo serio partendo dalla clinica e dai pazienti “veri”, di applicare il programma di ricerca tipico della CBT: come funziona la mente di questo paziente? Perché non smette di soffrire? Quali sono gli interventi terapeutici coerenti con il modello di funzionamento psicopatologico?

Lysaker, Dimaggio, Popolo hanno enfatizzato il deficit metacognitivo come disturbo di base nella schizofrenia e nei disturbi di personalità, presentando un modello di psicoterapia, derivato dal lavoro di ricerca da loro svolto negli ultimi anni in collaborazione con altri gruppi internazionali, che focalizza l’intervento su una costante operazione di monitoraggio e controllo dei contenuti mentali propri e dell’altro con la finalità di migliorare la gestione degli stati problematici e la regolazione emotiva.

Non siamo dalle parti di Wells e delle sue convinzioni disfunzionali sui pensieri automatici negativi, ma in un’area che studia un’abilità che sottende la capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali per poter fare delle ipotesi sulle motivazioni alla base del comportamento degli altri finalizzati al miglioramento della relazione interpersonale.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

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Insomma qualcosa che ha molto a che fare con il senso di sé, con l’immagine che abbiamo dell’altro e del modo con il quale costruiamo e regoliamo le relazioni. Iniziano ad accumularsi dati riguardo al substrato neurobiologico e ai circuiti neurali coinvolti nel funzionamento di queste funzioni psicologiche (Fleming, 2012) e questo dà al lavoro di Dimaggio e dei suoi colleghi una prospettiva di verifica e supporto neuroscientifico che attualmente rappresenta l’unica strada per proporre nuovi modelli psicologici di funzionamento mentale.

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L’altra strada è quella intrapresa da Sassaroli e dal suo gruppo, chiamiamola bottom up, dove l’esperienza clinica con pazienti che non rispondono alla terapia protocollata né alle varianti più o meno ortodosse, li ha portati a ripensare il percorso terapeutico: l’evidenza di difficoltà nella relazione terapeutica ed il fatto che spesso questi pazienti vengono da storie difficili, relazioni precoci complicate, caratterizzate da episodi dolorosi ripetuti nell’età di sviluppo, hanno portato Sassaroli all’ipotesi che un sistema cognitivo si costituisca a partire dalla sintesi di “temi dolorosi”, nuclei di significato centrali nel sistema cognitivo, che funzionano come principi organizzatori che, in modo non consapevole, fanno da volano alla costruzione di un progetto esistenziale più o meno funzionale che consente di dare una direzione e un senso alla propria esistenza, “piano di vita” lo definiscono gli Autori.

Un piano di vita  diventa patologico quando è caratterizzato da un insieme limitato di scopi, evitanti e protettivi, inflessibili e monodimensionali, che non permettono l’esplorazione di altri scopi e bisogni esistenziali, con il rischio di andare incontro ad uno scompenso  e  alla comparsa di una sintomatologia clinica. A questo punto il lavoro terapeutico permette al terapeuta di comprendere il sintomo all’interno di una cornice personologica, fatta di temi e piani di vita, e di proporre al paziente l’attuale fase clinica anche come l’esito di uno stile di vita che ha avuto la sua ragion d’essere, funzionale e adattiva nel passato, ma che è attualmente disadattivo e limitante.

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Da questo presupposto concettuale, condiviso col paziente, prende il via un intervento terapeutico finalizzato alla risoluzione della sintomatologia ma all’interno di un progetto di ristrutturazione del piano di vita attraverso l’uso di tecniche standard cognitive, comportamentali insieme a tecniche relazionali ed esperenziali, in sintonia con l’obiettivo terapeutico che vogliamo raggiungere in quel momento. 

E’ evidente da quanto detto, che esperienze relazionali precoci di tipo traumatico, pattern di attaccamento insicuro o ancor di più, una disorganizzazione dello stile di attaccamento, possono rappresentare elementi particolarmente significativi nella sintesi di temi di vita patologici.

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Ed è per un altro verso un dato ormai acquisito il rapporto tra qualità dello sviluppo di abilità metacognitive ed eventi relazionali traumatici, con una relazione diretta tra esperienze traumatiche e deficit metacognitivi.

L’ ipotesi che ho proposto alla riflessione di tutti è che proprio gli esiti deficitari sulle capacità metacognitive  dovuti ad una storia evolutiva caratterizzata da traumi cumulativi precoci fanno sì che in certi pazienti non sia identificabile un unico tema di vita doloroso, gerarchicamente sovraordinato, che diventi il principio organizzatore di sistema organizzato su uno o pochi piani semiadattivi e patologici.

Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
Articolo consigliato: (di Matteo Giovini) Scopi Esistenziali e Psicopatologia.

A volte in alcuni pazienti gravi possiamo rintracciare più temi non organizzati gerarchicamente tra loro, che hanno portato a più piani di vita anch’essi non coerentemente organizzati tra loro, in modo tale da farci apparire la loro vita (cosi come a volte le  sedute con loro) confusa, caotica ascopica perché multiscopica  o forse meglio caleidoscopica, con fasi temporalmente circoscritte di funzionamento: un pezzo di famiglia, un figlio, qualche anno di lavoro, ma nel complesso disorganizzate.

Un quadro clinico di questo tipo trova nel nuovo DSM-5 una sua descrizione perfetta nella sezione dei disturbi di personalità, non più descritti in modo categoriale ma attraverso un sistema che dà la possibilità di misurare anche il funzionamento della personalità attraverso due domini, il dominio del sé e quello interpersonale. E’ il primo quello che ci interessa rispetto alla dimensione dell’autodeterminazione, definita come la capacità di perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che esistenziali, di utilizzare standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, di riflettere su sè stessi in maniera produttiva.

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Il convegno si è concluso con una tavola rotonda nella quale si è discusso ciò che unisce e ciò che differenzia i diversi modelli proposti, con la sensazione condivisa di una sintesi possibile e prossima.

Il Disturbo Borderline di Personalità - Una Cascata Emotiva - State of Mind
Il Disturbo Borderline di Personalità – Una Cascata Emotiva – State of Mind

E’ questo direi lo spirito che anima le scuole di Studi Cognitivi, scuole che vogliono insegnare la CBT standard, ma che continuano a studiare e fare ricerca originale per rispondere a quei pazienti “difficili”, per cui la CBT non funziona, mettendo a punto un modello di intervento coerente con i presupposti teorici, compatibile ed integrabile con altri dati provenienti dalla ricerca psicologica, e che vuole confrontarsi con i temi attuali della metacognizione, della gestione e regolazione della relazione terapeutica.

Un modo moderno di fare e insegnare psicoterapia che cerca di unire la pratica psicoterapeutica con i dati della ricerca psicologica e neuroscientifica.

C’era un bel sole sabato scorso a Firenze, ma anche l’aria che si respirava al convegno in via fratelli Rosselli non era affatto male.

LEGGI:

CONGRESSI –  SCHIZOFRENIA – DISTURBI DI PERSONALITA’ – PSICOTERAPIA COGNITIVA – SCOPI ESISTENZIALI – TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

In Treatment Italiano: una Visione d’Insieme

 

In treatment Italiano: una Visione d’InsiemeÈ sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.

LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT – LEGGI L’INTRODUZIONE

Chi legge State of Mind sa che nelle ultime settimane ho recensito molte puntate della versione americana della serie “In treatment”, un telefilm israeliano con protagonista uno psicoterapeuta, i suoi pazienti e la sua supervisora.

Il primo aprile è andata in onda anche la versione italiana, con Sergio Castellitto nel ruolo del terapeuta. Anche noi di State of Mind abbiamo segnalato l’inizio della serie italiana, recensendo la prima puntata.

In Treatment - La versione Italiana
Articolo Consigliato: In Treatment – La Versione Italiana.

Avevamo intenzione di proseguire la recensione di altre puntate, ma la scelta dei produttori della serie israeliana, che è quella originale, che ogni versione esportata seguisse molto fedelmente la sceneggiatura israeliana originale renderebbe queste recensioni un’inutile doppione di ciò che abbiamo pubblicato finora sulla serie americana. Pertanto ci limitiamo a dare uno sguardo più ampio sull’intera serie. 

Ho visionato in questi giorni le prime cinque puntate di In Treatment, trovandole ben fatte e godibili. Se andiamo a leggere le dichiarazioni dell’autore e produttore di tutta la serie, Hagai Levi, la versione italiana sarebbe addirittura la migliore (vedi http://www.movieplayer.it/serietv/articoli/in-treatment-versione-made-in-italy-secondo-sergio-castellitto_10642/).

La storia con Giovanni Mari, il terapeuta italiano, non si discosta dalle puntate americane con Paul Weston (e da quelle israeliane, di cui ho visto qualche segmento con sottotitoli su youtube).

Qualche inevitabile adattamento riguarda ad esempio il paziente del secondo giorno: il pilota militare americano che aveva bombardato una scuola piena di bambini è diventato un poliziotto anti-mafia infiltrato costretto a effettuare un omicidio per conservare la sua copertura di mafioso.

In questo modo il grande tema del secondo paziente, ovvero la negazione del senso di colpa in base alla necessità di eseguire gli ordini, è conservato in maniera credibile anche nel contesto italiano.

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Così anche per la giovane paziente del terzo giorno, la ragazza che ha tentato una sorta di suicidio in una condizione di dissociazione allo scopo di punirsi in uno stato inconsapevole, è una promessa del balletto classico e non più, come nella serie americana, una ginnasta con speranze olimpiche.

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Le differenze tra le serie diventano piuttosto sfumature nella recitazione, esulando quindi dalla mia competenza psicologica. Giovanni Mari è un terapeuta nettamente meno cupo del tormentato Paul Weston. Ha un’espressività più solare che traspare anche nella neutralità del terapeuta di impostazione dinamica. Come anche nella serie israeliana e americana, man mano che le puntate avanzano questo terapeuta avrà problemi di controllo del setting e della sua emotività. Emotività che però si rivela irruenta e passionale e non malmostosa come quella di Weston.

Nel caso della supervisora del quinto giorno, le posizioni si rovesciano. In questo caso l’americana Gina Toll, interpretata da Dianne West, è un’interessante e inquietante mistura di capacità di accogliere e colpevolizzare. Più severa e distanziante l’italiana Anna, interpretata da Licia Maglietta, la supervisora di Castellitto/Mari.

Anche il poliziotto italiano Dario appare più tenebroso del pilota americano Alex, un bel caso questo di narcisismo overt (mentre Dario è un covert).

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E così via. La mia impressione è che la serie italiana sia ben curata. Sicuramente ha potuto usufruire dell’ottima sceneggiatura israeliana (vincitrice di svariati premi) e di qualche accorgimento di regia americana: Giovanni Mari ha ereditato lo studio ingombro di modellini di barche da Paul Weston, mentre il terapeuta israeliano Reuven Dagan possiede uno studio spartanissimo e spoglio.

È sicuramente vero che la fiction americana è di alta qualità. Però non mi pare che l’In Treatment italiano sfiguri. Non lo recensiremo ulteriormente date le minime differenze rispetto alle versioni di altri paesi. Però ne raccomandiamo la visione.

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Tribolazioni 06 – Tutto o Nulla

 

TRIBOLAZIONI 06

TUTTO o NULLA

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Tribolazioni 06 - Tutto o Nulla. - Immagine: © Aaron Amat - Fotolia.comTribolazioni 06 – Tutto o Nulla: Molte persone  tribolano non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze.

Il perseguimento di uno scopo non è connotato da un punto di vista emotivo solo nel momento del successo pieno (gioia) o del fallimento totale e irrecuperabile (dolore) che corrispondono entrambi alla disattivazione dello scopo stesso ed alla conseguente ristrutturazione dell’organizzazione gerarchica per scegliere le nuove priorità. Il sistema monitora costantemente i lavori in corso  e vive nel presente emozioni generate dalla previsione delle emozioni che prevede di provare in futuro. Così la pregustazione di un successo che si valuta probabile fa assaporare con anticipo la gioia.

Chi non ricorda la magia di quel tempo immediatamente precedente al primo gesto di amore quando si ha già la certezza che il proprio innamoramento sarà ricambiato?

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Al contrario la previsione di un fallimento fa sperimentare già il dolore della perdita e spesso si mischia all’ansia circa lo stato d’animo doloroso che si sperimenterà quando il fallimento sarà certo ed inequivocabile. Si è addolorati già e inoltre spaventati all’idea di quanto si potrebbe poi star male (in genere poi il dolore effettivo si dimostra inferiore alle aspettative, per cui si è quasi stati più male prima che dopo). Sembra dunque che sia sempre attivo un sistema di anticipazione sui propri stati interni futuri  che, a sua volta, genera delle emozioni attuali. Esse utilizzano quelle future previste come eventi attivanti: l’emozione presente può essere dello stesso tipo o di tipo diverso da quella futura prevista.

TRIBOLAZIONI 05 - GLI ANTIGOAL. - Immagine: © Phatic-Photography - Fotolia.comCosì si può aver paura di aver paura, si può aver paura di essere tristi o si può essere arrabbiati all’idea che si sarà tristi o aver vergogna di vergognarsi. Questo sistema di anticipazione sui propri stati emotivi che ne innesca, a sua volta degli altri ha probabilmente lo scopo di accrescere la prevedibilità su sé stessi. Da un lato si  padroneggiano meglio i cambiamenti perchè non giungono inaspettati. Dall’altro si diluisce nel tempo l’emozione finale. Se mi aspetto un insuccesso inizierò a soffrirci già prima tanto più esso apparirà certo. Così, al momento in cui effettivamente si verificherà il dolore sarà meno intenso e sconterà gli acconti versati in precedenza. Soffre di più chi vive un lutto improvviso e inaspettato o chi attende a lungo una morte pietosa? Certamente i primi, ritengo.

Molte persone  tribolano non solo per il fallimento di scopi ma anche per la previsione di possibili future sofferenze.

Fino a qui ho argomentato circa il fatto che le emozioni sulle emozioni previste costituiscano una sorta di air-bag sulle emozioni successive, ma il problema non si  esaurisce  qui. La valutazione del grado di raggiungimento o meno di un obiettivo consente soprattutto di dosare  l’investimento di risorse in ossequio allo pseudo-scopo dell’  “ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”. Per esemplificare cosa sia opportuno fare in ossequio a tale pseudoscopo possiamo dire che:

  • l’impegno deve essere massimo quando l’obiettivo è probabile e non soggetto a fattori esterni incontrollabili
  • l’impegno deve progressivamente ridursi quando il risultato diventa altamente probabile  indipendentemente dall’impegno stesso.
  • L’impegno deve cessare quando il risultato è certamente irraggiungibile e ogni ulteriore tentativo costituirebbe solamente uno spreco di risorse.

La linea di demarcazione tra l’impegno e la rinuncia, in nome del principio del rapporto costi/benefici  è determinata da due fattori:

  • da un lato dalla stima della probabilità del successo in cui gli estremi opposti (successo sicuro o fallimento certo) inducono ad un disimpegno mentre l’area intermedia della probabilità spinge all’impegno.
  • dall’altro dalla stima di quanto il risultato dipenda dal soggetto stesso o da circostanze esterne non modificabili (il concetto cognitivista di locus of control) (Ellis 1962; Liotti, Guidano 1983; De Silvestri 1981, 1999; Bara 1996).

 L’impegno è giustificato da situazioni ad esito incerto e con locus interno. Il disimpegno è conveniente comunque in situazione di locus esterno o di esito certo.

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Fin qui il funzionamento efficiente di un sistema che ottimizzi l’utilizzo delle limitate risorse e che preveda, anticipi e gestisca le emozioni cui andrà incontro.

Come è possibile che questo sistema di sicurezza e di risparmio in alcune persone generi tribolazioni?

Devo scomodare di nuovo scopi tutti interni che riguardano l’identità.

Soprattutto su questioni importanti collegate agli scopi terminali (ognuno scelga mentalmente il proprio) non si ha soltanto lo scopo del perseguimento  ma anche lo scopo di ritenersi uno che non lascia nulla di intentato pur di ottenere il risultato. Sarebbe certamente terribile fallire l’obiettivo esterno ma lo sarebbe ancora di più fallire anche l’obiettivo interno e considerarsi uno che non ha voluto (colpa) o saputo (incapacità) fare di tutto al fine di……….

Questo scopo interno sull’identità può prevalere sullo pseudo-scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi” e produrre le seguenti conseguenze:

  • i successi parziali non vengono presi in considerazioni e ci si priva delle connesse emozioni positive temendo comportino un colpevole accontentarsi con riduzione dell’impegno
  • gli insuccessi parziali, considerati premonitori di un dolore intollerabile vengono ignorati temendo che producano scoraggiamento e dunque non modulano l’impegno e riaggiustano la mira.
  • anche di fronte ad un fallimento inevitabile o del tutto indipendente dall’attività del soggetto si continua a profondere il massimo dell’impegno. Inutile completamente per il raggiungimento dello scopo esterno ma utile per il raggiungimento dello scopo interno relativo all’identità di essere uno “che non molla mai e fa di tutto…”.

Tuttavia lo pseudo-scopo transitoriamente accantonato tornerà a valutare la situazione non appena l’emergenza sarà conclusa e lo farà in modo severo con una sequela di autosvalutazioni per come si sono gestite le risorse.

Tribolazioni 03 - Ci Penso Io - Scenari Mentali, Astrazioni e Ipotesi - Immagine: © 2011-2013 Costanza Prinetti
Tribolazioni 03 – Ci Penso Io.

L’orgoglio dell’investire risorse in imprese disperate e assolute non è uguale in tutti gli individui. Alcuni sembrano fanatici talebani in ogni cosa facciano. Prendono tutto maledettamente sul serio. Non conoscono le mezze misure. Fanno sempre le cose fino in fondo e spesso oltre, ci credono veramente. Sono tutti d’un pezzo, non scherzano con le cose serie che per loro sono tutte. Se sono di sinistra faranno i brigatisti. Se cattolici si accoppiano solo secondo le indicazioni vaticane. Se hanno un vizietto diventano drogati all’ultimo stadio e poi  si riconvertono in operatori delle comunità per tossici più intransigenti e severe. Sono sempre in buona fede ed in nome di ciò commettono i crimini più orrendi a posto con la coscienza. Geneticamente estremisti e intolleranti. Applicano ciò anche ad aspetti marginali come l’alimentazione. Fanno parte di gruppuscoli estremisti  con vaste categorie di cibi fanaticamente vietati. Il rigore è essenziale sempre. Altri invece, hanno l’atteggiamento opposto che è quello che caratterizza, neIl’immaginario collettivo, i romani.

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 Il romano se ne frega, non prende niente sul serio. E’ incapace di indignazione e di slanci. Sa che prima o poi tutto cambia e dunque basta aspettare senza scaldarsi troppo. Il romano ne ha viste troppo, ha una saggezza da sampietrino e  lascia che tutto gli passi sopra. Raramente interviene sulla realtà per modificarla, aspetta che si assesti da sè.

L’emozione di base è l’indifferenza come per il talebano era l’orgoglio e l’indignazione. Il romano misura le sue scelte operative nei termini della fatica che comportano e la regola decisionale assoluta è il risparmio energetico. Non ama le persone che lo sollecitano ma in compenso non lo fa con gli altri. “vive e lascia vivere”.

Si badi che il romano non è un abitante di Roma ma una categoria dello spirito.

Tuttavia è innegabile che l’amministrazione pubblica sia il suo habitat naturale per cui innumerevoli esemplari vengono a riprodursi nella capitale. Tra i suoi sogni proibiti c’è fare il bidello in una scuola elementare o l’usciere al ministero.

 

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MDMA: Nuova Frontiera per il Trattamento del PTSD?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’utilizzo del MDMA permette ai pazienti di rievocare in modo meno doloroso i ricordi e le immagini legati all’evento traumatico, con la conseguente maggiore capacità di ricostruire il trauma senza far scattare la paura.

L’argomento sembra essere piuttosto interessante, considerato lo scalpore suscitato nella comunità scientifica americana. La questione ruota attorno all’innovativa scoperta che ha messo in luce come l’MDMA (la sostanza attiva nella droga come l’ecstasy) possa essere utilizzata nel trattamento di problematiche psicologiche legate al disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

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Venticinque anni di ricerca in questo campo, capitanate da Rick Doblin e riunite attorno all’istituto MAPS (Medical Association for Psychedelic Studies), ha portato l’equipe americana a proporre, al Pentagono, l’utilizzo di MDMA per curare i militari vittime di esperienze traumatiche.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Sicuramente una richiesta coraggiosa, ma che poggia su risultati concreti e significativi. Nel 2010 l’Istituto MAPS, infatti, porta a compimento un esperimento coordinato dallo psichiatra Michael Mithoerfer, in cui 19 soggetti affetti da PTSD furono sottoposti ad un trattamento psicoterapeutico con uso di MDMA. Tra loro, 14 soggetti sperimentarono effetti positivi dopo un lasso di tempo da uno a sei anni dalla terapia. Lo studio, divulgato in internet, provoca interesse a livello internazionale, incoraggiando diverse equipes di ricercatori degli Stati Uniti, Svizzera ed Israele, ad approfondire questi risultati.

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Attualmente, gli studi del dott. Mithoefer continuano in questa direzione. L’idea è quella di offrire a soggetti affetti da PTSD una psicoterapia accompagnata dall’uso di MDMA, caratterizzata da circa 3/5 sedute al mese di otto ore ciascuna.

Qual è l’obiettivo di un trattamento così strutturato? L’utilizzo del MDMA permette ai pazienti di rievocare in modo meno doloroso i ricordi e le immagini legati all’evento traumatico, con la conseguente maggiore capacità di ricostruire il trauma senza far scattare la paura.

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L’effetto del MDMA permette quindi di rievocare queste memorie più facilmente, in modo che il ricordo doloroso possa essere rivissuto dal paziente e trattato in psicoterapia.

Il panorama su cui si affacciano queste numerose ricerche non è solo quello relativo all’utilizzo di MDMA. LSD, ayahuasca – un miscuglio di piante allucinogene utilizzate dagli sciamani in Amazzonia utile per i trattamenti delle dipendenze- o ancora psylocybine, una sostanza attiva che si trova nei funghi allucinogeni: sono tutte sostanze “alternative” che negli ultimi decenni hanno interessato largamente la comunità scientifica e nei confronti dei quali sono stati intrapresi diversi studi per verificarne gli effetti.

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David Nutt, già militante in Gran Bretagna per la legalizzazione della cannabis, si è interessato alla sperimentazione degli effetti delle droghe nella cura dei sintomi depressivi su volontari insensibili ai trattamenti convenzionali. La volontà di Nutt è quella di continuare con la ricerca in questo campo, ma l’ostacolo principale per il raggiungimento di questo obiettivo è evidente ruota attorno alla difficoltà da parte del governo e dello Stato di legittimare l’utilizzo di droghe psichedeliche in campo psichiatrico.

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All’apertura del congresso annuale delle neuroscienze britanniche, il 7 aprile a Londra, Nutt ha espresso pubblicamente il proprio dissenso nei confronti delle Istituzioni governative, responsabili, a parer suo, di rallentare e influenzare negativamente la ricerca scientifica in questo ambito. Eppure, l’entusiasmo con cui la società americana ha accolto la richiesta da parte del MAPS di curare i militanti traumatizzati tramite MDMA, potrebbe fare ben sperare.

Il giro di boa, comunque, potrebbe essere rappresentato dall’ufficializzazione dell’interesse da parte dei soldati per questo tipo di cura, interesse, questo, che potrebbe a una maggiore accettazione nell’utilizzo di droghe psichedeliche nella cura psichiatrica.

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DROGHE & ALLUCINOGENI – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Jeff Buckley e l’Edipo Rock

Looking out the door i see the rain fall 

upon the funeral mourners 

Parading in a wake of sad relations 

as their shoes fill up with water 

                                     Lover, you should have come over, Jeff Buckley, 1994

 

L’edipo rock di Jeff Buckley
Jeff Buckley (novembre 1966 – maggio 1997) cantautore e chitarrista statunitense.

La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava.

Immaginiamo di aver visto papà nel corso della nostra infanzia soltanto due volte e di aver sentito la sua voce, quella che detta le regole, che sgrida se facciamo tardi la sera, che rassicura quando ci sentiamo in pericolo, che fa il tifo durante le partitelle, praticamente solo attraverso dei complicati dischi di cross-over folk-rock sperimentale. In un caso del genere si potrebbe essere assaliti da un forte bisogno di rivalsa che, mischiato a un patrimonio genetico musicale di prim’ordine, può dare origine a un grande musicista.

La storia di Jeff Buckley (1966-1997), ottimo chitarrista e cantante americano, si sovrappone per pochi anni a quella del padre Tim (1947-1975), geniale cantautore morto di overdose all’età di ventotto anni. Jeff è stato un figlio d’arte anomalo, nel senso che la sua fama ha sicuramente superato quella del padre, venerato più dai critici che dal pubblico, a differenza di tanti artisti che hanno tentato di seguire le orme di genitori famosi, incorrendo in impietosi flop.

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La famiglia di origine irlandese dei Buckley è stata caratterizzata da una tradizione di difficile paternità a partire dal nonno, uomo affetto da depressione con abuso di alcol e indurito dalla seconda guerra mondiale, che ha segnato a tal punto il figlio Tim, da farlo letteralmente fuggire di fronte alle proprie responsabilità genitoriali, preferendo ad esse la carriera del trobadour.

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Tim e Mary, madre di Jeff e pure lei dotata di un grande talento musicale, si sposarono giovanissimi, con lei in stato di gravidanza, rivelatasi, dopo le nozze, di tipo isterico. La gravidanza isterica, nota fin dai tempi di Ippocrate, è tipica di donne che combattono da anni contro l’infertilità, mentre in un caso come questo potrebbe avere alla base un ardente desiderio di rafforzare, tramite il vincolo matrimoniale, un legame precario con il compagno, che stava muovendo i primi passi sulla scena musicale (Small, 1986).

L’anno seguente Mary rimase davvero incinta  e Tim la lasciò per registrare dischi e suonare in giro per gli States. E’ di quel periodo la canzone-scappatoia I Never Asked To Be Your Mountain (1967), in cui l’artista ammette “Lei dice: quel farabutto di tuo padre è scappato con una ballerina che chiama regina”.

L’infanzia di Jeff trascorse così all’insegna del non mettere radici, per via dei continui spostamenti della madre da un posto all’altro del paese e anche il periodo di stabilità del secondo matrimonio di Mary con il meccanico Ron, che Jeff riconosceva come “il suo vero padre”, durò poco tempo.

L’artista incontrò il padre naturale in due occasioni: all’età di due anni, quando gli fece una breve visita insieme alla madre, e all’età di otto anni, quando trascorse una settimana insieme alla nuova compagna di Tim e al fratellastro.

Durante i periodi di lontananza il silenzio assoluto: mai una lettera o una telefonata, nemmeno per i compleanni o le feste comandate. Un pensiero sofferto al figlio e alla ex moglie pare emergere solo nella canzone Dream Letter (1969), dove Tim afferma “Stasera vorrei sapere solo qualcosa di te e del mio bambino / E’ un soldato o un sognatore? / E’ l’ometto della mamma? / Ti aiuta quando riesce? Ti chiede di me?”. Tim morì tre mesi dopo quell’ultimo incontro e Jeff e la madre non furono invitati al funerale.

In questa storia di sviluppo sicuramente traumatica, Jeff trovò nella musica un porto sicuro a cui approdare, anche grazie a un talento straordinario, a partire dal dono dell’orecchio assoluto. Chi ha l’orecchio assoluto riesce a distinguere l’altezza esatta di ogni nota, senza confrontarsi con uno standard esterno. Si stima sia presente in meno di un individuo su diecimila e sia più facile da trovare tra i musicisti che hanno ricevuto un’educazione musicale precoce, anche se la componente genetica pare avere una sua importanza (Sacks, 2008).

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Il fantasma del padre aleggiò nella vita e nella carriera artistica di Jeff, che esordì nel 1991 sulla scena musicale proprio in un concerto tributo a Tim Buckley, in cui aggiunse un paio di strofe a I Never Asked To Be Your Mountain, come se volesse coronare il suo sogno di scrivere un brano insieme al padre. I sentimenti di Jeff nei confronti della figura paterna erano ovviamente caratterizzati da una forte ambivalenza. Parlava mal volentieri di Tim e in un’intervista dichiarò che “La sua sola influenza è quella della sua assenza”.

La mancata identificazione con una figura paterna stabile, che secondo le teorie psicodinamiche rappresenta la risoluzione del complesso di Edipo, potrebbe aver avuto una grande importanza nello sviluppo delle fragilità caratteriali di Jeff e in una sorta di disorientamento esistenziale che lo caratterizzava. Il superamento del complesso edipico favorisce l’instaurarsi del Super-Io, si abbandona l’onnipotenza propria della relazione materna per accedere all’idea del limite paterno, che implica il riconoscimento dell’altro e l’individuazione con un’identità propria (Gabbard, 1995).

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Le biografie descrivono Jeff infatti come una persona estremamente sensibile, sempre alla difficile ricerca di una propria identità, dai confini poco definiti, a tratti eterea. Fin da piccolo aveva uno spiccato talento per le imitazioni, che utilizzò in seguito a livello artistico per interpretare meravigliosamente le cover, che in certi casi hanno superato la notorietà delle versioni originali (ad esempio Halleluja di Leonard Cohen). Era un interprete straordinario, una sorta di juke box umano, capace di performance intensissime e che riusciva a incantare il pubblico suonando per ore cover di artisti diversissimi, dai Led Zeppelin a Edith Piaf.

Era più portato a filtrare e impreziosire brani di altri, attraverso la propria sensibilità, che a comporne dei sui. Nella sua breve vita registrò un unico disco di brani originali e cover, grace (1994), che per molti è considerato una delle opere musicali più intense e importanti degli anni Novanta. Come per altri giovani artisti dall’animo fragile, il comporre canzoni proprie rappresentava un processo doloroso e catartico, in cui si stabiliva un contatto con le parti di sé più penose e inaccettabili. In più c’era un’ innegabile paura del confronto con le composizioni paterne, che contribuiva a renderlo un cantautore poco prolifico.

Nonostante fosse efficacissimo anche come onemanband, ha sempre cercato nei tanti musicisti con cui ha suonato, oltre a un completamento sul versante artistico, una sorta di famiglia musicale, dove trovare accudimento e protezione.

Jeff visse molto male il passaggio da grande promessa della musica che si  esibiva in piccoli locali come il leggendario Sinè di New York, a professionista del roc,  alle dipendenze di una major come la Columbia, in cui doveva rispondere ad esigenze di mercato e a ben poco romantiche aspettative commerciali.

E’ in questo periodo che inizia la parabola discendente esistenziale dell’artista, che manifesta nell’uso sempre più massiccio di alcolici (soprattutto vodka e  tequila Cuervo), cannabinoidi (iniziato in realtà fin dall’adolescenza), e qualche deragliamento nelle droghe pesanti (extasy, eroina e cocaina), seppure senza mai arrivare al punto di “fottersi il cervello”, come ricorda l’amico Chris (Apter, 2010). 

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In un’intervista dichiarò che fu la stessa madre ad offrirgli le prime droghe, perché aveva paura di quello che avrebbe potuto comprare per strada (Steele, 2001). Non c’è male come strategia preventiva di limitazione del danno!

Impossibile non tracciare un parallelismo e una sorta di sfida con il padre anche in questo tipo di condotte. A parte una tormentata relazione con Joan Wasser (musicista nota come Joan as a Policewoman), la vita affettiva di Jeff è trascorsa all’insegna della promiscuità, anche per via di quell’aspetto angelico che lo rendeva, spesso suo malgrado, un vero sex symbol a livello internazionale.

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Nel tentativo di fare pace coi propri demoni del passato, quando viveva a New York, Jeff affrontò anche una psicoterapia con una terapeuta afroamericana sulla settantina, nota ai sui clienti come Sig.ra Williams. Il rapporto si concluse bruscamente quando la terapeuta ebbe un infarto in vacanza. Pare che Jeff rimase molto scosso da questo evento, che rappresentava l’ennesima separazione dolorosa della sua vita.

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Non è chiaro dalle biografie se la terapeuta fosse morta o avesse semplicemente interrotto la propria attività per il grave problema di salute. Jeff era comunque in procinto di trasferirsi a Memphis, la culla del rock americano che aveva dato i natali a Elvis Presley, per registrare l’agognato secondo disco. La permanenza a Memphis fu caratterizzata da atteggiamenti scontrosi, sbalzi d’umore, disforia e dalla ricerca di un nuovo terapeuta. Più persone hanno testimoniato come in quel periodo Jeff avesse comportamenti insoliti, come telefonare a conoscenti che non sentiva da mesi o anni, per chiedere se stessero bene o per dirgli che gli voleva bene, come se percepisse un pericolo imminente.

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Poco dopo si consumò la misteriosa tragedia che mise fine alla sua vita. Una sera di maggio, mentre si recava alle prove con il suo roadie, si perse per Memphis e decise di andare a fare un bagno nel Wolf River, un affluente del Mississipi, in  una zona non balneabile.

Erano quasi le nove di sera e Jeff si immerse nel fiume completamente vestito, anfibi compresi. Il passaggio di un battello creò una potente corrente che portò il musicista ad annegare. L’autopsia non rivelò la presenza di sostanze stupefacenti o alcol e per i più si trattò di un drammatico incidente, di un tragico destino.

Personalmente mi trovo d’accordo con il commento di uno dei suoi musicisti rispetto all’accaduto: “Non credo si sia suicidato, ma quello che faceva era suicida”. Le circostanze che hanno portato al decesso denotano quantomeno una certa impulsività, il non calcolare le conseguenze delle proprie azioni, che è considerato un fattore di rischio per comportamenti suicidiari e parasuicidiari (Pompili et al., 2009).

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E’ come se Jeff in questo caso, forse in modo non del tutto conscio, provasse una sorta di scarsa considerazione rispetto al valore inestimabile della propria vita e della sua unicità. Pareva guidato da un continuo sensation seeking, dalla necessità di fare più esperienze possibili, che lo facevano sentire vivo, ma che alla fine l’hanno portato a morire. D’altra parte non temeva la morte perché la conosceva, forse era sempre stata dentro di lui, fin dalla scomparsa di Tim. “Il mio momento sta arrivando / non ho paura di morire” canta in Grace, e poi ancora “Cade la pioggia e credo sia arrivato il mio momento”.

Della morte e del morire. Immagine - © goccedicolore - Fotolia.com
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Morte e acqua, un sentimento profetico che ricorreva in diverse sue canzoni. Quando reinterpretò I Never Asked To Be  Your Mountain  di Tim al suo concerto tributo aggiunse ad esempio le strofe “Voglio sentirmi attraversato dalla marea/ voglio sentire il pesce nuotare dentro di me”.

Sembra quasi un desiderio di ritorno a un elemento acquatico primordiale, come il liquido amniotico materno, un bisogno di regredire in un ambiente protettivo di fronte a momenti di sofferenza intollerabile, in cui accenna in brani come Murder Suicide Meteor Slave (1997), “Schifato dall’infanzia vomitevole/ Neanche uno schiavo per tuo padre/ Oh, tu sei schiavo di tutto ciò ora”. Nella storia musicale di Jeff Buckley, mi ha colpito molto il fatto che, sebbene fosse di origini rock, riconobbe il musicista e mistico pakistano Nusrat Fateh Ali Khan come “il suo Elvis”, un idolo assoluto di cui interpretò alcuni brani, spingendosi nell’impresa di cantare in urdu. Difficile non pensare che oltre a un artista esotico a cui ispirarsi, cercasse nel maestro sufi anche una figura paterna.

LEGGI:

  MUSICA –  FAMIGLIA – PSICOANALISI – DROGHE & ALLUCINOGENI

 

APPROFONDIMENTI:
SCHEDE SU WIKIPEDIA – Jeff Buckley – Tim Buckley

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La Famiglia Omosessuale in Italia tra Dogmi e Ricerca Scientifica

di Federico Calemme

In occasione della Giornata Internazionale

contro l’Omofobia e la Transfobia,

State of Mind propone un articolo che possa favorire la riflessione in merito alla situazione attuale della “Famiglia Omossesuale” in Italia.

 

La Famiglia Omosessuale in Italia tra Dogmi e Ricerca Scientifica. - Immagine:© dubova - Fotolia.com Non vi sono differenze significative tra omosessuali e eterosessuali né in relazione alla genitorialità biologica (Temperamenti), né in relazione a quella adottiva (Caratteri).

L’Italia è l’unico paese dell’Ovest europeo a dire “NO” alla famiglia omosessuale, nonostante la ricerca scientifica sostenga i diritti LGBT.

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Liberté, Egalité, Sexualité! Questo l’inno che lo scorso 23 Aprile ha accompagnato Parigi all’approvazione della legge a favore dei matrimoni e delle adozioni per le coppie omosessuali. All’alba della VII Giornata Internazione contro L’Omofobia e la Transfobia (che dal 2007 si celebra ogni 17 Maggio), la Francia è il nono Paese europeo che riconosce legalmente la famiglia omosessuale all’interno di un contesto internazionale che vede la lotta per i diritti LGBT (Lesbian, Gay, Bisexual & Transgender) sempre più accesa.

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L’Europa del 2013 corre verso un futuro in cui la discriminazione e la mera tolleranza vengono sostituite dal rispetto e dall’uguaglianza tra le persone, una corsa che purtroppo vede l’Italia sulla linea di partenza: il Bel Paese non riconosce né le unioni né le adozioni omosessuali, in un tacito accordo politico con la sede Vaticana, che vede nella famiglia gay “una minaccia per la pace” (Papa Benedetto XVI, 2012). Le decisioni dello Stato Italiano sembrano infatti dettate da pregiudizi e dogmi senza alcuna conferma scientifica, dato che gli ultimi vent’anni di ricerche si schierano a favore dell’omogenitorialità (Patterson 1994, 2001; Wainright & Patterson, 2008; Gartrell et al., 1996, 1999, 2000, 2005).

Gruppi Gay di Auto Aiuto. Alcune riflessioni. - Immagine: © Viorel Sima - Fotolia.com
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Quali sono effettivamente i fattori che possono discriminare un buon genitore da un cattivo genitore? L’orientamento sessuale è una discriminante importante?

Nel 2012 una ricerca italiana (La Marca, 2012) svolta su famiglie eterosessuali, ha confermato l’importanza della trasmissione transgenerazionale sullo sviluppo del minore, individuando negli stili di personalità dei genitori una variabile essenziale di discriminazione tra un buon genitore e un cattivo genitore. Inoltre, La Marca sembra confermare lo stereotipo di “mamma accudente” e “padre normativo”, individuando nelle madri una funzione predominante nella trasmissione dell’affettività.

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Da questi risultati e dal mio interesse per il riconoscimento dell’adozione alle coppie omosessuali, ho deciso di indagare meglio gli stili di personalità di coppie eterosessuali e di coppie gay e lesbiche, nel tentativo di fornire un contributo e dati empirici sull’ipotetica infondatezza dell’impedimento italiano all’omogenitorialità. In altre parole, rilevare una sostanziale uguaglianza tra gli stili di personalità di eterosessuali e omosessuali, implicherebbe una uguale capacità genitoriale tra gay e etero. Inoltre, ho tentato di capire se la mancanza di uno dei due generi all’interno della coppia potesse intaccare la presenza delle due funzioni genitoriali principali di affettività e normatività: la presenza di due madri porterebbe ad una trasmissione di un insufficiente numero di norme e regole? Due padri darebbero un contributo emotivo-affettivo non adeguato al benessere del minore?

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Il progetto di ricerca si è basato sulla somministrazione a 52 coppie eterosessuali e 52 omosessuali di un questionario di personalità (TCI-R, Cloninger 1999), costruito a partire dalla teoria biosociale generale di personalità (Cloninger, 1987), che distingue i Temperamenti, stili di personalità indipendenti e geneticamente determinati, dai Caratteri, stili di personalità appresi nel corso della vita. Questa distinzione è importante perché anche nell’essere padre e madre possiamo distinguere tra genitorialità biologica, in relazione al peso che il patrimonio genetico ha sul corretto sviluppo dei figli, e genitorialità adottiva, legata all’educazione che il genitore impartisce nel corso della vita del minore.

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I risultati della ricerca evidenziano come NON vi siano differenze significative tra omosessuali e eterosessuali né in relazione alla genitorialità biologica (Temperamenti), né in relazione a quella adottiva (Caratteri), a eccezione di una minor accettazione di se stessi negli omosessuali, probabilmente frutto di una società eterocentrica in cui un gay e una lesbica hanno più difficoltà a rispecchiarsi.

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Questo importante risultato non verte solo a favore dell’adozione omosessuale, ma offre anche uno spunto di riflessione in relazione al controverso tema della fecondazione assistita: dichiarare infatti che l’orientamento sessuale non influenza la genitorialità biologica infligge una profonda ferita alla legge che impedisce alle coppie omosessuali di poter accedere alle tecniche di procreazione artificiale (divieto non espresso direttamente, ma attraverso l’impedimento di accesso a tali procedure a tutte le coppie non sposate).

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com
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Inoltre, in relazione alle funzioni affettiva e normativa, si è rilevato un probabile meccanismo di gap-filling, per cui nelle coppie lesbiche si sono riscontrati maggiori livelli di normatività, mentre tra gli uomini gay vi è una più accentuata affettività rispetto agli eterosessuali. Un’ulteriore conferma all’idoneità genitoriale della comunità LGBT, in cui la mancanza di uno dei generi nella coppia non sembra creare lacune nella trasmissione di entrambe le funzioni genitoriali principali.

Questa ricerca, con tutti i suoi limiti metodologici, è solo l’ennesima conferma dell’inadeguatezza della Legge Italiana, una legge che chiude gli occhi di fronte all’evidenza scientifica, una legge che NON è uguale per tutti.

Fino a quando il nostro Paese rimarrà sullo sfondo di un’Europa che evolve?

LEGGI:

LGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDER –  SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – FAMIGLIA – ADOZIONI

 

Disgusto o Umanità? Contro l'omofobia.
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BIBLIOGRAFIA:

K2N The Journey Begins: la App per le vittime di Abuso Sessuale

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Kay Toon ha appena lanciato una App per smartphone: K2N The Journey Begins, unica App disponibile per aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali.

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Kay Toon, psicologo clinico, ha lavorato più di 20 anni nel servizio sanitario nazionale  con vittime di abusi sessuali e si è occupato dello sviluppo di terapie innovative; è anche autore del best seller “Breaking Free: Help for Survivors of Child Sexual Abuse”, e ha appena lanciato una App pionieristica per smartphone: K2N The Journey Begins. Questa è l’unica App disponibile che mira ad aiutare gli adulti che hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia (uno su quattro).

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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K2N The Journey Begins (gratuito) è la prima App della “Breaking Free series”. L’applicazione guida i sopravvissuti passo passo attraverso i problemi derivanti dall’avere subito abusi nell’infanzia.

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“Le applicazioni consentono ai sopravvissuti che sono in imbarazzo o provano vergogna per gli abusi subiti in passato di accedere alle applicazioni in privato e ogni volta che vogliono. Anche gli amici e familiari dei sopravvissuti possono essere aiutati con l’uso delle app nella comprensione delle conseguenze dell’abuso su chi l’ha subito”, dice Toon.

Gli esercizi nelle applicazioni si basano su esercizi provati e testati dai libri “Breaking Free” (80.000 copie vendute a livello internazionale).

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 Altre applicazioni disponibili della serie sono “k2n Keeping Safe” (proteggersi) e “k2n Feeling Guilty” (sentirsi in colpa), con ulteriori applicazioni in fase di sviluppo.

L’enfasi in tutte le applicazioni è su come mantenersi al sicuro, e sottolineano che la responsabilità dell’ abuso è sempre dell’abusante e mai del bambino abusato.

 

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CYBERPSICOLOGIA – ABUSI & MALTRATTAMENTI – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA   

 

 

APPROFONDIMENTI:

 

Ansia Sociale: Non Tutto lo Stress viene per Nuocere

 

“Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei l’altro.”

Andrea Camilleri 

Fobia Sociale- Non Tutto lo Stress viene per Nuocere. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.comIl Disturbo di Ansia Sociale è la paura marcata e persistente di trovarsi in una particolare situazione sociale da cui possa derivare la possibilità di essere valutati negativamente dagli altri, tale timore compromette le abilità del soggetto durante la situazione specifica.

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Uno dei maggiori timori di chi soffre di ansia sociale è parlare in pubblico, il soggetto teme di non riuscire e, di conseguenza, di ricevere un giudizio negativo dai presenti. Conseguentemente le situazioni sociali e prestazionali sono evitate.

L’ansia è il sintomo prevalente della fobia sociale e le sue manifestazioni (rossore, tachicardia, sudorazione, tremori, bocca asciutta, confusione, ecc.) possono effettivamente determinare la realizzazione della minaccia temuta, cioè non riuscire nella propria performance e fare la cosiddetta “figuraccia”.

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Secondo una nuova ricerca pubblicata su Clinical Psychological Science, per gestire la paura del pubblico è molto utile incoraggiare il soggetto, riformulando il significato dei segnali di stress che il corpo invia. Secondo Jamieson, l’autore principale dello studio, il problema deriverebbe proprio dal pensare che lo stress sia esclusivamente un fattore negativo.

Psicoterapia: Il Disputing della Fobia Sociale - Parte I. - Immagine: © Edyta Pawlowska - Fotolia.com
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In realtà, i segnali che il nostro corpo ci invia sono soltanto un modo per comunicarci che stiamo per affrontare una situazione impegnativa, il corpo pompa più sangue verso i nostri muscoli e manda più ossigeno al cervello. La reazione del nostro corpo allo stress sociale è la stessa che produciamo davanti ad un pericolo  fisico.

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Per comprendere come la gente possa sfruttare i vantaggi dello stress senza essere sopraffatta dalla paura, Jamieson e collaboratori hanno utilizzato il Trier Social Stress Test, uno dei metodi di laboratorio più affidabili per indurre lo stress come risposta ad una minaccia (Kirschbaum et al., 1993).

Nello studio, è stato chiesto a 69 adulti di tenere un discorso di cinque minuti, circa i loro punti di forza e di debolezza, con solo tre minuti per prepararsi. Circa la metà dei partecipanti ha avuto una storia di ansia sociale. Sono stati creati due gruppi a cui i soggetti sono stati assegnati in maniera randomizzata. Il primo gruppo ha ricevuto informazioni sui vantaggi di risposta allo stress del corpo e ha incoraggiato a reinterpretare i segnali corporei, emessi durante il compito di parlare in pubblico, come benefici e normali. A questo gruppo è stato inoltre chiesto di leggere una sintesi di tre studi di psicologia che hanno mostrato i vantaggi dello stress. Il secondo gruppo non ha ricevuto alcuna informazione sullo stress.

I partecipanti hanno esposto il loro discorso davanti a due giudici, i quali, di proposito, hanno mandato feedback non verbali di tipo negativo per tutta la presentazione, scuotendo la testa in segno di disapprovazione, toccando i loro appunti, e fissando impassibili il soggetto sperimentale.

Dopo il discorso, i partecipanti sono stati invitati a contare all’indietro dal numero 996, per cinque minuti a passi da sette. Anche qui, i valutatori hanno fornito un feedback negativo per tutto il tempo.

Di fronte ai giudici contrariati, i partecipanti che non hanno ricevuto la preparazione allo stress, hanno  sperimentato una risposta di minaccia, come mostrato dai valori cardiovascolari. Ma il gruppo che è stato preparato, circa i benefici di stress, ha mostrato una maggiore resistenza alla prova. I soggetti hanno riferito la sensazione di avere più risorse per far fronte al compito e, significativamente, le loro risposte fisiologiche hanno confermato tali percezioni.

Sorprendentemente, questo studio ha anche scoperto che le persone che soffrono di ansia sociale, in realtà, non hanno avuto un maggiore aumento di eccitazione fisiologica, rispetto ai non-ansiosi, nonostante la segnalazione di più intensi sentimenti di apprensione.

Time Cover - Monday, Feb. 06, 2012 (US). Immagine: © 2012 Time Inc. All rights reserved
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Gli autori ritengono che tale risultato sostenga la teoria che la nostra esperienza di stress acuto o di breve durata dipenda da come noi interpretiamo i segnali fisici. 

Questa ricerca è molto rilevante perchè sostiene e dimostra sperimentalmente quella che è la base della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): non è l’evento in sé a determinare  reazioni e comportamenti ma, piuttosto, l’interpretazione personale di tale evento.

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Oltre a dimostrarne il principio fondamentale, tale ricerca riesce anche a rendere visibile il risultato di quello che è il risvolto pratico della TCC: condurre il soggetto a reinterpretare e ristrutturare i propri pensieri, aiutandolo così a modificare le azioni conseguenti. 

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Tale prospettiva corregge la concettualizzazione dello stress, promuovendo modelli di risposta che, pur mantenendo l’eccitazione stressante, consentono di ottenere prestazioni ottimali. 

Ecco il video in cui l’autore della ricerca illustra rapidamente la procedura sperimentale:

 

LEGGI: 

ANSIA SOCIALE – FOBIA SOCIALE – ANSIA – PSICOTERAPIA COGNITIVA – DISPUTING  E RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #6

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: 

La quinta piaga: l’idealizzazione dell’istituzione psicoanalitica.

LEGGI L’INTRODUZIONE – LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE –

 LEGGI LA TERZA PARTE – LEGGI LA QUARTA PARTE

 

 

L’Idealizzazione dell’istituzione Psicoanalitica: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #6. -Immagine:© Nailia Schwarz - Fotolia.com

Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio.

La psicoanalisi è una prassi, specificamente una prassi diadica. E’ nello stesso tempo un’esperienza di gruppo, anzi comunitaria. Gli uomini e le donne che esercitano la professione psicoanalitica nell’intimità dei propri studi si incontrano periodicamente in contesti istituzionali: condividono le proprie esperienze cliniche, discutono possibili modelli interpretativi, cercano di formulare delle generalizzazioni teoriche. Una dimensione cruciale dell’istituzione psicoanalitica è l’addestramento e la selezione di nuovi membri del gruppo.

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La psicoanalisi è dunque una comunità professioinale, o meglio un insieme di comunità professionali, il cui numero è in continua crescita. Tutti gli esseri umani, peraltro, vivono esperienze importanti nel contesto di vari gruppi formalizzati, nettamente distinti sia dai gruppi basati sui legami familiari, sia dalle aggregazioni amicali informali.

La partecipazione ad alcuni gruppi istituzionalizzati ha un ruolo chiave nella determinazione dell’identità personale. L’appartenenza a tali gruppi comporta la condivisione di convinzioni fondamentali sulla natura dell’uomo e di valori etici. Ciò vale ad esempio per le chiese, le organizzazioni politiche, i movimenti sociali e, attualmente, la psicoanalisi.

Freud ha contribuito in modo decisivo alla nostra comprensione dei fenomeni sociali, ma non si interessò del funzionamento dei gruppi in una prospettiva clinica. Negli anni ’40 i fenomeni gruppali furono oggetto di indagini autenticamente psicanalitiche da parte di Siegfried Foulkes (1978). Dobbiamo a Wilfred Bion (1961) una geniale e pionieristica teorizzazione delle modalità inconsce di funzionamento dei gruppi. Da queste radici è nato l’attuale movimento gruppo analitico, attivo e multiforme.

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Tuttavia, resta un dato di fatto che la nascita e lo sviluppo dell’istituzione psicoanalitica sono avvenuti al di fuori di qualsiasi consapevolezza delle forze inconsce che plasmano e condizionano i gruppi ed i fenomeni sociali. La psicoanalisi come istituzione si è sviluppata sotto l’azione delle stesse forze inconsce ed obbedendo alle stesse regole di funzionamento che sono attive implicitamente in qualsiasi gruppo sociale. Tra tali forze e regole richiameremo qui quelle che esercitano l’impatto più evidente sulle caratteristiche e sul funzionamento attuale del movimento psicoanalitico.

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Condivisione di convinzioni su aspetti fondamentali della realtà. Tutti i gruppi umani condividono importanti convinzioni. Un accordo sugli obiettivi fondamentali della vita e sulla rappresentazione di sé e degli altri è apparentemente un prerequisito della stabilità e della coesione di un gruppo. I bambini si fidano degli insegnamenti dei genitori sulla vita e sulla natura degli esseri umani, finché l’adolescenza non li spinge ad allentare i propri legami con la famiglia. E la ribellione contro la visione del mondo dei genitori è spesso il primo stadio di tale processo di separazione. Il ruolo cruciale svolto da una fede comune nelle organizzazioni religiose e politiche è del tutto evidente.

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Nell’organizzazione psicoanalitica esigenze di appartenenza e di apertura verso nuovi orizzonti sono a lungo convissute fianco a fianco, in precario ma produttivo equilibrio. Scuole lontane tra loro come la psicologia dell’Io e l’approccio kleiniano si sono sviluppate e sono cresciute l’una accanto all’altra. Nella seconda metà del XX secolo il movimento psicoanalitico è stato ripetutamente scosso dalla comparsa di nuove idee, nuove tecniche terapeutiche, e dall’estensione del trattamento psicoanalitico ad un numero crescente di condizioni cliniche e di fenomeni culturali.

Tuttavia, se riflettiamo su questi processi di rinnovamento in una prospettiva storica, siamo costretti ad attenuare il nostro ottimismo. E’ evidente ad ogni osservatore che il settore sta diventando meno fecondo. Il conformismo e i bisogni simbiotici che inducono ad evitare conflitti all’interno dell’organizzazione contribuiscono senza dubbio a questo fenomeno. Questa problematica dovrebbe essere oggetto di una maggiore attenzione da parte di tutti coloro che sono interessati al destino della psicoanalisi.

Confini. Le comunità hanno confini. Le comunità politiche – nazioni, stati città – hanno confini geografici e amministrativi. Anche le comunità ideologiche, filantropiche o religiose hanno dei confini.

La partecipazione alla vita del gruppo è condizionata da regole di ammissione. Tali regole vengono variamente motivate. Nelle comunità professionali il principale requisito di ammissione è in genere l’accertamento di determinate conoscenze e capacità. Anche nelle organizzazioni psicoanalitiche la competenza professionale è considerata un fattore decisivo nei processi selettivi.

Tuttavia, la psicologia sociale ci insegna che la restrizione all’accesso è una regola comune a tutti i gruppi umani, o quasi. Nelle società tradizionali l’accesso a determinate classi di età così come a determinati ruoli sociali, è ritualizzato ed implica spesso il superamento di determinate prove di accesso (Van Gennep, 1909).

Di fatto, quanto più un gruppo è coeso, quanto più l’appartenenze al gruppo è concepita come centrale rispetto all’identità individuale e ai valori personali del membro, tanto più l’ammissione alla comunità è condizionata al superamento di prove impegnative, o all’offerta o alla rinuncia a qualcosa di prezioso sul piano personale o sociale.

L’ordinazione sacerdotale implica la disponibilità a rinunciare completamente alla vita sessuale. L’appartenenza a molti gruppi religiosi, ma anche politici, implica la rinuncia ad una parte consistente del proprio reddito a favore del movimento. La condivisione di stili di vita o credenze comunemente ritenuti inaccettabili o disprezzati è una componente importante in molti gruppi religiosi minoritari, e promuove sia la coesione interna al gruppo che l’isolamento dalla società esterna.

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L’ammissione alla comunità psicoanalitica, sia essa l’ortodossa IPA o una delle molteplici scuole attualmente attive, implica sempre una esperienza psicoanalitica personale lunga ed intensiva con un membro esperto dell’organizzazione. I criteri formalizzati per l’ammissione dei candidati prevedono l’accertamento delle capacità professionali e delle qualità umane del candidato, quindi dei risultati attesi dal trattamento psicoanalitico, non una valutazione del processo di trattamento.

Tuttavia, il legame strutturale tra l’analista didatta e l’elite dell’organizzazione psicoanalitica di riferimento è evidente ed insito nelle regole di ammissione. Di conseguenza la selezione dei candidati non è e non potrebbe essere indipendente dalla forma assunta dal transfert nel corso dell’analisi didattica.

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Ciò significa che involontariamente ma inevitabilmente le istituzioni psicoanalitiche tendono ad ammettere candidati che producono transfert idealizzanti o comunque prevalentemente positivi. Strutture di personalità più ambivalenti, competitive o aggressive mantengono sempre una componente di ambivalenza verso l’oggetto di transfert, anche quando analizzate a fondo.

Di fatto, i criteri convenzionali di selezione dei candidati favoriscono strutture di personalità dipendenti o inclini all’idealizzazione. L’elaborazione di tali tratti di personalità oblativi tramite il lavoro interpretativo risulta ostacolato, perché viene inconsciamente percepito dal candidato come una minaccia alla propria crescita professionale e personale, che lo espone al rischio di essere respinto e rifiutato dalla comunità professionale a cui egli attribuisce valenze parentali. 

Dobbiamo essere consapevoli che le procedure di selezione attualmente adottate dalla maggioranza delle istituzioni psicoanalitiche influenzano e condizionano in maniera rilevante le strutture di personalità prevalenti tra i membri. L’aggregazione di professionisti complianti e conformisti è di conseguenza più agevole e quantitativamente maggioritaria. Il legame tra analisi personale e training è deleterio e tende attualmente a conferire alle istituzioni psicoanalitiche il carattere di gruppi altamente coesi, in cui il conflitto è temuto e le risorse disponibili per i processi creativi sono insufficienti.

Scissione. La scissione consente all’individuo di liberarsi dalle componenti temute o disturbanti della personalità o degli oggetti d’amore, che possono quindi essere proiettate su rappresentazioni d’oggetto esterne al nucleo centrale del sé. Nei gruppi la scissione consente ai membri del gruppo di proteggere l’immagine idealizzata del gruppo e di percepire l’ostilità, l’aggressività, l’invidia ed ogni sorta di ostacolo alla vita ed allo sviluppo, come provenienti da oggetti esterni al gruppo.

La scissione è attiva in ogni gruppo umano: dalle bande di bambini ai tifosi di una squadra di calcio, dalle scuole filosofiche alle nazioni. Le conseguenze di fenomeni incontrollati di scissione e proiezione sono tragiche e rappresentano probabilmente la più pericolosa forza motivazionale all’origine della guerra, e di altre forme di uccisione di esseri umani.

Nella vita sociale degli psicoanalisti non vediamo alcun pericolo di violenza. Ma processi di scissione incontrollati ed in gran parte inconsci creano danni sostanziali anche nel nostro settore. La maggior parte delle istituzioni psicoanalitiche lodano il dialogo: con i neuroscenziati, i terapeuti cognitivi, i registi, i leader religiosi. Ma quando si tratta di membri di organizzazioni psicoanalitiche concorrenti, non è tollerato alcun contatto significativo. Un veto particolarmente severo li esclude dalla discussione clinica di casi psicoanalitici.

In molti gruppi formalizzati sono attive analoghe regole di esclusione: dalle sette religiose ai partiti politici con forti valenze ideologiche. Tali veti hanno evidentemente e la funzione di proteggere il nucleo centrale della vita del gruppo dal conflitto e dall’ostilità proveniente dall’esterno. Ma il danno per lo sviluppo intellettuale delle organizzazioni psicoanalitiche è molto serio.

L’interazione dialettica con punti di vista diversi, anche contrastanti, è vitale per le organizzazioni scientifiche. E’ un prerequisito del progresso intellettuale. L’esclusione dal dibattito scientifico di contributi significativi realizzati da ricercatori o clinici non appartenenti all’organizzazione implica la perdita di ingredienti fondamentali per una comprensione più profonda della vita mentale inconscia.

Freud riteneva che l’obiettivo ultimo della psicoanalisi fosse la ricerca della verità, la verità rispetto alla vita mentale dell’uomo. Egli insegnò ai propri allievi che essi potevano procedere verso tale obiettivo nella misura in cui potevano accettare la verità su se stessi, sulla propria vita interiore. E’ tempo di sviluppare ulteriormente il mandato freudiano: di promuovere una maggiore consapevolezza delle forze inconsce che plasmano ed orientano la nostra vita professionale a livello gruppale.

L’incapacità di svolgere tale compito, di cui siamo oggi testimoni, restringe la creatività delle organizzazioni psicoanalitiche ed incoraggia atteggiamenti oblativi e conformismo. Il futuro della psicoanalisi come autentica impresa scientifica, rivolta a raggiungere conoscenze originali e sempre più profonde sulla natura della mente umana, dipenderà dalla disponibilità delle istituzioni psicoanalitiche a confrontarsi in modo genuino ed autentico con la propria vita sociale inconscia.  

 

MONOGRAFIA SULLA CRISI DELLA PSICOANALISI: 

LEGGI LA PRIMA PARTE – LEGGI LA SECONDA PARTE – LEGGI LA TERZA PARTE – LEGGI LA QUARTA PARTE

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

PSICOANALISI – TRANSFERT –  SIGMUND FREUD – INCONSCIO

 

 

Letture consigliate:

 

Disturbo della Condotta & Reazioni Cerebrali

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, parti del loro cervello non reagiscono.

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I bambini con un disturbo della condotta quando osservano la sofferenza altrui hanno reazioni cerebrali atipiche, cioè parti fondamentali del loro cervello non reagiscono come accade alla maggior parte delle persone.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Questo modello di attività cerebrale ridotta può rapprsentare un fattore di rischio neurobiologico per la psicopatia dell’adulto, è quanto sostenuto in una ricerca pubblicata sulla rivista Current Biology.

Questo non vuol dire che tutti i bambini con problemi di condotta siano uguali, o che tutti i bambini che mostrano questo modello cerebrale diventeranno psicopatici. I ricercatori infatti sottolineano che molti bambini con problemi di condotta abbandonano successivamente il comportamento antisociale.

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E però importante considerare questi risultati come un indicatore precoce di vulnerabilità, piuttosto che destino biologico. Sappiamo che i bambini possono essere molto sensibili agli interventi, e la sfida è quella di rendere tali interventi ancora più efficaci.

I problemi della condotta rappresentano un grave problema sociale e comprendono l’aggressione fisica, la crudeltà verso gli altri, e la mancanza di empatia o di sensibilità. Nel Regno Unito, dove è stato condotto lo studio, circa il 5% dei bambini beneficiano di una diagnosi di problemi di condotta. Ma molto poco si sa sulla base biologica del disturbo.

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 I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale (fMRI) il cervello dei bambini con  per vedere come quelli con problemi di condotta differiscono nella risposta alla visualizzazione di immagini di persone sofferenti.

I risultati rivelano che i bambini con problemi di condotta mostrano una diminuzione della risposta al dolore altrui, specificamente nelle regioni del cervello che giocano un ruolo nell’empatia. 

“I nostri risultati indicano molto chiaramente che non tutti i bambini con problemi di condotta condividono le medesime vulnerabilità; alcuni possono avere una vulnerabilità neurobiologica alla psicopatia, mentre altri no”, dice Essi Viding. “per questo sarebbe importante personalizzare gli interventi esistenti per soddisfare il profilo specifico che caratterizza un bambino con problemi di condotta.”

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: 

NEUROSCIENZE – DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ – EMPATIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Facebook e l’ Invidia del Post – Psicologia & Emozioni

 

L' Invidia del post. - Immagine: ©-tarasov_vl-Fotolia.com_1Facebook: terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita sia per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.

Seduti alla solita scrivania in una grigia giornata uguale a molte altre cercate conforto in un caffè appena munto dalla macchinetta dell’ufficio e con l’occhio sulla sempre aperta pagina di facebook, vi imbattete in un post che ritrae un conoscente sdraiato all’ombra di una palma mentre sorseggia un cocktail dalle spregiudicate dimensioni e contempla con sguardo annebbiato l’oceano che non ha certo dimenticato di immortalare.

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Due sono le vostre possibili e immediate reazioni: cliccare energicamente il tasto mi piace e prendere a testate la tastiera o commentare con parole sincere  del tipo “spero di avere notizie dalla Farnesina del tuo ritrovamento a largo del pacifico” o “ mi auguro che una noce di cocco ti colpisca in mezzo agli occhi”. In verità questo non lo fate mai, preferendo nascondere i vostri cattivi pensieri dietro a parole benevole.

In ogni caso, ciò che probabilmente vi sta divorando, è il mostro dell’Invidia, niente di meno che uno dei sette peccati capitali, un vizio che nell’Antico Testamento viene qualificato come “la carie delle ossa” (Pr 14; 30).

Infatti, mentre della lussuria ci si può addirittura far vanto, l’invidia è un’emozione che fatichiamo ad accettare in noi stessi, forse proprio in virtù dei pensieri malevoli che l’accompagnano.

Diffamazione su Facebook & Sfogo Emozionale. - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
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Ma come nasce questa emozione così tipicamente umana eppur così largamente condannata?

Prendiamo in prestito le lezioni del prof.Castelfranchi, direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, per tentare di rispondere a questa domanda.

L’invidia prevede un soggetto invidioso, X (il grigio impiegato), un soggetto invidiato, Y (il collega in riva al mare) e un oggetto dell’invidia, Z (il mare, il sole, il silenzio, il cielo limpido, il cocktail).

Dunque si può dire che X invidi Y per via di Z  e che ovviamente, in termini di scopi e credenze, X desideri Z che crede di non possedere come invece fa Y.

Un aspetto importante nel comprendere la connotazione negativa di questa emozione umana è che il bene in questione, in questo caso Z, non è un bene scarso. In altre parole il fortunato Y non ha sottratto nulla al povero X, ovvero la sua presenza sulle coste del pacifico non comporta nessuna riduzione delle possibilità che anche X ci possa andare. Ma l’invidia c’è proprio perchè Y può avere Z e X no. Perché poi si possa parlare di vera e propria invidia sono necessarie anche le credenze “X non può avere Z” e “Y può avere Z”. Ecco allora che X, portatore di una mente umana, naturalmente avvezza a far valutazioni sulla base di comparazioni, avverte il peso della sua inferiorità per non poter essere anche lui in riva al mare. L’invidia è dunque l’emozione dell’inferiorità.

E’ proprio la consapevolezza di non poter avere qualcosa, di essere per questo inferiori all’altro, a rendere  l’invidia così brutta. Infatti se X potesse ottenere (o fosse convinto di poter ottenere) Z, anche a fatica, il sentimento si tramuterebbe in emulazione, sempre di natura competitiva, ma mai veramente lesiva.

Invece, se si prova la vera invidia, si può addirittura desiderare che Y soffra ma tale scopo non potendosi rendere evidente, a meno che non si ceda alla rabbia, si manifesta nel gioire delle disgrazie di Y.

Fatte tutte queste considerazioni diventa chiaro come Facebook sia terreno fertile sia per esibire con astuzia solo i capitoli migliori della propria vita (avete mai postato la vostra faccia pallida e annoiata in ufficio?!)  che per celare l’invidia dietro a parole poco sincere.

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 Non stupisce dunque che, secondo una ricerca condotta dal Dipartimento di Sistemi Informativi della Technische Universität di Darmstadt in collaborazione con l’Istituto dei Sistemi Informativi della Humboldt-Universität di Berlino, siano soprattutto coloro che fruiscono del social network come fonte principale di informazioni a rischiare invidia e frustrazione.

Quindi attenti a cosa postate e non pensate che commenti amichevoli vi salvino dalle gufate  altrui perchè l’invidia ama celarsi e non c’è niente di più comodo che farlo dietro ad un “mi piace”.

E adesso non scordatevi di cliccare “mi piace” a questo articolo! Sarete mica invidiosi? :)

 

LEGGI:

SOCIAL NETWORK – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

 

APPROFONDIMENTI:

 

 BIBLIOGRAFIA

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